sabato 31 marzo 2012

QUALE FUTURO PER IL CINEMA ITALIANO? "IL PRIMO INCARICO" film di Giorgia Cecere






Il primo incarico, film di Giorgia Cecere, Italia 2010, 90 minuti.


Il primo incarico, opera prima della regista e sceneggiatrice Giorgia Cecere, fu presentato con discreto consenso di pubblico e di critica alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2010. Nel 2011 ha ottenuto il premio New Italian Cinema Festival Città di Firenze e in questi giorni è stato rappresentato contemporaneamente a Londra e a San Pietroburgo, nell’ambito dei festival dedicati al nuovo cinema italiano, e a Roma per la VIII Edizione del Premio Cinema Giovane Italiano, dedicato alle opere prime.

 La trama del film è semplice, nei suoi risvolti quasi scontata. Siamo nell’Italia meridionale all’inizio degli anni Cinquanta, a pochi anni dalla fine della guerra. Nena [Isabella Ragonese, nel film unica attrice professionista] è una ragazza umile che vive con la madre e la sorella piccola e che, con grandi sacrifici ha studiato da privatista, ha fatto il concorso pubblico e ricevuto il suo primo incarico di maestra in un paesino della Puglia a 150 chilometri da dove abita.

 Per prendere possesso dell’aula scolastica, un tugurio per giunta di proprietà privata e con soli sette alunni, Nena deve di necessità separarsi da Francesco, il fidanzato dell’alta borghesia che, a quel che è dato capire, si trova temporaneamente in paese presso parenti ma che si sposta frequentemente in Italia e nel mondo.

 I due naturalmente al momento del distacco si giurano amore eterno. Sembrano sinceri, ma se la sincerità di Nena traspare dalla sua anima, Francesco (Alberto Boll) il suo bellissimo fidanzato, così aristocratico e manierato da sembrare un manichino, l’anima sembra proprio non averla. È vero, nell’unica volta che si reca a trovarla nella sede di lavoro, Francesco la chiede addirittura in sposa ma si ha come l’impressione che la richiesta faccia parte delle cose che il giovane dice o fa per non annoiarsi, come la tesi di laurea che sta preparando sui poeti russi.

 La vita di Nena in una microsocietà, arcaica e primitiva, è scandita solo dalla rustica gentilezza dei rari abitanti, dai suoi sette piccoli alunni, dagli animali che vivono in casa a stretto contatto con le famiglie, dalla noia pressante che accompagna il volgersi delle stagioni, nell’attesa della tarda primavera, quando potrà chiedere il trasferimento e vivere finalmente con l’uomo che ama.

 L’anima di Nena si nutre e sopravvive nell’illusione di un grande amore che l’arrivo della primavera, splendente di luce di gemme e di colori, sembra addirittura ingigantire. Ma il risveglio della natura, che per Nena è anche promessa di felicità, si rivela per lei crudele: Francesco le scrive una lettera e le confessa di essere in viaggio con un'altra donna. La prega di perdonarlo perché la storia vissuta con lei ha ormai ai suoi occhi solo l’apparenza di un sogno…  

 E la ragazza sente all’improvviso il piccolo mondo in cui è costretta a vivere caderle addosso. Solo l’amore le ha permesso di attraversare l’autunno e l’inverno di una realtà senza tempo. Nel nome del fidanzato, che le ha detto di non aver mai conosciuto una ragazza in gamba come lei, ha trovato la forza di vivere come una donna della comunità che la ospita, arrivando persino a soffocare con le proprie mani la vita di una gallina. 

 E la reazione di Nena sarà ora la ricerca disperata di un’emancipazione che gli studi le avevano in parte lasciato assaporare. Con grande scandalo del piccolo villaggio, si offrirà senza amore a Giovanni [Francesco Chiarello], un muratore analfabeta e donnaiolo, giovane di una bellezza selvaggia che, a differenza del fidanzato è vivo, ma che, proprio come Francesco, sembra non avere un’anima.

 Il seguito della vicenda è abbastanza prevedibile e consolatorio, ma non va nel senso che una certa critica ha sostenuto. Vera emancipazione femminile non c’è, semmai dolorosa e poi consapevole accettazione del ruolo tradizionale che una società di maschi, cui sembra mancare l’anima [se ne vedrà più tardi solo un piccolissimo barlume in Giovanni], assegna alle donne. Nel gesto di Nena c’è disperazione e risentimento, che è esattamente il rovescio della medaglia della sottomissione femminile, e il desiderio, pure visibile nel film come segno di emancipazione, non è raccolto dalla macchina da presa come sarebbe stato necessario.

 Cosa propone di nuovo questa opera prima del giovane cinema italiano? Nel modo di “fare cinema” mi sembra perfettamente in linea con il cinema italiano degli ultimi anni: lentezza e mancanza di ritmo [non giustificata né dall’ambientazione né dall’epoca], immagini che anche quando si avvalgono di buona fotografia [o che addirittura, come in questo caso, sembrano dipinte] risultano come distaccate le une dalle altre, sequenze maldestre per rappresentare l’amore e il desiderio, dialoghi improbabili o sin troppo realistici, trama esile e scontata, riproposizione anacronistica e poco riuscita del mito pasoliniano degli attori presi dalla strada.

 Qualche pregio tuttavia il film di Giorgia Cecere lo ha. Nel presentare un genere, l’amore nelle sue diverse sfaccettature: sogno, inganno e realtà, che sa più di rivisitazione del buon cinema passato che di allineamento al cinema italiano di oggi, per lo più basato su pseudocomicità e celebrazione feticistica dei miti del presente. La fotografia è quasi una pittura e non manca qualche immagine ad effetto, come lo scolaro appollaiato su un ramo che lascia cadere sul volto e sulle lacrime della maestra i fiori della primavera.

 Una speranza ma solo una speranza per il cinema italiano del futuro.

 Quanto al tema dell’emancipazione femminile, è vero che è accennato, ma senza la pretesa di offrire soluzioni ideologiche, sembrando più un’esigenza del cuore. Del resto, il motivo ispiratore del film è un altro, come dichiara la stessa regista:

Volevo raccontare l’avventura di questa giovane donna che con tanta fatica e meraviglia scopre ciò che davvero vuole nella vita rendendola il più possibile trasparente alla percezione dei sensi: tutte noi siamo state almeno una volta Nena, abbiamo costruito almeno una volta un amore immaginario di tale potenza da poter essere disperate all’idea di perderlo, a tutte noi la vita poi ha svelato la verità dolce/amara che quell’amore era niente”.


   sergio magaldi

mercoledì 28 marzo 2012

.MAGNIFICA PRESENZA film di Ferzan Özpetek, Italia, 2012,105 minuti






 Il titolo del film ha un significato volutamente ambivalente: si riferisce alle “presenze abusive” che popolano l’antico villino di Monteverde a Roma e, in senso letterale, riguarda il protagonista Pietro Chiodo [Elio Germano], che proprio uno degli abitanti occulti  chiama “magnifica presenza”. Ma, come ha scritto qualcuno, il titolo può anche essere un omaggio alla presenza di Anna Proclemer nel cast del film, nella parte di una famosa diva di teatro durante il fascismo e che ora si nasconde sotto falso nome.

 Il titolo dà la sensazione di qualcosa di pregevole e di unico e per assonanza mi richiama alla mente il Tu querida presencia  riferito al comandante Che Guevara. Un canto di lingua spagnola, una lingua che pare fatta apposta per cantare l’onore, l’amore, il dolore e la morte. E una vecchia canzone spagnola di Alberto Dominguez risuona spesso nel film di Ferzan Özpetek: Perfidia, il canto dell’amante non corrisposto o abbandonato:

Nadie comprende lo que sufro yo 
Tanto que ya no puedo sollozar
Solo temblando de ansiedad estoy
Todos me miran y se van

Mujer, si puedes tu con Dios hablar
Preguntale si yo alguna vez
Te he dejado de adorar

Y el mar espejo de mi corazon
Las veces que me ha visto llorar
La perfidia de tu amor

Te he buscado por dondequiera que yo voy
Y no te puedo hallar
Para que quiero tus besos
Si tus labios no me quieren ya besar

Y tu quien sabe por donde andaras
Quien sabe que aventura tendras
Que lejos estas de mi…


Nessuno comprende
Quello che soffro io.
Non ho più lacrime
Solo tremo di pena.

Tutti mi guardano
E se ne vanno.

Donna,
Se puoi parlare con Dio,
Chiedigli
Se ho mai smesso di amarti

E quante volte il mare
– specchio del mio cuore –
Mi ha visto piangere
La perfidia del tuo amore.

Ti cerco
Ovunque vado
E non posso incontrarti.

Desidero i tuoi baci
ma le tue labbra
Non desiderano più baciarmi.

E tu chissà dove andrai
Quali avventure avrai 
Quanto distante sarai da me...

 Un film delicato questo di Özpetek, un piccolo gioiello ben costruito. La trama non ha forse il patos di La finestra di fronte, perché i personaggi, ad eccezione di Pietro e di sua cugina Maria [Paola Minaccioni], sono evanescenti, ombre quasi, e il femminile non è scandito dalla vis interpretativa, dallo sguardo vivo e affascinante di Giovanna Mezzogiorno, ma lo stile, il ritmo, la poesia e la musiche scelte dal regista turco rappresentano un raro esempio di come si possa fare cinema in una dimensione sospesa tra realtà e sogno.

 Otto personaggi, attori di un passato interrotto tragicamente dal nazifascismo dalla guerra e dal tradimento, che come i sei personaggi della nota pièce di Pirandello vanno in cerca del loro autore. Qui non ci sarà il pubblico della prima di Sei personaggi in cerca di autore, come quel 9 Maggio del 1921 al teatro Valle di Roma, a gridare “Manicomio…manicomio”, la borghesia piccola e media capace di vedere la follia ovunque la fantasia e l’immaginazione superino la realtà e la concretezza del bottegaio. Qui però ci sarà lo stesso un teatro Valle e il “folle” o almeno il “disturbato” è Pietro Chiodo, incapace di vivere la realtà nel suo tragico squallore, pronto ad inseguire un sogno e a trascinarlo sul palcoscenico della vita.


Sergio Magaldi


sabato 24 marzo 2012

ENRICO MATTEI E LA LOTTA PER IL PETROLIO


IL GOLPE INGLESE. DA MATTEOTTI A MORO: LE PROVE DELLA GUERRA SEGRETA PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO E DELL’ITALIA, di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiarelettere, Settembre 2011, pp.355.



 Come ho scritto in questo Blog, nei due post precedenti dedicati allo stesso argomento [IL GOLPE INGLESE, del 6 Febbraio e MUSSOLINI E MATTEOTTI: il primo tassello del “Golpe”, del 2 Marzo], secondo gli autori del libro, J. Cereghino e G. Fasanella,  le fasi per il controllo egemonico dell’Italia da parte degli inglesi inizierebbero con l’appoggio determinante dato all’unificazione italiana, in funzione anti-francese, proseguendo poi con la “gestione” del caso Matteotti, con la preferenza accordata, durante la Resistenza, a gruppi moderati o addirittura filofascisti in funzione anticomunista, con la lotta per il controllo del petrolio sino al cosiddetto incidente in cui perse la vita il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, per concludersi con i tentativi di colpo di stato per arrestare l’avanzata elettorale del Partito comunista italiano [Pci] e infine con l’eliminazione di Aldo Moro dalla scena politica. Com’è noto le prove di questo vero e proprio “golpe inglese” ai danni del nostro Paese sarebbero comprovate da lettere, cablogrammi, informative top secret e altri documenti custoditi negli archivi di Stato di Kew Gardens [Londra] e resi noti solo qualche anno fa.

 Ho cercato di mostrare, nei precedenti interventi, come la tesi sostenuta dagli autori, di una responsabilità inglese nella vicenda Matteotti, sia quanto meno azzardata e non suffragata dai fatti che farebbero invece pensare a responsabili e moventi diversi. Smontato questo fondamentale anello della catena, è mia intenzione occuparmi ora anche di tutti gli altri.

 Non c’è dubbio, sulla base dei documenti forniti dagli autori di questo stimolante saggio, che gli inglesi [ma non solo gli inglesi!], almeno quelli con  autorità di governo, guardarono con maggiore attenzione alla Resistenza “moderata” contro il nazifascismo [e chi in Italia, da moderato e non solo, in passato non s’era lasciato coinvolgere dalla sirena fascista?] piuttosto che a quella combattuta dai partigiani comunisti. La “guerra fredda” era già iniziata e circolavano già le mappe politiche del futuro assetto europeo. Ritengo, quindi, ingiustificato ascrivere il comportamento delle autorità britanniche a prova del presunto Golpe. L’Italia, come paese sconfitto e aggressore di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, avrebbe mantenuto una quasi sostanziale integrità territoriale per essersi arresa e poi schierata con le forze alleate [a differenza della Germania], ma avrebbe pagato con l’autonomia politica la sconfitta militare.

 Più interessante l’esame del caso Mattei e la lotta per il controllo del petrolio. Con il suo passato di resistente cattolico, in carcere a Como sotto il regime della Repubblica Sociale, Enrico Mattei fu uno dei sei esponenti del CLN alla testa del corteo per Milano liberata. Democristiano, fu incaricato subito dopo la guerra di provvedere alla liquidazione dell’Agip, l’ente fascita creato per il petrolio e ormai disastrato. Mattei la tirò per le lunghe e invece di liquidare l’Agip finì per trasformarlo in Eni. La sua ascesa da allora, in politica come in economia, si fece costante e l’importanza dell’Ente Nazionale Idrocarburi fu determinante per lo sviluppo economico del nostro Paese.

 La mossa di Enrico Mattei per vincere la concorrenza, fu l’idea di abbattere i profitti occidentali del ricavato della vendita del petrolio, a vantaggio dei paesi ex-coloniali. La misura lo rese inviso alle Sette Sorelle, le compagnie petrolifere anglo-americane, ma gli spalancò le porte di paesi come Libia, Iran, Egitto, Persia, Marocco e l’Algeria.

 Che nella lotta per l’accaparramento dell’oro nero in Medio Oriente ci fossero contrasti con gli inglesi e con gli americani non lo si può negare, come pure per la massiccia importazione di greggio sovietico e il relativo “avvicinamento” all’Unione Sovietica in politica estera e al partito socialista in politica interna. Su quanti e quali documenti si basa tuttavia la tesi del “golpe inglese”? Sostanzialmente su due.

 Il primo è una nota di R.G. Searight, alto funzionario del Foreign Office, spedita al ministero britannico per l’Energia:

 “Di recente, una certa persona ha sostenuto una conversazione con ‘un’importante personalità dell’industria petrolifera’ che da tempo è entrata in contatto con Mattei. A suo dire, Mattei gli avrebbe confidato la seguente riflessione. ‘Ci ho messo sette anni per condurre il governo italiano verso un’apertura a sinistra. E posso dirle che mi ci vorranno meno di sette anni per far uscire l’Italia dalla Nato e metterla alla testa dei paesi neutrali’. Non vi sono motivi per dubitare che tali affermazioni siano state effettivamente fatte”.[Op.cit. p.176]

 Il secondo è un’informativa di un funzionario del Foreign Office ad un collega dell’ambasciata inglese a Roma in cui si prospettano alcune questioni sulle quali i servizi segreti britannici dovrebbero cercare di fornire una risposta:

 “Fino a che punto l’Eni dipende dal petrolio russo? È possibile distinguere fra le attività di Mattei e gli interessi italiani? Mattei cambierà idea? Si può contenere la sua ‘virulenta’ propaganda contro ‘l’imperialismo e contro le compagnie petrolifere?’”. [cit.pp.176-7].

 All’informativa è allegata una nota di un funzionario del ministero per l’Energia:

 “L’Eni sta diventando una crescente minaccia per gli interessi britannici. Ma non da un punto di vista commerciale. La quantità di petrolio a disposizione dell’Eni, infatti, è minima se comparata alle risorse della Shell e della Bp. La minaccia dell’Eni si sviluppa latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali. Inoltre l’Eni incoraggia l’autarchia petrolifera a scapito degli investimenti e degli scambi delle imprese britanniche”.[Ibid.]

 Negli archivi londinesi si trova anche un ritratto di Enrico Mattei che però non mi sembra conclusivo rispetto alla questione trattata. Si legge:

 “Mattei è un uomo vanitoso, con modi da dittatore. A differenza di molti democristiani, non mi sembra corrotto a livello personale. Vive in maniera tutto sommato modesta. Il suo unico svago è la pesca, un passatempo che lo coinvolge persino più dei suoi interessi petroliferi (non ci pensa due volte, ad esempio, a volare in Alaska per una battuta di pesca della durata di una settimana). Così come il presidente Giovanni Gronchi, del quale è molto amico, Mattei si trova al momento nelle condizioni di fare un gran bene – o un gran male – all’Italia”. [cit.p.159] 

 A sostegno del “golpe inglese”, relativamente all’incidente in cui incorse l’aereo sul quale si trovava Enrico Mattei il 27 Ottobre del 1962, mi pare non ci sia molto altro e non mi sembra gran che. È strano inoltre che gli autori si siano dimenticati di riassumere non solo e non tanto le inchieste giudiziarie sul caso Mattei, quanto le tante ipotesi che da oltre mezzo secolo si sono fatte nel tentativo, come sempre accade in queste circostanze, di dare nomi e cognomi agli esecutori e ai mandanti del delitto.

 Com’è noto, la tesi dell’incidente, nonostante le molte voci di segno contrario e ben più informate che subito si levarono, ha resistito trentadue anni, finché nel 1994 il pubblico ministero di Pavia, Vincenzo Calia, riaprì l’inchiesta accertando il sabotaggio dell’aereo in volo tra Catania e Milano, ma nulla di conclusivo potendo dire su esecutori e mandanti, allorché nel 2003 chiuse definitivamente l’inchiesta giudiziaria.

 L’elenco dei possibili “beneficiari” della morte di Mattei è molto vasto e su queste basi di volta in volta si sono costruiti i soliti teoremi più o meno fantasiosi ad uso dell’opinione pubblica, in parte forse per confondere le idee, in parte per la quasi naturale esigenza dei media a “sfruttare” eventi simili: Tv, libri, film, inchieste giornalistiche ecc…

 Per la verità, la “pista” americana collegata alle Sette sorelle, appare di gran lunga più accreditata di quella inglese, sostenuta nel libro. Intanto, delle sette più importanti compagnie petrolifere dell’epoca, ben cinque erano americane: Standard Oil of New Jersey [successivamente conosciuta come Esso], Standard Oil of New York [poi Mobil], Texaco, Standard Oil of California[poi Chevron], Gulf Oil, una inglese [attuale BP] e una anglo-olandese [Royal Dutch Shell]. Ci sono poi le testimonianze dei tanti pentiti di mafia. E due   dei documenti citati nel libro sembrano persino più significativi di quelli a sostegno del teorema del “golpe inglese”. Il primo, è una nota dell’addetto commerciale dell’ambasciata britannica a Roma al Foreign Office, nell’Aprile del 1962:

 “L’avvocato Cox, il curatore degli affari di Mattei negli Stati Uniti, si è incontrato di recente con alcuni funzionari del Dipartimento di Stato americano per capire se sia possibile fare qualcosa per migliorare i rapporti fra Mattei e le compagnie petrolifere statunitensi […] Washington cerca di persuaderle a essere un po’ più accomodanti nei confronti di Mattei”. [cit.p.175]

L’altro documento è un’informativa del 29 Maggio, cioè a meno di cinque mesi dalla morte di Mattei:

 “Ho appreso dalla medesima fonte che le imprese petrolifere americane sono decisamente contrarie a queste apertura nei confronti di Mattei e stanno facendo di tutto per impedire che si rechi in visita negli Usa”.[Ibid.]

  È un fatto che subito dopo il viaggio in Sicilia, per la visita degli impianti petroliferi di Gela e Gagliano Castelferrato, Mattei avrebbe dovuto recarsi a New York, per essere ricevuto con tutti gli onori da J.F. Kennedy [che a sua volta sarà assassinato “misteriosamente” un anno più tardi]. Il presidente americano non nascondeva la sua ammirazione per l’industriale di Matelica, caldeggiava un’intesa paritetica tra l’Eni e le Sette Sorelle e guardava favorevolmente all’ingresso del partito socialista [PSI] nel governo italiano.

 Ma la “pista americana” è solo una delle tante. C’è anche quella francese,  collegata all’Organisation armée secrète [OAS], una formazione militare che lottava, ufficialmente in clandestinità, ma di fatto a fianco dell’esercito francese, per impedire l’indipendenza dell’Algeria. L’OAS fece pervenire a Mattei esplicite minacce, intimandogli di desistere dall’appoggiare il FLN [Front de libération nationale] algerino. Com’è noto, l’insurrezione per l’indipendenza algerina iniziò nel 1955 per concludersi solo alla fine di Giugno del 1962, cioè quattro mesi prima del tragico “incidente” occorso all’aereo sul quale viaggiava Enrico Mattei di ritorno dalla Sicilia. Tra i sabotatori, sulla base delle solite testimonianze che naturalmente non fu possibile riscontrare, oltre ad elementi indigeni, ci sarebbe stato anche un militare francese.

 E non manca la “pista” italiana, per la quale sembra propendere, tra le tante ipotesi e i toni generici, il pubblico ministero Vincenzo Calia:
“ […]E' facile arguire che tale imponente attività, protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l'esecuzione del delitto e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta – per la sua stessa complessità, ampiezza e durata – esclusivamente a gruppi criminali, economici, italiani o stranieri, a Sette (...o singole...) sorelle o servizi segreti di altri Paesi, se non con l'appoggio e la fattiva collaborazione – cosciente, continuata e volontaria – di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso ente petrolifero di Stato, che hanno eseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o col consenso e il sostegno di interesse coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito diretti vantaggi.[…]”

 Alla “pista” italiana, sia che la si percorra per scoprire gli esecutori o i mandanti del delitto, si collegarono Mauro De Mauro del giornale “L’Ora” di Palermo, che nel 1970 per conto del regista Francesco Rosi [film del 1972: Il caso Mattei con Gian Maria Volontà], si mise ad indagare sul tragico “incidente” e poco dopo fu sequestrato sotto casa senza che di lui si sapesse più niente, Pier Paolo Pasolini che cinque anni dopo scrisse un romanzo sull’argomento dal titolo Petrolio – pubblicato postumo, per la tragica fine avvenuta nella notte tra il primo e il due Novembre del ’75 –  al quale sarebbe stato sottratto un capitolo “Lumi sull’Eni” di cui s’è parlato molto anche recentemente a proposito e a sproposito.
Edizione 2005
Edizione 1997



 Nonché due giornalisti, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che nel 2009 ricapitolarono la cosiddetta pista italiana in Profondo Nero sempre per le edizioni di Chiarelettere. Un saggio interessante, al quale tuttavia gli autori del “golpe inglese” non devono aver prestato molta attenzione dal momento che neppure lo citano.

 Concludendo, mi pare che, dopo quello relativo al delitto Matteotti, salti anche un altro determinante anello della catena. Il teorema degli autori non è che una delle tante ipotesi sul “caso Italia” e sulla necessità di trovare, come piace ai più, un solo ed unico responsabile [“La perfida Albione”] delle vicende che hanno finito col relegare il nostro Paese ad un ruolo marginale e subalterno nella storia del mondo. Né potrebbe essere altrimenti. L’idea di scovare i mandanti di un omicidio politico è perdente in partenza. Diversamente non accadrebbe. Se accade, e in Italia ma non solo in Italia molti sono stati gli omicidi politici, è perché chi gestisce realmente il potere è talmente forte e sicuro da operare chirurgicamente senza alcun timore di essere scoperto.


sergio magaldi  







    

 

lunedì 19 marzo 2012

POESIA SOLIDARIETA' E LOTTA nel film MIRACOLO A LE HAVRE




Miracolo a Le Havre, film di Ali Kaurismaki, Finlandia, Francia, Germania, 2011

Una favola dei nostri tempi, una tela disegnata a pastello. Forse il miglior film del regista finlandese. L’ambientazione è francese e capace, come nella migliore tradizione del cinema transalpino, di dare risalto agli oggetti e alle sfumature.

 Marcel Marx [un eccellente André Wilms, per me un grande attore francese che il teatro ha “prestato” al cinema] è un anziano ex-artista bohémien, perennemente con la sigaretta tra le labbra e il bicchierino da condividere con gli amici. Un “bambino cresciuto” lo definisce la moglie Arletty [la finlandese Kati Outinen],nel pregare il proprio medico di non rivelare al marito la malattia terminale che l’affligge.

 Marcel vive in dignitosa povertà, facendo il lustrascarpe tra la stazione e i ponti di Le Havre. Ritorna ogni sera al quartiere fatiscente in cui vive, nella piccola casa con minuscolo giardino dove trova ad accoglierlo festosamente Laika, la cagnolina, e la devota Arletty, la moglie alla quale consegna il magro incasso del giorno.

 Rimasto solo, per il ricovero della moglie in ospedale, Marcel Marx, il cui cognome vuole rievocare negli spettatori l’eco dell’enorme popolo dei diseredati, s’imbatte per caso in Idrissa [Blondin Miguel], un bambino africano profugo e sfuggito al campo di concentramento, dal quale altri come lui, in base alle leggi sull’immigrazione, saranno presto rimpatriati nei luoghi di provenienza. Idrissa, braccato dalla polizia e dal clamore mediatico che taccia di inefficienza le autorità, lotta disperatamente per raggiungere sua madre che lavora in Inghilterra.

 Marcel, ora, non è più “un bambino cresciuto”, o meglio, è un fanciullo e un poeta, forse l’unico soggetto capace ancora di lottare davvero e non soltanto a parole, contro la logica del Potere e le sue sopraffazioni. Lo farà in silenzio, com’è nel suo costume, con l’ottimismo della volontà e la determinazione di un “guerriero”. E incontrerà in questa lotta, piccola in fondo, ma l’unica ormai realmente possibile, l’umana solidarietà di chi gli è vicino e riesce ancora ad avere emozioni positive [persino quella del “freddo” ispettore di polizia dal volto di faina, interpretato dal bravo Jean-Pierre Darroussin]. Ma, dovrà anche vedersela con il mostro della delazione, come sempre avviene in queste circostanze. Chi non ricorda la storia recente? Gli ebrei “salvati” ma anche i molti denunciati ai nazi-fascisti?

 Marcel lotterà sino in fondo e sarà persino capace di “mostrare gli artigli”, ma sempre con la grazia di chi riesce ancora ad amare, senza neppure dimenticarsi di Arletty, alla quale non farà mancare in ospedale le sue rose, tre, due, magari solo una, secondo la disponibilità del momento. E il fiorire inaspettato del ciliegio del suo piccolo giardino sarà il segno del miracolo.


Sergio Magaldi                 


giovedì 8 marzo 2012

"IL PRESIDENTE DEI RICCHI" E IL GOVERNO DEI RICCHI PER I RICCHI





 È di queste ore la notizia che il presidente francese Sarkozy proporrà una tassa sui profitti aziendali, per non passare come “Il presidente dei ricchi” e nel tentativo di essere rieletto.

 Cosa fa invece Monti per evitare che il suo sia sempre più il governo dei ricchi per i ricchi? Esercitando un potere che non potrà essere sottoposto a sanzione dagli elettori, il presidente del consiglio non si preoccupa di introdurre “misure demagogiche”. Del resto la maggior parte degli italiani continua ad amarlo, se è vero che riscuote ancora il consenso di oltre il 50% della popolazione. Tanto deve essere il risentimento accumulato dai cittadini contro i partiti politici oppure “il mito di Cincinnato” ed altre ragioni sono altrettanto forti negli italiani [come scrivevo in un precedente Post di questo Blog: IL PARADOSSO MONTI del 12 Febbraio u.s. ].

 Così, mentre il presidente Sarkozy si accinge a tassare i ricchi per trovare risorse in favore dei comuni cittadini, e naturalmente avere il loro voto, cosa esce dal cappello a cilindro del governo più ricco che la Repubblica Italiana abbia mai avuto nella sua breve storia? Si dirà che, se non altro, di questo governo si conoscono i redditi dichiarati dai suoi componenti: complessivamente decine e decine di milioni di euro di reddito annuo. È vero. Ed è vero quanto sostiene una “ministra”di questo governo: “Essere ricchi non è un reato, reato è non pagare le tasse!”.

 Sarebbe però interessante sapere se non sia reato tassare ulteriormente i redditi di poco più di mille euro al mese, come è avvenuto in Italia, o tagliare del 30% stipendi e pensioni dei lavoratori, come è avvenuto in Grecia, nei due paesi che non a caso vantano la più grande evasione fiscale e la più grande corruzione del mondo occidentale e nello stesso tempo i salari più bassi. Sarebbe anche interessante sapere se non è reato, oltre che non pagare le tasse, evitare accuratamente d’introdurre gli strumenti utili a farle pagare, evitando inutili spettacolarizzazioni nel perseguire i presunti evasori.  Sarebbe altresì interessante chiedere agli esponenti di questa sinistra in salsa democristiana [Non a caso Jean Paul Sartre diceva che in Italia tutto era democristiano, profetizzando che presto o tardi anche il PCI, di cui pure aveva grande rispetto, sarebbe diventato democristiano], che ne sia del mantra, da loro continuamente riproposto sulla stampa e nei talk-show: essere i costi della politica necessari ad evitare che solo i ricchi possano farla. Norma “sublime”, sulla quale riflettere soprattutto quando sulle seggiole di governo del Paese siedono ricchi tecnocrati in vena di tagli e di tasse su redditi annui pari alla somma che mediamente loro percepiscono in un paio di giorni.

 Ebbene, cosa esce in questi giorni dal cappello a cilindro di questo governo che non dovrà rendere conto agli elettori del proprio operato, a differenza di quanto è costretto a fare Sarkozy?

 Dal cosiddetto decreto sulle liberalizzazioni, in un gioco delle parti con la casta della politica, escono persino le timide misure che erano state proposte per gli ordini professionali: gli avvocati non hanno più l’obbligo di presentare preventivi di spesa ai clienti che ne facciano richiesta. Il numero effettivo dell’aumento di notai e farmacisti resta un’incognita affidata alla buona volontà non si sa bene di chi. Le licenze dei taxi tornano di competenza dei sindaci.

 Intanto, tra i provvedimenti presi per il “bene” dei comuni cittadini, vengono nuovamente aumentate sigarette e benzina, ma gli italiani potranno fumare di più perché troveranno le sigarette quasi ovunque. L’IVA è confermata al 23% dal mese di Ottobre e saltano le assunzioni dei precari nella scuola. A Marzo scattano le addizionali regionali e comunali. In aumento anche la cosiddetta Tarsu o imposta sui rifiuti, rifiuti sempre più riciclati nelle nostre città da extra-comunitari che continuano a prelevarli dai cassonetti senza che nessuno pubblica autorità intervenga. Tutto ciò mentre il tetto previsto sugli stipendi dei dirigenti pubblici viene abbattuto.

 Si sente dire in giro che i tagli apportati al tanto sbandierato provvedimento sulle liberalizzazioni, che avrebbe dovuto favorire “crescita e sviluppo” del Paese, dipenda in gran parte dai partiti politici, così sempre pronti a favorire lobby e corporazioni che al loro interno ne costituiscono la maggioranza. Ammesso che sia vero, i cittadini sapranno come comportarsi nelle prossime elezioni, seguendo magari le orme degli abitanti di quel comune descritto da José Saramago, premio Nobel per la letteratura, in un famoso romanzo del 2004, riproposto alcuni mesi fa da Feltrinelli per l’Universale Economica e che mi riprometto di recensire nei prossimi giorni.


sergio magaldi


  



E LA JUVE FA 13!






  Con la partita di ieri pomeriggio a Bologna, la Juventus uguaglia in campionato il numero dei pareggi con quello delle vittorie. Tredici pareggi e tredici vittorie con il vanto, tutto platonico, di essere l’unica squadra ancora imbattuta in Europa. 

 Pessimo il primo tempo disputato dai bianconeri. Meglio il secondo, durante il quale avrebbe addirittura potuto vincere, se gli fosse stato accordato un evidente rigore e se Conte non si fosse ostinato a lasciare in campo l’inesistente Borriello per far posto a Matri, al quale non sono stati concessi neppure gli ultimi dieci minuti, come avvenne efficacemente contro il Milan, quando l’unico vero attaccante bianconero segnò due goal regolarissimi, di cui il primo annullato. Discutibile inoltre la mossa di sostituire entrambe le punte con il tenace Giaccherini e il delicato Quagliarella che punte non sono, proprio quando la Juve, dopo aver ritrovato il pareggio, stava producendo il massimo sforzo e il Bologna sembrava accusare la fatica. Comincio a pensare che Conte abbia qualcosa di personale nei confronti di Matri. Eppure è l’unico giocatore della Juve ad aver segnato in doppia cifra e quando scende in campo, oltre a segnare, si sforza di fare anche il “terzino”, proprio come vuole il tecnico bianconero. Ai suoi occhi forse non  fa abbastanza il difendente. Ma su Conte, i suoi grandi meriti e i suoi limiti, ho già detto tutto o quasi tutto nel mio precedente Post  del 4 Marzo.

 Purtroppo, con l’aria che tira, con Bonucci squalificato [non sarebbe neanche un male, se fossero disponibili Chiellini e Barzagli attualmente infortunati],  senza difensori centrali, con Conte buttato fuori campo per motivi risibili e più che mai ostinatamente convinto delle proprie scelte, con gli arbitri che continuano a non concedere calci di rigore alla Juve, anche quando siano solari, si ha come l’impressione che, nelle prossime difficili trasferte di Genova e di Firenze, più che la vittoria, dopo quattro pareggi consecutivi, arrivi la prima sconfitta. Spero di sbagliarmi.

sergio magaldi

lunedì 5 marzo 2012

POSTI IN PIEDI IN PARADISO, film di CARLO VERDONE, 119 minuti, 2012





  Ecco nelle sale affollate il nuovo film di Carlo Verdone, l’ultimo vero comico romano [e italiano] dopo il grande Alberto Sordi. Il titolo è forse un po’ lungo, a guardar bene forse neppure tanto appropriato, ma la satira sociale di Verdone riesce a divertire e magari anche un po’ a graffiare. Senza essere necessariamente incentrata sulla crisi dei nostri giorni, come s’è voluto vedere da più parti; perché il disagio di Ulisse, Fulvio e Domenico, i tre mariti separati, non è solo di natura economica e non è soltanto di oggi, come pure il tema della ragazza avvenente e priva di cultura che pur di fare cinema si concede facilmente. 

  Ulisse Diamanti [Carlo Verdone] ha alle spalle un passato di successo come direttore discografico e una figlia di 17 anni che vive a Parigi con la madre. Gestisce un piccolo negozio di dischi in vinile, non più in commercio dagli anni Novanta, e arrotonda il magro guadagno con la vendita su e-bay di oggetti appartenuti agli artisti e ricercati dai collezionisti. Vive con estremo disagio nel retro della sua “bottega”, ma soprattutto trascorre l’esistenza in funzione dei ricordi.

 Fulvio [Pierfrancesco Favino] è un ex critico cinematografico e padre di una bambina di tre anni, è in disgrazia da quando la giovane moglie, caduta in depressione post-parto, scopre sul Pc la fitta corrispondenza amorosa che egli intrattiene con la consorte del suo principale. Cacciato di casa e licenziato dal lavoro, sarà costretto ad occuparsi di gossip e a dormire in un istituto di suore.

 Domenico [Marco Giallini], un tempo agiato imprenditore, è costretto a fare l’agente immobiliare per mantenere due famiglie, vive nella barca di un amico e non esita a concepire “imbrogli” e neppure a fare il gigolò di donne ricche e mature. Sarà proprio lui a prospettare agli altri due di condividere un appartamento e, a causa di un malore causatogli dal Viagra di cui fa abbondante uso per le sue “prestazioni”, sarà ancora lui a determinare una svolta nella vita di Ulisse. Con l’arrivo di Gloria, la cardiologa [stupendamente interpretata da Micaela Ramazzotti], infatti, non è solo comicità autentica quella che entra nel film, perché con lei Ulisse tende lentamente a cambiare, divenendo risoluto e nuovamente capace di vivere e affrontare la quotidianità. Presenza salvifica, dunque, quella della cardiologa.

 Del resto, non solo attraverso Gloria si percepisce l’importanza che “il femminile” assume nella vicenda: donne che decidono la vita degli uomini, che non sanno comprendere le debolezze dei propri compagni o che generosamente li accolgono, donne che illudono e che si vendono per un “provino” [come la ragazza in cui s’imbatte Fulvio], donne disposte a pagare per il piacere, proprio come un uomo o che sono vere e proprie “macchiette” [come le amiche della cardiologa]. Donne ambiziose ed egoiste o ragazze che hanno bisogno di un padre [come la moglie e la figlia di Ulisse]. Tutto un universo femminile che si muove dietro le vicende dei tre protagonisti, nell’ombra e pure con la funzione di un vero e proprio “deus ex machina”.

 A me pare che il messaggio più significativo del nuovo film di Verdone sia proprio questo: l’importanza della donna nella vita di un uomo, soprattutto di un uomo del nostro tempo. Interessante anche il mutamento di prospettiva: il pubblico lamenterà forse la minore comicità del personaggio-Verdone, ma presto si accorgerà di ritrovarla negli altri personaggi da lui diretti. Come sembra ammettere lui stesso: “Non ho voluto essere io il mattatore, è giusto a un certo punto cambiare anche questa tradizione. Non vuol dire che mi metto da parte, ma che mi dedico di più alla regia e alle sfumature”.

 E le sfumature si colgono nel film, che appare più “pensato” rispetto alle ultime uscite, più denso di particolari e di simboli.


Sergio Magaldi

domenica 4 marzo 2012

PROSEGUE LA MARCIA DELLA JUVENTUS ALL'INSEGNA... DEI PAREGGI




 Ennesimo pareggio della Juve, impegnata ieri sera tra le mura amiche contro il Chievo. Magra la consolazione che la squadra è ancora imbattuta in Campionato [come del resto in Coppa Italia]. I pareggi [12], di cui la maggior parte dopo la pausa natalizia, quasi equivalgono il numero delle vittorie [13]. Che la marcia spedita dei bianconeri, durata circa tre mesi, vada lentamente esaurendosi è un fatto che sostengo da tempo. In occasione della partita pareggiata con la Roma a metà Dicembre scrivevo:

 L’impressione è che la Juve, nonostante la forza fisica mostrata anche ieri sera, stia lentamente esaurendo lucidità e fantasia, e quando questo accade [se ne avvertono i sintomi già da qualche partita] si rivede purtroppo la squadra sin troppo “operaia” degli ultimi campionati.” [Cfr su questo Blog, il Post del 13 Dicembre 2011: Roma-Juve: la partita degli errori]

 Solo la forza fisica [che ieri notte ha sembrato abbandonarla] ha sin qui permesso alla Juve di restare sulla scia del Milan che, nel pomeriggio di ieri ha rifilato ben quattro goal, senza subirne alcuno, al sin troppo arrendevole Palermo, per di più giocando in casa dei siciliani. E Mercoledì, se vincesse a Bologna nel recupero di calendario, la Juve si troverebbe nuovamente ad affiancare il Milan. Determinazione dei giocatori? Merito di Conte? Sicuramente sì.

 Quali le cause della “crisi” per una Juve che non riesce più a segnare con gli attaccanti e continua a pareggiare persino con squadre di bassa classifica? Anche se questo non è il caso del Chievo che ha disputato una buona partita e occupa attualmente una posizione medio-alta nella graduatoria.

 Innanzi tutto ci sono cause “oggettive”: il calo di forma di ciascuno dei tre centrocampisti centrali, primo fra tutti Marchisio, seguito da Vidal e dallo stesso Pirlo, che pure continua a portare la croce, alternando partite maiuscole ad altre in tono minore [come per esempio quella di ieri sera]. Il visibile calo di Pepe, che tra Settembre e Novembre ha avuto il suo “quarto d’ora” da campione ma che campione propriamente non è. L’inadeguatezza di un centrale difensivo come Bonucci, anche ieri responsabile dell’ennesimo goal [dopo che la Juve era andata in vantaggio con una rete in sospetto fuorigioco del terzino De Ceglie], svirgolando nella propria porta un tiro neanche forte di un avversario.

 Poi ci sono gli errori del pur bravo Conte, da me più volte sottolineati. Lo straordinario allenatore juventino, gloriosa bandiera bianconera da calciatore, è riuscito a far giocare la squadra “a tutto campo”, realizzando un calcio moderno ed europeo che raramente si vede in Italia, ma ha dovuto pagare un prezzo: agli attaccanti e persino a Matri, l’unico attualmente in grado di segnare [con i suoi 10 goal, 12 in realtà], si chiede di giocare da “terzini” e quando giungono in area avversaria non hanno più la necessaria lucidità. Inoltre, proprio in virtù di questo tipo di gioco raramente gli attaccanti si passano la palla tra loro. Quanti palloni giocabili arrivano a Matri in una partita? Dubito che anche acquistando una “grande punta” [che certamente non è Van Persie, di cui si continua a parlare per il prossimo anno], la musica cambierebbe. Guardate cos’è successo a Krasic, che non è esattamente una punta, ma che è certamente un campione in grado di fornire palloni decisivi agli attaccanti: tagliato fuori e ormai sempre in tribuna per non essersi “adeguato”.

 Di questo passo, tuttavia, Conte finirà col capire. Guardate come la partita è cambiata negli ultimi dieci minuti di ieri sera. La Juve è tornata finalmente ad attaccare con le punte, quando sono entrati un tonico Caceres [terzino offensivo, capace di segnare e far segnare] e Del Piero. Ha sfiorato il nuovo vantaggio ma ormai era troppo tardi. Già ad inizio partita, Conte aveva indovinato la mossa di lasciare in panchina Bonucci. Poi, suo malgrado, è stato costretto a metterlo in campo per l’infortunio di Barzagli, e la solita “frittata” è stata puntualmente servita…

 Speriamo che poco a poco Conte comprenda la necessità di lasciare in prossimità dell’aria avversaria almeno una punta [Matri] che non abbia anche il compito di difendere e sia il finalizzatore della gran mole di gioco espressa dalla squadra. Speriamo altresì che egli comprenda l’opportunità di “ricostruire” un giocatore “distrutto” come Krasic, anche se ci credo poco. Quale sarà, oltre tutto, il valore di mercato del giocatore che tanto era piaciuto lo scorso anno, quando a Giugno sarà ceduto?

 Temo che senza rivedere al più presto l’organizzazione di gioco e il ruolo da affidare agli interpreti, la Juve cesserà di lottare per lo scudetto e sarà persino costretta a difendere la seconda piazza, utile per entrare “senza esami” in Champions. Intanto, oggi pomeriggio è di scena il derby Roma-Lazio, utile per la classifica forse più alla Lazio che alla Roma. Anche qui il ruolo dell’allenatore appare decisivo. Ora che, dopo aver scontato l’incredibile “pena” inflittagli dal simpatico tecnico spagnolo, ritorna De Rossi, “libero” davanti alla difesa, riuscirà Luis Enrique ad evitare ai suoi la capitolazione di fronte ad ogni “ripartenza” degli avversari? Mi auguro di sì.


Sergio Magaldi        

venerdì 2 marzo 2012

MUSSOLINI E MATTEOTTI: IL PRIMO TASSELLO DEL GOLPE, dal libro "IL GOLPE INGLESE..." di M.J. CEREGHINO e G.FASANELLA, Chiarelettere, 2011




IL GOLPE INGLESE. DA MATTEOTTI A MORO: LE PROVE DELLA GUERRA SEGRETA PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO E DELL’ITALIA, di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiarelettere, Settembre 2011, pp.355.


 Com’è noto, sulla base dei documenti degli archivi di Stato di Kew Gardens [Londra], resi noti solo da qualche anno, gli autori del libro sostengono la tesi di un vero e proprio “golpe inglese” ai danni del nostro Paese per orientarne le vicende politiche ed economiche durante un intero secolo. Dopo l’appoggio determinante dato all’unificazione italiana, in funzione anti-francese, il primo tassello del presunto golpe sarebbe rappresentato dal sostegno inglese al governo Mussolini, nella drammatica occasione del delitto Matteotti.

 Per la verità, “l’aiuto” a Mussolini non fu esclusivo degli inglesi, riguardò anche gli americani, i sovietici [con grave disappunto di Gramsci e Togliatti] e i paesi europei più importanti. Liberali come Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi ebbero parole di sostegno per il Presidente del Consiglio e Benedetto Croce nell’esprimersi in Senato in suo favore, parlò del voto “prudente e patriottico” che aveva salvato il governo in carica.

 In Italia, come in Europa, si credeva nell’innocenza di Mussolini e sulla sua capacità di governare un Paese in crisi perenne dalla fine della prima guerra mondiale. Nonostante il discorso di “ammissione di responsabilità oggettiva”, pronunciato nel Gennaio del 1925, nel rivolgersi al Parlamento il 13 Giugno 1924, quando il cadavere di Giacomo Matteotti non era stato ancora ritrovato [lo sarà solo due mesi più tardi], il futuro duce si espresse con un linguaggio che ai più parve sincero:



 "Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione"

  Discorso avvalorato, come s'è scritto più volte, dalla telefonata con il fratello Arnaldo della notte precedente [esistevano già le intercettazioni?!]:

 "...Tutti si scagliano contro di me e mi rendono responsabile di ciò che è avvenuto! ...E' vero che Matteotti mi aveva piantato non poche grane, ma non è meno vero che, essendo il miglior uomo di quella masnada e, soprattutto, il più coerente e sincero, per quanto impulsivo, ho sempre avuto per lui quasi un'ammirazione. Sono rimasto veramente addolorato per ciò che è accaduto!"

 Del resto, la tesi della probabile innocenza di Mussolini nel delitto Matteotti è fatta propria anche da M.J. Cereghino e G.Fasanella, proprio per dimostrare il coinvolgimento inglese nella vicenda. Infatti, la responsabilità del delitto viene fatta ricadere “sugli ambienti massonici che collegano il regime ai britannici”[p.13]. Amerigo Dumini, maestro della Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù e che lavora alle dipendenze del capo della polizia Emilio De Bono, è riconosciuto, insieme con altri sicari, come l’esecutore materiale del delitto. Resta da sapere chi siano i mandanti.

 De Bono è un gerarca piemontese, legato alla massoneria inglese e fedelissimo di casa Savoia. Anche il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi, Giovanni Marinelli al vertice del Partito Nazionale Fascista e Cesare Rossi, capo ufficio stampa della presidenza del consiglio, sono fascisti e massoni in collegamento con la massoneria britannica. Il 17 Giugno del 1924, a seguito delle indagini della magistratura e sull’onda dell’emozione suscitata nell’opinione pubblica, Mussolini impone le dimissioni dei quattro gerarchi dalle rispettive cariche e costringe Marinelli e Rossi, dopo qualche giorno di latitanza, a costituirsi.

 La tesi degli autori circa il “coinvolgimento britannico” in queste drammatiche vicende – dopo una serie di approfondimenti sulla figura di Dumini, per la sua presumibile appartenenza anche ai servizi segreti inglesi – si può riassumere così: Matteotti non sarebbe stato assassinato per motivi politici ma in relazione “all’affare Sinclair” e in stretto collegamento con ambienti massonici e governativi della Gran Bretagna. 

 Negli anni Venti il mercato petrolifero italiano era per l'80% nelle mani della società americana Standard Oil of New Jersey, che operando praticamente in regime di monopolio, manteneva un prezzo altissimo a scapito del Paese, proprio mentre il processo d’industrializzazione avrebbe reso necessario un costo più basso della benzina e dei derivati del petrolio.  Nel 1923, tuttavia,  l’Italia sembrò poter approfittare della concorrenza della Anglo Persian Oil Co., azienda di proprietà dello stato inglese. In accordo con il nostro Ministero delle Finanze, la britannica A.P.O.C. riuscì a scalzare in maniera significativa la concorrenza americana. L’accordo prevedeva la possibilità di esplorare il suolo nazionale e il deserto libico per l’eventuale sfruttamento di nuovi giacimenti, nonché la fornitura di greggio per lo Stato italiano ad un prezzo notevolmente più basso di quello imposto dalla Standard Oil. Ma, inaspettatamente, una nuova azienda americana, la Sinclair Oil, dietro la quale in realtà si nascondeva la stessa Standard Oil, stipulò  il 29 aprile 1924 una convenzione con il governo italiano a costi piu’ alti dell’azienda inglese, sollevando gli interrogativi e le proteste dell’opposizione parlamentare.

 Giacomo Matteotti, in viaggio in Inghilterra tra la fine di Aprile e i primi di Maggio [viaggio riferito anche dagli autori del libro, che almeno di essermi distratto, non riportano la data del soggiorno a Londra, che pure mi sembra significativa] fu messo a conoscenza da ambienti massonici e laburisti [dal mese di Gennaio e sino al Novembre del 1924 i laburisti governarono il Paese con  Ramasay Mac Donald] della corruzione di imprenditori e politici italiani nell’affare Sinclair, del coinvolgimento nello scandalo anche di Arnaldo Mussolini, che avrebbe ricevuto una tangente di 30 milioni di lire, e [secondo una tarda testimonianza che il giornalista Gian Carlo Fusco raccolse da Aimone di Savoia] persino del re Vittorio Emanuele III, divenuto azionista della Sinclair, senza sborsare un soldo e profittando dei futuri pingui dividendi del petrolio libico, alla sola condizione di mantenere il segreto sulla presenza degli immensi giacimenti già individuati nella Libia italiana [?!].Lo stesso Aimone di Savoia avrebbe riferito al Fusco che Matteotti,a Londra nell'Aprile del 1924, ricevette i documenti comprovanti la corruzione italiana dalla loggia massonica LUnicorno e il Leone.

 Il teorema di M.J. Cereghino e G. Fasanella, circa il coinvolgimento britannico nel caso Matteotti, continua ad essere costruito, portando a sostegno una citazione del giornale fascista Il Popolo d’Italia, contenuta in un articolo firmato con lo pseudonimo di “Spettatore”, dietro il quale si nascondeva quasi sicuramente lo stesso Mussolini:

 “Non mi meraviglierei che dovesse risultare domani come la mano stessa che forniva a Londra all’on. Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato.”[p.18]

 L’ingegnosa “costruzione” degli autori prosegue alacremente per  giungere infine di fronte al dilemma di una contraddizione di cui essi stessi si avvedono, ma di cui non sembrano tener conto:

  “La contraddizione, almeno all’apparenza, è evidente: perché la mente che ha armato Matteotti contro Mussolini, consegnandogli documenti compromettenti, avrebbe dovuto contemporaneamente armare anche la mano dei suoi assassini prima che potesse pronunciare il suo discorso in parlamento?”[p.18]

  La risposta degli autori sembra doversi ricercare nel “presunto doppio gioco degli inglesi”, di cui tuttavia a giudizio degli stessi non può darsi fondamento certo. Azione degna della “perfida Albione”, dunque, se rispondesse a verità. Con quali ulteriori argomenti, “i nostri” si congedano dal primo tassello del “golpe inglese”? Le carte “segrete” e compromettenti, sottratte a Matteotti dalle mani di Dumini e consegnate a De Bono, sarebbero state affidate a Churchill allo scopo di ricattare Mussolini, tant’è, concludono gli autori, che alla fine tutto si conclude secondo gli interessi inglesi: Mussolini non cade, Matteotti non parla, l’accordo con l’americana Sinclair non viene ratificato dal Parlamento per volere del duce [p.28]

 A mio parere, resta da esaminare qualche particolare sul quale i nostri pur bravi autori non si sono soffermati.

 La cronaca riferisce che Matteotti uscì dalla propria abitazione di via Pisanelli 40 alle 16.30 di Martedi' 10 giugno 1924 per recarsi alla biblioteca della Camera, dove avrebbe messo a punto il discorso da tenere il giorno dopo in Parlamento. Non ci arrivò mai, perché sul Lungotevere Arnaldo da Brescia s’imbatté nell’auto con la pattuglia di sicari al comando di Amerigo Dumini. Matteotti avrà pure tenuto delle “carte” con sé, magari l’intero discorso da fare l’indomani, ma come si può pensare che recasse anche i documenti scottanti che comprovavano la corruzione del regime e/o della monarchia? Non aveva confidato ai compagni che si congratulavano con lui dopo il discorso del 30 Maggio: “Ed ora potete anche prepararmi l'orazione funebre”? Un uomo che si aspettava di essere aggredito da un momento all’altro sarebbe andando in giro recando con sé “gli scottanti documenti”? E per di più non per mostrarli in Parlamento ma per rileggerli in biblioteca?

 D’altra parte, queste “carte segrete” non saranno mai trovate. Inoltre se le avesse ricevute a Londra nell’Aprile del ’24 non si vede perché avrebbe dovuto attendere sino al giorno 11 Giugno per esibirle in Parlamento. Non sarebbe stato più conveniente farlo in occasione del famoso discorso del 30 Maggio? E ancora, a consegnare a Matteotti i cosiddetti documenti della corruzione sarebbero stati i laburisti, al governo per quasi tutto il 1924, mentre il beneficiario ne sarebbe stato Churchill che ritornò ad incarichi di governo [Cancelliere dello Scacchiere] solo alla fine dell’anno con il nuovo governo conservatore.

 La mia personale convinzione è che queste “carte segrete” non siano mai esistite. Il trattato con la Sinclair  era stato formalizzato alla luce del sole, con un  decreto da ratificare in Parlamento e il denaro da versare in tangenti a imprenditori e politici, come la maggior parte delle volte accade, sarebbe avvenuto attraverso i soliti "canali riservati" e non certo sulla base di compromettenti impegni scritti.

 Tutta la stampa inglese denunciò il movente affaristico del delitto Matteotti. E mi domando quale interesse potesse avere la Gran Bretagna ad occultare a vantaggio degli americani un accordo fatto nella corruzione e contro un’azienda nazionale come l’A.P.O.C., semmai il suo interesse sarebbe stato di denunciare l’inganno. Circa i presunti documenti consegnati a Matteotti, vale forse la pena di ascoltare lo storico inglese Denis Mack Smith: «Uno dei motivi che portarono all’uccisione del parlamentare stava proprio nel fatto che egli si era recato in Inghilterra con informazioni sul sistema di corruzione che stava contribuendo a finanziare la rivoluzione fascista: una tale pericolosa fonte di informazione doveva essere soppressa a tutti i costi». In altre parole, Matteotti, a Londra più che ricevere documenti, si sarebbe limitato ad informare.

 Quale il movente del delitto, allora? Chi i mandanti? Si possono fare solo congetture. Certamente quella della corruzione. Lo scandalo sarebbe stato enorme se si fosse saputo che il fratello del duce e forse persino il re erano coinvolti. E i mandanti del delitto potrebbero  aver pensato che Matteotti avesse davvero in mano le prove concrete della corruzione. Si può aggiungere tuttavia anche il movente politico. Non solo perché Matteotti aveva già accusato il governo di aver fatto tenere le elezioni in un clima d’intimidazione, ma soprattutto perché una parte del fascismo [sembra con Farinacci in testa] e una discreta fetta dell’imprenditoria nazionale temeva le ventilate aperture a sinistra di Benito Mussolini: far entrare nel governo i socialisti più moderati e addirittura alcuni sindacalisti della Confederazione Generale del Lavoro. Ciò che non sarà più possibile all'indomani del delitto Matteotti.

Sergio Magaldi