martedì 1 dicembre 2009

Quentin Tarantino, BASTARDI SENZA GLORIA, 2009,








 Inglourious Basterds, “Bastardi senza gloria” – che Tarantino fa uscire (2009) con titolo sgrammaticato per differenziarlo dal film di Enzo G. Castellari: “Quel maledetto treno blindato” del 1977 (sugli schermi americani apparso col titolo di Inglorious Bastards) – è una favola ben congegnata sugli eventi più drammatici della seconda guerra mondiale. Non a caso, inizia con la didascalia classica “C’era una volta…” e si conclude con un finale a sorpresa, in apparenza moraleggiante, etico in realtà.

 L’azione si svolge nella campagna vicina a Parigi. Siamo nel 1941, in piena occupazione nazista della Francia. Il colonnello delle SS, Hans Landa, noto col nome di “cacciatore di ebrei” – stupendamente interpretato dal poco conosciuto attore austriaco Christoph Waltz (Premio per la migliore interpretazione maschile all’ultimo Festival di Cannes) – si reca con un manipolo di soldati nella fattoria di un contadino e delle sue figlie. Come si è osservato da più parti, la location è da western, lo sono gli oggetti, il volto del contadino, l’abbigliamento delle figlie e la musica che accompagna le immagini.

 La scena del colloquio-interrogatorio del contadino da parte del colonnello delle SS è un piccolo capolavoro. La scelta delle parole giuste è importante, come pure quella della lingua, e alla fine il “cacciatore di ebrei” verrà a sapere dove si nascondono da diverso tempo i Dreyfus. Unica della famiglia, Shosanna (Mélanie Laurent), che ha 18-19 anni, riesce a fuggire e a mettersi in salvo. La ritroviamo tre anni dopo a Parigi, proprietaria di un cinema e con false generalità ariane. Neppure l’aguzzino nazista può riconoscerla. L’ha vista di spalle nella fuga, ha fatto per colpirla con la pistola ma poi ha desistito. Eppure lo spettatore ha come l’impressione, nel colloquio (mirabile e “addolcito” con la panna) che tre anni dopo si svolge tra il colonnello delle SS e la ragazza, che il diabolico “cacciatore” sospetti qualcosa. E inoltre, l’ufficiale nazista non ha sparato perché la ragazza era già fuori della sua mira o perché il suo inconscio sapeva in anticipo che Shosanna un giorno gli sarebbe tornata utile? Interrogativi, paradossi forse, lasciati allo spettatore e che ognuno risolverà a modo suo, fermo restando la bravura di Tarantino e di Christoph Waltz nel suscitare il dilemma.

 Il destino del colonnello Hans Landa e di Shosanna s’incrocia con quello dei cosiddetti bastardi, soldati ebrei americani, catapultati in Francia e guidati dal tenente Aldo Raine, interpretato da un Brad Pitt che taluno in questo film vede come “strepitoso” (Lorenzo Macello, XL Repubblica) talaltro giudica nella “peggiore performance della sua vita”(Peter Bradshaw, The Guardian). Personalmente, trovo esagerate entrambe le valutazioni. E’ un fatto, tuttavia, che il noto attore non sempre si trovi a proprio agio e sarà magari anche a causa della stupenda interpretazione di Christoph Waltz.

 I “bastards” hanno il compito di dare la caccia e uccidere il maggior numero di nazisti. Il tenente Aldo Raine, che vanta antenati pellirosse, chiede ad ognuno dei suoi uomini almeno cento scalpi nazisti. E qui naturalmente la favola si tinge di colori e di immagini che tanto piacciono a Tarantino e al suo pubblico più affezionato, con la visione di crani fatti a pezzi da una mazza da baseball e di scalpi recisi tra sangue e materia cerebrale.

 La vendetta personale di Shosanna e quella del Bene (i “bastardi”) contro il Male (i nazisti) si fondono, inconsapevole l’una degli altri e viceversa, nella cosiddetta operazione Kino. Nel cinema di Shosanna si svolge la prima del film Orgoglio della Nazione che celebra “l’eroismo” di un soldato tedesco capace da solo di uccidere centinaia e centinaia di nemici. Alla rappresentazione saranno presenti, “come in un cesto di mele marce”, oltre a Göbbels, Göring e Bormann ed altri capi nazisti, un goffo e grottesco Adolf Hitler, dal regale mantello bianco e spesso ripreso accanto ad un mappamondo che ricorda quello di Chaplin nel Grande dittatore.

 Il finale della favola smaschera l’illusione dei protagonisti, benché ciascuno di loro raggiunga a caro prezzo (più alto o più basso come sempre avviene nella vita) il fine prefisso: Shosanna immagina di veder bruciare i capi nazisti con la certezza che la “vendetta degli ebrei” si è infine consumata, i “bastardi” ritengono di aver cagionato la caduta del nazismo e la fine della guerra grazie all’esplosivo introdotto nel cinema, il colonnello Hans Landa s’illude che sia stato il ruolo da lui avuto nella vicenda a fargli ottenere un salvacondotto, la cittadinanza americana e una ricca proprietà ove celarsi. Ciò che, tuttavia, non gli evita anche di ricevere, da parte del tenente Aldo, impresso sulla fronte in modo indelebile, il simbolo stesso del Male in nome del quale ha massacrato migliaia di ebrei.

 Il film, proprio come una favola, ha diverse morali. La prima, la propone lo stesso Tarantino: “In un film tutto è possibile, anche far finire una guerra di colpo e di colpo togliere di mezzo i grandi criminali al potere; il cinema ha questa grande forza, far riflettere su come un solo gesto, una sola persona, potrebbero cambiare la storia”

Al “negativo”, questa verità ne contiene implicitamente un’altra e cioè che non sono le masse a fare la storia, ma – come Hegel sostiene – i cosiddetti individui cosmico-storici con la loro stretta cerchia di collaboratori, i quali, tutti insieme – e questo lo aggiungo io – si rivelano spesso e purtroppo come altrettante “cricche di potere”.

 Un’altra morale, che poi caratterizza ogni favola che si rispetti, è che alla lunga il Bene trionfi sul Male. Dalla quale massima tuttavia discende un corollario che non si trova nelle fiabe: il Male non è mai sconfitto definitivamente, si cela e riappare in mille forme, senza contare che persino i suoi vecchi interpreti possono farla franca se, come nel caso degli ufficiali nazisti, del Male smettono semplicemente la divisa. Così – sembra la logica spietata di Tarantino – occorre marcarli in modo indelebile. Esattamente come farà la ormai celebre Lisbeth Salander dei romanzi di Stieg Larsson, incidendo sulla carne del suo stupratore il solo nome che gli convenga. Certo, questo è il linguaggio della vendetta che nella finzione narrativa e cinematografica, oltre a solleticare il nostro istinto e le nostre passioni, ha anche una funzione catartica. Usato nella realtà, tuttavia, questo linguaggio ci lascia sgomenti!

sergio magaldi

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