martedì 11 ottobre 2011

LA PELLE CHE ABITO, film di Pedro Almodovar, 120 minuti, Spagna 2011











 Liberamente ispirato a Migale [“Tarantola”, Einaudi, 2008, pp.146], romanzo noir dello scrittore francese Thierry Jonquet [Parigi 1954-2009], esce questo nuovo film di Pedro Almódovar che intriga lo spettatore tra interrogativi di bioetica, transgenesi e identità sessuale.

Ma genere noir o thriller, bioetica, transgenesi e sesso sono solo un pretesto per raccontare, anzi per dipingere sullo schermo, alla maniera di Almódovar, una vicenda che più che di post-moderno e di “mostri” transgenici, sa di vita, di sangue e di morte, di anima non mutante, di fato e di Erinni, persino di Antico Testamento, con quel titolo: La piel que habito, “La pelle che abito” che molto ricorda il vestito di pelle con cui Dio copre Adamo ed Eva dopo il peccato originale, scacciandoli dal Paradiso.

In un cromatismo che cura persino le tonalità complementari [si noti la schiuma verde, densa di peli di barba, posata sopra un asciugamano rosso direttamente da un affilato rasoio], tra statuette testimoni della creatività della vittima, brani di pelle transgenica che aderiscono perfettamente al corpo senza lasciare traccia, tra murales che la macchina da presa sfuma da lontano per dare la sensazione di geroglifici e che ingrandisce da vicino per mostrare la cifra della sofferenza, tra geometrie, danza, yoga, video sorveglianza e tanto altro, si dipana la storia del chirurgo plastico Robert Ledgard [un sempre eccellente Antonio Banderas].

A differenza di Richard Lafargue, il protagonista del romanzo di Jonquet, Robert Ledgard non gode gratuitamente della sofferenza altrui, ma l’adotta giustificato dal karma [è nato da viscere che generano follia, come dirà l’anziana Marilia, interpretata da Marisa Paredes], dall’alibi della vendetta ma anche da quello della genialità prometeica di chi vuole oltrepassare i limiti dell’umano.

Scosso dal dolore della moglie carbonizzata in un incendio automobilistico, Robert Ledgard lavora in laboratorio alla creazione di una pelle umana, sensibile alle carezze ma insensibile alle bruciature e alle punture degli insetti. Ci riesce dopo dodici anni grazie ad un gene di porco da immettere nell’organismo umano. Qui, è palese l’ironia di Almódovar, che il regista replica più tardi, quando farà dire alla giovane protagonista [interpretata da Elena Anaya, sostituta della brava e bellissima Penelope Cruz che ha dovuto rinunciare alla parte, pare, per motivi di calendario e che, a mio giudizio, meglio di Penelepe si adatta plasticamente nel ruolo di androide femminile] : “Mi chiamo Vera. Vera Cruz”. Battuta di cui, forse, chi non conosce la Spagna non si rende subito conto. Si può dire che quasi ogni pueblo spagnolo si vanti di custodire in una chiesa la “Vera Croce”, la croce sulla quale Cristo fu crocifisso.

La transgenesi, però, non ha nulla di ironico. Ha invece in sé qualcosa di tragico e demoniaco, affascina ma insieme sconcerta. Pone problemi di natura bioetica ma si mostra un’arma potente per combattere le patologie umane. Come ogni arma può essere usata male, necessita di cavie animali – e questa purtroppo non è una novità nella storia della scienza – e con la manipolazione di organismi vegetali [frutta e verdura] è forse in grado di lanciare una sfida contro la fame nel mondo, ma suscita non poche perplessità se dovesse entrare, o fosse già entrata, con i suoi prodotti nella dieta umana.

L’idea che un gene estraneo, inserito in un qualsiasi organismo tramite operazioni d’ingegneria genetica, determini mutazioni definitive e trasmissibili, trova i primi esperimenti a metà degli anni ’70, con Rudolf Jaenish che iniettò con una micropipetta frammenti di DNA di SV40 [Simian Virus 40, presente nelle scimmie e nell’uomo] in un embrione di topo, dimostrando di poter ottenere mammiferi mutanti, ma non ancora transgenici, capaci cioè di trasmettere le mutazioni alla progenie. Esperimento che invece riuscì nel 1982 a R.D. Palmiter e R.I. Brinster che iniettarono il gene della crescita nei topi, con la creazione di topi molto più grandi del normale e con la capacità di trasmettere le mutazioni.

Robert Ledgard ha dunque bisogno di una cavia per sperimentare le ricerche di laboratorio: la trova in Vicente [Jan Cornet], un giovane che ha tentato di stuprare sua figlia, o più precisamente ha tentato di abusare di una giovane che dalla morte di sua madre soffre ed è in cura per disturbi psichici. Quasi a voler attenuare la colpa del giovane, certamente non uno stupratore abituale e forse neppure occasionale, come ci mostrano le sequenze della violenza. Ma il karma inesorabile è in agguato e prepara per tutti, sia pure in diversa misura, la reintegrazione dell’ordine cosmico violato, perché l’offesa contro la Legge che lo garantisce e che può anche essere difforme dalla norma positiva, deve essere vendicata: “Occhio per occhio, dente per dente” [Esodo 21,24], come prescrive il Dio dell’Antico Testamento.

Film assolutamente da non perdere.


sergio magaldi






lunedì 10 ottobre 2011

IL CENSIMENTO DELLA POPOLAZIONE E DELLE ABITAZIONI

Il Censimento ha raggiunto un primo risultato, misurando già nel primo giorno la tradizionale efficienza della burocrazia italiana e la lungimiranza e la sagacia di certi suoi dirigenti.


Nella “Lettera informativa” che accompagna i cosiddetti “Fogli di famiglia”, si raccomanda di non compilare il questionario prima del 9 Ottobre 2011, dal momento che la data di riferimento del Censimento è appunto il 9 Ottobre. Si aggiunge ancora che è possibile, anzi addirittura auspicabile, rispondere via internet. Si ricordano infine le sanzioni a carico dei cittadini inadempienti: artt. 7 e 11 del d.lsg. n.322/1989, e successive modifiche e integrazioni.


Quel che non sono riuscito a trovare nella “Lettera” [ma potrei essermi distratto] è però il termine ultimo per rispondere o rispedire il cartaceo. Tuttavia, da quanto si evince dal foglio informativo, sembrerebbe che tale termine sia fissato al 29 Febbraio 2012, in quanto si fornisce un numero verde, per dirimere ogni difficoltà della compilazione, e si precisa che il servizio è attivo dal 1 Ottobre 2011 al 29 Febbraio 2012, fatti salvi alcuni giorni. Non fidandomi, sono andato in internet, cercando nei siti indipendenti, e ho trovato l’informazione che il termine ultimo è fissato al 20 Novembre 2011. Questa mattina, infine, la radio ha annunciato che c’è tempo sino alla fine dell’anno per compilare, trasmettere o rispedire il questionario.


Che è successo nel primo giorno utile per la compilazione, cioè ieri Domenica 9 Ottobre 2011? Nell’incertezza, molti cittadini devono aver pensato di avere solo 24 ore a disposizione per adempiere al proprio dovere, così si sono precipitati in massa sul sito dell’Istat, con il risultato di mandarlo rapidamente in tilt.


Appena superfluo dire che il termine ultimo per la compilazione e la trasmissione, informatica e/o postale, del questionario, avrebbe dovuto essere scritto e sottolineato in grassetto nella “Lettera informativa” e che norma di prudenza del senso comune, sarebbe stata quella di formulare un calendario per le risposte on line, concepito con riferimento alfabetico al cognome dei cittadini: così, per es., il primo giorno le lettere dalla A alla D, il secondo dalla E alla I e così via, salvo poi ripetere il ciclo sino al termine ultimo di scadenza.

Ma il buonsenso appartiene alla burocrazia?

S.M

domenica 9 ottobre 2011

LE DONNE DEL SESTO PIANO, Film di Philippe Le Guay, 106 minuti, Francia 2011











  

Gradevole e garbato è stato definito questo film, Les femmes du 6ème ètage, per la sua capacità di fare satira sociale con la grazia e la leggerezza, tutt’altro che superficiale, che da sempre caratterizza la commedia francese sullo schermo.

Siamo a Parigi nel 1962, in un momento della storia europea in cui tra le nazioni corrono ancora profonde differenze economiche e sociali. E mentre in Italia si parla di “boom economico”, di relativo benessere in Francia e nella maggior parte delle democrazie, nei paesi iberici, ancora alle prese con la dittatura, la drammatica situazione economica costringe spesso le donne portoghesi e spagnole d’origine contadina a emigrare e mettersi al servizio della borghesia straniera.

Un imponente edificio parigino, concepito secondo la logica classista imperante tra XIX e XX secolo. Nei primi cinque piani vivono famiglie della buona borghesia, mentre nel sesto è relegata la servitù per la quale, nei sottotetti, sono state ricavate tante piccole stanze dove a malapena entra un letto e qualche rara suppellettile. Con un solo bagno in comune, dove non è possibile lavarsi, con servizio igienico alla turca, sempre intasato. La differenza di stato e di classe è già visibile quando dal quinto piano, dove abita la famiglia Joubert, si sale al sesto. La macchina da presa indugia più volte a farci notare le pareti scrostate e il crescente degrado man mano che si sale più in alto. Monolocali li chiameremmo oggi, riadattati e offerti in affitto per lo più a studenti stranieri, e che non a caso continuano a chiamarsi: “Chambres des bonnes”.

Al sesto piano dell’edificio vivono cinque donne spagnole: Concepción [interpretata da un’anziana ormai, ma sempre brava Carmen Maura], sua nipote Maria [Natalia Verbeke], la più giovane e bella, di cui ammireremo il corpo nudo mentre, per gentile concessione della sua signora, si fa una doccia nel bagno padronale, Carmen [Lola Dueñas], Dolores [Berta Ojea] e Teresa [Nuria Sole].

Maria è a servizio presso la famiglia del quinto piano, dei signori Joubert: 1) Jean-Louis [Fabrice Luchini], titolare di un’agenzia di investimenti borsistici, personaggio meticoloso, pignolo e metodico che, prima che dalle grazie di Maria, si lascerà conquistare da un uovo alla coque cotto alla perfezione in 3 minuti e mezzo. Solida la sua appartenenza alla borghesia degli affari, consolidata da tre generazioni, “sempre un signore”, dirà di lui, quando lo vedrà staccarsi dalle consuete abitudini, una delle donne spagnole. 2) La moglie Suzanne [Sandrine Kiberlain], piccola borghesia di provincia, il cui arricchimento rende facile a stancarsi in occupazioni che vanno dal bridge con le amiche alle visite a sarta e parrucchiere oltre che in velleità letterarie. Suzanne sembra aver tratto soprattutto un insegnamento dalla vita, come confessa candidamente alla cameriera: “Quando hai un uomo, devi tenertelo stretto”, sconcertata della risposta di Maria, altrettanto comprensibile dal punto di vista di psicologia sociale: “Se un uomo non mi vuole, peggio per lui!”. 3) I due ragazzi Joubert, con la loro presenza saltuaria, perché per lo più vivono in collegio. Affezionati alla vecchia tata bretone [ma ormai le donne francesi stanno smettendo di andare a servizio…] che li ha cresciuti al posto della madre, troppo “impegnata” per occuparsene, e che ora guardano a Maria con diffidenza e tante pretese.

Quasi superfluo dire che, giudice della “contesa” tra due contrastanti universi di valore, sarà proprio il metodico Jean-Louis, sia pure aiutato dalla forza dirompente dell’amore. “Signore da sempre”, egli è più portato della moglie – quasi una parvenue a comprendere le ragioni degli altri. Suzanne, dal canto suo, vede la rivale in una ricca e intraprendente vedova assistita dal marito e non si accorge che la minaccia per lei viene piuttosto dal sesto piano. Se ne avvede tardi, manifestando i sintomi di una presa di coscienza quando, giocando a carte con le amiche e alludendo alle donne del sesto piano, osserva: “Loro sono vive… noi morte!”.

Gradevole e garbato, certo, ma anche di eccellente fattura, di acute notazioni storiche, psicologiche e sociali, questo film di Philippe Le Guay, che ha anche il pregio di non annoiare mai lo spettatore, di tenere sempre desta la sua attenzione, magari col sorriso sulle labbra di chi vuole solo divertirsi senza pensare ad altro.


Sergio Magaldi