lunedì 21 dicembre 2009

IL GIOCO DELL'ANGELO di CARLOS RUIZ ZAFON






 Leggendo Il gioco dell’angelo (EL JUEGO DEL ÁNGEL, 2008) ho avuto l’impressione, almeno per circa una buona metà delle oltre 600 pagine, che l’abilità narrativa di Carlos Ruiz Zafón fosse venuta maturando rispetto al romanzo di sette anni prima, L’ombra del vento (LA SOMBRA DEL VIENTO) che pure gli era valso un ampio consenso di critica e di pubblico, con la vendita di più di 8 milioni di copie.

 Mi è sembrato che il “guazzabuglio” di successo, come ho definito il romanzo del 2001, avesse lasciato il posto ad un lavoro più maturo e raffinato, senza la velleità di ricreare l’atmosfera dei grandi classici della letteratura e mescolare tra loro alla rinfusa una pluralità di generi letterari.

 La ricostruzione della Barcellona anni ’20 funziona abbastanza, come pure appare convincente il dialogo interiore del giovane scrittore David Martin, lacerato e diviso da una duplice esigenza: quella della propria sopravvivenza che lo induce a scrivere sotto pseudonimo libelli per la serie intitolata “La città dei maledetti” di un piccolo editore senza scrupoli, e l’altra, cui aspira con tutte le sue forze, di scrivere finalmente un libro degno di questo nome. Probabile effetto di questa personale scissione della mente e dell’anima è la malattia mortale che lo colpisce e che lo porterebbe alla tomba senza l’intervento dell’ “angelo”, alias l’editore Andreas Corelli che, in cambio di una grossa somma di denaro e della guarigione, gli propone di scrivere un libro in grado di proporsi come il testo sacro di una nuova religione.

 Di quale religione si tratti, Zafón non dice, non tanto per permettere al lettore di liberare la propria fantasia, quanto perché questa cosiddetta nuova religione in realtà c’è già nota sin dai tempi biblici. E cosa se ne fa il diavolo di un testo sacro, visto che le pagine sulle quali egli scrive più volentieri sono quelle del mondo? Una volta almeno stipulava contratti di eterna giovinezza e successo in cambio dell’anima, mentre ora pare si accontenti di un libro…

 L’eterno “patto col diavolo” (come si sa il diavolo è un angelo decaduto) è comunque trattato abilmente da Zafón in una prospettiva seducente e singolare. Ciò che alimenta un clima di suspense e induce a proseguire nella lettura del romanzo. Come pure, la descrizione della spettrale “casa della torre”, in cui Martin finisce col ritirarsi, è gestita con abilità narrativa ancorché né nuova né originale per questo genere letterario.

 Poi, ad un certo punto, ecco riapparire “il guazzabuglio” nel quale Zafón s’era già mosso in L’ombra del vento, con figure improbabili e stereotipi che fanno “molto rumore per nulla”. Insomma, ancora una volta si ha l’impressione che i personaggi dello scrittore catalano non sappiano vivere di vita propria ma abbiano bisogno del filo doppio del burattinaio per muoversi in un labirinto di situazioni e di intrighi. Tutti, per la verità, con l’eccezione di David Martin e di Isabella, la ragazza che gli fa da assistente, la cui figura è tratteggiata con sufficiente perizia da farla apparire di carne e sangue e non semplice marionetta. Sposata ad un amico di Martin, Isabella concepirà un figlio di nome Daniel Sempere, lo stesso nome, cioè, del protagonista di L’ombra del vento. Bizzarrìa gratuita, introdotta probabilmente per incrementare il “passa parola” sul nuovo romanzo, giacché non esiste alcun motivo plausibile per la duplice attribuzione dello stesso nome. Esiste invece più di un collegamento nell’intreccio narrativo dei due romanzi, entrambi dalla trama esile e pretestuosa, entrambi zavorrati di improbabili quanto noiose avventure.
sergio magaldi

martedì 8 dicembre 2009

JOEL e ETHAN COEN, A SERIOUS MAN, 2009






 La critica ufficiale di A serious man (L’uomo serio), regia e sceneggiatura dei fratelli Coen, è incline a vedere nel prologo del film – un racconto Yiddish d’altri tempi – uno strumento utile ad introdurre una “storia ebraica”, senza tuttavia attinenza con la successiva narrazione.

 In un villaggio innevato dell’Europa centrale, sul finire dell’Ottocento, una coppia di contadini riceve nella propria dimora la visita di un anziano personaggio che il contadino ha invitato a cena ma che sua moglie ha visto morire di tifo tre anni prima. La donna è convinta che si tratti di un Dybbuk e che la maledizione di Dio (Ha Shem, “Il Nome”, come per lo più è chiamato Dio durante tutto il film) stia per abbattersi sulla loro casa di ebrei devoti.
Il Dybbuk è nella tradizione religiosa degli ebrei, lo spirito di un defunto proveniente dalla Gehenna (l’inferno ebraico) che “ritorna” per “attaccarsi” a un vivente al fine di riscattare dal peccato la propria vita o, secondo una versione parallela, è comunque uno spiritello che cerca d’insinuarsi nella mente dei vivi.

 Non a caso nella Qabbalah la parola Dybbuk vale 122 (somma che si ricava addizionando il valore numerico delle singole lettere dell’alfabeto ebraico che compongono la parola: Daleth 4+Yud 10+Beth 2+Waw 6+Qof 100 = 122) e per Ghematria (parole o frasi con lo stesso valore numerico) si associa tra l’altro a Egel Ha Zahav, “vitello d’oro” e a Koach Ha Medameh, “potenza dell’immaginazione”.

 Il prologo termina senza che il dilemma sia sciolto, lasciando libero lo spettatore di credere alle parole dell’ospite, che invoca un’interpretazione razionale della fede, dichiarando di essere guarito dal tifo, oppure a quelle della donna che continua a ritenerlo un Dybbuk e reagisce impulsivamente, spinta da motivazioni irrazionali.

 L’utilità del prologo, nell’economia del film, si rivelerà allo spettatore solo alla fine, col concludersi delle vicende di Larry Gopnik (interpretato da un ottimo Michael StuhlBarg), novello Giobbe “americano” del Minnesota.

 Siamo nel 1967 e sulle spalle di Larry, uomo serio e timorato di Dio, si abbatte tutta una serie di iatture (la moglie lo tradisce con un amico di famiglia e chiede il “divorzio rituale”, il figlio si droga, il fratello è arrestato per gioco d’azzardo e adescamento da sodomia, lettere anonime per denigrare la sua reputazione giungono all’Università dove insegna Fisica, uno studente coreano tenta di corromperlo, perde la casa, è oppresso da debiti non imputabili a lui, ha un incidente automobilistico ecc…) che non si giustificano sul piano della fede razionale, giacché, proprio come il Giobbe biblico della terra di Uz, egli di nulla si è reso colpevole di fronte a Dio.

 Nel disperato tentativo di “uscire dall’angolo”, Larry si rivolge ai rabbini della Comunità. Il primo, il più giovane, gli consiglia di provare a vedere le cose da una prospettiva diversa rispetto a come le ha sempre viste. D’altronde, Ha Shem lo aiuterà se lui si aiuterà! Il secondo gli racconta la storiella di un dentista che sui denti di un paziente lesse la parola “aiutami”. Il terzo, il rabbino Marshak, che è il più anziano ed è considerato il più saggio di tutti, si rifiuta d’incontrarlo.

 La morale che se ne trae è che religione e fede non sono in grado di dare consigli su questioni di coscienza, né di risolvere il mistero del perché un uomo serio e timorato di Ha Shem venga così duramente provato. Ciascuno deve trovare in se stesso la risposta. D’altronde, neppure Dio accetta di rispondere al Giobbe biblico: “Chi sei tu? – gli chiede il Signore (Giobbe, 38, 2ss.) – Perché rendi oscure le mie decisioni con ragionamenti da ignorante? Rispondi tu piuttosto alle mie domande: Dov’eri quando gettavo le fondamenta della Terra? […]”

 Il senso delle numerose domande che Ha Shem rivolge a Giobbe è duplice. Per un verso, Dio rimprovera Giobbe di pretendere una risposta, mentre non è in grado né sembra preoccuparsi di rispondere ad una qualsiasi delle tante domande che Lui gli rivolge. Per altro verso, Dio sembra voler dire a Giobbe: Tu che hai sotto gli occhi la sapienza e la grandezza delle mie opere, perché hai smesso d’aver fiducia in me?

 Il merito dei fratelli Coen è di aver dato al proprio racconto, nonostante la serietà dell’argomento, una struttura leggera e arricchita di gags che, in piena comicità Yiddish, inducono lo spettatore a sorridere quasi di continuo. Ciascun personaggio è al posto giusto: Judith (Sari Lennick) moglie di Larry, aggressiva donna americana fine anni Sessanta e al tempo stesso madre ebrea che si commuove al Bar Mitzvah del figlio, e ancora: il vicino di casa razzista o la vicina provocante, per non parlare dei tre rabbini o di altri personaggi della comunità ebraica.

 Restano alla fine del film, esattamente come nel prologo, almeno tre interrogativi: “Può la fede preservarci dalle sventure o, almeno, è in grado di soccorrerci?” E ancora: “L’approccio alla fede cancella il ruolo della ragione?” E infine: “Quando l’irrazionale bussa alla nostra porta, siamo in grado di riceverlo e d’intrattenerci con lui?”.

 Come per Giobbe, anche per Larry tutto infine si ricompone e sembra risolversi passabilmente. Il “Giobbe americano”, tuttavia, reso edotto dall’esperienza, è propenso a riconsiderare in modo originale (è l’ultima sottolineatura ironica dei fratelli Coen) la nota massima di senso comune dell’aiutati che Dio ti aiuta… mentre, proprio nell’ultima inquadratura del film, il cielo si fa nero all’orizzonte e si annuncia un uragano.

sergio magaldi

martedì 1 dicembre 2009

Quentin Tarantino, BASTARDI SENZA GLORIA, 2009,








 Inglourious Basterds, “Bastardi senza gloria” – che Tarantino fa uscire (2009) con titolo sgrammaticato per differenziarlo dal film di Enzo G. Castellari: “Quel maledetto treno blindato” del 1977 (sugli schermi americani apparso col titolo di Inglorious Bastards) – è una favola ben congegnata sugli eventi più drammatici della seconda guerra mondiale. Non a caso, inizia con la didascalia classica “C’era una volta…” e si conclude con un finale a sorpresa, in apparenza moraleggiante, etico in realtà.

 L’azione si svolge nella campagna vicina a Parigi. Siamo nel 1941, in piena occupazione nazista della Francia. Il colonnello delle SS, Hans Landa, noto col nome di “cacciatore di ebrei” – stupendamente interpretato dal poco conosciuto attore austriaco Christoph Waltz (Premio per la migliore interpretazione maschile all’ultimo Festival di Cannes) – si reca con un manipolo di soldati nella fattoria di un contadino e delle sue figlie. Come si è osservato da più parti, la location è da western, lo sono gli oggetti, il volto del contadino, l’abbigliamento delle figlie e la musica che accompagna le immagini.

 La scena del colloquio-interrogatorio del contadino da parte del colonnello delle SS è un piccolo capolavoro. La scelta delle parole giuste è importante, come pure quella della lingua, e alla fine il “cacciatore di ebrei” verrà a sapere dove si nascondono da diverso tempo i Dreyfus. Unica della famiglia, Shosanna (Mélanie Laurent), che ha 18-19 anni, riesce a fuggire e a mettersi in salvo. La ritroviamo tre anni dopo a Parigi, proprietaria di un cinema e con false generalità ariane. Neppure l’aguzzino nazista può riconoscerla. L’ha vista di spalle nella fuga, ha fatto per colpirla con la pistola ma poi ha desistito. Eppure lo spettatore ha come l’impressione, nel colloquio (mirabile e “addolcito” con la panna) che tre anni dopo si svolge tra il colonnello delle SS e la ragazza, che il diabolico “cacciatore” sospetti qualcosa. E inoltre, l’ufficiale nazista non ha sparato perché la ragazza era già fuori della sua mira o perché il suo inconscio sapeva in anticipo che Shosanna un giorno gli sarebbe tornata utile? Interrogativi, paradossi forse, lasciati allo spettatore e che ognuno risolverà a modo suo, fermo restando la bravura di Tarantino e di Christoph Waltz nel suscitare il dilemma.

 Il destino del colonnello Hans Landa e di Shosanna s’incrocia con quello dei cosiddetti bastardi, soldati ebrei americani, catapultati in Francia e guidati dal tenente Aldo Raine, interpretato da un Brad Pitt che taluno in questo film vede come “strepitoso” (Lorenzo Macello, XL Repubblica) talaltro giudica nella “peggiore performance della sua vita”(Peter Bradshaw, The Guardian). Personalmente, trovo esagerate entrambe le valutazioni. E’ un fatto, tuttavia, che il noto attore non sempre si trovi a proprio agio e sarà magari anche a causa della stupenda interpretazione di Christoph Waltz.

 I “bastards” hanno il compito di dare la caccia e uccidere il maggior numero di nazisti. Il tenente Aldo Raine, che vanta antenati pellirosse, chiede ad ognuno dei suoi uomini almeno cento scalpi nazisti. E qui naturalmente la favola si tinge di colori e di immagini che tanto piacciono a Tarantino e al suo pubblico più affezionato, con la visione di crani fatti a pezzi da una mazza da baseball e di scalpi recisi tra sangue e materia cerebrale.

 La vendetta personale di Shosanna e quella del Bene (i “bastardi”) contro il Male (i nazisti) si fondono, inconsapevole l’una degli altri e viceversa, nella cosiddetta operazione Kino. Nel cinema di Shosanna si svolge la prima del film Orgoglio della Nazione che celebra “l’eroismo” di un soldato tedesco capace da solo di uccidere centinaia e centinaia di nemici. Alla rappresentazione saranno presenti, “come in un cesto di mele marce”, oltre a Göbbels, Göring e Bormann ed altri capi nazisti, un goffo e grottesco Adolf Hitler, dal regale mantello bianco e spesso ripreso accanto ad un mappamondo che ricorda quello di Chaplin nel Grande dittatore.

 Il finale della favola smaschera l’illusione dei protagonisti, benché ciascuno di loro raggiunga a caro prezzo (più alto o più basso come sempre avviene nella vita) il fine prefisso: Shosanna immagina di veder bruciare i capi nazisti con la certezza che la “vendetta degli ebrei” si è infine consumata, i “bastardi” ritengono di aver cagionato la caduta del nazismo e la fine della guerra grazie all’esplosivo introdotto nel cinema, il colonnello Hans Landa s’illude che sia stato il ruolo da lui avuto nella vicenda a fargli ottenere un salvacondotto, la cittadinanza americana e una ricca proprietà ove celarsi. Ciò che, tuttavia, non gli evita anche di ricevere, da parte del tenente Aldo, impresso sulla fronte in modo indelebile, il simbolo stesso del Male in nome del quale ha massacrato migliaia di ebrei.

 Il film, proprio come una favola, ha diverse morali. La prima, la propone lo stesso Tarantino: “In un film tutto è possibile, anche far finire una guerra di colpo e di colpo togliere di mezzo i grandi criminali al potere; il cinema ha questa grande forza, far riflettere su come un solo gesto, una sola persona, potrebbero cambiare la storia”

Al “negativo”, questa verità ne contiene implicitamente un’altra e cioè che non sono le masse a fare la storia, ma – come Hegel sostiene – i cosiddetti individui cosmico-storici con la loro stretta cerchia di collaboratori, i quali, tutti insieme – e questo lo aggiungo io – si rivelano spesso e purtroppo come altrettante “cricche di potere”.

 Un’altra morale, che poi caratterizza ogni favola che si rispetti, è che alla lunga il Bene trionfi sul Male. Dalla quale massima tuttavia discende un corollario che non si trova nelle fiabe: il Male non è mai sconfitto definitivamente, si cela e riappare in mille forme, senza contare che persino i suoi vecchi interpreti possono farla franca se, come nel caso degli ufficiali nazisti, del Male smettono semplicemente la divisa. Così – sembra la logica spietata di Tarantino – occorre marcarli in modo indelebile. Esattamente come farà la ormai celebre Lisbeth Salander dei romanzi di Stieg Larsson, incidendo sulla carne del suo stupratore il solo nome che gli convenga. Certo, questo è il linguaggio della vendetta che nella finzione narrativa e cinematografica, oltre a solleticare il nostro istinto e le nostre passioni, ha anche una funzione catartica. Usato nella realtà, tuttavia, questo linguaggio ci lascia sgomenti!

sergio magaldi