domenica 30 settembre 2012

E' POSSIBILE PARLARE CON GLI ANGELI? La risposta nel romanzo "Il mercante di libri maledetti"...

Marcello Simoni, Il mercante di libri maledetti, Newton Compton Editori, Roma, 2012, pp.351



 Quasi al termine del secondo decennio del 1200, un mercante di reliquie, tale Ignazio da Toledo, con il fido e valoroso Willalme de Béziers e Uberto, un giovane converso del Monastero di Santa Maria del Mare, si mettono alla ricerca, tra Italia, Francia e Spagna, di un prezioso manoscritto che consente di evocare gli angeli e divenire partecipi della loro sapienza: è l’ Uter Ventorum. Il monaco Vivïen de Narbonne, grande amico di Ignazio da Toledo, l’ha diviso in quattro parti e l’ha nascosto in altrettanti luoghi – sembra, poco prima di essere assassinato –  perché non cada in possesso dei Veggenti della Saint-Vehme che lo userebbero a fini malefici e per accrescere il loro potere.

 Inizia così una specie di caccia al tesoro da parte di Ignazio, Willalme e Uberto per recuperare le quattro parti divise del manoscritto e cogliere infine il segreto per evocare gli angeli. Come nella realtà, gli amici diventano presto nemici e, come in ogni caccia al tesoro che si rispetti, il nascondiglio è protetto da una serie di indovinelli, e c’è da giurare che, essendo nel Medioevo, questi siano di natura esoterica. In ciascuno dei “quattro viaggi” le avventure si ripetono con incredibile puntualità, persino nei dettagli, con la lotta tra coloro che vorrebbero impossessarsi dell’Uter Ventorum a fini di potere e i nostri tre eroi che cercano di scongiurare tale eventualità.

 La trama di Il mercante di libri maledetti, il romanzo con cui Marcello Simoni ha vinto la sessantesima edizione  [2012] del “Bancarella”, è più o meno tutta qui. Com’è noto il Bancarella è il premio che librai e bancarellai italiani, con votazione a maggioranza, assegnano ogni anno al libro considerato ogni anno il più meritevole, perché è anche il più venduto nel periodo preso in esame. È dunque un riconoscimento che si basa sul “passaparola” e sugli acquisti da parte dei lettori.

 Il romanzo di esordio di Marcello Simoni, per la verità, non è uscito per la prima volta in Italia, ma in Spagna, nel 2010, con il titolo di El secreto de los cuatro ángeles, “Il segreto dei quattro angeli”. Non perché si svolga prevalentemente in Spagna, ma per i motivi che spiega lo stesso autore: “Dall’Italia non arrivavano risposte, così spedii una serie di email a case editrici spagnole. In fondo il mio protagonista si chiama Ignazio da Toledo”.  Solo l’anno successivo, il romanzo è pubblicato in Italia da Newton Compton Editori.

 Il libro è scritto in un linguaggio semplice e corretto, dove anche le regole della sintassi sono rispettate… Qualche perplessità desta invece, a mio giudizio, il tessuto della trama che, tra prologo, epilogo e ottantotto brevi capitoli, si rivela alquanto esile e  male imbastito, cucendo alla meglio tra loro frammenti di stoffa ordinaria… spacciata per pregiatissima seta. Un po’ come nel cinema italiano degli ultimi anni, dove le storie raccontate sullo schermo sono spesso brevi “scene” malamente assemblate… e non per colpa del montaggio.

 Sorprende altresì la superficialità con cui l’autore si accosta all’esoterismo, laddove, per esempio, sembra esaltarsi nel riportare un quadrato magico e nell’assegnargli la rivelazione di un “grande” segreto. Senza neppure dire che si tratta del quadrato magico di Saturno, sottolineando soltanto l’illuminazione con cui Ignazio da Toledo scopre che le lettere ebraiche del “quadrato” nascondono i numeri arabi, per via della ghematria, ridotta schematicamente ad “un sistema di sostituzione alfabetica secondo cui a ogni lettera ebraica corrisponde un numero”:


“‘Un quadrato diviso in nove caselle’, osservò Uberto. ‘Ma cosa rappresentano i caratteri al suo interno?’
 ‘Sono lettere ebraiche’, rispose il mercante.
 ‘Lettere ebraiche?’, intervenne Willalme.    
 ‘Ma non stavamo cercando un codice persiano?’
 ‘Forse l’Uter Ventorum è stato trascritto in parte da un giudeo’, ipotizzò Ignazio. ‘O più semplicemente, l’ebraico è stato ritenuto idoneo allo scopo. Dopotutto, questo idioma viene considerato la lingua della creazione, parlata da Dio, dagli angeli e dai primi uomini’.
 Uberto fece cenno d’aver compreso. ‘E nel nostro caso, questi nove caratteri quali significati avrebbero?’
 ‘Conosco poco la lingua ebraica, ma me ne intendo abbastanza da sospettare che questi caratteri non compongano parole’.
 ‘Da cosa lo deduci?’
 ‘Per il momento si tratta solo di un’intuizione. Ma il fatto che siano contenuti dentro una figura geometrica, un quadrato,e che ciascuno di essi compaia una volta soltanto, mi dà l’impressione che alludano a una formula matematica’.
 ‘La matematica si fa con i numeri’, obiettò Uberto, ‘non certo con le lettere’.
 A tali parole Ignazio ebbe un’illuminazione. Aggrottò la fronte e inseguì un pensiero che andava formandosi nella mente, restando immobile come un felino che scruta la preda. D’un tratto batté una mano sul tavolo. ‘Ma certo!’, esclamò, facendo sobbalzare i compagni. ‘La ghimatriah!’.
 Uberto e Willalme lo guardarono allibiti.
 ‘La ghimatriah dev’essere la soluzione’, ribadì l’uomo, esultante. ‘È un sistema di sostituzione alfabetica secondo cui a ogni lettera ebraica corrisponde un numero!’
 ‘Ne sei sicuro?’, volle accertarsi Uberto.
 ‘Ignazio annuì con fermezza. ‘Ne sono venuto a conoscenza anni fa. Me ne parlò uno studioso della Cabala’. E detto ciò , incise a fianco del quadrato un altro uguale, sostituendo alle lettere ebraiche i corrispondenti numeri arabi”.

                                4    9    2
                       3    5    7
              8        1        6
  [pp.248-249]


 L’autore, bibliotecario di professione, conosce certamente il quadrato magico di Saturno, se non altro per averlo trascritto da qualche libro. I quadrati magici, nel loro simbolismo esoterico, sono descritti nel De occulta philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa [1486-1535]. In particolare il quadrato magico di Saturno, sopra riportato, inciso su una lastra di piombo [metallo di Saturno], nell’ora e nel giorno di Saturno, procura, a chi lo indossa e ci crede, protezione e saggezza, nonché una certa pazienza nel sopportare gli inevitabili dispiaceri che purtroppo capitano, anche quando ci si sente protetti…  Naturalmente, può servire, sempre a chi ci crede, per invocare angeli e demoni.


H.C.Agrippa, De occulta philosophia [La filosofia occulta], Edizioni Mediterranee, 2 vol., pp-322+358, Roma, Dicembre 2004



                                   



De occulta philosophia, quadrati magici di Saturno e di Giove, loro glifi di "intelligenze" e "spiriti"


                     

 Di quadrati magici in chiave alchemica, si parla invece  nel famoso trattato d’anonimo autore, Aesh Mezareph. Qui, i quadrati dei sette pianeti della tradizione stanno a rappresentare i sette metalli e le loro trasformazioni.












  
Aesh mezareph, Introd.,trad.,e note di Sergio Magaldi, Roma, 2004. A cura di S.Magaldi e F. Pignatelli

 Dunque, perché l’autore non menziona il “suo”  come il quadrato magico di Saturno? La spiegazione è semplice. Adottando una numerazione che assegna ai pianeti un numero progressivo in funzione della distanza dalla Terra, cui viene assegnato il numero 1, l’ineffabile Ignazio da Toledo scopre che il 5 è assegnato al Sole.  Lo stesso numero 5 che si trova al centro del quadrato magico di Saturno. All’autore serve per il gran finale [p.341], allorché invoca l’angelo del Sole, servendosi del quadrato di Saturno! Senza contare che il numero 5, nella tradizione orientale e occidentale dei quadrati magici rappresenta l’uomo e la Terra, piuttosto che il Sole. Una mistura e una confusione da far inorridire i cosiddetti esoteristi di mestiere.

 Pure, il libro è piaciuto, non solo al pubblico, evidentemente pago di un vago e superficiale accenno al mistero e sempre a caccia di delitti e di intrighi di sapore conventuale, ma anche alla critica. “Vanity Fair” riscontra nel romanzo di Marcello Simoni la stessa atmosfera di  Il nome della rosa  [Io, del famoso e splendido libro di Umberto Eco, non ho sentito neppure l’odore...]. “Il Messagero” parla di “un mix ben dosato tra fantasia, documentazione storica, ricerca delle fonti e scelta iconografica”. “Il Corriere della Sera” di “un rigoroso intrigo medievale”. “Il mercante di libri maledetti” – assicura ancora “Il Riformista” – è talmente perfetto nell’utilizzare elementi propri del thriller medievale, giocando fra un’azione concitata e una credibile ricostruzione storica, da apparire proprio come un successo annunciato”.

 Bene, ecco il caso di un romanzo rifiutato dagli editori italiani e che non vale granché, pubblicato in Spagna con discreto successo e quindi finalmente in Italia, dove in breve si porta in testa alla classifica delle vendite, vince il Premio Bancarella ed ottiene come corollario anche il riconoscimento della cosiddetta stampa libera. E poi c’è chi sostiene che l’editoria italiana, col suo gran fiuto, pubblica solo opere con le quali è sicura di fare cassa…


sergio magaldi 

lunedì 24 settembre 2012

AMORE PER SEMPRE E SHOAH in "The Sweetness of Forgetting" di Kristin Harmel

Kristin Harmel, Finché le stelle saranno in cielo,["The Sweetness of Forgetting"], Garzanti, Milano, Agosto 2012,pp.363







 Hope è una donna americana di trentasei anni. Vive nella baia di Cape Cod, penisola dello stato del Massachusetts, a circa 80 chilometri da Boston. Conduce una pasticceria di famiglia, con dolci fatti dalle sue mani e utilizzando le ricette di sua nonna Rose Durand, malata di Alzheimer e che settant’anni prima era emigrata da Parigi, sposando un militare americano. Dopo circa un decennio di permanenza negli Stati Uniti, Rose e suo nonno s’erano trasferiti a Cape Cod, aprendo la North Star Bakery pasticceria.

  Hope non crede nell’amore per sempre: ha appena divorziato da suo marito Rob, sposato soprattutto per dare un padre a sua figlia Annie, ora adolescente, e che in realtà non ha mai amato veramente. Del resto, in nessun altro periodo della sua vita Hope s’è sentita più fragile: la morte recente della madre per un cancro, l’inquietudine della figlia che soffre la separazione dei genitori, la malattia che ha colpito l’amatissima nonna, gli affari della pasticceria che non vanno come dovrebbero, con la minaccia costante che la banca la costringa a chiudere l’attività.

  In una bella sera d’estate madre e figlia conducono Mamie – come Hope è solita chiamare la nonna – sulla spiaggia. Rose sembra vivere un giorno di straordinaria lucidità e gode del tramonto che dipinge il cielo di tante sfumature di colori per lasciare infine apparire il tenue brillare di Venere, il primo pianeta della sera visibile dalla Terra: 

  “ ‘Eccola’, mormora Mamie e indica un punto appena sopra l’orizzonte, dove una stella brilla fiocamente nel crepuscolo che sbiadisce. ‘La stella della sera’.
 All’improvviso mi tornano in mente [È Hope a parlare in prima persona, pp. 66-67, come in tutto il romanzo] le fiabe che mi raccontava su un principe e una principessa in una terra remota, quelle in cui il principe doveva combattere contro i cavalieri cattivi e prometteva alla principessa che un giorno sarebbe tornata a cercarla, perché il loro amore non sarebbe mai finito. Quindi rimango stupita quando è Annie a mormorare:’Finché le stelle saranno in cielo io ti amerò. È questo che diceva sempre il principe nelle tue storie’.
 Quando Mamie la guarda, ha le lacrime agli occhi. ‘Esatto’,dice”.

  Ecco da dove prende il titolo l’edizione italiana del romanzo di Kristin Harmel: Finché le stelle saranno in cielo, mentre la semplice traduzione dall’inglese di The Sweetness of Forgetting è: “La dolcezza dell’oblio”.

  E Mamie quella sera speciale consegna alla nipote una lista di sette persone che vivevano in Francia quando lei aveva diciassette anni e stava per emigrare negli Stati Uniti. Le sette persone di età diversa hanno tutte lo stesso cognome: Picard. La nonna la prega di recarsi a Parigi per avere notizie sulla loro sorte. Si tratta evidentemente dei membri di una stessa famiglia.

  Dopo molte perplessità, una settimana più tardi, spinta da Annie – molto affezionata a Mamie – e da Gavin Keyes, un giovane di origini ebraiche, il solo che sembra preoccuparsi di lei e che le fornisce indicazioni preziose per la ricerca delle persone della lista, Hope decide finalmente di volare in Europa.

  E qui la narrazione di Kristin Harmel si fa particolarmente avvincente e quasi il lettore vorrebbe saltare le pagine per saperne di più. Cosa scopre innanzi tutto Hope a Parigi? Che il vero cognome di Mamie non è Durand, ma Picard e che le persone da ricercare sono i familiari della nonna. E mentre dando le spalle al Louvre, attraversa la Senna sul Pont des Arts, e ammira sulla sua destra, in lontananza, la punta aguzza della Torre Eiffel e sulla sinistra un’isola collegata a due ponti, l’uno con sette arcate, l’altro con cinque, l’emozione la travolge nel ricordo di una favola che Mamie le raccontava quando era bambina e che con ogni probabilità non era una vera favola ma la realtà vissuta dalla nonna durante la  giovinezza.





 Ogni giorno il principe attraversava il ponte di legno dell’amore [Sulle griglie del Pont des Arts gli innamorati, proprio come a Roma su Ponte Milvio, appendono i loro “lucchetti dell’amore”. È qui evidente una certa forzatura della scrittrice, perché quella tradizione non sembra esistesse all’epoca dell’adolescenza e della giovinezza di Rose, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta dello scorso secolo] per vedere la sua principessa. L’enorme palazzo si trovava alle sue spalle [il museo del Louvre] e davanti a lui c’era il castello a cupola del regno della principessa [l’Institut de France].Doveva attraversare un gigantesco fossato [la Senna] per raggiungere il suo vero unico amore: c’erano due ponti che portavano nel cuore della città, uno con sette arcate e l’altro con cinque. Alla sua destra una gigantesca spada fendeva il cielo [la Torre Eiffel], avvisandolo del pericolo che lo attendeva. Eppure lui ogni giorno sfidava la sorte perché amava la principessa. Diceva che nemmeno tutti i pericoli del mondo sarebbero riusciti a tenerlo lontano da lei. La principessa sedeva alla finestra e aspettava di udire i suoi passi, perché sapeva che lui non l’avrebbe mai delusa. Il principe l’amava e quando le prometteva di andare da lei manteneva sempre la parola.” [pp.129-130].


 Quando la nonna raccontava quella fiaba – si chiede Hope – a quale “principe” si riferiva, forse al grande amore della sua vita? E un’altra cosa scopre presto Hope: l’identità ebraica di sua nonna e della sua famiglia e la storia di quel drammatico 16 luglio del 1942 quando gli ebrei di Parigi furono arrestati e ammassati nel Velodromo d’Inverno per essere deportati successivamente ad Auschwitz. Ben sei delle sette persone della lista che la nonna aveva consegnato a Hope risultano tra i deportati nel campo di sterminio nazista: suo padre, sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle, molti dei quali ancora bambini. Dov’è finito il settimo della lista, Alain, il fratellino di circa dieci anni che Rose amava più di ogni altro? 





 Del rastrellamento degli ebrei di Parigi, della loro concentrazione al Velodromo d’Inverno e della deportazione ad Auschwitz e in altri campi di sterminio si è parlato per lo più solo nella letteratura e nel cinema. François Hollande, il presidente francese, il 22 Luglio di quest’anno, – appena un mese prima dell’uscita dell’edizione italiana del romanzo di cui sto parlando, – ha commemorato il settantesimo anniversario del tragico evento, sottolineando che  «La verità, dura, crudele, è che neanche un soldato tedesco, neppure uno, partecipò a questa operazione. La verità è che il crimine fu commesso in Francia, dalla Francia». Discorso quasi ignorato dalla stampa italiana e coraggioso il suo, perché sia De Gaulle che Mitterand avevano attribuito la responsabilità del crimine unicamente ai nazisti. Solo il presidente Chirac, nel 1995, aveva ammesso una mezza verità, parlando di corresponsabilità francese.

 Molti i libri e i film usciti quest’anno per non dimenticare. Ricordo soltanto di Karen Taieb, ABBIATE PIETA’ DI  MIO FIGLIO. Le lettere ritrovate dei deportati ebrei al Velodromo d’Inverno e la quarta edizione pubblicata da Mondadori del romanzo La chiave di Sara, da cui è stato tratto il film uscito agli inizi di quest’anno.


Karen Taieb, Abbiate pietà di mio figlio, Sperling&Kupfer, 2012,pp.209






















Tatiana De Rosnay, La chiave di Sara, Mondadori, 4.ed.,2012, pp321

                             
                           




















  Non sto "raccontando" il libro, perché sin qui siamo soltanto ad 1/3 delle pagine del romanzo. La storia narrata da Kristen Harmel riserva ancora diverse sorprese: il salvataggio di molti ebrei di Parigi ad opera di musulmani e cattolici e soprattutto l’amore che, quando è vero, è più forte della morte: esisteva davvero il “principe della favola”? E se esisteva quale era stata la sua sorte?

 Un romanzo intrigante, ottimo, senza dubbio, sicuramente da leggere, ma non per questo esente da difetti. Si avverte talora troppo “zucchero americano” nella narrazione, lo stesso zucchero che Hope usa in abbondanza nel preparare torte e biscotti della tradizione ebraica ed islamica della sua pasticceria. Dolci importanti per Kristin Harmel, tanto da introdurre ogni capitolo del libro con una ricetta…
 
 Alcune situazioni sembrano create più con l’intento di compiacere i lettori che per reale convincimento. In altre, si avverte una certa forzatura e qualche iperbole, dettate forse dalla necessità di sorreggere la trama. Una certa ingenuità di fondo [voluta?] accompagna l’idea che i contrasti tra cattolici ebrei e musulmani siano dovuti a motivi religiosi, come si lascia volentieri credere alle masse dei fedeli. 

 E l’amore per sempre, che presuppone negli amanti un identico modo di sentire e di agire, e che costituisce il leitmotiv della narrazione – tanto da ispirare il titolo dell’edizione italiana – è vissuto diversamente da Rose e dal suo “principe”, così da far pensare che, quando ama davvero, l’uomo abbia molta più fede e costanza della donna. Infine, certi eventi appaiono al limite dell’inverosimile, ma è anche vero – come osserva la scrittrice – che le favole sono sempre possibili nella realtà!

sergio magaldi
                 

sabato 15 settembre 2012

ALEPH E... TANTO NARCISO nel romanzo di Paulo Coelho

Paulo Coelho, Aleph, Bompiani, Milano, Settembre 2011



  Mi ero ripromesso di non comprare né leggere più i romanzi di Paulo Coelho, poi qualcuno mi ha regalato Aleph e dopo diversi mesi ho deciso di mancare la promessa. Cosa speravo di trovarci? Forse m’incuriosiva sapere come il tanto celebrato scrittore - forse  il più incredibile fenomeno letterario mai prodotto dal circuito [o circo?] editoriale e mediatico - aveva ripreso un tema caro a Jorge Luis Borges [1899-1986], il grande scrittore argentino che, all’inizio degli anni Cinquanta, raccoglieva 17 racconti brevi sotto il titolo di El Aleph, “L’Alef”, che era anche il titolo dell’ultimo dei suoi racconti.


J.L.Borges, L'Aleph, U.E. Feltrinelli, Sedicesima ed.,Milano,1989, pp.179


 Pure, sapevo già che non avrei trovato nel libro di Coelho più di quello che avevo trovato in Lo Zahir [ben poco!], un precedente romanzo dell’autore brasiliano che prende anch’esso il nome da uno dei racconti, l’undicesimo per l’esattezza, di El Aleph di Borges [pp.101-113, ediz. citata]. Annota in proposito lo scrittore argentino:

 "La credenza relativa allo Zahir è islamica […] è uno dei novantanove nomi di Dio; la gente, in terra musulmana, lo usa per ‘gli esseri e le cose che hanno la terribile virtù  d’essere indimenticabili e la cui immagine finisce per rendere folli gli uomini.’" [p.109].

 Lo Zahir di Coelho riprende il tema di qualcuno o di qualcosa che scompare all’improvviso senza motivo e senza lasciare tracce, ma il cui ricordo o immagine continua a danzare nella nostra mente, creando un’ossessione dalla quale è impossibile liberarsi. Il romanzo narra la storia di un famoso scrittore abbandonato senza ragioni apparenti dalla moglie, scomparsa senza neanche dire una parola. Un nuovo amore e il successo letterario non bastano a liberarlo  da un’assenza e da un silenzio che continuano a tormentarlo.


Edizione Bompiani 2005



  Cos’è L’Aleph  per Borges? Che intende rappresentare lo scrittore con la prima lettera dell’alfabeto ebraico che, com’è noto, è il simbolo dell’unità nella totalità della manifestazione cosmica? Cosa vede, chiuso nella cantina del suo amico Carlos Argentino, che solo un attimo prima ha giudicato “folle”? 

  “Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
 Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”.
[pp.165-167]

  Cos’è l’Aleph per Paulo Coelho? Per quanto inspiegabile, l’Aleph si distingue addirittura in “Piccolo” e “Grande”, come l’autore chiarisce a Hilal, la giovane violinista che è con lui sul treno della Transiberiana e il cui nome in turco significa “Luna nuova”:

  “Come avrai capito, l’Aleph è pressoché inspiegabile. Comunque, nella Tradizione magica viene raffigurato in due modi ben distinti. Vale a dire come un punto nell’Universo che contiene tutti gli altri punti, presenti e passati, piccoli e grandi. La sua scoperta avviene per lo più in maniera casuale, com’è accaduto in treno. Perché ciò accada, la persona – o le persone – devono trovarsi nel luogo fisico in cui esso si trova. Gli adepti lo chiamano il ‘piccolo Aleph’. […] Come prima sensazione, provi una voglia incontenibile di piangere – non si tratta di un pianto di tristezza o di gioia, bensì di emozione. Sai che stai comprendendo qualcosa, sebbene non riesca a spiegarlo neppure a te stessa. […] Il secondo modo riguarda ‘il grande Aleph’.[…] Il grande Aleph è percepibile quando due persone con affinità molto rilevanti s’incontrano per caso nel piccolo Aleph […] equivalgono al polo positivo e a quello negativo di una qualsiasi batteria – e l’energia che ne deriva fa accendere la lampadina. Si trasformano nella medesima luce. Come i pianeti che si attraggono e finiscono per scontrarsi. E gli amanti che s’incontrano dopo tanto, tanto tempo. Dunque anche il grande Aleph si origina in maniera casuale, allorché due persone che il Destino ha scelto per una precisa missione s’incontrano nel luogo giusto.” [P. Coelho, Aleph, cit., pp.106-108].

 E il grande Aleph, naturalmente, è quello che a Coelho interessa di più: lui e Hilal s’erano conosciuti oltre cinque secoli prima, in una precedente incarnazione, e si amavano, o meglio era soprattutto lei ad amare lui, proprio come adesso: quando lei dice di amarlo, lui le risponde che la ama a modo suo, ma che non la desidera, la ama “come un fiume” [?!]. Perché si sono nuovamente incontrati in questa incarnazione? Lui deve chiederle il perdono per ciò che avvenne tanto tempo fa, quando nella Cordova di fine Quattrocento faceva parte del Tribunale dell’Inquisizione e, pur potendo salvarla, la lasciò morire sul rogo come strega.

 Il lettore non si aspetti molto altro dalla lettura di questo ennesimo romanzo di Paulo Coelho, praticamente senza trama e condito al solito di narcisismo: il viaggio promozionale, tra autografi e interviste, in compagnia degli editori, che culmina in Russia, interamente attraversata sul treno della Transiberiana, sino all’accennata udienza con Putin. E poi la solita “paccottiglia” New Age con “brevetto” incorporato per accedere alla conoscenza delle nostre precedenti incarnazioni, mediante il cosiddetto anello di fuoco, al quale dedica un intero capitolo [pp.149-156], senza tuttavia dire granché, ma sulla cui pratica – e sono le parole finali del libro – intende mettere in guardia i suoi lettori perché, osserva, “qualsiasi ritorno al passato senza un’esatta conoscenza del processo può determinare conseguenze drammatiche e disastrose”.


 Più che mai, dopo la lettura di Aleph, resto convinto che Paulo Coelho abbia scritto un solo bel libro, L’Alchimista, che poi è anche il romanzo che gli ha dato fama internazionale e successo. In sole 180 pagine, nella seconda metà degli anni Ottanta, gli riuscì di raccontare in forma poetica una storia simbolica che in quel tempo era nelle aspettative di molti giovani, proprio come Paulo Coelho, delusi dall’impegno politico. Dopo di allora, qualche bella pagina in romanzi per lo più noiosi. Oggi, con i soliti temi, racconta solo se stesso.



Edizione Bompiani, 1995



sergio magaldi

domenica 9 settembre 2012

Una storia d'amore tra le righe in 84 CHARING CROSS ROAD, il film riproposto Venerdì scorso in TV da Cinema Premium



  Charing Cross Road è una lunga arteria londinese che, dai pressi di Oxford Street, lasciandosi alle spalle Leicester Square, attraversa il centro della città sino a lambire Trafalgar Square. Al numero 84, c’era una volta… “Marks & Co.”, libreria antiquaria  di libri usati e di edizioni rare e fuori catalogo. Nel 1970, la scrittrice ebreo-americana Helene Hanff pubblicò un romanzo epistolare autobiografico contenente le lettere scambiate per vent’anni [1949-1969] con Frank Doel, commesso e poi socio della citata libreria. 

Edizione inglese del romanzo epistolare autobiografico di Helene Hanff, pubblicato da Virago Press, London 2002, con l'immagine della libreria "Marks & Co." di 84 Charing Cross Road
  
  Nel 1986 il regista David Hugh Jones portò la vicenda sullo schermo, con l’attore inglese Anthony Hopkins  nel ruolo di Frank Doel e l’attrice americana Anne Bancroft in quello di Helene Hanff. L’operazione non era certo delle più facili. Se è arduo scrivere un romanzo in forma epistolare, l’idea di portare sullo schermo uno scambio di corrispondenza appare addirittura impossibile. Eppure il film ebbe gran successo e ad Anne Brancoft fu assegnato, dalla British Accademy of Film and Television Arts, il premio per la migliore attrice protagonista. Non c’è dubbio che il merito spetti al regista e a tutto il cast, e soprattutto alla presenza nel film di due grandi attori, anzi di tre, considerando che il ruolo di Nora, la moglie di Frank, fu affidato ad un’attrice di valore come Judi Dench.

 Ma, al di là della bravura degli interpreti,  a che si deve il successo del film? Quella tra Helene e Frank fu forse una storia d’amore, vibrante di passione, al punto tale da coinvolgere emotivamente l’animo degli spettatori? Niente affatto. In un certo senso, lo scambio epistolare tra i due fu di natura commerciale: lei sempre a caccia di libri introvabili nei circuiti ordinari, lui premuroso nel reperirli e nel soddisfare le richieste di lei. Condivisione di un amore speciale: quello per i libri, che trascende addirittura in senso metafisico, quando lei leggerà, o meglio immaginerà di ascoltare Frank che recita un brano dei Sermoni di John Donne - teologo inglese vissuto tra XVI e XVII – che il libraio le ha appena spedito:
 
 "Tutta l'umanità è un solo volume. Quando un uomo muore, il suo capitolo non viene strappato via dal libro, ma tradotto in una lingua più bella, e ogni capitolo deve essere tradotto in questo modo. Dio si avvale di diversi traduttori: alcuni brani vengono tradotti dall'età, altri dalla malattia, alcuni dalla guerra, altri dalla giustizia, ma la mano di Dio raccoglierà di nuovo in volume i nostri fogli sparsi, per la biblioteca in cui ogni libro resterà aperto, l'uno per l'altro".
 
 Nel film, le voci che rimbalzano tra Londra e New York si alternano creando una preziosa melodia in cui la parola è sempre essenziale, mai superflua, e dove le immagini di Helene e Frank si avvicendano più eloquenti di qualsiasi discorso. Così, poco a poco, tra i due si crea una complicità e una garbata tenerezza che sa di reciproca comprensione. Lei, più esuberante, gli confida l’emozione provata nello sfogliare le pagine di un libro appena arrivato:
 
 “Mi piacciono moltissimo i libri usati che si aprono alla pagina che l'ignoto proprietario precedente apriva più spesso […]”.
 
  E quando sembra rimproverarlo, perché l’edizione scovata e ricevuta non risponde ai suoi desideri, il libraio le risponde con una delicatezza che va ben oltre il proprio interesse di venditore.

  Siamo agli inizi degli anni Cinquanta, la seconda drammatica guerra mondiale è appena terminata e a Londra i generi di prima necessità sono razionati, così Helene spedisce alla “Marks & Co.” di 84 Charing Cross Road  piccoli regali sottoforma di carne in scatola, uova in polvere e anche calze di nylon per la gioia delle commesse della libreria. E Frank ricambia spedendole in regalo edizioni preziose che fanno la felicità della scrittrice e le danno modo di esprimere, in contrasto con il flemmatico Frank Doel/Anthony Hopkins, l’innata vivacità e la velata malizia:

   “A tutti gli amici dell'84, Charing Cross Road,
   grazie per il magnifico libro. Non ne avevo mai posseduto uno con le pagine tutte bordate in oro prima d'ora. Ci credereste che è arrivato per il mio compleanno?
 Avrei desiderato che non foste stati così supercortesi da mandarmi la dedica su un bigliettino a parte invece che scriverla direttamente sul libro. È l'animo del libraio che spunta fuori in tutti voi, eravate preoccupati che sminuisse il valore del libro. E invece per l'attuale proprietaria lo avrebbe accresciuto. (E probabilmente anche per i futuri proprietari. Amo le dediche sulla prima pagina e le note a margine, mi piace il sentimento fraterno che si prova sfogliando pagine che qualcun altro ha già sfogliato. Leggendo passaggi che qualcun altro, magari da tempo scomparso, ha voluto segnalare alla mia attenzione.)
 E perché non avete firmato con i vostri nomi? Immagino che non ve lo avrà permesso Frank, probabilmente non vuole che io scriva lettere d'amore ad altri che a lui.
 Vi invio i saluti dall'America - perfida amica qual è, che versa milioni di dollari per la ricostruzione del Giappone e della Germania mentre lascia che l'Inghilterra muoia di fame. Un giorno o l'altro, a Dio piacendo, verrò lì, e mi scuserò personalmente per le colpe del mio paese (che, a sua volta, per quando ritornerò a casa dovrà certamente scusarsi per le mie di colpe).
 Grazie ancora per il libro stupendo, farò di tutto per non rovesciarci sopra del gin e non farci cadere la cenere, è veramente troppo delicato per tipi come me.
Vostra
Helene Hanff

  Poco a poco le lettere si fanno più personali. Naturalmente è lei a rompere il ghiaccio, cominciando con un “Caro Frank…” e lui timidamente a risponderle con “Cara Miss Hanff…”, finché annoterà semplicemente:

“Cara Helene,
           sono effettivamente d’accordo che è tempo di lasciar cadere il Miss quando le scrivo. In realtà non sono così riservato come lei avrà potuto credere, ma, dal momento che le copie delle lettere che le scrivo vanno negli archivi della ditta, mi pareva più opportuno rivolgermi a lei in maniera formale. Tuttavia, dato che questa lettera non ha nulla a che vedere con i libri, non ne farò alcuna copia […]”

  È appena superfluo osservare che il successo di 84 Charing Cross Road si spiega anche con la nostalgia di un mondo che, appena venticinque anni fa, quando il film uscì, era in procinto di scomparire: parole tracciate sulla carta, con sobrietà e stile, in confronto ai messaggi sbrigativi che siamo soliti ormai scambiarci elettronicamente, dove grammatica e sintassi sono spesso latitanti e dove un “cmq” vale un “comunque”, una “x” sostituisce un “per” e una piccola croce “+” un più…

 Ricordo ai “pescatori di perle” e non solo, che il DVD del film si può acquistare in rete [su IBS e altrove] e che, con lo stesso mezzo, si può avere anche l’edizione italiana del piccolo romanzo epistolare.

Edizione Archinto, Le Vele, 2003, pp.128


  La storia di Helene e Frank è una storia d’amore tra le righe, anche se i due, per una serie di circostanze intervenute all’ultimo momento, non riusciranno mai ad incontrarsi di persona. In quel confessare di Helene a Frank che lui è “l’unica creatura al mondo che la capisce” o nel chiedergli in un giorno di primavera “un’ottima edizione di poesie d’amore”, c’è molto di più di un semplice “ti amo”. E nel volto di Frank - che le ha appena spedito il libro richiesto - mentre Helene ascolta i versi d’amore di Yeats, c’è molto di più del compiacimento di un libraio per aver accontentato un cliente esigente:
  

He Wishes for the Cloths of Heaven
   "Had I the heaven's embroidered cloths
Enwrought with golden and silver light
The blue and the dim and the dark cloths
Of night and light and the half-light,
I would spread the cloths under your feet:
But I, being poor, have only my dreams;
I have spread my dreams under your feet;
Tread softly because you tread on my dreams".
   
Egli desidera i drappi del cielo
 “Se avessi i drappi ricamati dal cielo/Intessuti di luce d’oro e d’argento/I drappi blu, e vaghi e oscuri/Della notte, del chiarore e della penombra,/Li stenderei sotto i tuoi piedi./Ma sono povero, ho solo i miei sogni./E i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi./Cammina leggera perché cammini sui miei sogni”.




sergio magaldi

mercoledì 5 settembre 2012

PER ALFRED ROSENBERG MA NON PER HITLER ESISTEVA UN "PROBLEMA SPINOZA"...

Irvin D. Yalom, Il problema Spinoza, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2012, pp.441



 Benché  Il problema Spinoza  sia solo il titolo di un romanzo di Irvin D. Yalom, non c’è alcun dubbio che contenga una verità: per Alfred Rosenberg, teorico del nazismo, esisteva un problema collegato all’ebreo Spinoza. La fonte viene dal rapporto ufficiale dell’incaricato dell’ ERR [Einsatzstab Reichleiter Rosenberg] che  durante l’occupazione tedesca dell’Olanda, nel corso della Seconda guerra mondiale, operò il saccheggio dei libri della biblioteca di Spinoza e annotò quanto riferitogli  dal suo comandante:

 “Contengono opere giovanili preziose, di grande importanza per l’esplorazione del problema Spinoza”.

 Che il filosofo portoghese, ebreo sefardita, vissuto in Olanda, costituisse un problema per Hitler e per i gerarchi del nazismo, appare poco credibile, ma che lo fosse per Rosenberg, filosofo e ideologo del regime, non deve sorprendere più di tanto. Perché, se è vero che l’episodio del preside della Petri-Realshule di Reval [Estonia] – che costringe il giovane Alfred ad imparare a memoria le citazioni di Spinoza, contenute nell’autobiografia di Goethe – è solo un espediente narrativo, resta dimostrata la grande ammirazione che Rosenberg nutriva per Goethe, a sua volta grande estimatore di Spinoza.

 Com’è possibile che il più geniale degli spiriti tedeschi si riconosca, per il suo modo di pensare, addirittura debitore di un ebreo? Si chiederà Rosenberg per tutta la vita. Incredulo, cercherà inutilmente di trovare la risposta nelle opere di Spinoza:  Etica Trattato teologico-politico. Oscillerà poi tra posizioni diverse: ritenere il grande filosofo un non-ebreo, un uomo che ha voluto con forza il cherem e l’estraneazione dalla comunità ebraica di Amsterdam, e, al contrario, uno spirito forte ma capace di “infettare”, come ogni altro ebreo, anche la più geniale mente tedesca.
B.Spinoza, Etica, Laterza, 2009
B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi,1997
  
  











  
  Alfred Rosenberg non fu soltanto ammiratore di Goethe e dei più grandi poeti e filosofi tedeschi, egli fu anche seguace e divulgatore di Houston Stewart Chamberlain [1855-1927], un inglese naturalizzato tedesco, autore di Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts, “I fondamenti del XIX Secolo” e genero del musicista Richard Wagner. Chamberlain sosteneva nel suo libro la superiorità della cosiddetta razza ariana e la predestinazione del popolo tedesco a governare l’Europa. Le sue idee, combinate con quelle dell’antisemitismo più viscerale, fruttificarono nella mente del giovane Rosenberg sino a materializzarsi nei numerosi articoli che scrisse per Wölkischer Beobachter, il periodico diretto da Dietrich Eckart [1868-1923]. Era costui drammaturgo e giornalista, definito da Hitler “l’amico paterno”, fondatore del Deutsche Arbeiterpartei, successivamente divenuto il National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei,  NSDP, cioè il partito nazionalsocialista tedesco.
  
H.S. Chamberlain, l'autore di I fondamenti del XIX Secolo
  
Dietrich Eckart, "l'amico paterno" di Hitler


 In questo stesso periodo avviene la conoscenza tra Hitler e Rosenberg. Il complesso rapporto tra i due è descritto da Yalom con acume psicologico: l’ideologo del nazismo che, sulla scia di Chamberlain, scrisse un libro di grande successo, Il mito del XX Secolo, conservò sempre per Hitler una sorta di venerazione congiunta al desiderio di essere da lui ascoltato e considerato. Il Führer, dal canto suo, se pubblicamente manifestò sempre la sua ammirazione per l’ideologo del regime, in privato era solito disprezzarlo così come lo disprezzavano, per la verità ricambiati, i più alti gerarchi del nazismo. Gli conferì incarichi prestigiosi, ma lo emarginò sempre dalle scelte politiche del partito, ritenendolo troppo sofisticato per il suo palato plebeo di autodidatta.

Rosenberg e Hitler
  

 A tratti, Yalom sembra voler considerare Rosenberg con qualche indulgenza, persino all’oscuro che la “soluzione finale” del problema ebraico consistesse nella soppressione fisica di milioni e milioni di ebrei, invece della loro “semplice” espulsione dal suolo tedesco, come Rosenberg sembrava auspicare. L’autore tende a presentarlo come una natura problematica e tormentata, un solitario complessato dalla prematura scomparsa della madre, un uomo mediamente colto e intelligente, ma dalla mente ottusa, a caccia di “idee forti” per padroneggiare se stesso e la propria nevrosi.

  In parallelo, con capitoli che si alternano rigorosamente con quelli dedicati a Rosenberg, si svolge nel libro la vicenda di Spinoza, vissuto circa tre secoli prima. Al dato storico mancante si sostituisce spesso la fantasia o l’intuizione probabile della verità, ma il filo della narrazione si dipana attorno a eventi certi della vita del filosofo, come per esempio nella  celebrazione del cherem pronunciato dal rabbino capo della comunità sefardita di Amsterdam e riportato fedelmente nel testo originale [pp.200-201] o nel racconto di Franciscus van den Enden, suo maestro di greco e di latino, e di sua figlia Clara Maria, di cui Spinoza pare fosse innamorato ma che andò sposa al suo amico Dirk.

 I dialoghi abbondanti, di cui Baruch, Bento o Benedictus Spinoza è protagonista nel romanzo, benché non avvenuti nella realtà e/o scambiati con personaggi di fantasia, sono tratti dalle opere più importanti del filosofo e dalla sua corrispondenza. Anche lui, come Rosenberg, appare un individuo solitario, persino misogino, ma la scelta di Spinoza fu di segno esattamente contrario: se l’ideologo del nazismo, per placare l’ansia di vivere e i forti sentimenti che lo agitano, ha bisogno di far parte di un gruppo di facinorosi, in cui peraltro non si troverà mai a proprio agio, Spinoza, anche se a malincuore, abbandona la comunità di cui è parte e in cui sarebbe naturalmente destinato a primeggiare, per un bisogno di libertà del pensiero e nella ricerca della pace interiore.

  Se si vuole trovare un difetto nella ricostruzione romanzata che Yalom fa di Spinoza, si può forse parlare di una certa pedanteria che traspare dalla figura del grande filosofo, la cui breve vita, tuttavia, non per colpa dell’autore, scarseggia, a quel che se ne sa, di episodi documentati in grado di movimentarne le gesta a beneficio dei lettori. Il libro è comunque di lettura scorrevole ed è non solo per gli appassionati di storia e di filosofia, ma veramente per tutti.

sergio magaldi