lunedì 26 novembre 2012

IL MILAN BATTE LA JUVE CON LA MANO DI...






 Nocerino sbatte il pallone con la mano sul fianco di Isla e per  Rizzoli è subito rigore! La svista arbitrale non ha giustificazione per tre motivi: 1)I due giocatori sono a distanza ravvicinata 2) Il centrocampista del Milan colpisce il pallone con la mano 3) Il centrocampista della Juve ha le braccia sollevate in aria [forse proprio per evitare di commettere un fallo] e la palla gli rimbalza sul fianco, sotto l’ascella. Il gioco andava dunque interrotto, non per dare il penalty della vittoria al Milan, ma un calcio di punizione a favore della Juventus. Persino Allegri, allenatore del Milan, ammette che il rigore era inesistente. Detto questo, occorre riconoscere che il Milan ha giocato meglio della Juventus e che, sotto questo profilo, ha meritato la vittoria.

  La vittoria di Pescara con largo punteggio e soprattutto la splendida vittoria contro i Campioni d’Europa in carica [Il Chelsea di Champions League] devono avere illuso i bianconeri, dopo il campanello d’allarme della sconfitta interna contro l’Inter. Gli addetti ai lavori, da Alessio vice-allenatore della Juve ad Arrigo Sacchi commentatore TV, parlano tutti di una giornata “storta” in cui la squadra non ha giocato come è solita fare. Non sono d’accordo e le ragioni le ho già dette nel post del 7 Novembre u.s., “La Iuventus cade nel derby d’Italia e non fa 50!”. Le ripropongo in sintesi:

 1)Il “calcio totale” praticato dalla Juve e di cui parla Sacchi con ammirazione [gioco che quando ha successo esalta il ruolo dell’allenatore, talora a discapito dei grandi campioni] sta diventando sempre più decifrabile per gli avversari. 2)La squadra, nonostante abbia il secondo migliore attacco del Campionato [preceduto soltanto da quello della Roma di Zeman], stenta sempre nell’andare a rete per la mancanza di una vera punta centrale, come si è visto contro il Milan, quando tutte le azioni della Juve convergevano al centro dell’aria di rigore avversaria dove non c’era nessuno per colpire a rete. 3)Lo schema tattico della Juventus per essere utilizzato efficacemente presuppone la forma fisica dei suoi interpreti, al 100%. 4)Il visibile calo di rendimento di un grande regista come Pirlo, divenuto all’improvviso lento ed impreciso, e di un buon centrocampista come Marchisio, negli ultimi tempi [anche in Nazionale] apparso in confusione. 5)Lo scarso turnover di una rosa che per qualità e quantità non ha pari nelle altre squadre del campionato italiano. 6)La progressiva “cannibalizzazione” di giocatori dotati di personalità e fantasia: Krasic, Matri, Del Piero [cui è stato dato frettolosamente il “benservito”], ora anche Pogba [che da quando è stato accusato di “indisciplina tattica” è stato fatto giocare per pochi minuti e che non ha ripetuto le grandi prestazioni fornite in precedenza] e forse persino Lichtsteiner al quale ieri è stato preferito prima Isla, che dalla fascia non è mai riuscito a crossare nell’area avversaria, poi il modesto Padoin. 7)Il ragionevole dubbio che anche l’acquisto di una grande punta [che probabilmente non sarà mai fatto] sarebbe vanificato nelle dinamiche di gioco di questa Juve.

 Tutto ciò a prescindere dal fatto che, senza il rigore inesistente, la brutta Juve di ieri sera avrebbe pareggiato 0-0, che gli avversari italiani dei bianconeri hanno i loro problemi e che i numeri dello scorso anno, in cui la Juve vinse lo scudetto, erano inferiori a quelli di quest’anno: 30 punti nelle prime 14 partite contro i 32 di quest’anno, lo stesso numero di goal subiti [10] ma 24 goal fatti contro i 29 del campionato in corso. Inoltre, l’anno passato, dopo 26 partite, il bilancio della Juve era di 13 vittorie e 13 pareggi, mentre in questo sono già 10 le vittorie su 14 partite giocate. Resta il fatto preoccupante che, nelle ultime quattro partite di Campionato, il bilancio è di due sconfitte, un pareggio e una vittoria contro modesti avversari. Resta ancora l’osservazione, non propriamente inutile, che le due sconfitte [come pure i due pareggi contro Fiorentina e Lazio] siano avvenute contro squadre che nel loro organico hanno giocatori di grande personalità [Inter e Milan].

sergio magaldi

giovedì 22 novembre 2012

VENUTO AL MONDO film di Sergio Castellitto

VENUTO AL MONDO, regia di Sergio Castellitto, Italia, Spagna, Croazia 2012, 127 minuti



 Senza la presenza di un’appassionata Penelope Cruz, grande come sempre, e senza la convincente interpretazione di Adnan Haskovic nei panni del poeta bosniaco Gojko e di Saadet Aksov, in quelli di Aska, “la cicogna”, il film tratto dall’omonimo, ottimo libro di Margaret Mazzantini, avrebbe forse rischiato il flop.

 La regia non appare convincente, come del resto la sceneggiatura in cui, pure, Sergio Castellitto si è giovato della collaborazione della moglie e autrice del romanzo: dialoghi scarni e lapidari che dovrebbero favorire la comprensione e che finiscono col lasciare spazio a immagini e vicende che si susseguono rincorrendosi le une con le altre e strutturandosi come in tante scatole cinesi.






  Il patos che accompagna il lettore nelle pagine del libro si stempera spesso in una serie di “quadri” talora cruenti e ripetitivi. Per non parlare della musica assordante e/o spesso “fuori luogo” che scandisce le scene. Tutto ciò, senza dimenticare certe scelte del regista [Ironia tragica e voluta?], come quella di utilizzare nella parte di Pietro adolescente, il proprio figlio [Pietro Castellitto], bravo di sicuro, con gli occhi espressivi della madre vera [Margaret Mazzantini] e della madre del film, ma così troppo somigliante fisicamente al padre adottivo Giuliano [nella tragica realtà che il film presenta delle “paternità sconosciute”], il colonnello dei carabinieri, interpretato dallo stesso Sergio Castellitto. Nonché nell’utilizzare i sapienti “ammiccamenti” del grande interprete [Luca De Filippo] del suo geniale padre [Eduardo], nella parte di Armando, il padre di Gemma.

 Se non fosse per l’ultimo quarto d’ora o poco più, Venuto al mondo di Castellitto farebbe perdere di vista il dramma della guerra bosniaca, l’inferno di Sarajevo in fiamme, lo stupro etnico, la commozione e l’eterna malvagità dell’uomo e più probabilmente si segnalerebbe come la vicenda privata di una coppia borghese, ossessionata dall’idea di non poter avere figli e determinata a pagare qualsiasi cifra pur di adottarne uno che, agli occhi di una donna sterile e innamorata, “proprio come il padre sia bello come il sole”.

 Neppure si tratta, così come viene realizzata, di una grande storia d’amore, nonostante l’affermazione che risuona nel film e cioè che “gli amori più assurdi sono i migliori”, perché Diego, il bizzarro e fantasioso fotografo americano [Emile Hirsh, l’attore americano dal volto lunare e “bosniaco”, per me non del tutto convincente nel ruolo] e Gemma [Penelope Cruz, bella anche quando è invecchiata per esigenze di copione], non riescono ad essere gli amanti che sfidano il tempo: lei vuole un figlio da lui: “Un lucchetto di carne”, che incateni Diego a sé, lui dichiara mezzo imbambolato che un figlio è quello che vuole dalla vita, l’asseconda, ma in realtà è troppo chino su se stesso per volere realmente qualcosa. E persino la camera da presa, generosa quando va sui primi piani di sangue della morte e della nascita, allarga troppo l’obbiettivo sui particolari del corpo degli amanti, rendendo l’amplesso angoscioso e poco visibile.

 Insomma, non era facile tradurre sullo schermo un romanzo come Venuto al mondo, per i tanti piani di lettura che la scrittura pregevole della Mazzantini aveva saputo armonizzare, ma che la versione cinematografica tende inesorabilmente a squilibrare, appiattendo la narrazione e finendo col presentare messaggi talora contraddittori che fanno perdere di vista allo spettatore l’unità dell’opera. Dispiace, perché non è discutibile il talento di Pietro Castellitto come attore, né quello di Margaret Mazzantini come scrittrice. Un film comunque da vedere e che di sicuro dividerà nel giudizio critica e platea.






sergio magaldi

venerdì 16 novembre 2012

L' ALBERO DELLA VITA

Disegno originale di A. Cesselon, dalla copertina del libro di Sergio Magaldi Tiphereth-Sentieri d’armonia, Roma, 2004. 


Avvertenza: per visualizzare le lettere dell'alfabeto ebraico occorre scaricare da internet il font Hebrew truetype e installarlo nel proprio pc.

l’albero e l’uomo

  L’analogia di albero e uomo è presente nel Pentateuco [ “L’uomo è come l’albero del campo”, Deuter. XX,19 ] e trova nel Timeo platonico la sua elaborazione concettuale:

“E della specie più alta dell'anima umana che abita nella sommità del nostro corpo, convien pensare che Dio l'abbia data a ciascuno come un genio tutelare, e che essa ci sollevi da terra alla nostra parentela del cielo, come alberi non terreni ma celesti: e questo noi diciamo molto rettamente. Perché, sospendendo il capo e la radice nostra a quel luogo, donde l'anima trasse la sua prima origine, il nume erige tutto il nostro corpo. Quello dunque che s'abbandona alle passioni e alle contese e molto vi si travaglia, di necessità non concepisce se non opinioni mortali e proprio niente trascura per divenire, quanto si può, mortale, perché accresce la parte mortale: quello invece che si è applicato allo studio della scienza e alla ricerca della verità ed ha specialmente esercitato questa parte di se stesso, se raggiunge la verità allora è del tutto necessario che abbia pensieri immortali e divini [...] per quanto la natura umana possa partecipare dell'immortalità...” (Platone: Timeo, 90a-c).

 A Platone fa eco il famoso Rabbi Lev [Il Maharal di Praga, Yehudà Lev Ben Bechamel, cui fu attribuita la creazione del Golem] : “…ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa nella terra, mentre l’uomo ha la radice in alto perché la sua radice è l’anima che è di origine celeste…”.

Diagramma dell'albero della vita o albero delle Sephirot, con la numerazione dei canali  o sentieri cosiddetti emotivi 




 Se l’albero è l’uomo, un po’ in tutte le tradizioni, l’albero della vita, nella tradizione ebraica, è paragonato ad una colonna Etz,  albero    x u   160 =  7, Ammud, Colonna  d w m u 120=3, 7+3 = 10] e dunque per ghematria[1] all’albero delle Sephiroth.[2] La colonna è come il giusto (Sepher Bahir), tale colonna sostiene il mondo intero e il giusto è il fondamento del mondo (Prov. 10, 25).

 Joseph Giqatilla (1248-1325 circa), sefardita castigliano e discepolo di Abulafia, ricorda che a fianco di Yesod, colonna del mondo, sono Hod e Netzach. Per Mosé de Leon [presunto autore dello Zohar, tra il 1280 e il 1285] la colonna è come il Sole [cioè Tiphereth, la colonna di mezzo], e rappresenta il patto santo attraverso cui l'energia di Tiphereth si diffonde in Malchuth tramite Yesod.
 Nel Chassidismo l'ascesa messianica cessa di essere la duplice aspettativa (regale e/o spirituale) e si identifica in Baal Scem Tov con l'ascesa di mondo in mondo lungo la colonna di mezzo [menzionata anche in Liqquté Amarìm I, 39] per acquisire nuove conoscenze e una nuova coscienza.

 La nuova consapevolezza, rispetto all'attesa messianica, è che non si tratta più di attendere la venuta di un messia, ma della possibilità che tutti siano in grado di compiere l'ascesa lungo la colonna (o spina dorsale), attraverso gli Heikhaloth [I palazzi della tradizione ebraica, assimilabili ai Chakras della tradizione orientale]. Occorre tuttavia badare a non cadere nel peccato di idolatria divinizzando l'albero, la colonna di mezzo, quella del mondo, il serpente, il sole, la figura di un messia etc...


il giardino e l'Eden.

 Il Gan [G g =53 = 8] Eden [ G d u =124 = 7, come Etz albero], il giardino di Eden, è un luogo di delizie (124+53=177=15 = 6) ed equivale alla sesta Sephirah, Tiphereth, la colonna di mezzo, ma il giardino, come si ricorda in Aesh Mezareph, ha una etimologia che si lega al fiume Giordano: Yar Din, il Giordano, cioè il fiume del giudizio  G y d   r y  50+10+4+200+10=274=13=4, il numero del quaternario. Qui, il serpente non ancora striscia, non ancora è nella forma che prenderà dopo la cacciata dal Gan Eden di Adamo ed Eva (Genesi, 3, 14). La sua presenza è spiegata dalla tradizione nel senso che, benché Adamo ed Eva avessero l'obbligo di custodire il giardino, non avevano quello di restarvi entrambi, perché era luogo di privilegio e non un carcere. Quindi Eva, avendo lasciato Adamo a custodire il giardino, poté uscirne fuori e incontrare il serpente tentatore, permettendogli poi di entrare nel giardino che Dio aveva creato per l'uomo. Eva avrebbe dunque già peccato, prima ancora di assaggiare il frutto proibito, perché l'obbligo di custodire il giardino implicava forse che non vi si facessero entrare estranei, e il serpente doveva essere un estraneo. Oppure il serpente si trovava già nel giardino? 

 Nel 1°giorno Dio crea la luce, nel 2°separa le acque, nel 3° crea la vegetazione, nel 4° i luminari, nel 5° gli animali dell'aria e dell'acqua, nel 6° prima gli animali terrestri, poi l'uomo a propria immagine e somiglianza. Anche volendo considerare questo I Capitolo del Genesi come la summa di tutto ciò che viene detto dopo, per ciò che riguarda la presenza del serpente nel giardino occorre considerare quel che è detto nel versetto II, 19, e cioè che (dopo aver posto l’uomo nel giardino di Eden) Dio presentò tutti gli animali ad Adamo perché li nominasse, dunque anche il serpente. Solo più tardi, apparve Eva. Quindi non solo il serpente, ma ogni altro animale aveva accesso al giardino dell'Eden per volontà stessa di Dio oppure la presentazione degli animali ad Adamo è avvenuta nel giardino, ma fuori dell’Eden.

 C'è infatti da osservare che nel Genesi, giardino ed Eden sembrano cose distinte: piantò un giardino in Eden, è detto, mentre altre volte il Gan Eden diventa il Giardino delle delizie. Sembra però prevalente la distinzione. E che siano distinti non c’è dubbio: lo sostiene innanzi tutto la Mishnah che com’è noto è la Torah orale. In Berachot, 34b è detto esplicitamente: “Potreste dire forse che Giardino ed Eden sono la stessa cosa, per questa ragione un testo insegna: ‘un fiume usciva da Eden per innaffiare il giardino (Genesi, 11, 10)’. Eden e giardino sono quindi due cose distinte”.

 Anche nella letteratura midrashica Eden e giardino sono distinti. Il giardino di Eden è un luogo chiuso circondato dai divini Palazzi che si trovano in Eden. Inoltre, in Genesi II, 10 è detto che dall'Eden usciva un fiume che irrigava il giardino (le 10 Sephiroth) e di lì si divideva in quattro rami [Sapienza, Intelligenza, Grandezza (Ghedullah, altro attributo di Chesed, Clemenza o Grazia) e Potenza (Gheburah che è anche Din, Giudizio e Pachad, Terrore), oppure il fiume che esce da Eden indica il canale che da Kether giunge a Tiphereth per irrigare il fondamento (Yesod) assieme a Netzach, Hod e Malchut i 4 rami ].

  In Zohar I, 247b, Eden è Kether: “quando tutto è unito, un diletto si diffonde in alto come in basso e diviene un fiume che si effonde per 4 rami uscendo da Eden”. I rami sono le Sephiroth in analogia con la Tetractis egizio-pitagorica

                                                                                             

 

    .             1°  Sephirah                           

                                                                                           
    .    .          2° e 3°                                     
                                                                                           
   .   .   .        4°, 5° e 6°
                                                                                       
.    .    .   .     7°, 8°, 9° e 10°

e può esservi riferimento anche alle 4 lettere del Nome (Tetragramma), escludendo la Sephirah Kether che può essere soltanto vagheggiata


                   
 y                    .            2°                        Chokmah                                                                                                                                                           
  h                  .    .       3°                        Binah                                                          
  w                  .   .   .      4° 5° e 6°           Chesed, Gheburah e Tiphereth        
 h             .   .    .    .    7°, 8°, 9° e 10°   Netzach, Hod, Yesod e Malchuth   

anche se la distinzione tra le 7 Sephiroth cosiddette emotive è puramente metodologica.


 l’albero e il serpente

 C’è un'altra possibilità per spiegare la presenza del serpente nel giardino. Rabbi Lev, il creatore del Golem, in Sepher Netivot Olam (Il libro delle vie del mondo) sostiene la parentela tra l'uomo e il serpente, che era, tra l'altro, il re degli animali e che non avrebbe altrimenti potuto accompagnarsi con lui e tentarlo. Questa parentela non risiede per caso nella spina dorsale? Secondo una leggenda talmudica, alla morte di un uomo, dalla sua spina dorsale nasce un serpente. La ghematria di Nachash, c j n (300+8+50)=358=7, [stesso numero minore di Eden: Ayin-Daleth-Nun=70+4+50=124=7] è la stessa di Mashiach, messia j y c m  (8+10+300+40)=358=7 e di Choshen, pettorale n c j (50+300+8)=358=7. Il messia può essere scudo e salvezza oppure divenire un astuto tentatore. Il serpente, come strumento di Samaele (diavolo) che lo cavalca, è in realtà un cammello assai prezioso nel deserto.

 In Genesi Rabbah (XX,2) si fa notare che dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato, Dio discute con loro, ma non col serpente che viene immediatamente condannato (Genesi, 3, 14), perché parlare con lui è inutile, egli è astuto ed avrebbe sostenuto che così come Dio aveva dato un ordine, lui aveva suggerito un'altra scelta. Non si deve parlare con lui perché è un incantatore: di qui la tradizione cristiana che identifica i suoi incantesimi verbali con quelli del demonio: "Sì... sì... no... no, il resto è del maligno".

 L'astuto serpente aveva sopraffatto Eva, è detto in Genesi Rabbah XIX, 4, facendo insinuazioni sul suo Creatore e affermando: “Dio ha mangiato di quest'albero e poi ha creato il mondo, per questo vi ha detto di non cibarvene, perché non possiate creare altri mondi... e divenire come lui".


l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male

Tra i tanti alberi, nel giardino c'è l'Albero della vita e l'Albero della conoscenza del bene e del male. Gli studiosi della Torah s'interrogarono a lungo su che Albero fosse quello della conoscenza e dunque sul frutto che il serpente dette ad Eva ed Eva ad Adamo. Furono sempre indecisi tra quattro frutti: il grano, l’uva, il cedro e il fico.

 Alcuni dissero: “è il grano”, altri risposero: “anche se la conoscenza ci viene dal grano, è scritto albero e non esiste un albero del grano”. Rabbi Jehudah b. Ilaj disse che era uva perché in Deuteronomio è scritto: “la loro uva è uva velenosa ed i grappoli sono grappoli amari”. Quell’uva, infatti, fu amara al mondo esiliato da Dio. Qualcuno si alzò e disse: “non è l’uva perché da lei viene il vino che è il simbolo della vera conoscenza della Torah e della sua dolcezza.  E la vite da cui l’uva viene è come Israele che si appoggia alla Torah”.

  Rabbi Abbà di Akko disse: “era un cedro, come sta scritto in Genesi: la donna vide che era buono l’albero da mangiarsi”. E spiegò: “l’unico albero che si mangia come il frutto è il cedro, non ci nutriamo forse dei suoi germogli freschi?”.

 “No – disse Rabbi José – è il fico”. E chiarì prima i motivi per cui non era il cedro.
 
  Il cedro è un albero di bell’aspetto: Perì ’Etz Hadar, simbolo di forza, di bellezza e di sapienza e Dio stesso chiama Casa di cedro il Tempio di Salomone. Il cedro è anche simbolo di Abramo, del Sinedrio, del popolo ebraico, del cuore dell’uomo. Il frutto del cedro fa parte del Lulav per la mitzwah di Sukkoth o festa delle Capanne. E dunque non può essere il cedro.

 “L’albero della conoscenza del bene e del male – aveva concluso Rabbi José – è dunque il fico, perché fu l’unico albero ad accogliere Adamo ed Eva dopo il peccato; cioè, l’albero di cui mangiarono il frutto che provocò la malattia, fu anche l’unico ad offrire le foglie del farmaco temporaneo”.

 Ma anche Rabbi José trovò i suoi oppositori e qualcuno disse che non era il fico, il frutto della caduta, perché il fico è come la Torah. L’albero del fico ha radici morbide e che, tuttavia, s’infiltrano anche nella roccia più dura, proprio come la Torah. E questo è un albero i cui frutti si raccolgono un po’ per volta, come solo un po’ alla volta è possibile studiare la Torah. E come il fico è un albero che fin tanto che lo frughi trovi frutti, così è la Torah che più si studia, più se ne traggono insegnamenti. E insomma il vero frutto dell’albero della conoscenza non fu mai trovato.

 Esaminiamo Genesi, II, 8: “E il Signore Dio piantò un giardino in Eden [Gan Eden= 53+124=177=15=6; cioè Tiphereth, la colonna di mezzo] a oriente, e vi pose l’uomo che aveva formato, 9: E il Signore Dio fece spuntare dal suolo tutti gli alberi belli a vedersi, dai frutti soavi al gusto. Fece crescere Etz Chayyim gan betrok (l'albero della vita entro o in mezzo al giardino) e l'albero della conoscenza del bene e del male” [Etz Daat  t u d   x u  è 160+474=634=13=4 come Amud Hashidrah colonna vertebrale   h r d c h   d w m u   e come Yar-din, il fiume del giudizio, il quaternario. Diverso invece il valore dell’albero della vita: Etz Chayyim  J y y j  x u 160+8+10+10+40=228=12=3. I due alberi sono dunque distinti anche nel loro minore valore numerico, ma l’unità dei due alberi [la loro somma e la loro moltiplicazione] fa scomparire nuovamente il valore dell’albero della conoscenza. La loro somma produce il 7 e la loro moltiplicazione nuovamente il 3, il valore dell’albero della vita].

 Così continua Genesi II, 10: “Dall’Eden sgorgava ad irrigare il paradiso, un fiume che dal paradiso si sprigionava in 4 fiumi diversi II, 15: Il Signore Dio perciò prese l'uomo e lo pose ad abitare nel giardino di Eden affinché lo coltivasse e lo custodisse, 16: Gli diede questo comandamento: ‘mangia pure di ogni albero del giardino 17: ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare, perché nel giorno in cui ne avrai mangiato certamente morirai’, III, 1 Il serpente [...] disse alla donna: ‘Perché Dio vi ha comandato di non mangiare del frutto di tutte le piante del giardino?’ 2-3: la donna disse al serpente: ‘Dei frutti di qualunque albero del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta betrok gan, (entro o in mezzo al giardino), Dio ha detto: ‘Non ne mangiate, anzi non lo toccate altrimenti morirete’, 4-5: ma il serpente disse alla donna: ‘No, voi non morrete. Anzi, Dio sa bene che in qualunque giorno ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come lui, conoscitori del bene e del male’. Dopo di che (III,6) la donna tocca e mangia e ne dà ad Adamo.”.

 Che si tratti di un solo albero e viceversa di due luoghi distinti (Eden e giardino) non c’è dubbio. La stessa Eva, nel rispondere al serpente, non nomina l'albero della vita né lo distingue da quello della conoscenza, ma chiarisce al serpente che l'albero di cui è proibito toccare e mangiare i frutti è quello che si trova in mezzo o per entro il giardino. Esattamente quel che è detto con quel Etz Chayyim gan betrok (l’albero della vita che sta in mezzo o entro) del versetto II, 9.

 L'albero della vita distinto da quello della conoscenza si trova menzionato solo nel versetto II, 9 del racconto biblico e lo incontreremo nuovamente solo alla fine della vicenda, quando Adamo ed Eva avranno già consumato il frutto.

 D'altra parte e ancora, se gli alberi fossero stati due e i frutti dell'albero della vita non fossero stati proibiti, l'uomo avrebbe potuto mangiarne e rendersi immortale prima ancora di assaggiare i frutti dell'albero della conoscenza. E se erano proibiti anche i frutti dell'albero della vita, allora gli alberi da cui era vietato mangiare sarebbero stati due e non uno soltanto come si ribadisce più volte.

 Si deduce da tutto ciò: in mezzo o entro l’Eden c'è un giardino irrigato (Fiume del Giudizio) in cui solo Adamo ed Eva possono entrare e che hanno il dovere di custodire. Come abbiamo già visto questo giardino è un luogo chiuso, circondato dai Palazzi divini che si trovano al centro del Gan Eden. Per entro (be-trok) il giardino in realtà si trova un solo Albero, l'albero della vita che per tutti gli uomini diviene albero della conoscenza del bene e del male, allorché Adamo ed Eva lo toccano e ne mangiano il frutto proibito. Questa stessa interpretazione si trova nel Chassidismo: "Il primo uomo peccò a causa dell'albero della conoscenza e introdusse una divisione tra tale albero e quello della vita" osserva Baal Shem Tov.

  In altri termini, l'albero della conoscenza sta all'albero della vita, come l’occulta e misteriosa Daat, che peraltro non è una Sephirah, sta all'albero delle Sephiroth. E Daat non è una Sephirah perché in origine non appartiene all'Albero, analogamente la conoscenza diventa un progetto umano ma non è parte originaria del progetto divino.

  Del resto, “il segreto dell'albero della vita collegato a quello della conoscenza”, come in Sha 'aré Orah (le Porte della Luce) afferma Joseph Gikatila, è ben noto ai cabbalisti prima ancora dei Chassidim.

 Già l'autore del Sepher bahir (Il libro fulgido, 1150 circa) si mostra convinto che non ci sia che un solo albero. Qui è Dio a parlare in veste di agricoltore archetipico (22, 14b): "Io sono colui che ha piantato quest'albero...tutto ho fissato in esso e l'ho chiamato Totalità, giacché da esso tutto dipende e da esso tutto deriva".

 Cos'è quest'albero? Lo dice ancora il Sepher bahir (119 e/o 85): "le forze del Santo, benedetto egli sia, sono poste una dentro l'altra e assomigliano a un albero. Come l'albero dà frutti grazie all'acqua, così il Santo, benedetto egli sia, accresce le forze dell'albero per mezzo dell'acqua [...]  Grazie a cosa sgorgano le acque? Grazie [...] alla Shekinah..."

 E c'è di più: le acque benché distinte in superiori e inferiori provengono entrambe da un solo albero che è l'albero della vita. Com'è detto in Tiqqune ha-Zohar (Gli ornamenti dello splendore) degli inizi del 1300: "Invero le pietre di marmo puro sono le due yud, comprese nell'Alef   a   l'una superna e l'altra inferiore, e perciò non vi è impurità [...] né (vera e propria) distinzione tra acqua e acqua, poiché tutto è unito assieme e proviene dall'albero della vita che è la Waw posta al centro dell'Alef".

 E in Zohar (II, 84b) è detto che queste due Yud sono le stesse due gocce di   Tal,  rugiada  l f  che il signore rese solide come pietre preziose e con un soffio appiattì per farne le tavole della Legge.

 Nella Qabbalah luriana, la sostanziale unicità dell'albero è sostenuta esplicitamente. Vital, il più famoso dei discepoli di Itzach Luria, in Etz Chayyim, L'albero della vita, assegna per entro l'albero delle Sephiroth, la destra all'albero della vita e la sinistra all'albero della conoscenza, il cui frutto fu mangiato da Adamo ed Eva. E ciò trova conferma anche in Zohar (I, 36a) dove è detto che nel giardino di Eden, Eva avrebbe pigiato grappoli d'uva per darli poi ad Adamo e poco dopo (I,73a) è detto che Noé si sarebbe ubriacato di quel vino non per ripetere il peccato di Adamo ma per desiderio di conoscenza, cioè "per investigare sul peccato che era stato del primo uomo; non quindi per aderire ad esso ma per averne conoscenza e restaurare il mondo. Ma non vi riuscì. Pigiò i grappoli per esaminare quella vite ma quando giunse a quel punto si ubriacò e si scoperse..."

  Il senso occulto dell'ubriachezza di Noé è appunto da ricercare nel tentativo di entrare nello stesso stato di coscienza di Adamo, ma ancora una volta la bevanda della conoscenza si rivela troppo forte per i limiti umani. Tutto il segreto di Noè, del resto, sembra riassumersi in tre versetti, Genesi 9:20-22, in cui è detto che Noè, uomo di terra, piantò una vigna e che bevuto del vino si ubriacò e si scoprì all’interno della sua tenda mentre Cam, suo figlio e padre di Canaan, vide la sua nudità.

 Su questo episodio mi sembra assai illuminante l’interpretazione proposta nel Sepher-ha Zohar. Qui, si comincia col discutere tra due personaggi, Rabbi Juda e Rabbi Yossi, circa l’origine di questa vigna. Rabbi Juda sostiene che la vigna facesse parte, una volta, del giardino dell’Eden e che da questo ne fosse stata scacciata, mentre Rabbi Yossi sostiene che la vigna si trovasse sulla terra prima del diluvio e che Noè l’avesse sradicata per poi ripiantarla.

 Ora, è abbastanza evidente che nella tesi di Rabbi Juda si parli della vigna come se si parlasse di Adamo ed Eva, altrimenti come si potrebbe scacciare una vigna? Quanto alla tesi di Rabbi Yossi, se è vero che è possibile sradicare le viti di una vigna per ripiantarle, appare ben difficile poterlo fare quando sia trascorso un anno, cioè più o meno il tempo in cui Noè rimase nell’arca. Allora qui cominciamo a sospettare che si tratti di una vigna speciale.

 C’è di più: nel giardino di Eden, da cui la vigna proverrebbe, secondo rabbi Juda, sappiamo esserci un fiume che serve ad abbeverare il giardino (Genesi 2,10), ed è grazie a questo fiume che ogni cosa nasce. Nel significato cabbalistico dello Zohar, il giardino è la sephirah Malchuth, che significa Regno o Terra, mentre il fiume è la sephirah Yesod che significa Fondamento. Il sospetto che non di una comune vigna si tratti ci viene anche dall’osservazione che il versetto 9,20 del Genesi, in cui si dice che “Noè iniziò a piantare una vigna”, prosegua col versetto 9,21 in cui si dichiara che Noè bevve il vino. Sembrerebbe che Noè non abbia quasi da aspettare tra il piantare e il bere, ma la cosa più interessante è il commento di Rabbi Simeone nel già citato passo dello Zohar:

 “In questo versetto (Genesi 9,21) si trova uno dei segreti relativi alla Saggezza. Quando Noè si propose di indagare sull’errore del primo uomo, non certo nell’intenzione di ripetere lo stesso errore, ma, al contrario, al fine di liberarne il mondo, egli non ci riuscì subito, allora schiacciò i chicchi d’uva per proseguire la sua ricerca sulla vigna. Ma, non appena raggiunto questo scopo, si ritrovò nudo e ubriaco” (Sepher-ha Zohar, 73a-b. )

 Insomma, apprendiamo che Noè piantò la vigna per indagare sull’errore di Adamo. E semmai ci siano ancora dubbi che si stia parlando di una vigna e di un vino speciali, conviene ascoltare ancora Rabbi Simeone:

 “Accadde qui come per i figli di Aronne che, noi lo sappiamo, bevvero vino sul monte Sinai. Chi offrì loro del vino in un tal luogo perché ne bevessero? Se ti passa per la mente che essi ebbero voglia di ubriacarsi di vino in un luogo simile, disingannati! Per la verità fu del vino di Noè che essi si ubriacarono”  (Ibid.)

 Perché Dio mette Adamo ed Eva, e soltanto loro, be-trok (entro) il giardino che si trova in Eden e li sottopone al giudizio, mettendoli alla prova? Saggiare l'uomo non è  capriccio divino, sostengono i cabbalisti, ma serve a rendere l'uomo migliore e nel tempo stesso a renderlo libero. E' a tal fine che Dio si serve di Satana (Nun-Teth-Shin =359) e del suo cammello, poi divenuto serpente. Ma, attenzione, perché le minori ghematrie di Satana sono il 17 (3+5+9), cioè Tov, buono, e il numero 8 (7+1) che rappresenta l’abbandono delle catene temporali e il dominio dell’Assoluto. Padroneggiare la tentazione del Satan è dunque il solo mezzo per acquisire la bontà e l’Assoluto. Sia il Sepher bahir sia i testi del Chassidismo sottolineano la necessità di questa prova su cui si basa il timor di Dio, l'osservanza della Legge e la libertà consapevole. In Esodo, per esempio, il peccato di Adamo è nuovamente richiamato, allorché è detto (15,23-25): "Giunsero a Marah ma non poterono bere l'acqua perché era amara. Il popolo mormorò contro Mosé dicendo: 'Che berremo?'. Allora Mosé gridò al Signore e il Signore gli mostrò un legno. Mosé lo gettò nell'acqua e l'acqua divenne dolce".

 Allorché il popolo accusa Mosé è presente Satana che viene per tenere lontano l'uomo dall'Albero della vita. Egli istiga Israele a bere acqua amara, altrimenti tutti morranno, perché nel deserto non si trova altra acqua. Ma il Signore ascolta l'invocazione di Mosé e gli mostra un legno che muterà la natura della stessa acqua. Quel legno altro non è che l'albero della vita che in origine circondava le acque [si trovava nel Yar Din, il Giordano, il fiume del giudizio].

 Ancora una volta sembra essere l'impazienza la causa della caduta. Se non fosse per Mosé, il popolo berrebbe senza attendere la trasformazione delle acque. E fu l'impazienza – osserva Gikatila –  a causare la caduta di Adamo, il suo non aver saputo attendere che il frutto dell'albero fosse maturo, prima di cibarsene.

 Fu dunque l'impazienza a perdere il genere umano precipitandolo nel regno della vita e della morte. Il frutto dell'albero della vita si mutò così nel frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Scrive Gikatila in Cha 'aré Orah (Le Porte della Luce):

 "Il serpente primordiale...inflisse un danno alla luna (la sephirah Malkhout) per via del primo uomo, il quale...non attese che (il serpente) mangiasse la propria parte...nel qual caso l'albero sarebbe stato chiamato del bene e non del male e lui avrebbe potuto mangiarne tanto quanto ne desiderasse: ne avrebbe mangiato e avrebbe vissuto per sempre (Genesi, 3:22), secondo il segreto dell'albero della vita collegato a quello della conoscenza..." (f. 105a).

Scrive ancora Gikatila in Sod ha - Nahach (Il Segreto del Serpente):

 "... E' per questo motivo che Dio comanda al primo uomo di non toccare l'albero della conoscenza, fin quando il bene e il male fossero stati associati, sebbene l'uno fosse all'interno e l'altro all'esterno. Occorreva attendere che ne fosse staccato il prepuzio, com'è detto: tratterete i loro frutti come prepuzio (Levitico,19:23), ora è scritto: prese del suo frutto e ne mangiò (Genesi,3:6). Introdusse un idolo nel Palazzo (T.B. Ta'anit 28b) e l'impurità penetrò all'interno." (f. 276a-b).

 Il prepuzio è la scorza dura, assimilabile alla terra (Adamah) di cui è fatto Adamo. Solo quando la scorza fosse caduta, il frutto, ormai maturo, avrebbe potuto essere mangiato e la terra di Adamo si sarebbe mutata nell'oro dello spirito. 


 E veniamo ora al secondo atto del mito cosmogonico. Allorché il Signore nomina nuovamente l'albero della vita e si decide la sorte di Adamo ed Eva (III, 21-24):

 "Il Signore Dio fece ad Adamo e ad Eva una tunica di pelle e li vestì, poi disse: 'Ecco Adamo è diventato come uno di noi (angeli), conoscitore del bene e del male! Badiamo ora che non stenda la mano e prenda anche dell'albero della vita, per mangiare e vivere in eterno'. Quindi Dio lo cacciò via dal Gan Eden perché coltivasse la terra da cui era stato tratto. Scacciato Adamo, collocò a oriente del Gan Eden Cherubini che roteavano la spada fiammeggiante per custodire la via che portava all'albero della vita, ". 

 Questi versetti starebbero appunto a dimostrare, secondo alcuni, l'esistenza di due distinti alberi. Quel che c’è di vero è invece che dell'albero della conoscenza d’ora in avanti non si parlerà più. Perché Dio se ne disinteressa? Perché l'uomo è ormai carne, e dunque è già nel regno della conoscenza del bene e del male? Certo, ma più semplicemente perché un albero della conoscenza distinto dall'albero della vita non c'è mai stato. Dio lo ha fatto credere all'uomo per saggiarlo, per metterlo alla prova, ma nel momento in cui l'uomo ha peccato di ubris, ha voluto cioè rendersi come Dio, anche l'illusione è scomparsa. Sin dal primo momento non c'è stato che un solo albero, come ha ben visto Tiziano nella sua tela ad olio dove l'albero, il cui frutto Eva riceve in dono dal serpente, costituisce l'asse centrale che divide la composizione, creando l'effetto che ciò che è UNO venga visto come duplice.

 Ancora una volta il Sepher Bahir c'illumina sull’intera questione (97-8 e/o 66-7). Ci sono 32 sentieri che l'uomo deve percorrere per giungere in cima all'albero della vita, l'albero che, con i suoi sentieri, è una metafora del corpo umano. Cosa è in realtà accaduto nel momento in cui l'uomo, preso da impazienza e dal desiderio di essere come Dio, ha mangiato del frutto proibito? Da quel momento l'uomo è entrato nel tempo, nella condizione umana attuale, tant'è che il Signore lo riveste con una tunica di pelle ed egli non può più cibarsi, al pari di tutti gli animali, degli effluvi e dei sapori della vegetazione (Genesi, I, 29-30). Ora l'uomo è carne che cerca carne e in quanto tale non potrà più godere di immortalità. C'è ancora una possibilità, perché il germe della vita immortale è ancora dentro di lui, ma egli deve fare i conti con i cherubini armati della spada fiammeggiante per poter entrare nei sentieri e compiere l'ascesa lungo la colonna-albero.

 L’uomo deve iniziarsi, cioè percorrere il cammino all'inverso per tornare alla condizione originaria, per realizzare il Tiqqun, la restaurazione. Ma, soprattutto, non deve essere impaziente e deve accettare la morte fisica. In proposito si osserva in Zohar (I, 130b): "Al tempo in cui il Santo, benedetto egli sia, risusciterà i morti, Egli farà scendere su di loro una rugiada dal suo capo, grazie alla quale tutti si leveranno dalla terra (...) una rugiada di luce nel senso proprio del termine, composta cioè da fiamme superne, attraverso la quale Egli infonderà vita nel mondo, poiché l'albero della vita trasmette ai mondi una linfa vitale che mai non cessa".

 Del resto, l'uomo può in ogni momento tornare a compiere il peccato di Adamo, come abbiamo visto accadere ingenuamente a Noé. Reso presuntuoso dalla conoscenza, consapevole della linfa vitale che dall'albero si trasmette in basso, egli ancora una volta impaziente, avrà l’illusione di vincere la guardia dei cherubini per cibarsi della linfa contenuta nei frutti, ma ciò che otterrà, credendo di aver eluso la sorveglianza dei cherubini, sarà una ubriacatura simile a quella di Noé.

  In conclusione sarà bene porci una domanda. Quale l'insegnamento più importante che si ricava dal più intrigante e complesso dei miti cosmogonici dell'Occidente? Il mito ci intrattiene sul mistero dei misteri, il mistero dell'incarnazione, di cui ci spiega tutto o quasi tutto. Ma questo mistero, a pensarci bene, non è altro che il segreto della vita. Intendere questo segreto non è di poco conto, ma pretendere con ciò di divinizzare l'albero, significa fare idolatria, peccare di ubris.

 Il mito insegna che dal momento in cui nasciamo, la nostra condizione è mortale e che la nostra unica speranza non consiste nel convincere i cherubini con la spada fiammeggiante a lasciarci passare per poterci procurare l'antitodo contro la morte, quanto semmai nel mostrare che siamo davvero “rettificati” e degni di riprendere il nostro posto nel giardino di Eden.

sergio magaldi



[1] S’intende con ghematria il valore numerico e insieme concettuale dato dai cabbalisti a una singola parola o a un’intera frase in virtù del corrispondente valore di ogni lettera dell’alfabeto ebraico
[2] Nella tradizione cabalistica, le Sephiroth sono i numeri primordiali della creazione, ‘luci’ o ‘forme pure’ del molteplice. Sono 10 e si possono disporre sui tre pilastri dell’Albero della Vita. Ad ogni Sephirah  è attribuito un nome e un numero. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether  Corona o Altezza Superiore,  6 Tiphereth  Armonia, Bellezza o Compassione,  9 Yesod  Fondamento, Generazione o Alleanza, 10 Malchuth  Regno o Esilio. Alla colonna di destra: 2 Chokmah  Sapienza o Principio, 4 Chesed Grazia o Misericordia, 7 Netzach  Eternità o Vittoria. Alla colonna di sinistra: 3 Binah  Intelligenza o Ritorno,  5 Gheburah  Potenza o Giudizio,  8 Hod Gloria o Splendore.  

mercoledì 7 novembre 2012

LA JUVENTUS CADE NEL DERBY D'ITALIA e non fa 50! E questa sera prova a restare in Europa...





 Non era difficile prevedere una battuta d’arresto della Juventus  dopo 49 partite senza sconfitte [48 della gestione Conte] e proprio in occasione del derby d’Italia, nella tradizionale sfida con l’Inter. Nel post del 30 Ottobre u.s. [Riaperta la caccia alle… zebre], sottolineavo il visibile calo di forma di più di un elemento, tanto più evidente nel perdurare di un gioco d’attacco che nella squadra allenata da Conte sminuisce di molto il ruolo degli attaccanti, costretti a comportarsi non da “punte”, ma da difensori e/o centrocampisti aggiunti. In tale ottica, si comprende bene perché a segnare di più siano proprio i difensori e i centrocampisti di ruolo. Non a caso il miglior marcatore della Juve [che pure guida insieme alla Roma la speciale classifica dei goal fatti: 23 contro i 26 dei giallorossi di cui però 3 fatti a tavolino], è un centrocampista [Vidal], con 4 goal e soltanto dodicesimo nella classifica cannonieri.

 Torno a ripetere che il modulo di gioco di questa Juve è il suo punto di forza ma anche il suo limite: la manovra “ariosa e a tutto campo” pare fatta apposta per gli inserimenti dei centrocampisti e dei difensori ma risulta letale per le "punte" che, per avere palle giocabili, possono contare solo sui lanci di Pirlo. D’altra parte, quando Pirlo è opportunamente marcato dagli avversari, come è avvenuto nel secondo tempo della partita con l’Inter, e qualcuno dei difensori e/o dei centrocampisti attraversa un calo di forma, la Juve fatica non poco ad andare in rete. Dallo scorso campionato, pure vinto con grande merito, non ricordo una sola partita “facile” per la Juve. Quando poi, come in questo momento, il calo sembra riguardare un po’ tutta la squadra, le difficoltà aumentano: Buffon non trattiene più una palla ed alterna respinte prestigiose e “salva risultato” ad altre, smanacciate a caso e che finiscono sui piedi degli avversari [come nel caso del goal di Milito contro l’Inter]. Il grande portiere juventino rigori non ne ha mai parati, ma ora sembra difettare anche per il senso della posizione sui calci di punizione [come nel goal preso contro i modesti danesi di Champions League]. Lichtsteiner sembra aver perso lo smalto della prima parte dello scorso campionato, è sempre più iroso e falloso e forse avrebbe meritato l’espulsione nel derby perso con l’Inter [trattandosi di Juve, naturalmente, tutti gridano allo scandalo per il secondo cartellino giallo non estratto contro di lui dall’arbitro Tagliavento, ma quante volte accade la stessa cosa sui campi di calcio? Un ricordo ancora fresco sono le mancate espulsioni proprio nei confronti di giocatori dell’Inter…e non solo!]. Asamoah non è più quello d’inizio campionato e inoltre è utilizzato in un ruolo non suo, terzino di fascia non sempre a proprio agio nel difendere [come si è visto bene in occasione di un goal interista]. Se Barzagli è impeccabile come sempre, Bonucci e Chiellini, grandi lottatori, non sono esenti da errori anche in virtù di una tecnica non eccelsa. Nulla da dire sul grande Pirlo e su Vidal, “il guerriero” che supplisce al momentaneo calo di forma con grande volontà  e che riesce persino ad andare in goal. Molto da dire invece su Marchisio, fatto rientrare frettolosamente dopo un infortunio e che sbaglia ripetutamente il goal del 2-0 e causa il rigore dal quale prende forma la rimonta dell’Inter [rigore comunque generoso quello concesso da Tagliavento su segnalazione del giudice di porta(!) e che forse non sarebbe stato assegnato se l’arbitro non avesse dovuto farsi perdonare il goal  in precedenza erroneamente assegnato alla Juve! Certo è che un arbitro internazionale come Webb, forse il migliore arbitro al mondo, non lo avrebbe concesso, almeno a giudicare da come ha diretto ieri sera la gara del Milan contro il Malaga, ma si sa  che negli addetti ai lavori del calcio italiano, arbitri e cronisti, c’è la convinzione che sia sufficiente toccare un giocatore nella propria area per decretare la massima punizione!]. Perché non concedere ancora un turno di riposo a Marchisio e schierare al suo posto Pogba, in gran forma, e che negli ultimi tempi ha risolto da solo almeno un paio di partite? Ma Alessio il vice di Conte [che nelle dichiarazioni del post-partita fa rimpiangere persino Carrera] ci dice che il francese è ancora molto giovane e che anche se segna goal decisivi rischia di non trovare posto nella squadra di Conte per la sua “indisciplina agonistica”. Non vorrei facesse la fine di Krasic, di Matri e di Del Piero! A proposito di quest’ultimo, vedendo giocare Giovinco contro l’Inter, ho rimpianto il grande capitano, congedato proprio quando sarebbe stato utile proprio in “Champions” e non solo! Senza neanche considerare che avrebbe meritato di partecipare per un’ultima volta alla massima competizione europea, lui che ha accettato la serie B! A chi faceva ombra? A chi fanno ombra nella Juve i giocatori dotati di grande personalità?

 Insomma la sconfitta della Juve contro l’Inter ci sta tutta: la squadra è lunga, a tratti farraginosa, e impiega troppo tempo a presentarsi in area avversaria per gli inserimenti e i tiri sbagliati dei suoi non- attaccanti. Giovinco – che piace tanto a Conte perché non è una punta, si muove tanto  e parte dalla difesa – perde sistematicamente ogni dribbling decisivo e causa più di una “ripartenza” avversaria. Vucinic, che è un campione, ma non un fuoriclasse come crede erroneamente Conte che lo sovrastima, si infortuna [cosa né nuova né rara] e Alessio, su probabile mandato del suo capo, inserisce finalmente una punta. E che punta! Quel Bendtner, lento in area avversaria come una lumaca, che ha sempre segnato pochissimo pur essendo il centravanti della nazionale danese e che non ha trovato posto come titolare neppure contro i suoi modesti connazionali che pure deve conoscere bene! Ma Bendtner tiene palla tra centrocampo e attacco proprio come suole fare Vucinic e questo basta a rassicurare i tecnici bianconeri. Anche se per trovare il goal del pareggio si butta poi nella mischia Quagliarella, sostituendo Cáceres che a sua volta era subentrato a Lichtsteiner in procinto di essere espulso. Niente di più umiliante per un calciatore! A prescindere dal fatto che Cáceres mi sembra in questo momento molto più in forma del titolare svizzero! Nonostante l’ingresso di  Quagliarella, il miracolo del goal non si ripete come altre volte. Perché sperare sempre nei miracoli degli attaccanti di ruolo, nella Juve quasi intercambiabili tra di loro, e gettati nella mischia solo negli ultimi minuti? Del resto, chi capisce di calcio continua a dire che ai bianconeri manca una punta di fama internazionale, allora sì che questa sarebbe una squadra quasi perfetta! L’ineffabile Marotta dice che costerebbe molto, ma intanto la Juve spende 30 milioni per Asamoah e Isla [quest’ultimo giustamente poco utilizzato]. Mi chiedo piuttosto: chi tra i grandi attaccanti, vedendo giocare la Juventus accetterebbe di farne parte? Con dispiacere consiglierei persino a Matri – parcheggiato quasi stabilmente in panchina dopo i dieci goal realizzati nel girone d’andata dello scorso campionato e i 22 del campionato precedente –  di cambiare aria. Se ne gioverebbe, credo, almeno la nazionale. 

 Di fronte a questa Juve, lunga, larga, con manovre affaticanti e ormai prevedibili quando i suoi giocatori non siano tutti in perfetta forma, stava un Inter  corta, essenziale, collaudata in ogni reparto, con un grande Zanetti e un attacco micidiale e opportunista formato dal trio Cassano, Milito e Palacio. Non poteva che finire come è finita e la prima sconfitta della Juventus, dopo un’imbattibilità durata per 49 turni, desta qualche preoccupazione per il futuro. Spero che Conte ritrovi presto la bussola, i suoi meriti sono grandi a prescindere dalle mie critiche e, in fin dei conti, sinora ha avuto ragione lui con lo scudetto conquistato lo scorso anno contro ogni previsione e quest’anno con un grande inizio di campionato. Intanto questa sera è offerta la possibilità di riscatto, in Champions, contro i modesti avversari danesi. Ma, le prospettive europee non sono rosee, occorre vincere questa sera ma non basta, per sperare di restare in Europa occorrerà ripetersi Martedì 20 Novembre contro il Chelsea, i campioni d’Europa in carica. Auguri!  

sergio magaldi