martedì 21 dicembre 2010

Narrativa e Qabalah

Innanzi tutto una questione di metodo: occorre distinguere tra romanzi che abbiano preso a riferimento aspetti della Qabalah ed autori le cui opera letteraria manifesti un’evidente ispirazione cabbalistica. Per i primi mi limiterò a ricordare libri come Il Golem di Gustav Meyrink, Il cabalista di Lisbona di Richard Zimler e Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Per i secondi, valga tra tutti, lo scrittore forse il più grande del secolo che ci lasciamo alle spalle: Franz Kafka. Conclusi, infatti, i tentativi della critica di ascrivere il genio di Kafka all’esistenzialismo di Kierkegaard o a quello ateo, fallita l’idea di Lukacs di fare dell’universo kafkiano il simbolo stesso di una realtà dominata dall’alienazione capitalistica, rivelatisi infruttuosi o inadeguati i tentativi di ‘spiegare’ Kafka con la sentenza di Nietzsche sulla ‘morte’ di Dio o attraverso le acute indagini della psicoanalisi freudiana sul carattere melanconico e sul complesso edipico, non resta ormai che ricominciare dalle interpretazioni dell’amico ed editore di Kafka, Max Brod, da Martin Buber e da Gershom Scholem che in una nota a Walter Benjamin osserva che per capire la Qabalah bisognerebbe prima aver letto i libri di Kafka [1]. Con ciò non si vuole dire che i parametri con cui si è spesso utilizzata l’opera di Kafka non siano suggestivi né che Kafka sia un cabbalista, quanto piuttosto sottolineare come, a fronte della molteplicità di interpretazioni, si ritrovi, costante, il suo ebraismo, di cui pur lamentando l’inadeguata formazione[2], egli mai poté fare a meno nella vita come nella letteratura. E fu ebraismo il suo che, forse proprio in difetto di ortodossia, si volse più liberamente verso la Qabalah e il Chassidismo [3]. E’ lo stesso Kafka, del resto, in una lettera a Max Brod, della fine del 1917, a dichiarare che i racconti chassidici sono l’unica cosa ebraica nella quale si senta, indipendentemente dal proprio stato d’animo, subito e sempre come a casa [4]

Accennerò ora brevemente ai romanzi e agli autori sopra citati per soffermarmi più diffusamente sull’opera di Kafka.

La leggenda del Golem

La leggenda del Golem prende spunto dal Salmo 138 [5] e si alimenta di racconti talmudici del III e IV secolo, ma si sviluppa soprattutto nel Medioevo in ambienti chassidici e cabbalistici. Il Golem dei cabbalisti, tuttavia, non è creazione reale, bensì visione estatica provocata dalla sapiente permutazione delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Le 22 lettere dell’alfabeto, infatti, in connessione a Galgal o ruota celeste (che nel Talmud designa la ruota dello zodiaco) formano le 231 Porte della conoscenza, come è scritto nel Sepher Yetzirah(2:4): ‘22 lettere…Le collocò in circolo come un muro con 231 Porte’. Le Porte si conoscono applicando una formula basata sul principio seguente: dato un certo numero di punti (n) in una circonferenza, il numero delle linee (L) che si ricavano connettendo tra loro tutti i punti è L=n (n-1) / 2. Applicando tale formula alle 22 lettere si ha: L= 22x21/2=231. La conoscenza delle 231 Porte pare servisse alla costruzione del Golem. Perché ciò avvenisse erano necessarie 97.240 pronunce di lettere associate alla cinque vocali primarie e alle quattro lettere del Tetragramma.

L’immagine del colosso d’argilla creato dai ‘poteri’ dell’uomo trovò spazio nella fantasia popolare ed ebbe vasto eco soprattutto nella letteratura ebraica e tedesca del XIX secolo. Il romanzo di Gustav Meyrink è del 1915 ed ebbe molta fortuna, conoscendo anche più di una versione cinematografica. Si tratta in realtà di una trama assai complessa e che si svolge quasi interamente nel ghetto di Praga. Se al lettore di oggi riuscirà di varcare il muro del sonno e dei sogni, potrà credere anche lui, come il protagonista del romanzo, di rivivere le vicende di Athanasius Pernath, intagliatore di pietre preziose, e di venire a sapere che ‘la Cabala ha due aspetti, uno magico e uno astratto’ e che non bisogna confonderli, perché se l’aspetto magico contiene l’altro, non è vero il contrario [6], di apprendere da Shemajah Hillel o genio del bene che ‘gli uomini non percorrono alcun sentiero; né quello della vita né quello della morte’ e che ‘essi sono spinti qua e là dal vento come la pula’ [7]. Gli potrà capitare, innocente, di essere sbattuto in carcere, d’innamorarsi di Miriam, figlia di Shemajah Hillel, di sentir parlare del libro Ibbur [8], e magari di essere scambiato per un Golem o di imbattersi lui stesso nel vero Golem [9]

Il cabalista di Lisbona

La finzione letteraria dell’autore (giornalista di professione, newyorchese, e che attualmente vive e lavora in Portogallo) consiste nella ‘solita’ scoperta di un antico manoscritto di certo Berekiah Zarco, un ebreo vissuto a Lisbona all’epoca in cui re Manuel del Portogallo, sulla scia dei sovrani spagnoli Ferdinando il cattolico e Isabella di Castiglia, scaccia gli ebrei dal proprio regno. Qua e là raccontando vicende che mantengono desta l’attenzione del lettore (grazie anche alla ‘complicità’ della trama ‘a giallo’, ultimo ritrovato per avere udienza, pare, presso editori e pubblico), Richard Zimler introduce argomenti e concetti cabbalistici di una certa rilevanza ancorché arcinoti agli addetti ai lavori. Innanzi tutto l’affermazione che i cabbalisti sopportano anche ‘un viaggio all’inferno’ quando si tratta di contribuire ‘a risanare il nostro mondo malato, ma anche ad eseguire qualche riparazione (tiqqun) nei Regni Superiori di Dio’ [10] e inoltre che il vero cabbalista non ricorre mai alla Qabalah pratica per ciò che questa è intrisa di magia [11]. Non mancano riferimenti a Rabbi Aqiva e al suo ‘viaggio’ nel Pardes, al Ma’asè Merkavah della visione mistica, alla Torah e al Bahir, al Ba’al Shem e alle opere di Abulafia e a tanto altro ancora, come la citazione dotta che per la Qabalah ‘il miele ha un sessantesimo della dolcezza della manna, il sogno un sessantesimo della forza profetica, lo Shabbath un sessantesimo della gloria del mondo che verrà’ [12]. Il tutto è, per così dire, ‘a pelo d’acqua’, come si conviene ad una prosa giornalistica e/o romanzesca. Al di là del successo ottenuto, il libro di Zimler si lascia comunque apprezzare per chiarezza e intelligenza narrativa e per la capacità di delineare i personaggi, anche minori. Di notevole effetto, oltre al protagonista, la figura di Abraham, zio di Berekiah e autentica rappresentazione del chassid. Con loro e su tutti, Farid, raro esemplare di devoto dell’Islam e fraterno amico dell’ebreo Berekiah.

La trascendenza in Umberto Eco

C'è nei romanzi di Umberto Eco una divertita incursione nella trascendenza oltre che una competenza, rara in un narratore, di tutta la vasta mappa di cui si compone il mondo del sovrannaturale, sotto il profilo sia religioso che esoterico. Quanto al mistero, egli ha l'abilità di farlo discendere da cielo della metafisica alla terra delle vicende umane creando un clima di suspense avvincente più che in un giallo d'autore.

Così è nel suo primo romanzo In nome della rosa pubblicato nel 1980. Non è mia intenzione narrare la complessa trama che porta a un delitto dopo l'altro in un contesto di vita monacale attorno a preziosi codici e alla febbrile rievocazione di vicende temporali e dispute religiose. Basti osservare che l'Abbazia si rivela ben presto ad Adso e al suo maestro Guglielmo di Baskerville un vero e proprio labirinto dove si pratica la magia rossa e nera e dove misteriosi segni di negromanzia, scoperti alla fine del secondo giorno di permanenza, vengono decifrati dal dotto francescano già verso le tre pomeridiane del terzo giorno.

Il rapporto col trascendente -mediato nel primo romanzo dalla creazione di figure di monaci che a Dio si rapportano con purezza di fede ma anche di monaci che della propria fede fanno scandalo e delitto- dilaga, per così dire, nel secondo romanzo, Il Pendolo di Foucault, pubblicato nel 1988. Il titolo prende spunto dall'esperimento che Léon Foucault effettuò al Panthéon di Parigi nel 1851:

“Io sapevo che la terra stava ruotando, e io con essa, e Saint-Martin-des-Champs e tutta Parigi con me, e insieme ruotavamo sotto il Pendolo che in realtà non cambiava mai la direzione del proprio piano, perché lassù, da dove esso pendeva, e lungo l'infinito prolungamento ideale del filo, in alto verso le più lontane galassie, stava, immobile per l'eternità, il Punto Fermo” [13].

La storia che Umberto Eco narra si delinea da questo punto fermo o En-Sof dei cabbalisti ebrei e seguendo lo schema dell'Albero della vita o Albero delle sephirot, cioé delle 10 forme di energia in cui si manifesta il molteplice a partire da quell'Uno che è insieme Tutto e Nulla. Il romanzo, infatti, si articola in 10 capitoli, tanti quante sono le sephirot.

La tentazione all'ironia verso questa distribuzione di energie, a partire dal punto fermo, in Eco è forte anche se non molto efficace. Si ascolti questo dialogo:

“Ma seguiamo la dialettica dell'Albero. Al sommo, il Motore, Omnia Movens, di cui diremo, che è la Sorgente Creativa. Il Motore comunica la sua energia creativa alle due Ruote Sublimi -la Ruota dell'Intelligenza e la Ruota della Sapienza”

Si, se la macchina è a trazione anteriore

“Il bello dell'albero di Belboth è che sopporta metafisiche alternative. Immagine di un cosmo spirituale con la trazione anteriore, dove il Motore davanti comunica immediatamente i suoi voleri alle Ruote Sublimi, mentre nella versione materialistica è immagine di un cosmo degradato, dove il Movimento viene impresso da un Motore Ultimo alle Due Ruote Infime: dal fondo dell'emanazione cosmica si sprigionano le forze basse della materia”

E con motore a trazione posteriore?”

“Satanico. Coincidenza del Sùpero e dell'Infimo. Dio si identifica con i moti della materia grossolana posteriore. Dio come aspirazione eternamente frustrata alla divinità. Deve dipendere dalla Rottura dei Vasi.”

Non sarà la Rottura della Marmitta?[14]

Nonostante tutto, sembra proprio che, tra i tanti 'saperi' religiosi ed esoterici, Eco abbia voluto privilegiare la tradizione ebraica che, oltre alla dottrina del cosiddetto Tzimtzum, per cui Dio si ritira da un punto dove ha inizio la creazione, fa uso abbondante di permutazioni delle ventidue lettere sacre, vera e propria anticipazione di un calcolatore elettronico chiamato Abulafia (dal nome del grande cabbalista mistico del XIII secolo) dal quale i protagonisti a noi contemporanei apprendono di un Piano o di un complotto che attraversa la storia: la ricerca di un punto fermo sulla Terra, in corrispondenza di quello in alto, del quale farsi padroni per avere il dominio del mondo: “Ma andiamo -dicevo- non cogliete il senso della scoperta? Fissate nell'Ombelico tellurico lo spinotto più potente.. Possedere quella stazione vi dà modo di prevedere piogge e siccità, di scatenare uragani, maremoti, terremoti, di spaccare i continenti, di inabissare le isole (...) di far lievitare le foreste e le montagne...Vi rendete conto? Altro che la bomba atomica, che fa male anche a chi la tira. Tu dalla tua torre di comando telefoni, che so, al presidente degli Stati Uniti e gli dici: entro domani voglio un fantastilione di dollari, oppure l'indipendenza dell'America Latina, o le Hawai o la distruzione delle tue riserve nucleari, altrimenti la falda della California si apre definitivamente e Las Vegas diventa una bisca galleggiante...” [15]

Al Piano per la conquista del punto di potere terrestre prendono parte tutte le sette o gruppi o chiese di sapere esoterico che pure anelano al trascendente, nessuna esclusa: si comincia dai Templari e, dopo la loro distruzione, attraverso un filo rosso che li ripresenta in mutate spoglie, sfrecciano Candomblé e Ubanda, Rosacroce e alchimisti, la steganografia dell'abate Tritemio, Paracelso e Nostradamus, Kundalini e tanto altro per approdare infine alla Massoneria e alla eterna lotta contro i Gesuiti che sono in tutto e contro tutto. Una cavalcata condotta con competenza ed esemplare ironia, nuova rispetto al precedente romanzo del quale semmai si allarga smisuratamente la struttura labirintica. E ‘il labirinto del mondo’ è il titolo del quinto capitolo di un altro romanzo di Umberto Eco: L'isola del giorno prima pubblicato nel 1994 e dove, ancora una volta, il motivo conduttore appare la ricerca del punto fisso.




* Rielaborazione integrale di un testo realizzato dall’autore per i programmi radiofonici della Rai.

[1] Cfr. G. Scholem, W.Benjamin, Die Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt am Main 1975, trad. it. Storia di un’amicizia, Milano 1992, p.194

[2] ‘Anche il giudaismo non mi giovò per salvarmi da Te. Qui uno scampo sarebbe stato possibile, e ancor più si poteva pensare che noi due nel giudaismo ci saremmo ritrovati, o che per noi sarebbe stato un comune punto di partenza. Ma che cos’era il giudaismo insegnato da te! (…) non capivo come Tu con quello zero di giudaismo di cui disponevi, potessi rivolgermi dei rimproveri perché io (non foss’altro che per rispetto della nostra religione, come Tu T’esprimevi) non ci tenessi a sforzarmi di ottenere uno zero analogo. Era proprio il nulla, da quel che potevo vedere, uno scherzo e forse neppure uno scherzo. Quattro volte all’anno Tu Ti recavi al Tempio, là eri più vicino agli indifferenti che a quelli che facevano sul serio (…) Del resto nulla mi distolse veramente dalla mia noia, tutt’al più la Barmizwah che però richiedeva soltanto un ridicolo esercizio mnemonico, non più d’una modesta prova d’esame; e poi, per quel che Ti riguarda, i piccoli avvenimenti di poco conto, per esempio quando Ti chiamavano alla Torah e Tu superavi bene questa prova a mio avviso esclusivamente mondana, oppure quando il Giorno dei Morti restavi nel Tempio (…) Così era nel Tempio, e in casa quasi peggio, tutto si limitava al primo Seder che, sotto l’influsso dei ragazzi che si facevano adulti, divenne poco a poco una commedia con risate convulse. (Perché accettavi quel potere? L’avevi provocato Tu.) Questo dunque era il materiale della fede che mi veniva trasmessa (…) In sostanza la fede che guidava la Tua vita era tutta qui: Tu credevi nella verità indiscussa delle opinioni di una certa classe sociale ebraica, e quindi, essendo convinto che tali opinioni Ti fossero connaturate, credevi in Te stesso. Anche qui c’era un giudaismo in sé sufficiente; per darne il senso ai figli certo era troppo poco (…) Un’ulteriore conferma della Tua concezione dell’ebraismo l’ebbi dal tuo atteggiamento degli ultimi anni, quando T’accorgesti che le questioni ebraiche mi occupavano più di prima. Poiché Tu disapprovi a priori ogni mia occupazione e soprattutto il modo in cui si palesa il mio interesse, anche stavolta avvenne la stessa cosa…’ (Franz Kafka, Lettera al Padre, in F. Kafka, Confessioni e immagini, Mondadori, Milano 1960, trad. it. di Anita Rho, pp.211-215)

[3] G. Scholem, W.Benjamin, op.cit., p.263. Cit. in K.E. Groezinger, Kafka und Kabbala, Frankfurt am Main 1992, trad. it., Kafka e la Cabbalà, Firenze 1993, pp.10-11

[4] Cit. in K.Wagenbach, Franz Kafka. Eine Biographie seiner Jugend 1883-1912, Bern 1958, trad. it. di P.Corazza, Kafka biografia della giovinezza, Einaudi, Torino 1972, p.181

[5]Ti lodo, Signore, mi hai fatto come un prodigio. Lo riconosco: prodigiose sono le tue opere./ Il mio corpo per te non aveva segreti quando tu mi formavi di nascosto e mi ricamavi nel seno della terra./ Non ero ancora nato e già mi vedevi. Nel tuo libro erano scritti i miei giorni, fissati ancor prima di esistere” (Salmo 139:14-16)

[6] Cfr. G. Meyrink, Il Golem e altri racconti, trad.it., Roma 1994, p.154

[7] Ibidem, p.89

[8] ‘Il libro Ibbur apparve dinnanzi a me, con due lettere fiammeggianti: una simboleggiava la Donna archetipo, le cui vene pulsavano a guisa di terremoto, l’altra –a una distanza infinita- l’Ermafrodito assiso sul trono di madreperla, con la corona di legno rosso sul capo.’ (Ibid., p.93)

[9] ‘ E’difficile raccontare qualcosa del Golem (…) Ogni trentatré anni circa succede qualcosa per le nostre strade, qualcosa che non è molto allarmante di per sé, ma che provoca un terrore tanto profondo che non si riesce a darne una spiegazione né una ragione. Ogni volta appare qualcuno –un uomo diverso dagli altri, sbarbato, dalla pelle gialla e i tratti mongolici, vestito con abiti lisi e fuori moda; viene dalla parte della Altschulegasse, attraversa il ghetto camminando in modo strano, come se avesse paura di cadere e, improvvisamente… scompare.’ (Ibid., p.68). Sul Golem cfr. G.G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, trad.it., Einaudi, Torino 1980, cap.V, La rappresentazione del Golem nei suoi rapporti tellurici e magici, pp. 201-257 e inoltre: G. Pilo-S.Fusco, Il simbolismo kabbalistico del Golem, in G. Meyrink, op.cit., pp.7-32; G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999, pp.72-82

[10] Cfr. R. Zimler, Il cabalista di Lisbona, trad. it., Bestsellers Oscar Mondadori, Milano 1999, p.19

[11] Ibidem, p.40

[12] Ibid., p.315

[13] Cfr. U. Eco, Il pendolo di Foucault,Bompiani, Milano, 1988, p.10

[14] Ibid. p.301

[15] Ibid. pp.356-7

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