domenica 27 giugno 2010

ALCHIMIA, UN SAGGIO DI GIOELE MAGALDI


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Gioele Magaldi, ALCHIMIA – un problema storiografico ed ermeneuticoMIMESIS EDIZIONI, Milano 2010, pp.140, 14,00 Euro.


Segnalo questo saggio che ha il merito di proporre tanto agli studiosi della materia, quanto ai “curiosi”, affascinati dall’Arte Reale, un’analisi e una riflessione sul significato stesso di “Alchimia”, al di là delle sempre più frequenti monografie sulla tradizione alchemica, presenti sul mercato editoriale.


In via preliminare – osserva l’autore – dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo quando parliamo di alchimia e il metodo socratico gli appare quanto mai attuale: “A distanza di secoli, la fondamentale domanda che Socrate usava rivolgere a qualsivoglia interlocutore, onde delimitare, chiarire e sottoporre alla comune consapevolezza il senso che costui dava a una parola, a un concetto, spesso irriflessivamente gettato nella discussione, conserva intatto il suo valore metodologico: “Tì estì?”, “Che cos’è?”, “Che cosa intendi dire?”


Un secondo problema appare quello della “delimitazione storiografica” dell’ambito alchemico, giacché “proprio le opere più dichiaratamente ‘alchemiche’ offrono spesso l’imbarazzante spettacolo della sconfessione reciproca da parte dei sedicenti cultori dell’arte”, mentre talora sono i generi letterari più diversi a fornirci le “chiavi” giuste per penetrarne i segreti.


La storiografia procede così nel definire “vero alchimista” sia colui che anticipa le operazioni e le conquiste della chimica, sia chi possedendo strumenti, procedure e metodologie della scienza strutturale della materia, spinge la propria ricerca sempre più avanti senza tuttavia discostarsi dall’ordine naturale e dalle sue leggi. In tal senso, dunque, l’alchimia (spagiria o archimica) è vista ad un tempo come antesignana della chimica moderna (per lo più dal chimico “illuminato”) o addirittura come suo coronamento, nel senso della completezza e della perfezione (dall’alchimista altrettanto illuminato).


Una simile impostazione ermeneutica ha come presupposto e/o conseguenza che l’alchimia occidentale finisca col descrivere le proprie operazioni utilizzando il linguaggio della ricerca di laboratorio: “atanor”, “forno”, “fuoco”, “alambicco”, “materia prima” “calcinazione” etc… e che taluni prendano alla lettera tali termini, andando in cerca dell’oro materiale e tralasciando l’oro filosofico, divisi anche tra loro sia nel rinvenimento della materia prima, sia nel ricostruire le varie fasi dell’Opera, mentre altri assegnano a quel linguaggio una valenza meramente simbolica, riconducibile ad una impostazione psicologica, terapeutica e/o ermetica dell’alchimia, intesa come “arte di trasfigurazione dell’anima”, ricerca dell’elisir di lunga vita, capacità di trasformare se stessi da pietra grezza in pietra filosofale, dall’oscuro metallo plumbeo della condizione umana all’oro splendente in cui possiamo mutarci, rettificando noi stessi in virtù della scintilla divina che è in noi.


Naturalmente, anche in questa prospettiva, le strade si dividono fra i tanti e diversi interpreti: agli interessati sarà comunque utile seguirle tutte, condotti per mano dall’autore.

venerdì 25 giugno 2010

IL KARMA DI LIPPI E QUELLO DELLA JUVENTUS

Siamo sul 2-1 per la Slovacchia, un filo di speranza ci tiene ancora legati al mondiale, forse basterebbe un pari: uno slovacco va alla rimessa laterale, i centrali italiani (Cannavaro e Chiellini che quest’anno hanno guidato la quart’ultima difesa del Campionato, quella della Juve) si schierano entrambi a ridosso di un avversario che potrebbe ricevere palla (ma Lippi non gli ha “insegnato” che uno dei due dovrebbe restare in area di rigore? Perché non urla dal bordo-campo? Malinconico, sembra riflettere piuttosto sul Karma che inesorabilmente sta per abbattersi su di lui). La palla è lanciata intelligentemente a scavalcare i due centrali, in uno spazio deserto della cosiddetta difesa italiana, dalle retrovie slovacche si lancia come un fulmine un altro slovacco, De Rossi ha un bel vantaggio su di lui ma si lascia raggiungere e scavalcare, Marchetti, il tremulo neo-portiere della nazionale, non è da meno degli altri: corre goffamente incontro al giocatore che lo uccella con un pallone a mezz’altezza. L’Italia è eliminata dal Mondiale, giustamente direi, e un contrito ed umile (!) Lippi esordisce in Conferenza-Stampa, assumendosi ogni responsabilità (a costo zero, visto che il nuovo c.t. della Nazionale è Prandelli, ormai da circa un mese!) – egli dice – “per non aver saputo preparare psicologicamente (?!) i suoi prima di questa importante sfida”. Ammissione che non significa niente, ma che gli serve da scudo per evitare le domande imbarazzanti che, d’altra parte nessuno gli fa (?!), circa le scelte effettuate prima del Mondiale, durante, e ancora in questa partita: riproponendo per la terza volta Pepe al posto di Camoranesi, Gattuso invece di Pirlo, Jaquinta (punta centrale!) al posto di Quagliarella e/o Pazzini. E corre ai ripari nella ripresa esattamente come aveva fatto nelle due precedenti partite, cambiando subito ben tre giocatori, questa volta lasciando fuori Camoranesi che se non altro gli aveva portato fortuna, consentendo all’Italia di agguantare il pareggio sia contro il Paraguay che contro la Nuova Zelanda.

Il Karma di Lippi s’è presentato al momento giusto, anche se l’ineffabile c.t. della nazionale azzurra ci sembra ancora in debito con la fortuna: vincitore di scudetti e di coppe (quando la Juve abbondava di campioni), inaspettatamente e fortunosamente campione del mondo nel 2006, esce ora di scena con la disfatta più grande di tutti i tempi: l’Italia calcistica ultima del proprio girone eliminatorio, il più facile in assoluto. Non ripeterò quanto vengo dicendo dal mese di Aprile e che ho ribadito anche l’altro ieri. Osservo soltanto come la stampa nazionale, calcistica e non, accompagni ora con strepiti e urla il tonfo inevitabile di Lippi, mentre neppure una voce s’era levata in precedenza per chiedere con forza ed autorevolezza a Lippi e alla Federcalcio (ma esiste?!) di reclutare i vari Cassano, Balottelli, Giuseppe Rossi, Perrotta, Totti, Del Piero, Cassani e Cassetti e i tanti altri lasciati a casa inopinatamente e che pure avevano ben meritato nell’ultimo Campionato. Per non parlare dei cosiddetti commentatori, ex-calciatori e giornalisti targati Rai, da un giorno all’altro passati tranquillamente dall’esaltare Lippi come “l’unico autentico fuoriclasse della nazionale italiana di calcio”, a considerarlo il principale artefice della vergogna con cui siamo stati sbattuti, noi campioni del mondo uscenti, fuori dal Mondiale. Con l’eccezione, naturalmente, di qualcuno “più bravo e più sereno degli altri” che nel giorno della disfatta, invece di chiedergli dove crede di aver sbagliato (anche se Lippi avrebbe ripetuto il solito ritornello di non aver saputo preparare i suoi sotto l’aspetto psicologico… ma Lippi è anche psicologo?!), si rivolge a lui amabilmente, chiamandolo “uomo vero”…

In conclusione, non voglio nascondere la mia preoccupazione che il Karma di Lippi finisca per ripercuotersi anche sulla Juve (perpetuando il karma di quest’anno), alla quale – come sempre – i soliti esperti di calcio-mercato attribuiscono una campagna coi fiocchi, ma che al momento ha acquistato, oltre alla coppia Del Neri-Marotta, preferita a Benitez, il già menzionato Pepe (12 milioni di euro!) che anche ieri ha messo in evidenza di che pasta è fatto e il portiere Storari (4,5 milioni), chiamato a sostituire Buffon che resterà fuori almeno 4-5 mesi, ciò che non è una novità ormai da diversi anni… Se incerti sono gli acquisti della Juve, certe sarebbero invece alcune partenze, tra le quali si danno per sicure quelle di Camoranesi e Trezeguet, tra i pochi (infortuni a parte) a non aver demeritato nel disastroso Campionato della Juve di quest’anno.

mercoledì 23 giugno 2010

IL MUSEO DELL'INNOCENZA, romanzo di ORHAN PAMUK, EINAUDI, 2009



 Era l’istante più felice della mia vita, e non me ne rendevo conto. Se l’avessi capito, se allora l’avessi capito, avrei potuto preservare quell’attimo e le cose sarebbero andate diversamente?”, si chiede Kemal proprio all’inizio dell’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, lo scrittore turco, Nobel per la letteratura nel 2006.

 Così posta, la domanda di Kemal è inquietante, perché ci rammenta come una scelta individuale (o anche una “non scelta”, che ne è l’equivalente), valga non solo per l’immediato, ma sia capace di orientare diversamente il futuro di diverse persone, mutando per loro il senso del destino.
L’istante di felicità che Kemal rimpiange è quello che lo unisce, trentenne, a Füsun, una vergine di 18 anni:

 “Era il 26 Maggio 1975, un Lunedì, all’incirca le tre meno un quarto: in quell’istante ebbi la sensazione che ci fossimo liberati da tutti gli opprimenti sensi di colpa, dal peccato, dal castigo e dal pentimento, e che il mondo si fosse sottratto alle leggi della gravità e del tempo. Baciai la spalla di Füsun, sudata per il caldo e il sesso, l’abbracciai dolcemente da dietro e penetrai dentro di lei, mordicchiandole l’orecchio sinistro…

 Quell’istante di felicità è l’inizio di un grande amore: la ragazza si concede ad un uomo più grande di lei in una società, come quella turca della metà degli anni Settanta, dove il tabù della verginità è ancora molto forte anche in chi, educato all’europea, cerca a parole di sminuirne il valore. Il gesto di Füsun, da solo, testimonia del suo amore. E Kemal? Egli non si rende conto: conserva la presenza della ragazza come una “cosa” preziosa da custodire in un luogo prezioso, ma non rinuncia a Sibel, la giovane donna che come lui appartiene alla buona borghesia di Istanbul, la fidanzata che “ha studiato alla Sorbona”.

 Queste sono forse le pagine più belle del libro: da una parte il “viziato” Kemal che poco a poco e quasi senza accorgersene è preso da amore, ma al tempo stesso sembra dare per scontato che Füsun gli resterà a fianco qualsiasi cosa avvenga, dall’altra parte la ragazza che si è concessa senza calcolo e che ama Kemal di un amore fiero e totale che sa attendere…Almeno sino a quando Kemal e Sibel non festeggiano il fidanzamento ufficiale e lei prende parte alla festa con gli altri invitati… Quindi scompare definitivamente, senza una parola e per Kemal sarà inutile cercarla, perché Füsun non si lascia trovare neppure dopo aver saputo della rottura del fidanzamento dell’amante che è stato anche il suo primo amore.

 Le pagine del romanzo, a questo punto, quasi ci fanno toccare con mano l’angoscia di Kemal in cerca di Füsun e comprendere come questa grande passione, che l’assenza ingigantisce anche di più, finisca per volgersi quasi in ossessione, in una sorta di feticismo che appare a Kemal il solo rimedio contro il mal d’amore: egli inizia a raccogliere gli oggetti appartenuti a Füsun o che la ricordano…tutto ciò che un giorno sarà esposto nel Museo dell’innocenza… e la raccolta continua anche quando in apparenza sono mutate le condizioni, giacché Kemal sembra sapere in cuor suo che è della ragazza di allora che egli custodisce la memoria, non tanto della Füsun disincantata e frustrata al punto, forse, di non sapere più né amare, né vivere…
Domande inquietanti affollano poco a poco la mente del lettore: è possibile rinunciare ad amare per orgoglio o per un momento di debolezza della persona amata? Quanto è grande l’amore di Füsun che non esita a scomparire perché si sente offesa e delusa? Quanto è “circoscritto” il suo amore che sembra esaurirsi tutto nel “dono di sé”? E che mente anche a se stessa proclamando un’improbabile “fedeltà del corpo”, quando l’amante le chiede solo la “fedeltà dello spirito”? Ma Füsun ha mai compreso veramente l’amore di Kemal? E Kemal vuole davvero ritrovare la ragazza prima che l’amore si trasformi in sofferenza? Ed entrambi non cercano forse in una relazione sado-maso il senso stesso del loro amore?

 Romanzo notevole e da leggere sino alla fine, se si ha la pazienza di superare indenni i “lampi di noia” che appaiono nel cielo del lettore al giro di boa delle 300 pagine… circa, sulle 585 di cui si compone la narrazione.

Sergio Magaldi

MONDIALI: LIPPI E LA NAZIONALE, PEPE E LA JUVE

Non ho espresso il mio parere sulla nazionale di calcio alla vigilia dei mondiali, per non unirmi al coro dei tanti neo-detrattori di Lippi e ho voluto attendere il momento dell’esordio. Dopo la partita col Paraguay ho atteso ancora…anche perché quanto pensavo dell’Italia calcistica l’avevo già detto nell’articolo del lontano Giovedì 2 Aprile che i lettori del Blog trovano in archivio.

Tutto è andato come “doveva”: le mancate convocazioni di Cassano, Balotelli, Giuseppe Rossi, Perrotta (ma Gattuso sì!), Totti e Del Piero, i numerosi errori in sede tattica, nell’attribuzione dei ruoli e nella scelta degli interpreti fanno di questa nazionale una squadra grigia che pareggia a stento con il Paraguay dando tuttavia l’impressione di essere in ripresa (dopo le due disastrose amichevoli) e soprattutto che ripete lo stesso risultato addirittura con la Nuova Zelanda grazie ad un rigore inesistente! Pure, l’impegno non è mancato e si ha l’impressione che “gli uomini di Lippi” non siano in condizione di fare di più. Naturalmente ci sono anche gli alibi: l’infortunio di Buffon e di Pirlo. Ma il Buffon di quest’anno è un portiere come un altro e Pirlo non è più il “regista” che tutti c’invidiavano nel 2006.

Lippi ha portato in Sud Africa calciatori già vicini alla pensione e/o che hanno fatto le riserve in campionato oppure che hanno giocato pochissimo per via dei numerosi infortuni. Ha fatto blocco per tutto l’anno con ben 9 giocatori della Juve (ridotti poi a 6) che, tra campionato e coppe ha perso più di 20 partite. Per l’attacco ha attinto dall’Udinese che si è salvata a stento dalla serie B. È vero che Di Natale è il capocannoniere della A con ben 29 goal, ma ha più di 32 anni e in nazionale non ha mai entusiasmato. Il bello tuttavia è che, nelle prime due partite del Mondiale, Di Natale non è stato titolare.

Lippi ha invece lanciato Pepe (Udinese), un giocatore in panchina per buona parte del campionato, e che ha mostrato al Mondiale tanta buona volontà ma scarso profitto, col risultato di indurre la Juve all’ennesimo acquisto sbagliato, per di più per la somma di 12 milioni di euro! Quella stessa Juve che continua imperterrita con gli errori degli ultimi anni e non ha ancora imparato la lezione: si lascia soffiare Benitez dall’Inter con la motivazione che sarebbe costato troppo, per assumere la celebrata coppia della Samp, reduce dal “trionfo” del quarto posto in campionato e che non costa meno, con un allenatore (Del Neri) che ha fallito a Roma, nel Porto e nella seconda volta del Chievo.

Lippi ha portato con sé Pazzini ma gli ha preferito Gilardino che non segna dal mese di Marzo e persino Jaquinta assente dai campi tra Novembre a Maggio. E Pazzini, Lippi ha diviso da Cassano, lasciato tranquillamente a casa, sparigliando una coppia di attaccanti che s’intende a meraviglia e che ha prodotto gioco e goal.

Lippi ha lasciato a casa Balotelli l’unico italiano di colore ed anche il più forte tra gli attaccanti italiani e PROPRIO NEL MONDIALE AFRICANO. Perché? Per la gioia del tifo razzista e/o provinciale che vede come fumo agli occhi il nero italiano e/o l’oriundo in nazionale, dimentico che le maggiori squadre europee si servono addirittura di uno stuolo di “naturalizzati”, inevitabile conseguenza della società globalizzata (e non solo)? Ma qui la responsabilità non è solo di Lippi, almeno nel caso di Balotelli sarebbe dovuta intervenire la Federcalcio (?!). Si tratta di un giocatore valutato non meno di 30-40 milioni di euro, ma a Lippi non andava bene, perché “ lui ha a cuore l’unità del gruppo” o perché “l’unico vero fuoriclasse dell’Italia è lui”, come solo qualche giorno fa continuavano ad affermare i soliti ineffabili commentatori, ex calciatori e/o giornalisti, targati Rai.

L’augurio, comunque, è che l’Italia batta la “fortissima” Slovacchia (si mormora che dovrebbe rientrare nelle file azzurre “un campione straordinario” come Gattuso!) e superi i turni eliminatori. Nelle circostanze attuali sarebbe addirittura un trionfo cedere all’Olanda negli “Ottavi”, evitando di tornare a casa per aver dovuto soccombere, noi campioni del mondo uscenti, alle “potentissime” nazionali del nostro girone: Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia.

Facile ironia a parte, auguro naturalmente agli azzurri di bissare il successo del 2006, senza preoccuparmi che qualcuno mi prenda per pazzo…

mercoledì 16 giugno 2010

Niccolò Ammaniti - CHE LA FESTA COMINCI- Einaudi 2009, pp.328

Un romanzo, questo di Niccolò Ammaniti, che sembra iniziare in “tono minore”, percorrendo le strade consuete della narrativa italiana contemporanea e che invece subito ti trasporta in uno scenario bizzarro, al limite tra realtà e surreale, animato di personaggi prevedibili e tuttavia presentati al limite dell’esasperazione, in un linguaggio niente affatto paludato, nel suo giusto equilibrio tra satira e dissacrazione.

Da una parte Saverio e le Belve di Abaddon, setta satanica di Oriolo Romano, cui il diavolo non riuscirà a rubare l’anima, dall’altra Fabrizio Ciba, noto scrittore, un narciso sempre in cerca di successo e di avventure. In mezzo, una turba di personaggi che interpretano se stessi secondo i canoni etico-estetici richiesti dall’odierna società globalizzata. Tra loro, un parvenu, naturalmente ricchissimo e cafone, che metterà a disposizione dei propri ospiti, per una festa che rappresenti anche un evento straordinario nella vita cittadina e nazionale, la maestosa Villa Ada romana, acquistata da un comune imbelle e poco preoccupato (come sempre) di difendere le bellezze artistiche e naturali del proprio territorio.

In virtù di fattori naturali e/o storicamente determinati, forse anche imputabili a quel tanto o poco di sovrannaturale che penetra nelle vicende umane, il paradiso annunciato dalle cronache mondane, nel quale tutti vorrebbero essere invitati, si trasforma ben presto in un inferno dantesco dove ognuno finisce col trovare quel che cerca veramente e merita, o quasi.

Una favola che in fondo lascia assegnare al lettore lo spazio della realtà e della fantasia.
Un romanzo in più tratti incalzante per chi nella lettura ama il ritmo e rifugge dai
cosiddetti “tempi morti” della narrazione, che qualche volta ti costringono a pensare,
ma più spesso annoiano. Un finale da castigat ridendo mores che tuttavia non dispiace.