venerdì 13 luglio 2012

IL ROMANZO E' MORTO? MASSIMO GRAMELLINI: AUTOBIOGRAFIA DI UN GIORNALISTA

    Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi, Milano 2012, pp.209.
      Il secondo romanzo di Massimo Gramellini - vicedirettore del quotidiano La Stampa di Torino, ospite fisso di Fabio Fazio in TV - ha resistito per diversi mesi in testa alla classifica dei romanzi italiani più venduti e attualmente occupa stabilmente la seconda posizione, preceduto soltanto da Una lama di luce di Andrea Camilleri.
      
      Dopo averlo letto, ho cercato a fatica in rete e sulla stampa una recensione non necessariamente elogiativa del breve romanzo. Forse perché non esiste più una critica letteraria, come sostiene Massimo Fini in un articolo pubblicato nel mese di Maggio su Il Gazzettino e in cui accenna a Fai bei sogni di Gramellini:

     “[…] non esiste più una critica letteraria, per la semplice ragione che non esiste più la letteratura se per tale si intende il romanzo. Per un paio di secoli il romanzo è stato la forma di espressione della borghesia. Scomparsa la borghesia come classe sociale dominante in Italia (all’incirca negli anni Sessanta) lentamente è morto anche il romanzo.[…]Vanno semmai i gialli svedesi, cinesi o quelli dei nostri Camilleri e Riondillo; ma sono più che altro un pretesto per delle descrizioni d’ambiente. Sarebbe difficile definirli "letteratura" in senso proprio. Oggi al posto della borghesia, classe strutturata, c’è un ceto medio indifferenziato i cui scrittori, per dirla col Gaber di "Trani a gogò", "parlano di sè fra sè e sè". Non è certo un caso che in testa alla classifica della Narrativa ci sia "Fai bei sogni" di Massimo Gramellini, che è un’autobiografia. […].”

     Autobiografia dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, piuttosto sommaria ed essenziale, quasi una cronaca è infatti quella che Massimo Gramellini presenta nelle 209 paginette del suo secondo romanzo. E proprio di scrivere come un giornalista, lo rimprovera Gaia Conventi [una delle poche voci non elogiative di Fai bei sogni] in www.sulromanzo.it , osservando bruscamente che se il romanzo l’avesse scritto un Mario Rossi qualsiasi, né Longanesi né un altro editore degno di questo nome l’avrebbero pubblicato. È un po’ la scoperta dell’acqua calda, come non si sapesse che oggi la narrativa italiana è fatta in gran parte [per fortuna ancora non completamente] da giornalisti, attori, cantanti, politici, personaggi della TV pubblica e privata, per il semplice motivo che sono in grado di garantire le vendite. E di che dovrebbero parlare costoro se non di se stessi, prestati alla “scrittura” quando hanno già ottenuto un riconoscimento pubblico per la loro professione e/o sono in un’età in cui diviene dolce il ricordare? 

      Ma, a quanto osserva Massimo Fini, anche i giovani che gli inviano i loro dattiloscritti, sono inclini a parlare di se stessi. Perché il romanzo come letteratura è morto, essendo morta la borghesia, come classe strutturata e dominante che ne era l’espressione, per far posto ad un ceto medio indifferenziato che si nutre di romanzi brevi e scritti in modo semplicistico, che legge per evasione, per coltivare il proprio io, trovando nell’io dello scrittore, un alter ego spesso confortante, o che, nella trama “a giallo”, solletica gli istinti primordiali e il gusto dell’avventura come surrogato di una vita spesso scialba e seriale. 

      Può darsi che Massimo Fini abbia ragione, ma può anche darsi di no. Il romanzo come letteratura di cui egli avverte la mancanza era accessibile a pochi. I libri e soprattutto il genere narrativo era riservato a quella élite culturale che nell’otium poteva permettersi di coltivare la fantasia e l’immaginazione e che era in grado di comprendere il linguaggio e la filosofia dello scrittore perché quello era il suo stesso linguaggio, quelli erano i suoi stessi valori. Per la  restante parte della popolazione c’era al massimo il manuale scolastico o l’enciclopedia. Prendere atto che oggi c’è “un ceto medio indifferenziato” che compra e legge narrativa non può che far piacere a chi abbia a cuore la condivisione del sapere da parte del maggior numero, anche e soprattutto se questo sapere, come nel caso del romanzo, serve non tanto a indottrinare, quanto a comunicare un’emozione, a stimolare la fantasia e a riflettere liberamente. Non è dunque un alibi sostenere che oggi, per questo pubblico, l’unica narrativa possibile è il “giallo” o il racconto autobiografico. Cosa fa l’editoria nazionale, cosa fanno le tante istituzioni accademiche e culturali per promuovere il gusto dei lettori, per incoraggiare la presenza di autentici scrittori? E non viene in mente che l’assenza di una critica letteraria, più che alla scomparsa del romanzo, si debba ad una stampa asservita alla logica di un potere interessato a stimolare più la pancia che la testa della gente? 

      Personalmente, non credo che il romanzo sia morto. Ha solo cambiato pelle. Basta guardare a quello che accade in Europa e negli Stati Uniti: anche lì “un ceto medio indifferenziato” ha preso il posto di una borghesia “strutturata e dominante”, eppure si continua a produrre ottima narrativa. La verità è che nel nostro Paese la crisi del romanzo, come del resto del cinema, e delle arti in genere, è figlia di una classe dirigente che, ad ogni livello, è incapace, corrotta, intrigante e corporativa. “C’è qualcosa di marcio” oggi in Italia e non sarà facile liberarsi di questa spazzatura, in tutto simile a quella che affiora di continuo nelle strade delle nostre belle città del Mezzogiorno.  

     Tornando al romanzo di Massimo Gramellini, la seconda recensione critica che ho trovato in rete è quella di Angela Bongiorno su www.letteratu.it . Rispetto all’altra, ha il merito di un  maggiore approfondimento, ancorché se ne condividano o meno le analisi. Nella sostanza, la Bongiorno “rimprovera” all’autore di Fai bei sogni non tanto di aver scritto un’autobiografia, quanto di aver ridotto la realtà che descrive ad una proiezione del suo proprio, piccolo “io”. Scrive tra l’altro: 

     “Le parole del libro scorrono con un ritmo estremamente sostenuto, filano via in un’assenza quasi totale di descrizione, azzerando la profondità di ogni personaggio e riducendolo al rango di mero bozzetto”. 

      Io non sarei così severo nei confronti del romanzo di Gramellini. È vero che le parole scorrono velocemente tanto che “in un paio di nottate” si può portare a termine la lettura dell’intero libro. Ma questo non è necessariamente un difetto e diventa addirittura un merito se lo si paragona con altri romanzi in cui occorre troppo tempo prima che il lettore entri in sintonia con l’autore. Quanto ai personaggi, se pure mancano di spessore, non è vero che siano meri bozzetti. In un’autobiografia, del resto, è quasi sempre così. L’io narrante “incontra” gli altri per quel tanto che gli serve a raccontare se stesso, soprattutto se ha deciso di farlo in 200 paginette. Pure, diversi sono gli spunti offerti dall’autore per comprendere la psicologia dei personaggi più importanti che gli ruotano attorno, come Madrina, il padre e la madre. Inoltre, non è da sottovalutare il titolo, Fai bei sogni, che se per Gramellini rappresenta il ricordo dolce-amaro della voce di sua madre, per il pubblico è un invito accattivante: chi di noi non vorrebbe fare bei sogni? 

      Se c’è una critica che posso fare al libro è talora proprio questo “andare verso il pubblico”, questa volontaria o involontaria determinazione a compiacerlo, a rimestare in lui l’eco di frasi fatte e situazioni sopite che per il lettore che le riscopre hanno un che di familiare, quasi la consacrazione di un discorso televisivo o di un dibattito domestico. Come per esempio nell’espressione popolare utilizzata più volte per descrivere e personalizzare, per la mente di un bambino, il tumore che affligge sua madre. Nelle intenzioni dell’autore dovrebbe farci commuovere e sorridere insieme:
        
     “Brutto Male aveva svegliato la mamma durante la notte, ma lei lo aveva pregato di portare pazienza ancora un po’, il tempo di venire a rimboccarmi le coperte […] 
    Ignoravo come avrebbe potuto sentirsi una mamma alle prese con Brutto Male. Abbastanza male di sicuro, per quanto le mamme fossero dotate di risorse inesauribili. Ma non era possibile che soltanto la mia fosse riuscita a convincere quel tanghero a darle il permesso di venire a rimboccarmi le coperte. 
    Si trattava di una frottola messa in giro da una persona dotata di scarsa fantasia. Dunque da papà. Voleva farmi credere che fino all’ultimo la mamma ci aveva voluto bene. Mentre, se era scappata con Brutto Male, era proprio perché non ce ne voleva più.” [p.28] 

      Non mancano pagine, tuttavia, dove l’ironia è autentica, come per esempio nel parlare di una ragazza incontrata all’università, “l’altissima, bellissima, narcisissima Alessia. La signorina Prime Volte” [p.101]. E per la verità tutto il libro è pervaso di sottile ironia che stempera il dramma personale, anche quando, nelle pagine finali, diventa dolorosa consapevolezza. Quasi una concessione che l’io dell’autore fa al lettore.

    J. Hillman, Il codice dell'anima, Adelphi, Milano 1997

     Infine, la filosofia del romanzo è affidata al daimon che Massimo Gramellini scopre dentro di sé sin dall’infanzia. Peccato non averlo fatto parlare di più. Il suo nome è Belfagor e ha tutte le caratteristiche che James Hillman gli attribuisce nel suo Il codice dell’anima: 

      “Il daimon svolge la sua funzione di “promemoria” in molti modi. Ci motiva. Ci protegge. Inventa e insiste con ostinata fedeltà. Si oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso obbliga il suo padrone alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando si sente trascurato o contrastato. Offre conforto e può attirarci nel suo guscio, ma non sopporta l’innocenza […]” [J.Hillman, Il codice dell’anima, Adhelphi, Milano 1997, p.60] 

    L'edizione del 2009

      Lo scopo del daimon è quello di non farci soffrire, ma a prezzo della verità e della crescita interiore. Gramellini ne sperimenta "i tentacoli" quando la signorina Prime Volte lo lascia:

     "Quando Alessia mi lasciò per telefono, un minuto dopo avermi ribadito che mi amava, le difese crollarono e Belfagor si impadronì del mio cervello" [p.102]

      E da questa battaglia personale col daimon, che si è svolta durante l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, Massimo Gramellini ci annuncia di essere uscito infine vincitore. Belfagor lo proteggeva, ma gli impediva di vedere, perché - osserva l’autore in forma di monito – “Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire… per non guarire […]”



    sergio magaldi

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