sabato 28 febbraio 2009

THE READER, Febbraio 2009, regia di Stephen Daldry

Il versante americano del muro di Berlino prima della caduta

 Da non perdere questo film, tratto dal romanzo di Bernhard Schlink, edito in Italia da Garzanti col titolo A voce alta.






 Già candidato all’Oscar, The Reader (Il lettore) ha ottenuto nei giorni scorsi la celebre statuetta per Kate Winslet quale migliore attrice protagonista.

 L’azione si svolge a Berlino, dopo la caduta del muro, e in altre città tedesche nel 1995, ma ciò che le dà significato risale a molti anni prima. Innanzi tutto il 1958, allorché il quindicenne Michael Berg s’imbatte in Hanna Schmitz (Kate Winslet), una donna che ha il doppio dei suoi anni. Nasce tra i due una passione che per Michael ha il sapore di una iniziazione sessuale. Il giovane manifesta velatamente il desiderio e la donna lo seduce. Per la verità, seduzione e iniziazione sessuale sanno di maniera, e le scene di nudo e seminudo non hanno il potere di stimolare più di tanto la fantasia erotica dello spettatore. Eros freddo ancorché innocente, voluto forse dalla regia, tant’è che col passare dei giorni Hanna pretende, prima di concedersi, che il giovane la intrattenga leggendole pagine di testi famosi. Dopo qualche tempo la relazione s’interrompe perché la donna, per un motivo banale e che tuttavia è per lei di capitale importanza, come scopriremo più avanti, lascia il lavoro e la città di Berlino senza neppure avvertire il ragazzo.

 Mai realmente rassegnato alla scomparsa di Hanna, troviamo Michael frequentare ora la facoltà di Legge. Egli appare perplesso e silenzioso mentre segue un seminario incentrato sul rapporto tra legge e morale. Il tema non è di largo richiamo nonostante l’alone di saggezza che traspare dal volto e dalle parole dell’anziano docente. Pochi sono, infatti, gli studenti che frequentano il seminario. Con loro, Michael si reca un giorno in Tribunale per una vera e propria esercitazione. Si celebra il processo contro le sorveglianti di un campo di sterminio nazista, le quali avevano il compito di selezionare le donne da eliminare per far posto ai nuovi arrivi nel lager. Tra le imputate Michael riconosce Hanna, contro la quale le sue colleghe sembrano essersi alleate nell’attribuirle le maggiori responsabilità. Prima fra tutte, quella di aver redatto un verbale dal quale risulta che 300 donne ebree sono state lasciate morire durante un incendio scoppiato all’interno della chiesa dove in precedenza erano state rinchiuse. Hanna, che peraltro non si avvede della presenza di Michael al processo, non si giustifica né chiede perdono. Si limita a dire (non, come ci si attenderebbe, di essere stata costretta alle selezioni da un ordine al quale era necessario ubbidire, pena la vita) che selezionare in quella condizioni era necessario per questioni di sopravvivenza all’interno dello spazio angusto del lager che veniva sempre più restringendosi per effetto di nuovi arrivi. E, quando il giudice le chiede perché all’insorgere dell’incendio non sono state aperte le porte della chiesa, dichiara che la decisione presa di comune accordo dalle sorveglianti era stata motivata dal timore che, una volta aperte le porte, le prigioniere potessero fuggire in quel caos generato dall’incendio, dai bombardamenti e dal fioccare della neve. E questa volta la donna lascia intendere che il dovere di un sorvegliante è proprio quello d’impedire la fuga dei prigionieri. Ma le colleghe l’accusano di aver preso lei da sola la decisione e d’aver redatto lei il verbale. Interviene a testimoniare l’unica superstite della strage, scampata al rogo della chiesa con la figlioletta. Dichiara che Hanna a prima vista sembrava più umana delle altre con le prigioniere, soprattutto con le più giovani che di notte chiamava accanto a sé a farsi leggere libri ma di cui poi improvvisamente si liberava.

 Dal canto suo, Hanna nega di aver redatto il verbale dell’incendio e continua a sostenere che la decisione di non aprire le porte della chiesa è stata condivisa da tutte le sorveglianti. Il giudice chiede allora la perizia calligrafica della donna. Posta di fronte a penna e foglio perché scriva qualcosa, Hanna sembra titubare ed è a quel punto che, con straordinari effetti della macchina da presa, Michael intuisce, così come ogni spettatore, che la donna è analfabeta. E tanta è la vergogna di confessare la propria condizione che Hanna dichiara la perizia inutile perché è stata lei a redigere il verbale. Bugia che le costa il carcere a vita, mentre le sue colleghe se la cavano con qualche anno di prigione.

 Qualche considerazione si fa a questo punto possibile. Innanzi tutto, il diverso punto di vista di Hanna e delle colleghe. Le ultime si nascondono ipocritamente dietro l’ordine ricevuto, risolvendo il conflitto tra legge e morale in base alla norma che impone di selezionare le prigioniere, pur sapendo che saranno eliminate, e che costringe a non aprire le porte della chiesa pur sapendo che le prigioniere non avranno scampo. È la tesi maggiormente sostenuta, a propria discolpa, dagli aguzzini di Hitler durante il processo di Norimberga e nei processi successivi. C’è poi un altro punto di vista, non ipocrita, ma persino più grave che Hanna Schmitz rappresenta in nome e per conto dell’intero popolo tedesco in quelle tristi storiche circostanze. Il dovere per il dovere, da etica kantiana, fattosi grande leviatano che cancella persino il confronto tra legge e morale e lo riguarda con sovrana indifferenza. Non è un caso che pochi siano gli studenti che partecipano al citato seminario. Ma in Hanna c’è anche qualcosa di più: l’incapacità di chiedere perdono (in più di una occasione la si sente affermare che non c’è nulla di cui pentirsi e di cui chiedere perdono) e l’analfabetismo dell’animo che bene traduce la memoria storica di un popolo in perenne contrasto tra il vergognarsi di sé e l’incapacità di prendere coscienza delle ragioni autentiche di tale vergogna.

 Il processo di Hanna e delle altre vale invece la presa di coscienza di Michael. La visita di un ex-lager nazista ne è l’espressione muta, più profonda ed efficace. Ma lo studente è ora posto di fronte al dilemma: testimoniare che Hanna non può aver scritto il verbale perché analfabeta, appellandosi così alla legge che consentirebbe alla sua ex-amante di cavarsela con qualche anno di carcere, oppure tacere in virtù di un’etica che ai suoi occhi la rende complice dell’olocausto e meritevole di una pena ben più severa. Michael sceglie la morale, non la legge, ma quasi a farsi perdonare il dovere di una testimonianza non resa, alla quale sarebbe obbligato in nome del diritto – come gli ricorda anche il docente del seminario – egli per vent’anni fa pervenire alla donna in carcere un registratore e una quantità innumerevole di nastri incisi con la sua voce di lettore di opere celebri d’ogni tempo. Peccato solo che lo spettatore europeo sia portato a concludere che i libri che circolavano allora in Germania, Odissea di Omero compresa, fossero tutti scritti in inglese. Sbavatura stilistica del film questa, certamente dovuta alle esigenze del pubblico americano e a motivi di cassetta.

 Vent’anni dopo, allorché Hanna, sopravvenuta nel frattempo la grazia, sta per uscire dal carcere, Michael si reca infine a trovarla. “Cosa hai imparato in tutti questi anni?”, domanda ansioso, sperando in cuor suo che Hanna abbia finalmente preso coscienza. La risposta lo delude profondamente: “Ho imparato a leggere”, si limita a dire.

 Pure, il successivo duplice gesto di Hanna lascia le porte aperte a far credere che la donna, ormai in grado di leggere e scrivere, abbia trovato un barlume di coscienza e passando ben oltre gli astratti concetti di “dovere per il dovere” e di norme storicamente datate, abbia finalmente appreso a riconoscere il linguaggio della legge morale dentro di sé.

 Stupenda oltre ogni dire l'interpretazione di Kate Winslet, ottimo il film, anche se il finale appare banale quanto superfluo.

sergio magaldi


domenica 22 febbraio 2009

LA PROFEZIA DI SARTRE

Dopo le dimissioni di Veltroni da segretario del PD, è ormai sul punto di realizzarsi compiutamente l’antica profezia di Jean Paul Sartre. Il filosofo e geniale poligrafo francese che, per la verità, non cessò mai di sottolineare la saggezza del P.C.I. soprattutto mettendola a confronto con l’insipienza del P.C.F., aveva a suo tempo però paventato, in più d’una occasione, l’idea che il più maturo e più forte partito comunista dell’Occidente potesse un giorno snaturarsi per effetto di “democristianizzazione”. Infatti, nonostante i reiterati auspici di molti, a “non morire democristiani”, si assisteva allora in Italia, ormai da decenni, alla continua capacità della Democrazia Cristiana di trasformare la cosiddetta società civile ad immagine di se stessa, quasi una trasposizione della mitica favola di re Mida.

A distanza di tanti anni, gli eredi di quegli storici partiti, ponendo fine ad una quarantennale incomprensione, si sarebbero infine incontrati per celebrare in una Casa comune l’avvenuto connubio, con la primaria esigenza di battere il cavalier Berlusconi che, in cuor suo, non avrebbe potuto sperare di meglio, ben sapendo che l’unione tra gli eredi dei partiti più rappresentativi della democrazia italiana dell’ultimo mezzo secolo avrebbe finito col portargli voti dal centro, da sinistra e da destra.

Nella ventilata ipotesi, peraltro sempre più probabile, che Franceschini o magari Parisi raccolgano l’eredità di Walter Veltroni, e cioè che a capo di un partito, dove militano, peraltro in maggioranza, gli epigoni del vecchio P.C.I., sia posto un ex-democristiano fa pensare che il cerchio si stia ormai chiudendo e che quel che appariva solo il timore di un intellettuale, se pure di genio come Sartre, sia invece la compiuta realizzazione di una profezia.

DAL BRACCIO-ARCO AL BRACCIO-PONTE

Ieri abbiamo potuto assistere all’ennesima puntata dell’incredibile Telenovella-Inter, in onda e negli stadi ormai da tre anni.

Le polemiche per il braccio teso ad arco (o ad ombrello, secondo i punti di vista) col quale Adriano, Deo concedente, ha regalato all’Inter la vittoria nel derby milanese, sono durate per tutta la settimana, perché le somme autorità del calcio nostrano, pur riconoscendo l’annullabilità del goal, non hanno ritenuto punibile il calciatore brasiliano in quanto mancavano gli elementi per accertarne la volontarietà. Così “l’imperatore” è sceso di nuovo in campo, reiterando il gesto ispirato dagli dei, questa volta tuttavia non andando a segno direttamente, ma permettendo ad un collega d’infilare la porta del Bologna (vittima sacrificale di turno degli imperturbabili dei olimpici), grazie ad un passaggio effettuato tramite il famoso braccio, ormai così duttile da mutarsi, in soli sei giorni, da arco od ombrello in strettissimo ponte sul quale far scorrere la palla sino ai piedi di Cambiasso che, a quel punto, non ha avuto difficoltà a deporla in rete. E Martedì si replica in Champions League dove, da italiano, mi auguro che gli dei siano altrettanto benevoli nei confronti dell’ineffabile squadrone interista, costretto da altrettanto ineffabile sorteggio, a vedersela con i campioni d’Europa e del Mondo del Manchester United. Auguri di cuore!

lunedì 16 febbraio 2009

Dalla mano di Dio al braccio di San Siro

Ancora una volta il Cielo interviene in modo determinante nel gioco del pallone. Tutti ricordano la mano di Dio che, incarnatasi in quella di Maradona, valse all'Argentina un titolo mondiale. E ieri, nel derby milanese, forse un dio minore è sceso nuovamente in campo, tramite il braccio di Adriano che assicura all'Inter la vittoria della partita e probabilmente quella dello scudetto. Con un gesto atletico che ricorda quello dell'ombrello, il calciatore brasiliano ha detto agli italiani che amano il gioco del calcio ed in particolare ai tifosi milanisti e juventini, di non coltivare illusioni giacché nella sua persona s'è manifestata chiaramente la volontà dell'Altissimo. Un ex-arbitro, saggio come Casarin, nel suo commento a Controcampo, ha detto che il suo collega Rosetti, internazionale e primo fischietto italico, per la posizione in cui si trovava in campo non può aver visto il braccio teso ad arco di Adriano perché altrimenti avrebbe annullato il goal. Sulla sua scia, Ferri l'ex-calciatore e interista di ferro ha ammesso che c'era un rigore a favore del Milan nell'intervento di Chivu su Inzaghi ma che l'arbitro non poteva vederlo. Si trovava a pochi passi dall'azione, è vero, ma era coperto da altri giocatori. Lasciatemi aggiungere che l'occhio debole dell'uomo non può vedere ciò che il Cielo ha deciso di nascondere alla vista. Così forse è stato anche per un secondo rigore non concesso a favore del Milan per un fallo in area di rigore su Ambrosini. E dire che per tutta la settimana che ha preceduto il derby, l'ineffabile allenatore interista - l'unico per la verità del nostro campionato di calcio che ha il coraggio di parlare chiaro tanto ai suoi giocatori che agli addetti ai lavori - ha lamentato "strani" atteggiamenti dei direttori di gara a danno della propria squadra, dimenticando o non sapendo che negli ultimi anni la Divina Provvidenza o la Dea Bendata, secondo i gusti, s'è prodigata abbondantemente in favore dell'Inter. Eppure, il fermo appello del simpatico e bravo portoghese anche questa volta non è rimasto inascoltato con buona pace di chi pretenderebbe che il Cielo si astenesse dall'intervenire così pesantemente nelle vicende sportive.

mercoledì 11 febbraio 2009

Fuoco Amico di ABRAHAM B.YEHOSHUA

comune Menorah con le lettere dell'alfabeto ebraico
Einaudi 2008 Titolo originale: (Esh yedidutit, 2006)

Non scriverò sul Blog solo dei libri che mi sono piaciuti e dunque dirò anche di questo romanzo di 400 pagine di cui faticosamente ho portato a termine la lettura. La cornice a prima vista mi sembrava interessante e inoltre avevo già letto con un certo piacere altri romanzi di Yehoshua.
Una vicenda che si svolge interamente nella settimana di Hanukkah e che si articola in otto capitoli, quante sono le candele che si accendono durante la festa più amata in Israele e nelle comunità ebraiche. Un duetto tra sessantenni: Amotz Yaari, progettista d’ascensori, che resta a Tel Aviv e l’amatissima moglie Daniela, insegnante, che parte per la Tanzania nell’intento di ritrovare qualcosa della sorella morta. L’accoglienza del cognato, in Africa per una spedizione paleoantropologia, non si rivela delle più affettuose per la donna. E qui l’autore ci rivela forse il vero motivo che lo spinge a scrivere una storia per altri versi tanto lunga e noiosa. È il perenne conflitto arabo-israeliano, è l’essenza stessa di Israele che viene messa in questione attraverso la sofferenza del cognato di Daniela, privato del figlio, caduto per errore sotto il fuoco dei suoi stessi commilitoni, “fuoco amico”, appunto.
Nel rifiuto di Yirmiyahu, vedovo della sorella di Daniela, di non fare più ritorno in Israele o addirittura di continuare a sentirne parlare, non c’è solo il dolore per la morte del figlio o l’amarezza per un conflitto che sembra non aver mai fine, perché è la stessa fonte da cui Israele trae alimento ad essere riguardata con sospetto. Una rilettura attenta di alcuni passi della Scrittura rivela infatti altri punti di vista, altri possibili significati.
Peccato soltanto che la strategia narrativa non sia quasi mai all’altezza di un tema così drammatico e inquietante. L’idea stessa di alternare nei capitoli (o accensioni di candele nei bracci della Menorah), le vicende dei due protagonisti, marito e moglie, non si rivela felice e in luogo di evitare di appesantire la narrazione finisce col renderla sovrabbondante e persino ossessiva. Anche perché i fatti narrati non si discostano dalla banalità del quotidiano, fermandosi talora su particolari così insignificanti da indurre il lettore a passare oltre.
L’apatia generale in cui si dipana la storia, se così si può chiamare, è appena scalfita dalla trovata degli ascensori che emettono sibili e ululati, l’uno per via di vecchi ingranaggi, gli altri a causa del vento che s’infila nelle fessure di un palazzo mal costruito da operai stranieri (sic, rumeni e cinesi) e che può far pensare ad una duplice ed efficace allegoria: le molte e contraddittorie ingerenze straniere che portarono alla costruzione della nazione ebraica e il “ruach refaim”, lo spirito dei morti, dei troppi morti, che aleggia di continuo in terra d’Israele.

Calcio: una domanda

(Post del 18-12-2008)
Una domanda per gli appassionati di calcio con l’invito ad una riflessione. L’Inter, dove non giocano italiani (se si eccettua Materazzi e Balotelli, ghanese adottato da una famiglia di Brescia, solo raramente in campo) può definirsi l’ennesimo “caso” italiano?
L’Internazionale vince gli ultimi tre campionati italiani:
Nel 2005-2006 a tavolino per le “colpe” di Moggi, subentrando nel titolo alla Juventus che l’aveva conquistato sul campo grazie al valore di Fabio Capello e dei suoi giocatori, presenti per almeno il 50% nella formazioni di Italia e Francia che disputano in Germania la finale mondiale 2006.
Nel 2006-2007, con la Juve cacciata (sempre a tavolino) in serie B, Milan, Fiorentina e Lazio fortemente penalizzate.
Nel 2007-2008, con la Roma campione d’Italia a 45 minuti dalla fine del campionato. Solo al terzo posto, tuttavia, dopo Roma e Juve, nelle classifiche virtuali dei giornali sportivi (quelle che tengono conto del fuorigioco a favore o contro, del rigore concesso o non concesso, della punizione non data oppure inesistente e dalla quale scaturisce il goal, della palla entrata in rete e non vista ecc… dal cui calcolo derivano punti sonanti per la classifica). Onore alla Roma che ha accettato in silenzio il verdetto, se si eccettuano alcune dichiarazioni del capitano Totti (subito penalizzate dalla sollecita giustizia cosiddetta sportiva) e del capitano futuro De Rossi. Qualcuno continua a chiedersi perché la società non abbia mai parlato. Perché è “finalmente una società matura” è la risposta più accreditata e ufficiale, ma altre e diverse risposte sono state formulate dai tifosi che vanno allo stadio o pagano Sky o Mediaset Premium per vedere il calcio in TV.
E ora l’Internazionale si appresta forse a vincere il suo quarto scudetto di fila, realizzando la “profezia” di Luciano Moggi che parlò subito di quattro o cinque scudetti consecutivi all’Inter come “effetto secondario” di “calciopoli”. Nel campionato attuale, vince con squadre italiane ininterrottamente da sette turni (Reggina-Udinese-Palermo-Juventus-Napoli-Lazio e Chievo), ma perde in Europa consecutivamente con il Panathinaikos in casa e con il Werder Brema, ultima del suo girone di Champions League, fuoricasa. Eppure, tutta la stampa ha sottolineato giustamente il grande calcio messo in evidenza dall’Inter soprattutto contro Juve e Lazio, proprio nelle due partite che si sono incrociate con le sconfitte europee. Merito dei giocatori, senza dubbio, ma anche del suo simpatico e valente allenatore Mourinho. Forse, tutto dipende dalla dea bendata non altrettanto benigna quando i neroazzurri corrono per l’Europa. Con la Juve vince 1-0, ma sullo 0-0 c’è un rigore (riconosciuto da tutti) per la Juve che l’arbitro non può vedere per la particolare posizione dei due giocatori che si contendono la palla nell’area di rigore interista. Con la Lazio vince 3-0. Ineccepibile e fulmineo il primo goal dell’ex-romanista Samuel, ma sul secondo (un autogol) l’arbitro (che, non dimentichiamoci, è costretto a percorrere chilometri in perpetuo movimento degli occhi) si trova nell’impossibilità di accorgersi che la palla che danza nell’area di rigore laziale è preceduta da un lancio su punizione calciato con palla in movimento. E il terzo goal dell’Inter, per unanime riconoscimento, è in fuorigioco non visto. Anche sul goal annullato alla Lazio, la dea bendata ci mette del suo, generando un equivoco tra arbitro e calciatore della punizione che va inutilmente a segno.
Per l’avvenire, non resta che augurarci che la dea conceda finalmente i suoi favori all’Inter anche quando la squadra gioca contro le “non italiane”.

Sartre

Sartre par lui même: DVD realizzato da Alexandre Astruc e Michel Contat, edito nel 2007 dalle Editions Montparnasse.

Naturalmente, non esiste nella versione italiana né mi risulta reperibile in Italia nell’originale, ma lo si può ordinare ai rivenditori francesi, grazie a internet. Lo propongo per i nostalgici e per i giovani che, a conoscenza della lingua francese, sono curiosi di sapere chi era veramente Jean Paul Sartre, il geniale poligrafo (così fu definito ancora vivente) che occupò quasi ininterrottamente la scena culturale europea dal secondo dopoguerra al ’68 e al post ’68. Circa 5 ore di visione e di ascolto, in cui è lo stesso Sartre a parlare di sé oppure sono gli amici intellettuali a parlare di lui: Jean-Toussaint Dessanti, Jean-Bertrand Pontalis, Michel Contat, Bernard-Henry Lévy, Gérard Wormser, Claude Lanzmann, Simone de Beauvoir e tanti altri.
Il complesso materiale si suddivide in un TEMPO DELLA RIFLESSIONE e in un TEMPO DELL’IMPEGNO.

Per meglio usufruire della visione e dell’ascolto del DVD, ripropongo di seguito un mio vecchio articolo che ancora mi sembra didatticamente valido per una prima, sommaria conoscenza di Sartre.






LA FORTUNA DI SARTRE

Sartre narratore
Benché l'opera di Sartre sia stata in gran parte concepita du­rante la guerra (dal settembre del '39 lavora a L'Age de Raison e a L'Etre et le Néant, nel marzo del '40 pubblica L'Imaginaire, nel­l'aprile dello stesso anno riceve per Le Mur il premio del romanzo populista) e sotto l'occupazione (nel '41 termina di scrivere L'Age de Raison, nel '42 scrive Les Mouches che pubblica e rappresenta nell'anno successivo, nel '43 pubblica L'Etre et le Néant, scrive Les Jeux sont faits. Le sursis, Huis clos, pièce quest'ultima che rappre­senta poco prima della Liberazione) ed abbia conosciuto diffusione e successo nel periodo post-resistenziale, l'ingresso ufficiale di Sartre nella cultura francese deve ascriversi al 1938, anno in cui pubblica il romanzo La Nausée. Fu un ingresso notevole. Senza che il libro divenisse un best-seller (ciò fu dovuto, forse, al fatto che la critica ne sottolineò soprattutto l'aspetto filosofìco), Sartre fu te­nuto, per unanime giudizio della critica, per scrittore riguardevole, si parlò di lui come del Kafka francese (tranne che per un certo moralismo estraneo allo scrittore ceco) (1), si fecero raffronti con Valery e Proust (2), si collocò La Nausée tra le opere più significative dell'epoca (3).
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(1) Cfr. P. Nizan, Ce Soir, 16 maggio 1938. Più in generale, per il rapporto Kafka-Sartre nel contesto della lettera­tura francese del primo e del secondo dopoguerra, si veda: M. Gotti, Franz Kafka et les lettres françaises (1929-55), Paris, 1956.

(2) Cfr. J. Daniélou, Etudes, t. CCCXXVII, ottobre 1938.
(3) Cfr. A. Robin, Esprit, n. 70, Luglio 1938.



La Nausée di Sartre è in un certo senso l'atto di nascita del romanzo esistenzialista anche se precedenti nella tematica e nello stile della narrativa dell'esistenzialismo sono ben visibili in Joyce, Conrad, Meredith, Galsworthy, Kafka, nel romanzo francese della condizione umana e nel romanzo americano del '900.
Nella narrativa francese il romanzo esistenzialista fa epoca abbracciando gli anni dell'anteguerra, il periodo bellico e il dopoguerra sino alla metà degli anni Cinquanta. Con Les Mandarins del 1954 di S. De Beauvoir l'epoca del romanzo esistenzialista può dirsi conclusa: già nel 1953 con Les Gommes di Alain Robbe-Grillet si viene affermando le « nouveau roman » di cui, d'altra parte, si era conlinciato a parlare nel 1950 con Le Hussard bleu di Roger Nimier e con l'offensiva scatenata contro il romanzo esistenzialista come letteratura della disperazione e dell'assurdo, o addirittura nel 1947 con Portrait d'un inconnu di Nathalie Sarraute presentato al pub­blico dallo stesso Sartre come un anti-romanzo, come un romanzo che si contesta da solo, che cerca di distruggersi nello stesso mo­mento in cui sembra doversi realizzare, che narra la storia del suo stesso fallimento come romanzo (4). Si tratta, proprio come nelle opere divenute ormai classiche del « nouveau roman », di esprimere la malafede del romanziere attra­verso l'impossibilità stessa del raccontare e la gratuità della finzione letteraria in un universo trasbordante di realtà. Il « nouveau roman » diviene così sempre più rifiuto del genere romanzesco: lo scrittore non ci offre una storia ma solo delle briciole che il lettore può tentare di mettere insieme come in un « puzzle » (5).

(4) Cfr. J.P. Sartre, préface à Portrait d'un inconnu di N. Sarraute, in Situations IV, Gallimard, Paris, 1964, pp. 10 e ss. Sulla narrativa francese del secondo dopoguerra, con particolare riguardo a Sartre, cfr.: M. Nadeau, Le roman francais de.pu.is la guerre, Paris, 1963; H. Peyre, The Contemporary French Novel, Oxford, 1955.
(5) Tra le opere teoriche sul « nouveau roman » citiamo: A. Robbe-Grillet, Une voie pour le roman futur, Nouvelle Revue Francaise, luglio 1956, di A.A.V.V., A la recherche du roman, numero speciale di Cahiers du sud, 1956 (si veda soprattutto di N. Butor: Le Roman coamme recherche), di B. Pingaud, L'Ecole de Refus, Esprit, luglio-agosto 1958, numero speciale de­dicato al « nouveau roman ».

Così, nonostante tutto, il « nouveau roman » non rappresenta la soluzione di continuità della narrativa francese, perché nella sua struttura permane un’interrogazione esistenziale di tipo collettivo circa un genere culturale prodotto dall'uomo e, perciò, in definitiva sull'uomo stesso. D'altra parte, neppure il romanzo esistenzialista s’impone con brusca rottura del passato, il romanzo della condizione umana che lo precede si caratterizza come opera di testimonianza e di denuncia proprio come il romanzo esistenzialista. Il gusto per l'autobiografia romanzata, la descrizione di eventi d'importanza internazionale ai quali partecipa lo stesso autore, la scelta di personaggi tratti dall’esperienza vissuta, l'esaltazione quasi eroica dell'individuale, la cri­tica e il sarcasmo della società borghese e dei suoi valori sono temi che si ritrovano, con diversa accentuazione, tanto nel romanzo della condizione umana che nel romanzo esistenzialista. Naturalmente, non sempre valgono lo stesso significato e lo stile è spesso diverso. All'eroe positivo dei romanzi di Montherlant, Saint-Exupéry, Mairaux Aragon, Giono ecc., si con­trappone spesso l'eroe negativo del romanzo esistenzialista: Roquentin, Mathieu, Mersault ecc. (6). Alla vita come intrapresa eroica si contrappone spesso la vita come disperazione del romanzo esisten­zialista, all'esaltazione romantica dell'avventura e dell'amore, l'im­potenza e lo squallore dell'esistenza umana. Va detto, tuttavia che dietro l'angoscia dei personaggi del romanzo esistenzialista si na­sconde spesso il rimpianto per la « caduta » originaria, la nostalgia per il paradiso perduto. Lo stile è certamente diverso: sotto l'influenza del romanzo americano, il romanzo esistenzialista oppone alla prosa fluente della narrativa precedente, un linguaggio scarno ed essenziale volto ad eliminare l'infinita mediazione tra le parole e le cose. Anche la tecnica romanzesca muta: si ricorre al simultaneismo che consente di descrivere contemporaneamente ma su piani diversi e secondo distinti punti di vista i medesimi avvenimenti (7).

(6) Sull'eroe negativo,in Sartre si vedano: W. Fowle, Existential hero: a study of l'Age de raison, in « Yale French Studies » (primav.-est., 1948), pp. 62-65; D.J. Conacher, Oreste as existentialist hero, in « Philosophical Quarterly », XXXIII, n. 4, ott. 1954, pp. 404-417; R. Girard, L'anti-héros et les salauds, in « Mercure de France », marzo, 1965, pp. 427-450; A. Leclerc, De Roquentin à Mathieu, su « L'Arc », n. 30, gen.-marzo, 1967, pp. 71-76; C. Llech Walter, Héros existentialistes dans l'oeuvre littéraire de J.-P. Sartre, Perpignan, 1967; V. Brombert, The Intellectual Hero, Phila-delphia, 1961.

(7) Sulla tecnica letteraria di Sartre: S. John, The Literary Technique of Sartre, with Special Reference to Imagery, Doct. Diss., Wales, 1957-58; F.S. Jameson, The Origin of a Style, New Haven, 1961; R. Champigny. Langage et littérature selon Sartre, in « Revue d'Esthétique », 1966, pp. 131-48; G. Prince, Métaphysique et technique dans l'oeuvre romanesque de Sartre, Genève, 1968.

La fortuna del romanzo esistenzialista si lega alla fortuna stessa di Sartre che ne è l'autorevole rappresentante, né appare credibile la tesi dell'esistenzialismo come di una moda viziata sin dalla nascita dalla tabe del dopoguerra: il romanzo esistenzialista si colloca con piena legittimità nel filone della narrativa francese (8), presentando per un verso notevoli punti di contatto almeno con il romanzo della condizione umana e con il romanzo naturalista (9), per altro verso fornendo notevoli spunti per la messa in crisi del genere romanzesco e la nascita del « nouveau roman» (10).
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(8) “Nella storia del romanzo francese, La Nausée è come l’ultima vetta di una vasta catena: Balzac, Flaubert, Proust, Sartre”, scrive Marcel Raymond (Le Roman depuis la révolution - Ub. A. Colin, 1971 p. 211).
(9) La critica ha messo in evidenza l'ispirazione comune di Mort à crédit (1936) di L. F. Céline o di La Nausée di Sartre. Marcel Raymond (op. cit., p. 207) rilevando i punti di contatto esistenti tra romanzo naturalista e romanzo esistenzialista (gli spettacoli sordidi, la tristezza della vita quoti­diana, ecc.) parla di La Mort dans l’âme di Sartre e di La Débâcle di Zola come di due testimonianze (in epoche diverse) sulla disfatta di un paese e il crollo d'un regime. Osserva tuttavia Sartre: « In Zola tutto obbedisce al più rigoroso deter­minismo. I libri di Zola sono scritti al passato, mentre i miei personaggi hanno un avvenire ». (Qu'est-ce que l'existentialisme? Bilan d'une offensive, in Les lettres françaises, 24 novembre 1945).
(10) Scrive ancora il Raymond (op. cit., pp. 209 e 210): «Si sarebbe tentati di dire che si assiste con la Nausée alla morte del romanzesco » e: « Con Roquentin si sottolinea il contrasto tra il "romanesque" e il "vécu" ».


Sartre filosofo esistenzialista
È però nel dopoguerra che s’impone la fama di Sartre filosofo esistenzialista, proprio nel momento in cui l'esistenzialismo ha preso, nella filosofìa francese, il posto privilegiato che era spettato al bergsonismo. Comprensibile, d'altra parte, il ruolo giocato dalla fi­losofìa dell'esistenza all'indomani della Liberazione: ci si interroga sull' « immediatamente vissuto », sul significato dell'esistenza umana in un mondo sconvolto dal lutto, dalla miseria, dalle rovine; sui vecchi valori che pretendevano di sfidare il tempo e che crollano con i primi bombardamenti.
La domanda ha per risposta una più inquietante indagine sulla condizione umana, nei suoi aspetti, per così dire, eterni e universali (la « deiezione » o « caduta » dell'uomo nel mondo, la libertà, la possibilità e l'ambiguità dei valori, la sfiducia nel progresso e nella scienza) e nella sua determinazione storica o « situazione »: critica della società borghese, del suo facile ottimismo, della sua rispet­tabilità, del suo sistema di oppressione, anticonformismo, atteggia­mento esibizionistico di denuncia dei costumi e della moda corrente che, quando non scade nel grottesco, assume una funzione pro­fondamente liberatoria. L'esistenzialismo, benché espressione di un'epoca, si radica pro­fondamente nella cultura filosofica francese. Da Montaigne a Bergson la filosofia francese è sempre stata una filosofìa del pensiero e della coscienza (11), nel senso di privilegiare la spiritualità del- (segue, dopo le note)
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(11) Montaigne è già il filosofo della coscienza e della condizione umana anche se in lui ogni tema è vissuto con il distacco dell'aristocratico del Rinascimento. Pascal torna con più drammaticità sulla condizione dell'uomo nel mondo, sulle ragioni del cuore che solo l'«l’esprit de finesse » (come ciò che ci da l'oggetto d'un colpo solo e con un solo sguardo) può far valere, sul pensiero come la sola dignità del­l'uomo. Descartes può considerarsi il fondatore, con il cogito intuitivo, della riflessione contemporanea, Rousseau è il filosofo della spontaneità di coscienza. Il tema della coscienza è ancora l'alfa e l'omega della filosofia di Bergson.


-l’uomo rispetto alla sua materialità (12), nel senso che il filosofare è innanzi tutto interrogazione della coscienza, nel senso infine che libertà e soggettività sono i punti costanti di riferimento della rifles­sione filosofìca.
L'esistenzialismo fìlosofico (13), dunque, è il punto d'approdo della riflessione filosofìca francese negli anni Quaranta. Dell'esisten­zialismo francese, d'altra parte, Sartre è uno dei più validi rappre­sentanti, se è vero che L'Etre et le néant è il primo grande libro e, in un certo senso, forse, il (segue dopo le note)
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(12) Si noti nella letteratura esistenzialista il malcelato disprezzo per il nostro « essere corpo », ciò deriva da una ambiguità fondamentale: è con il corpo che ci troviamo nel mondo con gli altri, è con il corpo che esistiamo, ma il corpo è la cosa, la « fattità », ciò che si oppone alla nostra libertà.
(13) L'esistenzialismo contemporaneo nasce e si sviluppa sullo stesso terreno della fenomenologia, proponendo tuttavia nuovi obiettivi all'indagine fenomenologica. Favorito dal clima politico e culturale del primo dopoguerra, che segna una svolta profonda nella crisi dei valori annunciatasi all'inizio del secolo, l'esistenzialismo ha il suo atto di nascita nel 1927 con Sein una Zeit di Heidegger. L'esplosione di fermenti irrazionalistici sul piano sociale, che avranno uno sbocco disordinato e cruento nella nuova razionalizzazione dei regimi totalitari, ha un riscontro sul piano culturale con la « rinascita kierkegaardiana », il ritorno a Nietzsche, il collegamento con l'opera letteraria di Dostojewski e di Kafka (il cui primo romanzo appare postumo, nel 1925). Sarà bene osservare che l'esistenzialismo contemporaneo, come fenomeno culturale complessivo, lungi dall'identificarsi con la «filosofia» del nazi­fascismo, con la messa in questione di ogni certezza, con la critica più o meno esplicita delle forme in cui si articola il potere, con il sarcasmo con cui colpisce ogni seriosità del vivere, ne sottolinea implicitamente l'as­surdo. Lo stesso irrazionalismo di cui si colora riguarda esclusivamente l'abbandono nella « fede della ragione » delle precedenti filosofie (fede co­mune anche alla fenomenologia husserliana) e il suo soffermarsi prevalen­temente sugli aspetti distruttivi e negativi dell'esistenza umana: il dolore, la malattia, lo scacco, l'incomunicabilità, la banalità, la noia, la morte. L'esistenzialismo rovescia ed amplia, per così dire, il campo d’indagine della fenomenologia. Non più un’analisi limitata alla sfera conoscitiva né estesa al mondo-della-vita (come nell’ultimo Husserl), considerato solo nella sua positività. Il metodo d’indagine fenomenologia deve servire per descrivere la realtà esistenziale in tutte le sue manifestazioni: non la vita al servizio della consapevolezza razionale, ma la consapevolezza razionale al servizio della vita.



solo grande libro dell'esistenzialismo francese (14). Proprio per questo, forse, il sartrismo, che non è la semplice sintesi di Hegel, di Kierkegaard e di Marx, di Husserl e di Heidegger è in grado di confrontarsi con il marxismo ortodosso, con quello strutturalistico e, in definitiva, con la « nuova » cultura francese (15).
La disputa attorno all'esistenzialismo e, particolarmente, at­torno al sartrismo è già fervente all'indomani della seconda guerra mondiale, non soltanto per le polemiche o i riconoscimenti di cui l'opera di Sartre è fatta oggetto, ma anche per i rapporti che il sartrismo ha con il pensiero francese, esistenzialista e non, di prima della guerra e del dopoguerra e, successivamente, col marxismo. Per questo rispetto, troverà conferma sia la tesi dell'esistenzia­lismo e del sartrismo come di filosofie che si radicano al filone coscienzialistico della filosofia francese, sia la tesi che, da ultimo, il sartrismo è, in un certo senso, un marxismo che non rinuncia al cogito cartesiano dell'interpretazione husserliana.
Il dibattito su Sartre filosofo si annuncia già con l'apparizione di L'Etre et le Néant. Scrive in proposito Michel Tournier (Les Nouvelles Littéraires, 29 ottobre 1964) : « L'Etre et le Néant. Ci fu un momento di stupore, poi una lunga e difficile digestione. L'opera era massiccia, irsuta, straripante, d'una forza irresistibile, piena di squisite sottigliezze, enciclopedica, superbamente tecnica, attraversata da un capo all'altro da una intuizione d'una semplicità diamantina. Già i clamori della canaglia antifilosofica cominciavano a farsi sentire sulla stampa. Non c'era alcun dubbio: un sistema era nato ».
Bisogna tuttavia attendere ancora due anni prima che il libro cominci a far parlare di sé nella cultura francese e questo accade quando si è già affermata la fama di Sartre romanziere e dramma­turgo esistenzialista, e l'esistenzialismo è ormai divenuto una moda.
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(14) Cfr. J. Wahl, Tableau de la. philosophie française, Gallimard, Paris, 1962, p. 148.
(15) Accettiamo in pieno il giudizio « controcorrente » di Pier Aldo Rovatti: « mi sembra si possa giungere a una conclusione decisamente con­trocorrente: che l'impianto teorico sartriano, pur carente nei contenuti, non solo resiste al radicale attacco althusseriano, ma è anche in grado di demistificare ampiamente le affermazioni della cosidetta "nuova" cultura francese riconducendole alla loro matrice ideologica ». (Cfr. P. A. Rovatti, Sartre e il marxismo strutturalistico, pp. 41-46, in Aut-Aut, n. 136-137, luglio-ottobre 1973, p. 42).

Sartre nel teatro e nel cinema
L’Etre et le Néant fa seguito ai romanzi: La Nausée (1938) e Le Mur (1939), ai trattati di psicologia fenomenalogica: Esquisse d'une théorie des émotions (1939) e L'Imaginaire (1940), alla pièce Les Mouches (1943) e precede di poco l'altra pièce Huis Clos (1944), i romanzi L'Age de Raison (1945) e Le Sursis (1945) e la pubblica­zione della rivista Les Temps Modernes (ottobre 1945).
Le novelle di Le Mur (Le Mur - La chambre - Erostrate - Inti­mité - L'Infance d'un chef) gratificano definitivamente Sartre dell'epiteto di scrittore osceno, pure si tratta di una delle opere letterarie più rappresentative della tematica sartriana e, nello stesso tempo, di una delle opere più conosciute (16).
La prima pièce di Sartre, Les Mouches non è accolta benevolmente dalla critica: non si comprende l'appello rivolto ai francesi perché si scuotano dal gioco nazifascista, si sottolineano piuttosto i difetti stilistici dell'opera, si fa di Sartre drammaturgo un Giraudoux minore (17). Ma la lezione di libertà è recepita negli ambienti intellettuali e fra i giovani e, all'indomani della liberazione, Les Mouches conoscerà la sua fortuna come « pièce politique ».
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16) Ancora nel '69 una insegnante del Liceo Vernon di Parigi viene trasferita per aver proposto agli studenti una dissertazione su Le Mur. Circa la diffusione di quest'opera, il 15 dicembre del 1965 la tele­visione francese presenta ai telespettatori, per la regia di Michel Mitrani, La chambre, una delle novelle di Le Mur (la T.V. presenta ciò che la scuola vieta tre anni più tardi!). La rappresentazione televisiva servirà poi ad una équipe del Centre de psychiatrie sociale diretta dal prof. Roger Bastide per svolgere un'inchiesta tra i telespettatori circa l'atteggiamento dell'opinione pubblica nei confronti dei malati di mente (si veda in pro­posito di P. Morin, A propos de la représentation de la maladie mentale, in Les Temps Modernes, n. 255, agosto 1967, pp. 337-361). Ciò mostra non solo il grado di diffusione dell'opera sartriana ma anche la fortuna che le opere di Sartre hanno in campo psicologico e psichiatrico a cominciare dagli anni '60.
(17) Tra le prime critiche apparse sulla pièce, rappresentata per la prima volta il 3 giugno del 1943 al teatro della Cité di Parigi, segnaliamo: A. Laubreaux su « Le Petit Parisien », 5 giugno 1943 e su « L'Oeuvre » del 7 giugno; R. Purnal su « Comoedia » del 12 giugno; A. Castelot su « La Gerbe » del 17 giugno; F. Straub, su « Pariser Zeitung » del 17 giugno e, infine, tra le poche favorevoli: M. Leiris su « Les Lettres françaises », n. 12 e M. Merleau-Ponty, Compte rendu des Mouches, su « Confluences », n. 25, sett.-ott. 1943; pp. 514-16.





Nel '68 può ancora significare qualcosa per il popolo cecoslovacco che inse­gue il miraggio della libertà (18). Grande successo di critica e di pubblico ha invece Huis Clos presentata per la prima volta al teatro del Vieux - Colombier il 27 maggio del 1944 (19).
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(18) Les Mouches fu rappresentata, presente Sartre, a Praga nel dicem­bre del 1968.
(19) La pièce può ormai considerarsi un classico del teatro francese, europeo e mondiale. Ha quasi immediatamente successo fuori dei confini nazionali: in Inghilterra ne sarà vietata la rappresentazione dalla censura nel settembre del 1946, in U.S.A. riceve nel 1947 il premio per la migliore pièce straniera. Se ne traggono films: Huis Clos di J. Audry (1954) e No Exit di Pedro Escudero e Tad Danielewski (1962), visioni televisive e registrazioni. Tale C. P. Alberts provò il bisogno di « completare » l'opera di Sartre scri­vendo delle scene supplementari che intitolò La porte ouverte - De Open Hel (La Haye, 1949). Il cinema contribuisce solo in minima parte alla fortuna delle opere di Sartre: tuttavia il fatto che molti dei suoi romanzi e delle sue pièces abbiano una versione cinematografica indica sufficientemente, sia l'interesse che Sartre ha sempre manifestato per questa forma espressiva, sia il livello della sua popolarità. Oltre a Huis Clos, Les jeux sont faits, regia di J. Delannoy e sceneggiatura di Sartre, che ottiene una favorevole accoglienza di critica e di pubblico al festival di Cannes del 1947; Les Mains sales, regia di P. Rivers e sceneggiatura di Sartre, che appare sugli schermi parigini il 29 agosto del 1951 suscitando le reazioni del P.C.F.: le proiezioni del film hanno luogo assai spesso sotto la protezione della polizia. In effetti l'adattamento cinematografico della pièce sartriana finisce per trasformare una disputa tra militanti comunisti in una requisitoria anticomunista, inoltre le guardie del corpo di Hoederer somigliano più a dei gangsters dei films americani che a degli operai. Per la verità Sartre, già prima dell'apparizione del film, scinde le proprie responsabilità dalla strumentalizzazione antico­munista che se ne poteva fare. La critica fu piuttosto severa, ma il film ebbe grande successo commerciale. Notevole l'interpretazione di Pierre Brasseur e di Daniel Gèlin rispettivamente nella parte di Hoederer e di Hugo. La p... respecteuse, regia di Marcel Pagherò e Charles Brabant, dialoghi di Sartre e di Jacques Laurent Bost, fa la sua apparizione al festival di Venezia del 1952: contro il film si chiede da parte di ambienti filoamericani l'applicazione della clausola del regolamento del festival che prevede il caso di ingiuria nei confronti di una nazione amica. Ciò suscita polemiche a non finire. Il film, benché discreto, rientra nella categoria del « dramma realista », dove la omonima pièce di Sartre si configura come una « commedia buffa ». Inoltre la prostituta Lizzie, che nella pièce è un personaggio negativo che interiorizza le mistificazioni e i valori dei bempensanti bianchi americani, nel film diviene un personaggio positivo che manifesta la propria solida­rietà nei confronti del negro cacciato per essere sottoposto a linciaggio. Les Sorcières de Salem di Raymond Rouleau, con la sceneggiatura e i dialoghi di Sartre su rifacimento della pièce di Arthur Miller: The Crucible. Il film, presentato sugli schermi parigini il 26 aprile del 1957, conosce un certo successo, la critica, tuttavia, rimprovera Sartre di aver piegato il testo di Miller alla propria filosofia, per scopi politici. Il film è giudicato troppo lungo (due ore e mezzo di proiezione), i dialoghi di Sartre troppo letterari. Kean, genio e sregolatezza di V. Gassman, film italiano mai distribuito in Francia, presentato al festival di Locamo del 1957 e tratto dalla commedia Kean di Alexandre Dumas adattata da Sartre. In Italia la critica accoglie favorevolmente il film. Le Mur di Serge Roullet con i dialoghi di Sartre, presentato sugli schermi parigini il 23 ottobre 1967: è il solo film del quale Sartre si sia dichiarato soddisfatto. Ebbe un discreto successo. Ad altri film come: Les Orgueilleux di Yves Allégret, Freud, the secret passion di John Huston, Les Séquestrés d'Altona di Vittorio De Sica, tratti da opere di Sartre o con la sua diretta partecipazione, il filosofo e scrittore francese ritirò la propria adesione per disaccordi di varia natura sulla loro rea­lizzazione.
La pièce ha anche il merito di aver costretto critici di Sartre, uomini di cultura, filosofi e pubblico ad una lettura o rilettura del capitolo di L'Etre et le Néant; « Les relations concrétes avec autrui », di cui, infatti, la pièce può in un certo senso considerarsi espressione figurativa. Ciò contribuirà più tardi alla diffusione dell'opera fìlosofica di Sartre, al suo successo ma anche alle violente polemiche che da più parti si leveranno contro L'Etre et le Néant considerato ormai come il testo chiave per la compren­sione dell'esistenzialismo sartriano.





Sartre nella critica di cattolici e comunisti
Maurice Merleau-Ponty negli articoli « Un auteur scandaleux » e « La Querelle de l'existentialisme » (pubblicati nel '45 su Les Tempes Modernes e riprodotti nel saggio Sens et non sens, Nagel, Paris, 1948) fa il punto delle critiche che cattolici e marxisti rivol­gono a Sartre e all'esistenzialismo. Egli si chiede perche i critici parlino quasi all'unanimità di fango, d'immoralità e di mollezza e cita un critico di gusto come Emile Henriot scandalizzato dal-l'« orribile e sozzo » episodio di L'Age de raison, allorché Ivitch, dopo aver bevuto sino a star male, vomita e Sartre osserva: « Un aspro odore di vomito emanava dalla sua bocca così pura, Mathieu respirò appassionatamente quell'odore ».
« Orbene — osserva Merleau-Ponty — senza alzare il tono e senza cercare il paradosso, si può trovare nella frase di L'Age de raison che tanto urta Emile Henriot come un piccolo sublime, senza eloquenza e senza illusioni, che è, credo, un'invenzione del no­stro tempo. Si parla da un pezzo dell'uomo come angelo e animale insieme, ma la maggior parte dei critici sono meno arditi di Pascal. Trovano ripugnante mescolare l'angelico e l'animale nell'uomo. Occor­re loro un al di là del disordine umano e, se non lo trovano nella religione, lo cercano in una religione del bello » (20).
D'altronde la fama di Sartre scrittore che ha il gusto dell'orri­bile, del sozzo e dell'osceno non si placa, ma al contrario si diffonde sempre più qualche anno dopo la pubblicazione di L'Etre et le Néant: Su Sartre si riversa, in tutta la sua asprezza, non soltanto la critica letteraria, ma ben più agguerrita e sottile la critica fìlosofìca. Ciò che non si può tollerare è che Sartre non soltanto dipinga di « oscenità » i suoi romanzi e le sue pièces ma che addi­rittura tali « oscenità » pretenda di teorizzare in un trattato fìlosofico.
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(20) Cfr. M. Merleau-Ponty, Senso e non senso. II Saggiatore, Milano, 1962, p. 62.




Già nel '44 Gabriel Marcel definisce la filosofìa di Sartre come una dottrina « crudamente materialistica » e come un’autentica violenza che si esercita soprattutto sulle coscienze dei giovani (21). Cattolici e comunisti si scagliano violentemente contro Sartre e l'esistenzialismo, ma l'aspra polemica non fa che accrescere la fortuna di Sartre e l'entusiasmo dei giovani nei suoi confronti:
« A sinistra, i settimanali e le riviste sono invase da articoli critici che pubblicano o non pubblicano. A destra si moltiplicano gli anatemi. Le ragazze nei collegi vengono messe in guardia contro l'esistenzialismo come contro il peccato del secolo. « La Croix » del 3 Giugno parla d'un pericolo « più grave del razionalismo del XVIII secolo e del positivismo del XIX ». E’ notevole che, quasi sem­pre, si rimandi a più tardi la discussione di fondo. Le critiche assu­mono la forza di avvertimenti ai fedeli, e l'opera di Sartre è desi­gnata come un veleno da cui bisogna guardarsi piuttosto che una filosofia da discutere; la si condanna in base alle sue conseguenze orribili più che per la sua falsità intrinseca. E' una questione d'urgenza, e la cosa più urgente è stabilire un cordone sanitario. Non è certo una prova di forza, nelle dottrine consolidate, rifiutarsi alla discussione. Se è vero che molti giovani accolgono con favore la nuova filosofia, per convincerli ci vuol altro che le critiche astiose che ignorano deliberatamente il problema posto dall'opera di Sartre» (22).
Il cattolico Mercier osserva come nella filosofia di Sartre non ci sia più posto per lo Spirito e come, in luogo del bene e della virtù (identi­ficazioni dell'essere), Sartre proponga la libertà come il nulla del­l'essere (23).
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(21) Cfr. G. Marcel, Homo Viator, Paris, 1944, pp. 248 e 296.
(22) Cfr. M. Merleau-Ponty, Senso e non senso. II Saggiatore, Milano, 1962, p. 95.
(23) Cfr. J. Mercier, Les ver dans le fruit,in Etudes, febbraio 1945, p. 240.




Non meno violento è l'attacco del padre Roger Troisfontaines: « Cos'è un uomo che non ha ancora 40 anni e che frequenta il caffè? Guardatelo, finito su uno sgabello di tela incerata in un posto qualsiasi. Se vive abitualmente in questo luogo pubblico è perché non ha una casa propria, un focolare attorno al quale la sua famiglia potrebbe raccogliersi, dove potrebbe ricevere i suoi cari. Quelli che chiama amici sono dei vaghi compagni e l'amore lo fa con donne di passaggio. Di politica, ah! Egli discute sin troppo ma senza impegnarsi veramente se non per criticare o complottare: impegno sociale, vita civile, mestiere, tutto ciò che sarebbe valido, costruttivo finisce col morire su quella porta a vetri. Non parliamo poi di vita religiosa... né d'amore per la natura... Cosa ne resta in questo am­biente artificiale dove gli stessi prodotti della terra si consumano in piccoli bicchieri in uno stato di fermentazione avanzata?
L'uomo al caffè, tolti tutti gli ormeggi, tagliato fuori da ogni rapporto organico col mondo, gli altri uomini e Dio, il fiume della vita l'ha respinto sulla sponda in solitudine » (24).
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(24) Cfr. R. Troisfontaines, Le Choix de Sartre, Aubier-Montaigne, Paris, 1945, pp. 51-52. Nella seconda edizione del libro (1946) viene riportata una conversazione svoltasi a Bruxelles il 23 ottobre del 1945 tra Sartre e Troisfontaines: Sartre risponde alle accuse che gli erano state rivolte dal sacerdote e filosofo cattolico obiettando innanzi tutto a Troisfontaines di fare del caffè un male in sé e inoltre dicendo: « E' vero che tra­scorro le mie giornate al caffè, e dalla mattina alla sera. Ma voi l'interpretate male, poiché lì io sono ben più « impegnato » che a casa mia. Nella mia camera, ho voglia di distendermi sul letto. Al caffè lavoro: è là che ho com­posto i miei libri (...) Cosa mi attrae al caffè? E' un « milieu d'indifference » dove gli altri esistono senza preoccuparsi di me e senza che io mi occupi di loro. Gli avventori anonimi che si bisticciano con gran clamore al tavolo vicino al mio mi disturbano molto meno che una donna e dei bambini che si mettessero a camminare a passo di lupo per non molestarmi. Il peso di una famiglia mi sarebbe insopportabile. Mentre al caffè gli altri sono là, semplicemente. La porta si apre, una graziosa donna attraversa la sala, si siede, io la seguo con gli occhi poi tomo senza sforzo al mio foglio bianco: è passata come un movimento della mia coscienza; non di più ». E ancora a Troisfontaines che lo accusa di essere contro Dio obietta: « II mondo è evidentemente assurdo e tutto per noi ha fine con la morte. E' perché hanno paura di questa esistenza gratuita, è per assicurarsi una ricompensa nell'al di là che gli uomini hanno inventato un Dio. Ma per noi che guardiamo la vita così com'è, non c'è tempo di occuparsi di queste chimere. Voi vi ingan­nate quando mi accusate di essere contro Dio: come si potrebbe essere contro ciò che non esiste? Sono senza Dio e ne sono fiero ».
Sull'ateismo di Sartre si vedano: G. Monthaye, L'athéisme, le communisme et l'existentialisme, Paris, 1948; L. Stefanini, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Padova, 1952; R. Figurelli, J.-P. Sartre Do ateismo ao antiteismo, Porto Alegre, 1962; J.L. Pintos, El ateismo del ultimo Sartre. Madrid, 1966. Inoltre, per il tentativo di dare un particolare significato al­l'ateismo sartriano: H. Paissac, Le Dieu de Sartre, Paris, 1950 (si invita a riflettere sul fatto che, nonostante il dichiarato e tranquillo ateismo, Dio è per Sartre non ciò che si nega puramente e semplicemente, ma ciò-che si respinge); R. Coffy, Dieu des athées, Marx-Sartre-Camus, Annecy, 1963 (anche se tutta l'opera di Sartre è un rifiuto di Dio, rifiuto motivato soprat­tutto dalla inconciliabilità tra libertà dell'uomo ed esistenza di Dio, il Dio che Sartre respinge è in realtà un Dio come « oggetto infinito » e come« soggetto solitario », cioè il Dio inteso come persona superiore dei deisti, non il Dio inteso come amore e comunione tra le persone).




Le critiche di parte marxista non sono né meno violente, né meno generiche. Le riassume lo stesso Sartre (25): si rimprovera l'esistenzialismo francese di ispirarsi al filosofo tedesco e nazista Heidegger (26), di predicare un quietismo dell'angoscia, di compia­cersi dell'osceno e di mostrare più volentieri la cattiveria e la bas­sezza degli uomini che i loro buoni sentimenti.
Il comunista Henri Lefebvre (Action, n. 40, 8 giugno 1945) tratta Sartre da idealista, da soggettivista, da fabbricante di cannoni contro il marxismo. In una intervista pubblicata da Les Lettres françaises il 24 novembre del '45 ancora il Lefebvre parla dell'esistenzia­lismo come di un « fenomeno di putredine perfettamente in linea con la decomposizione della cultura borghese ». Lo psicologo marxista Pierre Naville accusa, tra l'altro, Sartre di propagandare i vecchi temi del liberalismo (libertà astratta, di­gnità della persona ecc...), di negare la storia sia umana che natura­le, di guardare con fastidio all'universo oggettivo facendone un perenne probabile, di predicare l'attendismo, di non assumere un impegno che abbia valore collettivo (27).
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(25) Cfr. J. P. Sartre, A propos de l'existentialisme: mise au point, arti­colo apparso su Action (n. 17, 29 dicembre 1944) allorché Francis Ponge, che dirigeva il settimanale comunista, offre a Sartre la possibilità di rispon­dere alle accuse che il marxismo ufficiale faceva all'esistenzialismo.
(26) Sartre non mette in questione l'appartenenza di Heidegger al Partito nazional-socialista, tuttavia osserva: A) Heidegger era filosofo molto prima di essere nazista, la sua filosofia non ha nulla a che vedere col nazismo, se ha aderito al Partito di Hitler è stato solo per opportunismo, per mancanza di carattere. Del resto assai spesso gli uomini non sono all'altezza delle loro opere: si può condannare il Contratto Sociale perché Rousseau ha messo all'ospizio i suoi figli? B) Inoltre, che importa di Heidegger se l'esistenziali­smo svolgendo le proprie teorie si accorge di avere dei punti di contatto con questo filosofo? Che l'esistenzialismo si serva talora di tecniche e di metodi di Heidegger per accedere a nuovi problemi non significa, d'altronde, che accetti tutte le sue teorie: Marx non si è forse servito della dialettica he­geliana, si può dire per questo che Il Capitale sia un'opera prussiana? D'altra parte — aggiungeremmo — si è esagerato nel parlare di adesione di Heidegger al nazismo, e, certamente si è attribuita eccessiva importanza alla prolusione L'autoaffermazione dell'Università tedesca pronunciata nel '33 dal filosofo tedesco come rettore d'Università, Heidegger, infatti, rinunciò ben presto al rettorato e finì con l'appartarsi dalla cultura ufficiale del nazismo.
(27) Si veda il dibattito tra P. Naville e J. P. Sartre riportato nel libro di Sartre L'existentialisme est un humanisme (Nagel, Paris, 1946). Il libro è il resoconto di una conferenza svoltasi il 28 ottobre del '45 al Club Maintenant di Parigi. Questa conferenza fece scalpore per diversi motivi: l'ecces­siva affluenza di pubblico che comportò lo svenimento di molte donne, il fatto che, per l'enorme clamore, Sartre faticò molto a farsi intendere, l'impossibilità di dar seguito ad un dibattito dopo l'esposizione di Sartre. La conferenza fu così ripetuta in forma privata, in tale occasione si ebbe il vivace dibattito tra Sartre e Naville riprodotto poi nel volume. I temi trattati con intento di volgarizzazione, sono quelli tradizionali dell'esisten­zialismo: la distinzione tra essenza ed esistenza, la negazione di una natura umana, il tema della libertà e della scelta.




Dopo Naville è la volta dei grandi filosofi marxisti Garaudy e Lukacs, dei giornalisti comunisti J. Kanapa (28), H. Mougin, A. Lentin ecc... Le accuse sono sempre le stesse: idealismo, soggettivismo, solipsismo, immoralismo, irrazionalismo e ideologismo piccolo-bor­ghese, mancanza di storicità e di atteggiamento scientifico ecc...
Persino la Pravda (il 24 gennaio 1947) finisce con l'occuparsi di Sartre e dell'esistenzialismo. In un articolo intitolato « Les Smertiakine de France » (riprodotto ironicamente su Les Temps Modernes, n.20, maggio 1947) del critico sovietico D. Zaslavuski, un violento attacco è condotto contro « gli stracotti nauseabondi e putridi che la propaganda borghese cerca di far passare per l'ultimo grido e l'espressione più originale della moda filosofica » e si dà questa definizione dell'esistenzialismo: « L'esistenzialismo, roba francese: esistenza, insegna che ogni processo storico è assurdo e fortuito, che ogni morale è menzognera. È la dottrina del vuoto spirituale, per essa non ci sono né possono esserci leggi o norme. Non c'è la storia, ma solo « historification », non c'è morale ma solo « uno stile di vita ». Non ci sono né popoli, né società, ma unicamente l'interesse e il profìtto personale, in virtù del principio: Carpe diem ».
Sartre viene descritto come un moralista sordido e cinico, seguace del filosofo mistico Sören Kierkegaard e del filosofo esisten­zialista Martin Heidegger, un uomo che ha trasformato l'Università di Friburgo in un letamaio fascista secondo le intenzioni delle giovani SS. I suoi libri sono posti all'indice perché godono il favore della borghesia reazionaria francese e del conservatorismo universitario americano: « Jean-Paul Sartre ha quarant'anni. Prima della guerra era professore di filosofìa. La sua opera fondamentale L'Etre et le .Néant conta più di 800 pagine, scritte nello stile della filosofìa universitaria tedesca. Gli stessi ammiratori di Sartre rico noscono che non riescono ad andare in fondo a questo enorme libro farragi- (segue dopo le note)
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(28) J. Kanapa militante comunista e antico allievo di Sartre scriverà polemicamente: l'existentialisme n'est pas un humanisme, Paris, 1947.




-noso. I suoi romanzi sono illeggibili » (29).
Non vogliamo entrare qui nel merito di una vera e propria storia della critica dell'esistenzialismo sartriano. Converrà tuttavia osservare che da quando la critica comincia ad interessarsi di Sartre e almeno sino al '47-'48 si assiste al fenomeno paradossale per cui via via che Sartre acquista popolarità, la maggior parte della critica tende sempre più a denigrarlo e ciò fa, per lo più, senza una lettura attenta dei suoi scritti filosofici, particolarmente di L'Etre et le Néant. Si tenta di liquidare Sartre filosofo sulla base della sola lettura di L'existentialisme est un humanisme, un testo che, nato da una conferenza divulgativa, è certamente tra i più deboli di Sartre, anche se tra i più conosciuti (è questo, d'altra parte, il solo scritto che Sartre abbia in gran parte rinnegato) (30).
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(29) F. Fé, che nel libro Sartre e il comunismo (La Nuova Italia, Firenze, 1970) si occupa di questa accusa, osserva giustamente: « Si noterà che in nessuna edizione L'Etre et le Néant contava "più di 800 pagine", quanto ai romanzi non erano né lunghi, né pesanti, né illeggibili, bastava riferirsi al successo che riscuotevano » (p. 70).
(30) A distanza di tempo M. A. Burnier spiega la fortuna di questo testo con il fatto che consentì a un buon numero di critici di Sartre, che avevano esitato a leggere L'Etre et le Néant, di attaccare Sartre senza eccessiva fatica e con la coscienza tranquilla (M-A- Bumier, Les Existentialistes et la politique, Gallimard, Paris, 1966. p. 31).




La revisione della critica. Sartre e il maggio francese
Già nel '48 è in atto una revisione della critica: cominciano i cattolici, ma solo dopo che sono apparsi i primi contributi scienti­fici sull'opera di Sartre (31).

(31) Cfr. F. Jeanson, Le problème moral et la pensée de Sartre, Editions du Myrte, Paris, 1947. Questo scritto è stato a lungo considerato come il migliore studio per la comprensione di L'Etre et le Néant e degli scritti che vi si riconnettono. Sartre stesso, in una breve prefazione al testo (pp. 13-14), riconosce la validità del metodo seguito dal Jeanson nell'esposizione del suo pensiero. G. Varet, L'ontologie de Sartre, P.U.F., Paris, 1948, II debito che la filosola francese ha verso Sartre — osserva il Varet — consiste nel fatto che L'Etre et le Néant è la prima esposizione di fenomenologia sistematica che sia stata mai fatta in Francia e la migliore introduzione alle opere dei filosofi tedeschi. Il punto di partenza della filosofìa di Sartre è lo sviluppo sistematico della riflessione cartesiana alla luce dell'idea husserliana di in­tenzionalità: il suo tentativo più valido (anche se votato allo scacco) è quello di risolvere il problema dell'Essere ricorrendo alla descrizione feno­menologica (pp. 1-3). Il libro fornisce inoltre una accurata esposizione del maggior testo filosofìco di Sartre.


Henry Duméry nelle pagine introduttive del suo libro Foi et Interrogation, dopo aver osservato che sul piano fìlosofìco non esiste ateismo più virulento di quello sartriano, afferma che « bon gré mal gré », occorre affrontare questa filosofìa per molti aspetti sconcertante ma della quale sono innegabili il vigore, l'influenza e l'ambiguità. D'altra parte, sarebbe disonesto travestire per meglio rifiutarle le tesi sartriane, si tratta invece di accostarsi a Sartre senza partito preso, proprio come ha inteso fare egli stesso dopo aver letto gli scritti di Jeanson, il primo dei critici ad aver valutato positivamente le opere di Sartre. In conclusione il Duméry, pur tenendo ben ferma la sua opposizione nei confronti dell'ateismo sartriano si augura di far comprendere, nella parte del suo libro dedicata allo studio del filosofo francese, il valore teoretico delle analisi di Sartre (32).
Con gli anni '50 si viene componendo, nella valutazione del sartrismo, quella scissione tra critica e pubblico del precedente decennio. La conoscenza di Sartre ha ormai varcato i confini nazio­nali dando vita ad una fioritura di studi sui vari aspetti della sua opera. Anche la critica marxista muta completamente d'orizzonte dopo l'avvicinamento di Sartre al P.C.F. e all'U.R.S.S. (33).
Nel 1960 Sartre pubblica La Critique de la raison dialectique, frutto di una riflessione iniziata negli anni '50. I primi giudizi sono sostanzialmente favorevoli, anche se si sottolinea talora la soluzione di continuità tra quest'opera e « L'Etre et le Néant (34), oppure se ne afferma la continuità per porre l'accento sui medesimi vizi di fondo che sarebbero presenti nelle due opere (35).





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(32) Cfr. H. Duméry, Foi et Interrogation, Téqui, Paris, 1953, p. XIII. L'opera comprende una sezione (La question Sartre, pp. 73-123) che raggruppa scritti su Sartre che vanno dal '47 in poi. H. Duméry filosofo della religione e interprete di Blondel, autore fra l'altro di: Le trois tentations de l'apostolat moderne, Paris, 1948; La philosophie de l'action. Essai sur l'intellectualisme blondélieneen prefazione di M. Blondel, Paris 1948; De la méthode dans les sciences in collaborazione con G. Marcel, J. Lacroix, J. Guitton ecc..., Paris, 1949; La philosophie catholique en France in La Philosophie francaise, Paris, 1950.
(33) Per i rapporti di Sartre con il comunismo, sino al 1970, si rimanda al citato libro di F. Fé.
(34) Così S. Doubrowsky in Nouvelle Revue Française, sett.-ott.-nov. 1961.
(35) Cfr. R. Garaudy, Perspectives de l'homme, P.U.F., Paris 3" ed. 1961 e la nuova edizione accresciuta del 1969. La I edizione dell'opera del Garaudy è del 1959, già poteva, dunque, tener conto di Questione de méthode che costituisce la prefazione di Critique de la raison dialectique. Sorvolando sull'evoluzione del pensiero sartriano (ciò che non necessariamente è indice di frattura tra l'Etre et le Néant e la Critique de la raison dialectique), Garaudy ribadisce nei confronti di Sartre e dell'esistenzialismo l'accusa di irrazionalismo e sostiene la contraddittorietà dell'esistenzialismo sartriano costretto a scegliere tra un atto di fede irrazionale e una integrazione con il marxismo che non potrebbe realizzarsi se non con l'abbandono delle premesse irrazionali dell'esistenzialismo stesso. Il libro contiene anche (pp. 111-114, I ed.) una lettera-risposta di Sartre: in precedenza, infatti, Garaudy gli aveva sottoposto il manoscritto pregandolo di commentarlo. In tale lettera Sartre ribadisce la piena conciliabilità tra esistenzialismo e marxismo secondo quanto aveva già sostenuto in Question de mèthode.





Un violento attacco alle posizioni della « Critique » è portato da Lévy-Strauss nel capitolo conclusivo di La pensée Sauvage (Paris 1962) ed è già preludio alla cosiddetta svolta degli anni Sessanta in cui si comincia a parlare di crisi del sartrismo nonostante l'attribuzione, peraltro rifiutata, del premio Nobel a Sartre nel '64 (36).
La polemica che la « nuova » cultura francese conduce nei confronti del sartrismo incalza e l'interesse per Sartre decresce a misura che si afferma l'interesse per lo strutturalismo (Lévy-Strauss, Foucault), per la psicanalisi (Lacan) e soprattutto per il marxismo strutturalistico di Althusser. D'altra parte, proprio agli inizi degli anni Sessanta si viene sviluppando in Francia un attacco contro la filosofìa da parte delle scienze umane. Ciò comporta, non solo una attenuazione d'interesse per il Sartre filosofo (il quale continua ad assegnare alla filosofia il compito di una analisi totalizzante del reale), ma anche per il Sartre marxista del momento che, fermo restando l'oggettivismo materialistico-dialettico del marxismo orto­dosso, quest'ultimo appare sempre meno interessato al tentativo sartriano di « soggettivizzare » il marxismo e, per contro, sempre più sollecitato ad utilizzare epistemologia e scienze umane, privi­legiando — di contro al soggetto e alla prassi storica — il concetto di struttura. Ma la stessa realtà francese si appresta a ridimensionare il marxismo strutturalistico con l'esplosione rivoluzionaria del maggio del '68. Come è stato giustamente osservato, né « dai rapporti di produzione assunti solo come ambito oggettivo di relazioni » né « dalla negazione della temporalizzazione sembra possibile giungere alla spiegazione di un evento la cui dinamica è risultata sostanzial­mente fondata sopra la interiorizzazione del futuro » (37).
Althusserismo e strutturalismo — benché quest'ultimo si pro­ponga soltanto come una metodologia delle scienze umane — ap­paiono inadeguati come discorso complessivo a reggere il confronto con la nuova Weltanschauung che il maggio, come affermazione dialettica della lotta di classe, imprevedibile secondo una pura analisi strutturale, è in grado di offrire. In questo senso taluni han­no parlato della rivoluzione di maggio come di una rivoluzione sartriana.
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(36) Sulla questione relativa al rifiuto del premio Nobel da parte di Sartre si vedano di M. Contat-M. Rybalka, op. cit., le pp. 401408. Cfr. inoltre: R. Jean, Non récupérable, ou Sartre prix Nobel, in « Cahiers du Sud », nov.-dic., 1964.
(37) Cfr. P.A. Rovatti, Sartre e il marxismo strutturalistico, in Aut Aut n. 136-137, luglio-ottobre 1973.





Ciò che, forse, non è nelle intenzioni e nelle dichiarazioni degli studenti (38), ma se si può parlare di una « filosofia » del maggio, questa — si è osservato — è la filosofia di Sartre; per spiegare l'esplosione rivoluzionaria del maggio non c'è bisogno di ricorrere a Marx o a Marcuse, una filosofia (quella di Sartre) che lo strutturalismo si era affrettato a sotterrare aveva profetizzato il maggio francese otto anni prima (39):
« Sartre ha descritto dap­prima nel suo libro le forme passive, anonime dove gli individui sono alienati — è cioè che egli chiama il « pratico inerte » — poi egli ha mostrato come un gruppo introduce la negazione della storia e si forgia da se stesso invece di essere forgiato, s'inventa in rottura con questa società passiva ed anonima, che un sociologo americano chiamava nelle medesime circostanze « la folla solitaria », Gli studenti che hanno fatto scoppiare la rivoluzione della primavera del '68 erano formati, se non a questa seconda filosofia sartriana, almeno a un pensiero dialettico della storia. Maggio '68, è l’insur­rezione d'una negazione « selvaggia » nella storia. L'incursione della libertà « sartriana », non della libertà dell'individuo isolato, ma la libertà creatrice dei gruppi » (40).
Così, non si tratta tanto di riconoscere a Sartre il merito di moralizzatore della lotta politica rivoluzionaria (41), quanto, senza che si possa parlare di identificazione tra ideologia sartriana e ideologia dei « gruppi », di sottolineare come il pensiero sartriano — in quanto tentativo storicamente (segue dopo le note)
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(38) Cfr. Les animateurs parlent in La Révolte étudiante, Seuil, Parìs, 1968.
(39) Cfr. Epistemon, Ces idées qui ont ébranlé la France, Fayard, Paris, 1968, p. 76.
(40) Ibid. in Le. Monde, 30 novembre 1968.
(41) L'impegno politico di Sartre è — a giudizio di Rossana Rossanda — « una lezione di moralità politica rivoluzionaria. La sola che a un intellet­tuale, nelle condizioni di separatezza e negli anni vissuti da Sartre, fosse consentito di sperimentare e trasmettere. Ogni altra scelta sarebbe ricaduta nell'opportunismo: o quello di chi, con vari alibi, s'è venuto staccando da un rapporto diretto, per disperato che fosse, col movimento operaio, o quello di chi si sente assolto dal pensare e ripensare per avere aderito al partito comunista. Sartre insegna a non contentarsi: la sua intransigenza si esprime nel bisogno inacquietato di verificare volta a volta quale è, dove si trova il fronte di classe, e là collocarsi, insieme libero e solidale. Nel rifiutare dele­ghe o discipline, ma nel cercare uno schieramento, intendere i bisogni e i doveri. Nel rifiutare i tatticismi, ma nel cercare una unità. Nell'intendere insomma il fare politico come una rimessa in questione permanente di sé, saper ricominciare daccapo, ricostruire a ogni passo senza residui un im­pegno. Difficile separare le sue "impasses" e i suoi fallimenti da quelli di tutta la sinistra rivoluzionaria da quarant'anni a questa parte; speranze e sconfitte della rivoluzione occidentale hanno in lui, come in pochi altri, non un testimone o uno storico, ma un punto singolare di precipitazione, sono diventate una vita che tempestosamente le ha precorse e riflesse ». (R. Rossanda, Sartre e la pratica politica, in Aut Aut n. cit., p. 40).




fondato di «soggettivizzare » il marxismo — rappresenti, per entro il materialismo dialettico, l'unica alternativa al marxismo ortodosso, sia in pro­spettiva rivoluzionaria, sia per la critica del potere socialista nelle forme storicamente esistenti.

Sartre negli studi di psicologia
Nell'am­bito della psicologia fenomenologica il pensiero di Sartre ha profondamente influenzato le analisi degli specialisti. Ci riferiamo in particolare agli studi dedicati all'immaginario e all'emozione, nonché alla fortuna di cui tali studi hanno goduto soprattutto nei paesi anglosassoni. Significativo a tale riguardo ci pare il tentativo di Hidé Ishiguro volto a sottolineare i punti di contatto esistenti, per l’analisi dell'immaginazione, tra fenomenologia sartriana e filosofia analitica inglese, vale a dire tra filosofie che dichiarano di usare metodi completamente opposti. L'autore, dopo aver ricordato come l'immaginazione sia stata sempre considerata « il brutto anatroccolo del mondo filosofico », osserva come la situazione sia profondamente mutata: « Eminenti filosofi, in Inghil­terra e in Europa, hanno cercato di mostrare come lo studio filo­sofico dell'immaginazione costituisca una parte importante, e del tutto degna di considerazione, della filosofìa della mente. In effetti, lo studio della immaginazione è uno dei campi in cui i problemi posti dai filosofi di questi due mondi a sé stanti — Europa e Inghilterra — hanno maggiori punti di contatto. La differenza tra l'Imaginaire (1940) di Sartre e le note sulla immaginazione di Wittgenstein in Blue and Brown Books (1934-36), o il capitolo sull’immaginazione nel libro di Ryle Concept of Mind(1949) è senza dubbio minore di quella che esiste fra L'Imaginaire e le opere dei predecessori di Sartre in Francia, o fra l'indagine di Ryle e quella condotta dagli empiristi inglesi che si rifanno a Hume » (42).
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(42) Cfr. H. Ishiguro, L'immaginazione in AA.V.V., Filosofia analitica in-glese, Lerici, Roma, 1967, p. 192.




I punti di contatto tra Ryle (che l'autore definisce il più com­portamentista dei filosofi analitici inglesi) e Sartre possono così riassumersi: l'oggetto d'immaginazione non è un'entità mentale (43), immagini e percezioni non interferiscono tra loro ma si escludono a vicenda (44), « farsi delle immagini » è per Ryle come per Sartre « uno dei molti modi di far fìnta, e far fìnta è uno dei molti modi in cui esercitiamo la nostra immaginazione, che, a sua volta, è un modo in cui facciamo uso delle nostre cognizioni e della nostra in­telligenza » (45); infine la concezione del sapere nell'immaginazione, nel senso che immaginare un oggetto non significa accrescere la conoscenza che se ne ha (46).
Una sostanziale affinità c'è inoltre tra l'osservazione di Wittgenstein » che « vedere come... » è simile all'« avere un’immagine di... » e l'opinione quasi assolutamente identica che si trova in tutta l'opera di Sartre quando esamina in dettaglio ritratti, caricature, mimiche, simboli ed altri fenomeni specifici (47).
Ci riferiamo inoltre al fatto che la psicologia statunitense e la psicologia inglese ed europea hanno fatto largo uso, nella descrizio­ne e nella valutazione di casi clinici, del metodo e degli strumenti forniti dalle analisi teoriche di Sartre. Per tutti basti ricordare l'inglese Ronaid Laing, il più noto in Italia tra gli psichiatri che si richiamano alla fenomenologia, il quale, nel descrivere forme d'ansia quali il « risucchio », l'« implo­sione », la « pietrificazione », o forme di insicurezza nei confronti di se stesso e/o di altri come l'« evasione », l'« elusione », la « col­lusione » ecc…, ricorre con frequenza alle analisi contenute nelle opere di Sartre.
Il « risucchio », in quanto si definisce come una sensazione minacciosa che il soggetto avverte soprattutto nel rapporto con l'altro (anche se dipende dalla perdita del senso della propria auto­nomia e della propria identità), rimanda alle analisi sartriane del « per altri » (48).
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(43) Ibidem, pp. 197 e 206.
(44) Ibidem, p. 200.
(45) Ibidem, p. 201.
(46) Ibidem, pp. 202-203.
(47) Ibidem, p. 222.
(48) Cfr. L'Etra et le Néant, parte III.




L'« implosione », in quanto è una forma d'ansia per la quale la realtà per se stessa si presenta come minacciosa, ricorda il comportamento magico nei confronti del reale del soggetto emo­zionato descritto da Sartre in Esquisse d'une théorie des émotions.
La « pietrificazione », nel duplice senso di « vedere » ed « essere visto » cioè di « trasformare » ed « essere trasformati » in pietra, come pure l'atteggiamento di indifferenza nei confronti dell'altro sono particolari forme d'ansia derivanti dall'esistenza dell'altro come libertà: « il risucchio consiste in questo: se si sente l'altro come un libero agente, si è esposti alla possibilità di sentire se stessi come un oggetto della sua esperienza, e quindi di sentirsi prosciugare la propria soggettività. Si è minacciati dal pericolo di diventare un semplice oggetto del mondo dell'altro, senza più vita propria, senza più un essere proprio. Sotto l'effetto di questa ansia l'atto stesso di sentire l'altro come persona viene vissuto come un atto potenzialmente suicida. Questa esperienza viene brillantemente descritta da Sartre nella terza parte di L'essere e il nulla » (49).
Occorre tuttavia rilevare che mentre in Sartre l'insicurezza ontologica è un fatto originale della condizione umana, in Laing è piuttosto l'atteggiamento cui si lascia andare l'individuo schizoide: « Nessuno, più dell'individuo schizoide, si sente vulnerabile ed esposto allo sguardo di un'altra persona. Se non prova un acuto imbarazzo, una "consapevolezza" di essere guardato dagli altri, vuol dire soltanto che ha temporaneamente evitato il manifestarsi dell'ansia, e ciò con due possibili modi: o ha trasformato in og­getto l'altra persona, spersonalizzando quindi i suoi sentimenti nei suoi confronti, o ha assunto un'aria indifferente » (50). E ancora: « essere un oggetto agli occhi di qualcuno non rappresenta, per la persona "normale", un pericolo spaventoso. Ma per l'individuo schizoide ogni paio di occhi di un suo simile significa una testa di Medusa, dotata del potere effettivo di uccidere e spegnere quel po' di vita che è in lui. Egli cerca perciò di prevenire la sua pie­trificazione pietrificando gli altri, e gli pare, così facendo, di poter raggiungere una certa sicurezza » (51). Va detto tuttavia che lo stesso Laing, in definitiva, sembra piut­tosto restio a parlare di persone « normali » in contrapposizione a persone <> e le sue stesse esperienze cliniche vanno nel senso di mettere in crisi, anche sotto questo profilo, le tesi classiche della psichiatria (52).
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(49) Cfr. R.D. Laing, L'io diviso, Einaudi, Torino, 1969, p. 56.
(50) Ibidem, p. 87.
(51) Ibidem, pp. 87-88.
(52) E' nota la collaborazione tra Ronaid Laing e David Cooper, autore quest'ultimo, tra l'altro, di Psychiatry and Anti-Psychiatry, Tavistock, Lon­dra, 1967.



L'influenza di Sartre è inoltre visibile nella descrizione che Laing fa della condizione schizofrenica, sia dal punto di vista del paziente, sia dal punto di vista del mondo nel quale il paziente vive: « Ma se una persona non agisce nella realtà, ma solo nella fantasia, diviene essa stessa irreale. Il "mondo" affettivo di questa persona si immiserisce e si dissecca; la "realtà" del mondo fisico e delle altre persone cessa di essere usata come palestra per l'esercizio creativo dell'immaginazione, e perciò perde sempre più il suo stesso significato. La fantasia, non essendo né immersa in qualche misura nella realtà, né ricevendo iniezioni di "realtà" che possano arricchirla, si svuota e si volati­lizza sempre più. E l'io, la cui relazione con la realtà è già tenue, perde sempre più il suo carattere reale e ne acquista uno sempre più fantastico, occupato com'è sempre di più in rapporti fantastici con i suoi fantasmi (immagini) » (53).
Come pure la spiegazione che il Laing da del fenomeno allucinatorio, in quanto questo consiste nella confusione che interviene a livello del rapporto io-non io, rivela chiaramente la matrice sartriana. Così Laing descrive l'esperienza di una allucinata: « Insieme con la tendenza a percepire aspetti del suo essere come dei non-lei, si aveva un'incapacità di discriminare fra ciò che « oggettivamente » era lei o non-lei. Questo è semplicemente l'altro aspetto della man­canza di una frontiera ontologica generale. Per esempio la paziente poteva credere che le gocce di pioggia che le cadevano sul viso fossero le sue lacrime » (54).
La ricerca degli influssi sartriani nella psichiatria di Laing po­trebbe continuare a lungo: ci limitiamo a riportare ciò che lo stesso Laing riferisce esplicitamente come contributo di Sartre o ciò che sottintende chiaramente il discorso sartriano. Per il comportamento elusivo, che è una manovra del soggetto, mediante simulazione, tendente a modificare la propria posizione originaria verso se stessi e/o gli altri e le cose (55), Laing richiama come esemplificativi due comportamenti di malafede descritti da Sartre in L'Etre et le Néant: il cameriere che gioca ad essere cameriere e la ragazza che seduta al caffè con un uomo discute con lui della teoria platonica dell'amore e che improvvisamente si sente prendere una mano dal suo interlocutore (56).
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(53) R. Laing, op. cit., pp. 97-98.
(54) Ibidem, p. 222.
(55) Cfr. R.D. Laing, L'io e gli altri. Sansoni, Firenze, 1969, p. 44.
(56) Cfr. J.P. Sartre, L'essere e il nulla, II Saggiatore, Milano, 1964, p. 100 e 95-96 e R.D. Laing, L'io e gli altri, pp. 42-46.



Per il comportamento collusivo, che è una manovra interpersonale « in cui ciascuno gioca volontariamente al gioco altrui, magari senza rendersene completamente conto » (57), Laing si richiama alla situazione descritta da Sartre nella pièce Huis Clos. Infine, per la relazione amorosa che, in un certo senso, è la comunicazione più completa tra l'io e l'altro, Laing può scrivere sulla scia di Sartre: « Nessuna teoria dei rapporti fra uomo e donna, per esempio, può consentire che si trascuri il fatto che ciascuno non cerca nell'altro solo un oggetto dal quale possa ottenere gra­tificazione, ma anche una persona da gratificare, che l'uomo e la donna ricercano nell'altro, in una relazione amorosa, non solo un mero oggetto grazie al quale possano raggiungere, più o meno sin­ceramente, lo stato di tumescenza e detumescenza, ma una esperienza unitaria, fisicamente intima ed eccitante, dalla quale ciascuno possa trarre la consapevolezza non solo di possedere il mondo intero attraverso il possesso dell'altro, ma anche quella di costituire, se pure per pochi istanti, il mondo intero per l'altro » (58).
Laing utilizza poi questa analisi per mostrare come la mag­gior parte dei soggetti si sforzi « di occupare il primo posto, se non l'unico posto di rilievo, nello schema del mondo di almeno un'altra persona » (59) sino agli eccessi del paranoide, per il quale non si tratta più di vivere nel proprio mondo ma « per proiezione magica, nel mondo degli altri » (60).
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(57) Cfr. R.D. Laing, L'io e gli altri, p. 126.
(58) Ibidem, p. 159 (Cfr. J.P. Sartre, L'essere e il nulla,trad.it., p. 453).
(59) Ibidem.
(60) Ibidem, p. 160.

Cinema: The Orphanage, Novembre 2008

Buona la scelta delle locations: Llanes, nelle Asturie e soprattutto Partarríu Mansion, la vecchia magione utilizzata come orfanotrofio. Non grande, come sottolinea il giovane regista Juan Antonio Bayona, al suo primo lungometraggio, ma col pregio d’avere differenti facciate che suggeriscono l’idea del mutamento, utile a dare all’azione ritmo e dinamismo. Accorgimenti che tuttavia non aiutano a far salire di tono il film, indeciso tra realismo magico e horror.
The Orphanage ricorda certamente il film di un altro regista spagnolo, Alejandro Amenábar, ma nel confronto e senza voler parlare di plagio vero e proprio, è certamente perdente. Così, per esempio, la malattia e la luce hanno anche qui un ruolo fondamentale come in The Others, ma in una prospettiva differente. Il male fisico di cui il piccolo Simon soffre sin dalla nascita è reale, così come il male psichico di sua madre Laura, che ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio. La malattia di cui soffrono Anne e Nicholas è reale solo in quanto è parte della loro stessa condizione, e il disagio di Grace, loro madre, è più che altro una mancanza di consapevolezza. Entrambe le protagoniste si battono sino alla fine. Laura, interpretata da un’addolorata Belén Rueda, combatte il male fisico e metafisico con tutte le forze per lasciarsi infine sopraffare da un’improbabile luce perpetua, consolatoria e plebea, se così si può dire. Grace si batte invece per sapere, non senza comprensibili “chiusure” borghesi, ma sempre con l’eleganza della sua grande interprete (Nicole Kidman), e quando scopre infine la verità, accoglie la luce per sé e per i figli come segno della mutata consapevolezza e dell’arricchimento di coscienza. L’accettazione della sorte da parte delle due donne è solo formalmente identica. Laura ripercorre strade consuete, cercando rimedio alla sofferenza nel peccato contro la vita e contro gli insegnamenti religiosi di un’infanzia tormentata dalla quale, tuttavia, il destino le ha concesso di uscire con l’adozione. Paradossalmente, tuttavia, il suo non è gesto disperato ma addirittura di fede: la speranza che la luce del faro, che un tempo illuminava la costa, torni a risplendere per sempre. Grace, al contrario di Laura, non sceglie, si fa consapevole. Come da un’altra dimensione, che l’abilità del regista fa apparire possibile, lancia la sua sfida al mondo degli altri perché l’antica lotta tra luce e tenebre finalmente si ricomponga.
Il soprannaturale e l’onirico, presenti in entrambi i lavori, si concedono tuttavia con modalità differenti. In The Orphanage, ciò che sembra veramente contare è il mondo della veglia e della coscienza diurna. L’apertura finale verso una realtà altra è solo oggetto di fede. In The Others, l’attenzione si sposta su una dimensione molto più ampia della coscienza che include l’esplorazione della notte e delle zone oscure dell’inconscio.
Fallisce il film di Bayona sotto il profilo del realismo magico, di cui va in cerca ispirandosi al lavoro di Amenábar, ma fallisce anche sul piano della collocazione come genere “horror”. L’indulgere in qualche macabra scena, pescando persino nella memoria collettiva tristemente legata ai forni crematori, mascherare il volto di un bambino, vivo o fantasma, certamente malvagio, con ciò che appare come una grossa zucca non serve alla classificazione ambita e che, tuttavia, la maggior parte della critica gli assegna. Più che inquietare, come qualcuno ha scritto, il bimbo mascherato fa pensare piuttosto a “Trick or treat”, dolcetto o scherzetto, della tradizione popolare di Halloween e in diversi punti il film rasenta il comico e il grottesco, che è quanto dire la morte sicura del genere “horror”. È una fortuna tuttavia che riesca sempre a riprendersi sino alla soluzione finale, non si sa se più ispirata alla banalità, al fideismo o alla pietà di maniera di una “mater dolorosa” che ben si avvale delle sembianze e della valida interpretazione della spagnola Belén Rueda. In proposito, una nota positiva, pur con qualche riserva: gli attori sono scelti con rara abilità, persino troppa, ciò che rischia di rendere spesso ancora più prevedibili le loro azioni.