martedì 28 febbraio 2012

IL GOLPE INGLESE. DA MATTEOTTI A MORO: LE PROVE DELLA GUERRA SEGRETA PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO E DELL'ITALIA


                                                       Retro



IL GOLPE INGLESE. DA MATTEOTTI A MORO: LE PROVE DELLA GUERRA SEGRETA PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO E DELL’ITALIA, di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiarelettere, Settembre 2011, pp.355.



   In questo saggio di oltre 350 pagine edito da Chiarelettere, M.J. Cereghino e G.Fasanella, sulla base di documenti conservati negli archivi di Stato britannici di Kew Gardens [Londra] e resi noti solo a partire dal 2007, esaminano le linee di quello che non esitano a definire “Il golpe inglese”, cioè la costante ingerenza dell’Inghilterra nella politica italiana, si può dire sin dai tempi del Risorgimento e dell’unità d’Italia, a quel tempo soprattutto in chiave anti-francese, allorché il capitale “inglese e massone” finanziò la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi.


 I punti salienti dell’egemonia britannica nei confronti del nostro Paese, comprovati da lettere, cablogrammi, informative top secret, sarebbero via via rappresentati: 1) Dal sostegno dato al governo Mussolini, la cui tenuta fu messa in serio pericolo dal delitto Matteotti. 2) Dall’appoggio fornito durante la Resistenza ai gruppi moderati o addirittura filo-fascisti in funzione anticomunista.

                       Dal libro Il golpe inglese

3) Dalla lotta per il controllo del petrolio, senza esclusione di colpi nei confronti dell’Eni e di Enrico Mattei.  4) Dai tentativi, sia pure non del tutto convinti di creare le condizioni di un golpe per arrestare l’avanzata elettorale del Partito comunista italiano [Pci] e infine: 5) Dalle presunte e gravi responsabilità sul “caso Moro”.

                                         Dal libro Il golpe inglese

 In definitiva, più di un secolo di storia italiana [Dall’unità d’Italia al rapimento di Aldo Moro del 16 Marzo del 1978 e al ritrovamento del suo cadavere nella mattina del 9 Maggio] condizionata direttamente o indirettamente dagli inglesi per conservare l’egemonia sul nostro Paese, impedire il “Compromesso storico” tra comunisti e democristiani, sottrarre all’Italia il controllo delle risorse petrolifere disponibili sul pianeta, contrastarne l’aspirazione ad un’autentica autonomia e modernizzazione.


 L’analisi delle fonti archivistiche citate a sostegno e riportate in appendice [p.343], non lascia dubbi sulla serietà degli autori e sulla determinazione con la quale hanno inteso “riscoprire” con metodo e rigore il filo rosso che legherebbe tutte le principali vicende italiane degli ultimi cento anni alla volontà di potenza degli inglesi, naturalmente degli inglesi che ebbero responsabilità di governo. La questione è semmai quella di analizzare tali fonti per comprenderne fino in fondo senso e interpretazioni. È ciò che mi propongo di fare nei prossimi giorni, non senza il timore che dal passato rispunti il fantasma della “perfida Albione”.

Sergio Magaldi

    
  

lunedì 27 febbraio 2012

LA LIBRERIA DEI NUOVI INIZI ovvero far l'amore con un fantasma ti rimette al mondo!



ANJALI  BANERJEE, La libreria dei nuovi inizi, Rizzoli, 2011, pp.342  


Ossessionata [non a caso il titolo originale del libro è Haunting Jasmine] dal pensiero di Robert, il marito americano che l’ha tradita e abbandonata per un’altra donna e che per questo motivo non esita ripetutamente a definire “un delinquente”, Jasmine Mistry, un’indiana trapiantata in America con tutta la famiglia [proprio come l’autrice del libro] si reca da Los Angeles a Shelter Island per sostituire temporaneamente alla guida di una libreria, situata in un edificio vittoriano dall’aria misteriosa, la non più giovane zia Ruma che deve recarsi in India per “questioni di cuore”. Forse un’operazione chirurgica? Solo alla fine del romanzo se ne saprà di più.



 Edizione  Mondolibri, RCS Libri S.p.A, Milano, 2011, pp.338


Inizia così, poco a poco, la lenta “conversione” di Jasmine che da consulente finanziaria o qualcosa di simile deve mutarsi rapidamente in appassionata conduttrice di una “speciale” libreria dove gli scrittori, più o meno famosi e defunti, fanno sentire la loro “presenza”, dove si organizzano amorevoli sedute di adulti e bambini, dove una statua di bronzo di Ganesh, il dio indiano dalla testa di elefante, sembra fatta apposta per spaventare i clienti e per trasmettere loro il senso del mistero.

 Senso che, tuttavia, il lettore avverte pochissimo, per la prosa quasi da “romanzo rosa” di Anjali Banerjee, prevedibile e per di più costellata di “frasi fatte” d’ineffabile spessore [almeno nella traduzione italiana] del tipo: Muoio dalla voglia di una doccia calda e di una tazza di caffè bollente o Mi sento come se mi fosse appena arrivato un pugno in pieno stomaco o Mi mordo il labbro per evitare di cantargliene quattroe via dicendo.

 Neppure il riferimento a Ganesh – che pure nel finale del romanzo sarà chiamato a svolgere il ruolo di deus ex machina – sembra dar corpo ad una narrazione che permane ingenua, infantile e “dolciastra”, più adatta forse ad un racconto per ragazzi o per garbate giovinette d’altri tempi, illuse della vita e dell’amore. Un genere dal quale certamente la scrittrice avrà colto maggiori soddisfazioni. Ganesh, com’è noto, è il dio dalla testa di elefante che, nella tradizione indiana, al suono dell’OM, il mantra sacro, dette origine all’universo descrivendone le forme attraverso la danza. Una raffigurazione di sicuro irrazionale del Principio creativo e che fa sorridere gli occidentali. Di qui la sua forza dirompente di contro ai miti pseudorazionali con cui l’Occidente ha di volta in volta inteso rappresentare le proprie divinità.

 Irrazionale che calza a pennello per questo romanzo: parlare con i grandi spiriti del passato, senza creare le condizioni di un “realismo magico”, sa di superficiale e d’ingenuo e appiattisce l’intera vicenda nella direzione di un esito falsamente tranquillizzante e fabulistico. Ciò che puntualmente accadrà nelle ultime pagine del romanzo, quando tutto tornerà al “posto giusto”: la zia Ruma, la famiglia, la trasgressione razionalizzata, i vivi, i morti e persino la sorella di Jasmine che non vuole più sposare l’amato fidanzato per timore che lui in futuro possa tradirla, ma che alla fine cederà alle pressioni dell’amata sorella che ha ritrovato intatta la fiducia nella vita e nell’amore, dopo essere andata a letto con il fantasma di uno scrittore filantropo e avventuriero che si aggira per la libreria.

 Un libro da leggere, forse, prima di addormentarsi, per chi voglia ritrovare serenità, illusioni e gioia di vivere.


sergio magaldi
        


domenica 26 febbraio 2012

MILAN-JUVE 1-1 MA SAREBBE 2-2, anche se il goal annullato al Milan sembra valere doppio...




MILAN-JUVE 1-1 MA SAREBBE 2-2, anche se il goal annullato al Milan sembra valere doppio.

 Ieri sera a S.Siro, al termine della “sfida scudetto” tra Milan e Juventus, s’è scatenato il putiferio tra i giocatori, dopo che negli spogliatoi i dirigenti delle rispettive squadre, a quel che si è sentito dire, se n’erano dette di tutti i colori. Cos’era successo nel corso del primo tempo? Il guardialinee Romagnoli non ha visto che il pallone colpito dalla testa di Muntari era stato acciuffato da Buffon già dentro la rete . E sarebbe stato il 2-0 per il Milan!

 La polemica tra le due società, per la verità, era iniziata già da diversi giorni, con Conte e Marotta a lamentarsi che alla Juve venissero assegnati raramente calci di rigore a favore [Un solo rigore in 25 partite di campionato, senza contare la Coppa Italia!], nonostante “la mole di lavoro” prodotta nell’area avversaria e le diverse occasioni in cui si sarebbero concretizzate le condizioni per l’assegnazione del tiro dal dischetto. Lo “sfogo” dei dirigenti juventini, tuttavia, era generico e civile, prendendo a riferimento semmai “il governo del pallone” e non certo un’altra squadra, per esempio il Milan al quale, per lo stesso numero di partite, sono stati assegnati penalty da contarsi con entrambe le mani. Qualcuno, forse con la coda di paglia, ha ritenuto di dover intervenire, innescando così un clima come mai si era visto nel recente passato tra le società di Milano e di Torino. Perché, se è auspicabile che le polemiche stiano lontane dai campi di calcio, è di certo riprovevole che una squadra s’intrometta nelle vicende calcistiche di un’altra, soprattutto quando quest’ultima [la Juve]  non può certo dirsi “favorita” dagli arbitri.

 Il goal “sacrosanto” di Muntari non visto dal guardialinee e non assegnato al Milan ha certamente esasperato la polemica in corso tra le due pretendenti allo scudetto. Galliani, il massimo dirigente rossonero, nel secondo tempo ha lasciato vuota la poltrona accanto al patron Silvio Berlusconi [per protesta? Per ira?]. Le reti televisive e informatiche fanno rivedere di continuo il goal “buono” dell’ex-interista del Milan. Commenti e interviste dei giornalisti sportivi tornano di continuo sull’episodio e si può star certi che se ne continuerà a parlare per tutta la settimana e anche oltre. E già immagino il tempo che gli dedicherà domani sera Il processo di Biscardi e in particolare lo sfogo di qualche opinionista di provata fede antijuventina

 Così è passato e passerà sotto il silenzio, o quasi, non solo il pugno sferrato da Mexes contro Borriello, ma soprattutto il validissimo goal di Matri annullato dallo stesso guardialinee che in precedenza non ha visto la palla scagliata da Muntari nella rete della Juve. Insomma il goal annullato al Milan vale di più di quello annullato alla Juventus. Si dice perché sul 2-0 i bianconeri non avrebbero trovato la forza per raggiungere il pareggio. Ipotesi non solo non dimostrabile ma anche poco credibile. Basterà pensare alla rimonta del 3-0 di Napoli.

 Ciò detto, resta il fatto che la Juve è entrata in campo con “vocazione suicida” e che la squadra per tutto il primo tempo sia stata dominata dal Milan. Conte, pur bravissimo, si ostina a non capire: continua a schierare Bonucci centrale difensivo [a volte inguardabile e autore del doppio errore che ha causato il goal di Nocerino]. Responsabile di almeno la metà dei 15 goal incassati complessivamente dalla squadra, che pure ha la difesa meno battuta del Campionato. Non a caso, dal mese di Gennaio, la società ha messo a disposizione dell’allenatore anche Caceres, che sa fare il terzino e insieme l’ala di una volta,  lasciando così il compito di centrale all’impeccabile Barzagli di quest’anno e all’ottimo Chiellini, titolare nel ruolo e attualmente “sacrificato” come tornante. Caceres ha debuttato in Coppa Italia e con i suoi due goal ha permesso alla Juve proprio di battere il Milan nella prima semifinale di Coppia Italia. Come “premio”, da allora non è stato più schierato in campo.

 Conte, pur bravissimo, si ostina a non capire che affidarsi in attacco alla coppia Borriello-Quagliarella, significa perdere “profondità” e rassegnarsi alla sterlità offensiva. Non è un caso che il Borriello di quest’anno non abbia trovato posto nella Roma di Luis Enrique. Quagliarella dal canto suo, oltre a mostrare di continuo la propria fragilità fisica, viene da oltre un anno di inattività. Ha già segnato un paio di goal, è vero [l’ultimo fortunoso col Catania], ma non è certo il cannoniere che serve ad una squadra che lotta per lo scudetto. Si direbbe che l’allenatore della Juve, dopo aver “fatto fuori” Krasic [un calciatore di cui si sentirà parlare presto, purtroppo in un’altra squadra] faccia anche una gran fatica a schierare Matri, sicuramente il miglior centravanti italiano di oggi. Perché?

 Matri ha già segnato 10 goal [12 in realtà, se si calcolano anche quello ingiustamente annullato ieri sera, quando è entrato a poco più di un quarto d’ora dalla fine, e quello ancor più clamoroso annullato in una precedente partita]. La spiegazione è semplice. L’ideale di Conte, in fondo è di avere in squadra 10 terzini che sappiano anche fare goal! Per dirla più elegantemente, egli vuole tutti giocatori di movimento che all’occorrenza sappiano difendere e attaccare. La cosa può anche funzionare e per certo tempo nella Juve ha funzionato. Borriello e Quagliarella ai suoi occhi sanno fare il movimento che lui ha in testa, ma si tratta di un movimento sterile. Alla lunga i calciatori arrivano spompati nell’aria avversaria e il goal diventa sempre più difficile da raggiungere, come sta succedendo ai bianconeri da qualche tempo. Buon per lui che ieri sera alla fine ha capito. Quando comprenderà definitivamente che Matri deve giocare sempre e che la squadra deve muoversi in funzione delle sue finalizzazioni, la Juve non avrà più ostacoli sulla strada della conquista del suo trentesimo scudetto… 


Sergio Magaldi   



domenica 12 febbraio 2012

IL PARADOSSO MONTI


Zenone di Elea [V sec.a.C.] formulò il più celebre
paradosso della Storia, quello di 'Achille e della 
tartaruga':"In una gara di corsa,se il piè veloce 
Achille parte con un leggero svantaggio su una tar-
taruga, non riuscirà mai a raggiungerla".



 In queste ore di celebrazione mediatica del presidente del consiglio Monti, impegnato sul fronte americano, viene da chiedersi quali meriti egli abbia contratto in patria e all’estero per raccogliere un così vasto numero di consensi. Il paradosso Monti consiste proprio nel fatto che più il suo governo “colpisce” la maggior parte degli italiani più aumenta il numero di coloro che lo sostengono. La spiegazione, pur nella sua complessità, è abbastanza semplice. In un precedente articolo [ cfr. in questo stesso blogCorporazioni di tutta Italia unitevi!”], vagheggiavo la formula che uno stato contemporaneo neo-liberista deve adottare per far fronte agli attacchi speculativi di chi detiene e controlla il potere finanziario sul pianeta. Uno stato che al tempo stesso di quel potere voglia assecondare i disegni. Gli obiettivi da perseguire ad ogni costo sono: il pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico. Gli strumenti più idonei a conseguirli sono le tasse e la riduzione di stipendi e pensioni.  Scrivevo allora tra l’altro:

 “Lo Stato contemporaneo ha necessità di tassare i cittadini oltre la decenza? Non lo farà con tutti e allo stesso modo[…] Per prima cosa lo Stato colpirà i poveri [termine che non va confuso con quello in uso nei secoli scorsi, perché si tratta di salariati al limite della sopravvivenza e comunque in grado di essere tassati alla fonte del loro modestissimo reddito], non solo e non tanto perché sono il maggior numero [il che pare, ma non lo è, addirittura un paradosso dal punto di vista della “pericolosità sociale”], quanto perché, di là di qualche lamentazione di facciata, non hanno nei media chi possa difenderli con interesse e credibilità […] Il secondo atto consisterà nel colpire il ceto medio con reddito più o meno accertabile alla fonte […]”.

 A questo punto- osservavo- sarà utile introdurre dei diversivi:

 “Si comincerà col far finta di perseguire anche i ricchi, termine con il quale si designa oggi non solo il detentore di grandi sostanze, più o meno palesi, ma anche i grandi boiardi, i dirigenti di banche ed enti pubblici e privati, nonché i membri delle corporazioni di arti, mestieri, professioni e della politica che, come dicevo sopra, in una Democrazia degenerata in Partitocrazia, è una vera e propria corporazione”.

 È noto a tutti che per una larga parte dei membri delle suddette corporazioni, una buona fetta della ricchezza è assicurata dagli statuti degli Ordini, vecchi di circa un secolo e/o da regole talmente rigide da scoraggiare l’ingresso di nuovi soggetti nel mestiere, nell’arte o nella professione, a meno che non si tratti di figli, parenti e amici di coloro che ne fanno già parte. Questa, d’altra parte, è la regola aurea a difesa di ogni lobby e corporazione.  È noto altresì all’opinione pubblica che un’altra fetta della stessa ricchezza – per molti degli appartenenti alle corporazioni, esistenti di diritto e di fatto in Italia – proviene dall’evasione fiscale e, allorché si parla di politici e di soggetti che abbiano a che fare con la cosa pubblica, dalla corruzione.

 Liberalizzazioni e lotta all’evasione fiscale saranno allora le successive “mosse” dello Stato neo-liberista che voglia al tempo stesso vedere crescere il consenso attorno a sé e proclamarsi “giusto ed equo”, osservavo ancora in quell’articolo. Le corporazioni si solleveranno, aggiungevo, minacciando di paralizzare il Paese e costringendo il governo, in un tacito gioco delle parti, a fare non mini-liberalizzazioni, ma pseudo-liberalizzazioni. E la lotta contro gli evasori si farà spettacolarizzando, con l’invio di squadre di ispettori fiscali a frugare nelle tasche di chi trascorre le vacanze nelle località alla moda o si aggira nelle strade più lussuose delle città a fare shopping, e ancora con la pubblicità televisiva e radiofonica, pagata dai cittadini [sarebbe interessante sapere per quale ammontare di spesa e con quali “ritorni”], con battute “demenziali” o almeno inutili del tipo: “Se le tasse le pagano tutti, le tasse ripagano tutti” o “Esistono vari tipi di parassiti, ma quello peggiore di tutti è il parassita fiscale”.

 Non basta, Lo Stato proclamerà solennemente – scrivevo ancora in quell’articolo – “che d’ora in avanti si procederà con il ‘controllo incrociato’ che non è, come si potrebbe pensare e sarebbe auspicabile, il riscontro tra le fatture rilasciate da professionisti commercianti e artigiani e le relative detrazioni fiscali dei comuni cittadini, ma semplicemente il confronto tra il reddito dichiarato e le spese effettuate da un soggetto fiscale. Insomma il “redditometro” di antica memoria, già sperimentato in passato con i risultati che tutti conoscono…

 Concludevo l’articolo osservando che, assolti tutti i precedenti impegni, il governo dello Stato neo-liberista si sarebbe dedicato infine a liberalizzare il mercato del lavoro, l’unica riforma “liberale” che veramente gli preme e che sostanzialmente si riduce alla possibilità di licenziare, nel pubblico come nel privato.

 Ebbene, se si guarda a quanto è accaduto nei giorni scorsi e sta accadendo in questi, si vedrà che il presidente Monti non ha fatto altro che adottare alla lettera il modello ad uso dello Stato neo-liberista contemporaneo, pseudo-liberalizzazioni comprese. I lettori ricorderanno come nei giorni passati tutte le categorie “liberalizzate” minacciassero scioperi: dai tassisti ai benzinai, dai farmacisti ai notai e agli avvocati ecc… Tassisti a parte [la corporazione più debole], chi si ricorda più delle tante minacce corporative di paralizzare il Paese? Riprenderanno nei prossimi giorni, se il decreto dovesse essere approvato così com’è dai due rami del Parlamento? Ne dubito. È chiaro ormai il principio che ispira questo governo: “colpire i deboli, facendo credere di voler colpire anche i forti”. In fondo nulla di nuovo sotto il sole, anzi no, perché, a differenza del passato, questa volta si proclama la ferma volontà di dividere i sacrifici in eguale misura tra tutte le classi sociali. E c’è chi ci crede o fa finta di crederci, persino il presidente della Repubblica.

 Lo stato neo-liberista non può permetterselo: il suo credo sta proprio nel promuovere le distanze sociali, per incrementare il capitale finanziario, rassicurare una ristretta élite dirigente,  impadronirsi di beni pubblici in svendita e insieme poter disporre di una forza-lavoro più malleabile e a più basso costo. Un po’ come sta avvenendo in tutte le nazioni occidentali. Cos’è l’Europa? Un duopolio franco-tedesco per imporre le proprie leggi agli altri membri. Il demone della “crescita” è talmente presente in questa Weltanschauung che si guarda con invidia alla Cina, alla sua “crescita” annuale in doppia cifra, uno stato sedicente comunista che può vantare la forza-lavoro a più basso costo dell’universo industrializzato. Il progressivo smantellamento del Welfare in Occidente, soprattutto in quello dove predominano classi politiche corrotte, evasione fiscale, debito pubblico elevato e criminalità organizzata, rappresenta la chiave di volta del progetto neo-liberista di dominio del mondo.   

 Non a caso da oltre Oceano Monti ci tiene a far sapere che la riforma del mercato del lavoro in Italia è ormai prossima. Può tutto ciò non garantirgli il plauso di coloro che da sempre gravitano, più o meno da vicino, nell’orbita del potere finanziario? A quale uomo politico italiano, anche se spacciato per tecnico, sarebbe riuscito quanto è riuscito a Monti? La risposta è: “a nessun altro” e questo spiega in nuce la misura del consenso e il perché, “orbitanti” a parte, egli goda, a quel che ne dicono i sondaggi più o meno interessati, del favore della maggioranza degli italiani.

 Il paradosso Monti si basa innanzi tutto sul fatto che, a sostenerlo, è proprio quel ceto medio su cui si è abbattuta maggiormente la scure del governo. Se così non fosse, non si vede come potrebbe raggiungere nei sondaggi una così alta percentuale di consensi. Perché? Proviamo a esaminarne le ragioni, molte delle quali sono, come sempre accade in queste circostanze, di natura sociologica e psichica:

1)Innanzi tutto l’assoluta inefficienza della classe politica tradizionale, la sua trasversale corruzione, la mancanza di un leader carismatico, caduto ormai il falso idolo che piaceva non solo alla “buona” borghesia, ma anche al ceto medio e persino ai poveri, modello del self-made-man, vincente e fortunato in cui rispecchiare il riscatto delle proprie frustrazioni.

2)Il fatto che il ceto medio, aumenti della benzina a parte e poco altro, non abbia ancora “assaporato” sino in fondo tutte le misure varate dal governo e che verranno alla “degustazione” solo nei prossimi mesi, con l’aumento dell’Iva al 23%, la consueta denuncia dei redditi, il pagamento della nuova Ici.

3)La figura stessa di Monti: fisica e morale. Un capo di governo che parla poco, sorride meno, che sembra respirare e muoversi a sangue freddo, un “ragionier robotico” per alcuni, ma per la maggior parte un uomo inattaccabile, al di sopra dei partiti e delle passioni dei comuni mortali, e del quale si dice che goda del favore dei poteri forti, il che non guasta per la psiche dell’uomo medio. Un leader che dà l’impressione si sapersi “intrufolare” tra Merkel e Sarkozy, che in statura sorpassa di una spanna, un uomo asciutto e sobrio che dichiara candidamente di voler insegnare la sobrietà e un nuovo modo di vivere agli italiani, un presidente che va negli U.S.A., parla speditamente l’inglese con Obama, con gli esponenti del potere finanziaro, con i giornalisti e al quale il Time “regala” la copertina con l’esaltante interrogativo: “Può quest’uomo salvare l’Europa?”.

4) Un presidente del consiglio che piace a sinistra, è esaltato al centro e non spiace alla destra. L’unico governante che negli ultimi tempi abbia saputo tranquillizzare gli italiani per via dell’abbattimento di oltre cento punti del “famigerato” spread. Ma sulla questione dello spread e del suo “saliscendi”, visto che proprio Venerdì scorso, a chiusura della settimana borsistica e con Monti in visita a Obama, è risalito in un sol giorno di circa 30 punti, sarà bene andarsi a leggere in rete il pregevole articolo di Sergio Di Cori Modigliani di Mercoledì 8 Febbraio:”Mario Monti al Grande Appuntamento con Barack Obama”.

5) Il mito di Cincinnato, il dittatore che Tito Livio definì “spes unica imperii populi romani”. Di un uomo che, distolto dagli studi e dalle abituali occupazioni, salvata l’Italia, tornerà in gran fretta ad “arare il proprio campicello”.

 L’elenco potrebbe continuare, ma credo che quelli accennati siano motivi sufficienti a spiegare il paradosso Monti.

 Ciò detto, c’è forse un secondo paradosso che giustifica il primo. Per quanto ingrato possa apparire agli occhi dei detrattori del “ragioner robotico” e apprezzabile da parte dei suoi sostenitori. L’Italia, non potrebbe, anche volendo, sfilarsi dal novero degli stati neo-liberisti che in Europa la fanno ormai da padroni. A meno che… a meno che non si verificasse l’ipotesi accennata nel citato articolo di Sergio Di Cori Modigliani. Ipotesi suggestiva, ma quanto mai improbabile, non solo perché proprio a Wall Street pulsa il cuore dell’alta finanza, ma anche perché il presidente Obama, pur con tutte le sue velleità, non ha dato segno sino ad oggi di volere e/o saper gestire una politica economica di segno contrario a quel potere finanziario che fa il bello e il cattivo tempo e che si annida nelle radici stesse del suo Paese.

 Insomma, che lo voglia o no, l’Italia è condannata ad una politica economica neo-liberista. Chi saprebbe gestirla meglio di Monti? Non certo i leaders dei principali partiti politici, tutti assimilabili tra loro quanto a capacità, conoscenza e impotenza dei modi e dei tempi di gestire una crisi decisa a tavolino dai poteri forti. Né certamente i Dini, i Ciampi, i Giuliano Amato se potessero o ne esistessero degli altri. Valga per tutti l’esempio delle cosiddette liberalizzazioni. Per quanto Monti abbia fatto solo pseudo-liberalizzazioni, il parlamento italiano, formato in gran parte da rappresentanti degli ordini professionali, ha già presentato una moltitudine di emendamenti, più di 400 solo di PD e PDL che pure appoggiano il governo, per togliere anche quel pochissimo di liberale contenuto nel decreto. E per quanto ci sia qualche giornalista che stimo, affermare il contrario e cioè che se quegli emendamenti fossero accolti si avrebbe una vera liberalizzazione, resto dell’idea che gli emendamenti approvati sarebbero solo quelli per “togliere” e non per “aggiungere”.

 Dunque, con Mario Monti, piaccia o no, e personalmente mi costa ammetterlo, l’Italia ha scelto “il meglio” con cui allinearsi al volere dei poteri forti che con paziente sagacia hanno tessuto la tela promovendo e favorendo attraverso il controllo dei media, prima la più grande immigrazione di popoli che si sia mai vista in Occidente, poi l’introduzione dell’euro, l’Europa economica a direzione franco-tedesca, il mercato globale, e infine la crisi irreversibile degli stati nazionali con la “cinesizzazione” della classe media. Troppo tardi ormai per tornare indietro. Anche se ci si può provare.


sergio magaldi
   

mercoledì 8 febbraio 2012

"MOTIVAZIONI DI UNA SENTENZA DI ASSOLUZIONE"?





 Alcuni giornalisti sportivi a Radio-Radio si sono chiesti se le motivazioni rese note sulla sentenza di primo grado del processo Moggi siano quelle di una sentenza di assoluzione.

 E invece il Tribunale di Napoli ha condannato Luciano Moggi a 5 anni e 4 mesi di reclusione.

 Ho letto attentamente le 558 pagine a sostegno della condanna e, per la verità, dalle numerose intercettazioni riportate non ho ricavato l’impressione che sia stata messa in campo una frode a vantaggio della Juventus che, come tutti ricorderanno, fu l’unica squadra a pagare veramente a seguito del sommario processo sportivo, con la retrocessione in serie B e ben 17 punti di penalizzazione. Semmai, come osservano i giudici del Tribunale di Napoli, contro Moggi si può parlare di “possibile” tentativo di frode, mentre risulta evidente l’estraneità della squadra da qualsiasi responsabilità. Si legge in proposito alle pagine 548-49:

 “Né può essere trascurato il dato del ridimensionamento della portata dell’accusa che deriva dalla parzialità con la quale sono state vagliate le vicende del campionato 2004/2005, per correre dietro soltanto ai misfatti di Moggi, dei quali sono state accertate modalità, quanto alle frodi sportive, al limite di sussistenza del reato di tentativo, con conseguente ulteriore difficoltà dell’aggancio alla responsabilità del datore di lavoro, fornitore dell’occasione all’azione criminosa.”

 La colpa più grave per l’ex direttore generale della Juventus sembra essere quella di aver distribuito schede telefoniche svizzere, costume che, a quel che si sente dire in giro, caratterizzerebbe la comunicazione in molti ambienti istituzionali e tra le molteplici corporazioni legalmente operanti nel Paese. Si legga, a titolo di esempio, quanto viene scritto per tratteggiare il comportamento di  Paolo Bergamo, codesignatore arbitrale:

 “Né, pur dovendosi rapportare la funzionalità dell’associazione ai reati di frode sportiva costituenti il suo scopo, può essere attribuita una dirompente importanza al fatto che […] in nessuna delle conversazioni telefoniche intercettate Bergamo abbia detto a un arbitro in modo esplicito o meno esplicito ‘vai, arbitra in questo modo, fai vincere questa determinata squadra’, e ciò, pur essendo state, sia l’utenza cellulare che quella fissa al domicilio, sottoposte a intercettazione per un tempo rilevante […] Si tratta, invero, di regola di elementare cautela nella previsione della possibilità di essere intercettati, possibilità la cui consapevolezza è espressa nel contemporaneo uso delle schede straniere […]”

 Più in generale, si vedano le convinzioni [p.84] cui, da ultimo, sembra pervenuto il Tribunale sull’intera vicenda:

  “È convincimento del tribunale che sono sufficienti le parole pronunziate nelle conversazioni intercettate, quali trascritte al dibattimento, nel cumulo con il contatto telefonico ammantato di clandestinità, rappresentato dall’uso vicendevole delle schede straniere, per integrare gli estremi del reato, poiché, trattandosi di reato di tentativo [il grassetto è mio, come quello che segue immediatamente], questo non necessita della conferma, che il dibattimento in verità non ha dato, del procurato effetto di alterazione del risultato del campionato di calcio 2004-2005 a beneficio di questo o di quel contendente […]”

 È vero peraltro che dalle intercettazioni riportate nelle motivazioni delle sentenza emerge un quadro inquietante. Come, per esempio, le discussioni interminabili di Moggi con Biscardi per “influenzare il trattamento” da riservare agli arbitri. In quel periodo, infatti, il “Processo del Lunedì” aveva una speciale rubrica per “premiare o penalizzare” gli arbitri, attraverso una speciale classifica a punti, a seconda del comportamento tenuto in campo. E Moggi si lamenta spesso al telefono con l’ideatore e conduttore del “Processo” per non aver sempre sottratto punti ai direttori di gara “colpevoli” a suo giudizio di aver sfavorito la Juventus. Tuttavia, il lettore ignaro potrebbe chiedersi se questo possa ipotizzare un reato o non piuttosto un gioco tra due adulti rimasti fanciulli.

 Più interessanti, senza dubbio, sono le intercettazioni in cui si discute sulla composizione delle terne arbitrali: lo speciale e complesso meccanismo attraverso cui in quegli anni si sceglieva l’arbitro di una partita di calcio del campionato italiano, sorteggiandolo da una terna formulata dai designatori, Bergamo e Pairetto. Ebbene, è ferma convinzione dei giudici che il sorteggio non sia stato truccato:

 “Che il sorteggio non sia stato truccato[p.90], così come hanno sostenuto le difese, è emerso in maniera sufficientemente chiara al dibattimento.

 Incomprensibilmente il pubblico ministero si è ostinato a domandare ai testi di sfere che si aprivano, di sfere scolorite, e di altri particolari della condizione delle sfere, se il meccanismo del sorteggio, per la partecipazione ad esso di giornalista e notaio, era tale da porre i due designatori, Bergamo e Pairetto, nell’impossibilità di realizzare la frode.”

 Come pure, nelle intercettazioni che hanno per tema la formazione delle griglie non appaiono particolari pressioni, semmai un auspicio che alcuni nomi di arbitri non vi compaiano e soprattutto emerge la volontà di conoscere in anticipo la loro composizione. “Segreti di pulcinella”, in un certo senso, perché la stessa formazione delle griglie era condizionata per norma da diversi fattori che potevano far intuire anticipatamente i nomi dei componenti [pp.96-97].

 Resta il fatto, certamente discutibile e malsano, che i dirigenti sportivi, tutti e non solo Moggi, potessero parlare tranquillamente con arbitri e designatori arbitrali, prima e dopo la disputa delle partite. E l’impressione che se ne trae è che questo fosse un costume antico, nato forse col calcio stesso. Ciò è tanto più “riprovevole” per la Corporazione del Calcio, dove agli arbitri è vietato di parlare pubblicamente dello svolgimento e dell’esito di una gara. È la solita storia: dove tutto è vietato, tutto di fatto è “permesso” .

 E come non vedere nel meccanismo stesso della designazione degli arbitri, quello di allora, e quello di oggi [dove è persino scomparsa la griglia e l’arbitro viene designato direttamente], un possibile motivo di generale malessere, confusione e fraintendimento? Tornare al sorteggio secco e senza griglie per designare gli arbitri [come accadde in un vecchio campionato vinto da una società “ povera” come il Verona], nonché servirsi dell’ausilio della tecnologia [moviola ecc…] è cosa che aiuterebbe molto a semplificare le cose e a renderle più trasparenti. La questione vera è domandarsi perché non si proceda in questa direzione, nell’abbattere un tabù che, per quanto attiene all’uso della tecnologia, non è solo italiano, ma europeo e mondiale. Ci saranno certamente ragioni che il popolo degli amanti del calcio non deve sapere.

 Un reato emerge di sicuro dalle intercettazioni prodotte nel dispositivo della sentenza: la povertà lessicale e culturale degli intercettati, la loro ferma volontà di apparire i più bravi e i più furbi. Ma questo già lo sapevamo, dopo aver ascoltato le tante intercettazioni di politici e affini, in passato divulgate dai media.

sergio magaldi



mercoledì 1 febbraio 2012

CONVIVENZA TRA CRISTIANI E MUSULMANI nel film di Nadine Labaki, E ORA DOVE ANDIAMO?L'eterno conflitto arabo-israeliano.



 Et maintenant, on va où? [E ora dove andiamo ?], film di Nadine Labaki, Francia, Libano, Egitto, Italia, 2011, 110 minuti.

 E ora dove andiamo? È l’interrogativo che alla fine del film gli uomini della comunità cristiano-musulmana di uno sperduto villaggio del Libano rivolgono alle donne. Nel piccolo cimitero, diviso tra un campo cristiano e uno musulmano, posti uno di fronte all’altro, mentre gli uomini sostano nel mezzo recando sulle spalle la bara di un ragazzo ucciso.

 E il film inizia con la bellissima sequenza delle donne che da sole si avvicinano al cimitero per deporre fiori sulle tombe di padri, mariti, figli e fratelli, uccisi dall’odio che, fuori della piccola comunità, si perpetua tra i fedeli delle due religioni, mietendo vite inconsapevoli accecate di fanatismo. Unite dallo stesso dolore e vestite di nero, le donne si distinguono solo per il capo scoperto delle cristiane. Cantano e danzano lievemente battendosi il petto, in tutto simili al coro di una tragedia greca. 

 C’è animo in queste donne che fanno di tutto ad evitare che il vento di guerra che soffia al di fuori si abbatta anche sulla comunità, di cui sono parte integrante e consapevole. E qui la giovane regista sembra quasi divertirsi, anche nell’interpretare la parte di Amale [Nadine Labaki], la vedova cristiana innamorata di Rabih, il muratore musulmano [Julien Farhat ]. È lei al centro di tutti gli espedienti cui le donne del villaggio, aiutate dall’imàm e dal prete, solidali tra loro, ricorrono perché il seme della contesa e dell’odio non si diffonda tra i propri uomini. Compito sapiente con il quale Nadine Labaki, tra dramma e commedia, mostra che solo dalle donne può venire una speranza di pace. E lo fa con le armi dell’iperbole e dell’ironia che finiscono col divertire gli spettatori. Dal sabotaggio dell’unico televisore del villaggio, che reca notizie sui nuovi episodi di sangue tra cristiani e musulmani, alla distruzione dei pochi giornali che arrivano da fuori. Dall'opportunità di ingaggiare, dando fondo ai risparmi, quattro avvenenti ballerine russe [più una quinta che zoppica e che viene data in bonus] per distrarre i maschi dal "giocare" alla guerra, all’idea di far piangere lacrime di sangue alla madonna. 

 Ogni “astuzia” femminile si rivelerà efficace solo momentaneamente. L’uccisione di un ragazzo cristiano del villaggio, fuori della comunità e forse casuale, ma opera di un gruppo di musulmani, farà nuovamente precipitare la situazione. Ma proprio quando si disseppelliscono le armi, ecco intervenire il colpo di scena finale, la “trovata” geniale e salvifica che induce lo spettatore a riflettere sul senso autentico di ogni fede religiosa. 

 Gli uomini, eterni immaturi, non saranno mai capaci di comprendere l’inutilità della guerra. Lo ricordava già Anna Frank nei suoi Racconti dell’alloggio segreto. Questo il messaggio del film che merita di essere visto. Le uniche perplessità che restano, sono: 1) che le donne, purtroppo, non siano tutte come quelle dell’immaginario villaggio del Libano 2) che la guerra, a guardar bene, non sia proprio inutile. È utile, da sempre lo è per le forze occulte e potenti che col pretesto della fede e dell’ideologia spingono l’uomo all’odio e al conflitto, pur di realizzare i propri interessi, per lo più, se non esclusivamente, di natura finanziaria. Ma questa è già un’altra storia.

 Piuttosto, il soggetto del film richiama subito alla mente l’eterno conflitto arabo-israeliano. La situazione, mutatis mutandis, è ancora quella che, nel lontano 1967, in un famoso dossier di circa mille pagine descrisse la rivista Les Temps Modernes di Jean Paul Sartre.  






 Nell’articolo introduttivo che ha per titolo Pour la verité, Sartre chiarisce ai lettori le ragioni del dossier: “[…]Pour que notre public se sente « concerné », il fallait qu’il ait accès aux sources vives, c’est-à-dire qu’on le mette en prise directe sur la violence rigoureuse et passionnée des hommes qui ont créé ce conflit et que le conflit à son tour a créés[…]” [1]

 Poco più avanti, Sartre sottolinea che il dossier non testimonia di un vero dialogo tra arabi e israeliani, ciò che non sarebbe stato possibile perché le parti in causa rifiutano di parlarsi. Ciascun autore, arabo e israeliano, ha esposto le proprie opinioni ai lettori, accettando soltanto che i diversi punti di vista fossero raccolti insieme in un volume. Nient'altro è stato aggiunto dalla redazione della rivista. Ciò non significa - osserva ancora Sartre - essere neutrali. Perché, in questa vicenda, la neutralità non può che venire dall'indifferenza e chiunque osservi veramente - da una parte, la morte lenta dei rifugiati palestinesi, i bambini feriti, denutriti, nati da genitori altrettanto denutriti, con occhi vecchi e incupiti e, dall'altra parte, nei kibbuzim di confine, gli uomini lavorare nei campi sotto una minaccia costante, con i rifugi scavati all'interno delle abitazioni, con i bambini ben nutriti ma con tanta angoscia nel fondo degli occhi - non può restare indifferente e non sentire quasi sulla propria pelle la violenza che si perpetua di fronte a lui.

 Sartre lamentava questa situazione quando erano trascorsi vent'anni dall'origine del conflitto [1947-1967]. Venti anni che a lui sembravano già un'eternità. Oggi, che da allora ne sono trascorsi altri quarantacinque, tutto sembra essere rimasto immutato, persino peggiorato quanto alla cifra della violenza e senza che qualche accenno di dialogo abbia portato grandi frutti.

 Qui, più che altrove, appare evidente che l'odio religioso che s'innesta, insieme a questioni di territorio e tanto altro, tra ebrei e musulmani, è solo uno dei tanti miseri pretesti che i padroni del mondo, quelli che la guerra la decidono e la fanno a tavolino, hanno scelto per perpetuare il conflitto all'infinito.


sergio magaldi
 

[1] Op.cit. p.5:“Perché il nostro pubblico divenisse “consapevole”, bisognava che avesse accesso alle sorgenti vive, cioè che lo si mettesse in contatto diretto con la violenza implacabile e passionale degli uomini che hanno creato questo conflitto e che il conflitto a sua volta ha creato” .