mercoledì 25 dicembre 2013

PHILOMENA: FEDE, PERDONO E SPIRITO NATALIZIO

Stephen Frears, Philomena, Islanda, Irlanda, Regno Unito, 2013, 98 minuti


 Philomena, il film di Stephen Frears, viene definito dalla maggior parte della critica italiana come il vero film di Natale e non perché esca sugli schermi proprio in questi giorni! Ispirato ad una storia vera, raccontata sotto forma d’inchiesta romanzata - pubblicata nel 2009 dal giornalista Martin Sixsmith col titolo The lost child of Philomena Lee -, il lavoro più che proporre una denuncia sociale, come Magdalene [2002] un film dello stesso genere, sembra invitare lo spettatore a soffermarsi sul tema della fede e del perdono, secondo l’autentico spirito natalizio.







  Nei panni di Philomena, un’anziana signora irlandese che vive a Londra, è Judy Dench, già celebre interprete teatrale della Royal Shakespeare Company, e approdata al Cinema negli anni Ottanta. I lettori la ricorderanno nella parte della regina Elisabetta, nel bel film Shakespeare in love [1998], che le valse l’Oscar per la migliore attrice non protagonista. 







 Per quanto grande sia l’interpretazione di Judy Dench, nella parte della donna che fu ragazza-madre nel convento irlandese di Roscrea, e che si addolora nel ricordo del figlio Anthony,  nato nel 1952 e che le fu tolto quando aveva solo tre anni, e del quale non ha più saputo nulla, non mi sento di dire che il film raggiunga l’obiettivo d’invitarci al perdono. E la storia narrata, ancorché vera, mi sembra a tratti retorica e melensa. Perché anche la realtà a volte sa esserlo, persino di più della finzione cinematografica.


 È ormai documentato che solo nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, più di 4000 bambini, strappati alle ragazze-madri dei conventi cattolici irlandesi, e senza il loro consenso, furono mandati con regolare passaporto negli Stati Uniti per essere adottati. Molti altri bambini perirono con le loro madri al momento di nascere, perché lo spregevole commercio sconsigliava l’assistenza di un medico durante il parto e la relativa registrazione delle nascite. Quando Philomena rivedrà, vecchia e malata, l’ultima superstite delle suore responsabili della vendita del suo Anthony, le concederà il perdono, senza poter cogliere nella monaca un barlume di pentimento, ma sentendosi dire che toglierle quel figlio era stata la giusta punizione voluta da Dio per il peccato della carne. La fede, come si sa, per chi la possiede è più forte di qualsiasi altro sentimento e a nulla valgono le ragioni che il giornalista Martin Sixsmith, interpretato dall’ottimo Steve Coogan, oppone a Philomena perché denunci pubblicamente la violenza subita, insieme a tante altre giovani come lei.

 Sorprende, francamente, che il film sia stato premiato al recente Festival di Venezia, per la migliore sceneggiatura e non per la migliore interpretazione femminile. A pensarci bene, tuttavia, non è neanche una sorpresa, considerando che il Leone d’oro per il miglior film è stato assegnato ad un documentario noioso come SACRO GRA.

 Se c’è qualcosa di debole nel film è proprio nella sceneggiatura e in particolare nei dialoghi tra Philomena e il giornalista che viaggerà con lei alla ricerca di Anthony che, se vivo, ha ormai compiuto cinquant’anni. Nelle parole e nelle riflessioni a voce alta di Philomena ci sono spesso considerazioni che, più che far pensare alla grandezza della fede e del perdono, sanno di piccola anima borghese: come la valutazione che con lei Anthony non avrebbe raggiunto una certa posizione sociale o il proposito di interrompere la ricerca quando si viene convincendo che il figlio non ha mai pensato a lei e che forse l’ha ritenuta responsabile dell’abbandono. Stupisce semmai, trattandosi di una storia vera, che la donna, sposata e vedova e che ha una figlia già grande, non abbia mai cercato Anthony in quei cinquant’anni o l’abbia cercato male, visto che poi in quattro e quattr’otto, sia pure grazie all’aiuto di Martin, riuscirà a mettersi sulle sue tracce. 






 E ancora: se non sapessimo che è tutto vero, il destino di Anthony sembrerebbe costruito ad arte, tanto è pieno di coincidenze che servono a coinvolgere l’animo dello spettatore o, come è successo a me, a prenderne le distanze come di fronte ad una favola. Comunque sia, l’interpretazione di Judy Dench giustifica ampiamente sia il prezzo del biglietto, sia i 98 minuti passati di fronte allo schermo. Lontano tuttavia dal condividere il giudizio di gran parte della stampa e in particolare quello di Maurizio Acerbi su il Giornale: “Brillante e commovente, con il tema del perdono cristiano che fa da sfondo a un film indimenticabile. Un regalo di Natale.”


sergio magaldi



domenica 22 dicembre 2013

CAMBIARE... PERCHE' TUTTO RESTI COME PRIMA




 L’elezione di Matteo Renzi alla guida del Partito Democratico aveva suscitato anche nei più scettici una speranza di cambiamento, forse l’ultima, considerando la comprensibile diffidenza che circonda gli addetti ai lavori della politica. “Vuoi vedere che dopo decenni e decenni di promesse non mantenute da parte dei politici di centro, di destra e di sinistra – devono essersi detti costoro – è arrivato finalmente qualcuno che riuscirà davvero a cambiare questo Paese?”

 Incalzato dal sindaco di Firenze, persino il governo della "stabilità cimiteriale" ha avuto un sussulto di vita, rilanciando temi e progetti che risalgono al momento del varo del governo “delle larghe intese”. Innanzi tutto l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e quella delle Province. Per l’occasione, è probabile che il governo abbia organizzato una riflessione collettiva su quel passo del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che chi gestisce il potere in Italia conosce bene, anche senza aver mai letto Il Gattopardo. È l’affermazione celebre di Tancredi Falconieri nipote del principe Fabrizio: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.




    Dal film Il Gattopardo, di Luchino Visconti,Italia,Francia,1963,187 minuti


 A questa filosofia sembra ispirarsi il provvedimento che prevede, non subito, ma per il 2017, la cosiddetta fine del finanziamento pubblico della politica e introduce tutta una serie di “paracaduti” per un “atterraggio” morbido. Non gli è da meno il disegno di legge del ministro renziano Graziano Delrio per l’abolizione delle Province o per meglio dire per la loro trasformazione in Enti Di Area Vasta [sic!], senza personale politico ma con competenze di ripartizione territoriale, trasporti e rete scolastica, con la contemporanea creazione delle cosiddette Città Metropolitane e la proliferazione di organismi decisionali ovvero di nuovi carrozzoni della politica.

 Per la verità, Letta e i suoi ministri non avrebbero avuto bisogno di tornare a meditare sulle massime gattopardesche, dopo il saggio fornito con la legge di stabilità che non solo reintroduce in via definitiva l’IMU sulla prima casa, ma per giunta l’aumenta, cambiandogli nome. Consiglio dei ministri che, approfittando che le larghe intese si siano ridotte all’appoggio incondizionato di giganti della politica come Alfano, Lupi e Quagliarello, arriva addirittura a ripristinare la seconda rata dell’IMU prima casa per il 2013, con motivazioni risibili e localistiche che poco interessano agli italiani vessati dalle tasse. Bontà sua, per non danneggiare i consumi innescati dalle tredicesime mensilità, il governo ne fa slittare il pagamento alla seconda metà di Gennaio, in coincidenza con l’arrivo delle bollette di gas, luce ecc… e quando le tasche degli italiani saranno più vuote di sempre. 

 Insomma, che da questo governo non ci si potesse aspettare di più e di meglio era scontato, quel che turba gli scettici, che pure avevano sperato nel cambiamento, è che i provvedimenti sul finanziamento dei partiti e sulle province abbiano il placet di Renzi, l’uomo spacciato per il nuovo e il carismatico della politica italiana. C’è chi dice che al momento è già tanto vararli così come sono stati concepiti, perché le forze della conservazione dei privilegi sarebbero all’opera per snaturarli ulteriormente e/o ritardarne l’approvazione e, infatti, se il disegno di legge sulle province non venisse approvato entro la fine dell’anno, scatterebbe automaticamente la procedura per l’elezione dei nuovi consigli provinciali.

 C’è di più e di peggio: la sensazione che Renzi sia la faccia sorridente del PARTITO DELLE TASSE, sempre all’opera nella sinistra o pseudosinistra italiana. Non è un caso che Filippo Taddei, il giovane studioso di economia entrato di recente, come responsabile per l’economia, nella squadra del neo segretario del PD, abbia vagheggiato in un suo intervento televisivo una patrimoniale per ridurre le tasse dei redditi sino a 26.000 Euro lordi. Parliamo di circa 1400 Euro netti al mese! Servirebbe questo a rilanciare i consumi? È incredibile che a teorizzarlo sia un economista o un aspirante tale! Senza contare il riferimento a provvedimenti che dovrebbero ridisegnare il rapporto tra sistema retributivo e contributivo delle pensioni già in essere, con il risultato di spaventare la gente. Se davvero si vuole intervenire su questo versante perché non parlare più semplicemente di un tetto ragionevole per le pensioni, per gli stipendi e le liquidazioni dei manager, degli eletti della politica e delle cariche istituzionali? In questi giorni qualcuno ha avuto il coraggio di chiedere all’Assemblea Regionale Siciliana l’aumento dello stipendio dei consiglieri che attualmente è di circa 12.000 Euro netti mensili. In queste ore la Camera ha abolito i tagli già annunciati degli stipendi degli onorevoli!

 E che dire del Job Act, il progetto di Filippo Taddei a denominazione anglofona per mascherare la pochezza di un provvedimento che dovrebbe rilanciare il lavoro? E non entro nel merito della cessazione del cosiddetto “bicameralismo perfetto” con l’abolizione del Senato. Per quanto lo sforzo di Renzi in questa direzione sembri autentico, temo che dovrà aspettare a lungo prima di veder realizzato il sogno.

 Il fatto è che questo è il Paese delle lobby, delle corporazioni delle arti, dei mestieri, della politica e dei sindacati, che neppure Monti ha voluto o potuto toccare [si veda in questo blog, il post Corporazioni di tutta Italia unitevi]. Persino Letta, prima di diventare capo di governo, aveva fatto una proposta decente quando, in una puntata di “Porta a Porta”, aveva lanciato l’idea dei controlli incrociati delle fatture di datori e fruitori di servizi e prestazioni professionali, al doppio scopo di colpire l’evasione fiscale e diminuire la pressione delle tasse attraverso le detrazioni [si veda il post Dopo la stangata]. Se ne è saputo più nulla? Le tante corporazioni non permetterebbero mai l’introduzione di un provvedimento del genere! E guardate cosa avviene nella Giustizia. Si parla di amnistia. Ne parlano anche il presidente Napolitano e la ministra Cancellieri, Pannella continua imperterrito con i suoi scioperi della fame e della sete, ma nessuno dice che l’unico provvedimento che, almeno temporaneamente, potrebbe risolvere il sovraffollamento carcerario, è l’abolizione della detenzione in attesa di giudizio, fatti salvi i casi degli imputati per i reati più gravi e socialmente pericolosi [si veda il post Le intercettazioni utili].

 E se dalle questioni nazionali, si scende a quelle locali, la storia non cambia e si tocca con mano il peso che le corporazioni hanno in questo infelice Paese. L’Atac, che a Roma si occupa del trasporto pubblico, avrebbe un mezzo semplicissimo per attenuare l’ingente debito che prima o poi farà scoppiare un caso simile a quello recente di Genova: far pagare il biglietto ai passeggeri. Come? Con l’obbligo, come in tutte le più importanti capitali europee, che chi sale su un autobus o su un tram mostri il biglietto al conducente o gli consegni l’equivalente in denaro [vedi il post Pubblico e Privato]. Impresa ardua e mai concepita, basti vedere con quali criteri vengono costruiti i mezzi di trasporto che circolano nella capitale e immaginare quale sarebbe la risposta del sindacato di settore di fronte a una proposta del genere.

 Resta l’auspicio che qualche buona intenzione di Renzi sia coronata da successo. Ne dubito, però, e purtroppo i fatti recenti mostrano che presto il sindaco di Firenze si rassegnerà a camminare sulla strada della politica già additata dal famoso personaggio del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Esattamente come tutti quelli che l’hanno preceduto al governo o alla guida dei partiti, anche se con minori proclami. Almeno di non voler rischiare il potere conquistato di recente.

sergio magaldi








 


domenica 15 dicembre 2013

BLUE JASMINE

Woody Allen, Blue Jasmine, USA, 2013, 98 minuti


 Con il suo ultimo film, Woody Allen mostra ancora una volta l’essenza del Cinema, intesa come arte dotata di autonomia, indipendentemente dai generi artistici utilizzati [romanzo, teatro, fotografia, arti figurative, musica ecc…]. Com’è noto, un bel romanzo può divenire un pessimo film e viceversa, e una spendida colonna sonora e/o la sapienza fotografica non salvano dalla percezione di un brutto film. E una stessa storia può essere raccontata sullo schermo con un linguaggio originale e con significati diversi, senza che si debba parlare di plagio, come talora avviene in letteratura. Non a caso, Woody Allen ha fatto del remake di Un posto al sole [1951], il suo miglior film degli ultimi dieci anni  e forse più: Match Point del 2005. Gli ingredienti sono il ritmo, la scelta degli attori, l’attualità della sceneggiatura e dei dialoghi, l’eventuale mutamento di prospettiva, l’abilità di soffermarsi su particolari che la storia originale ha ignorato e la capacità di offrire nuove chiavi di lettura.



  In Un posto al sole [Sei Oscar e tre Nomination], il protagonista maschile [Montgomery Clift] medita di uccidere la donna povera che ha messo incinta [Shelley Winters] e poi la lascia morire affogata, allorché s’innamora follemente di Angela, una donna bella e ricca [Elizabeth Taylor] che ricambia il suo amore e che accettando di sposarlo gli renderà possibile la scalata sociale. Nonostante i tardivi rimorsi, il destino del giovane è segnato dal corso della giustizia. Tutto si svolge secondo un’etica tradizionale che non ammette deroghe e del resto il film è la riduzione cinematografica del romanzo di Theodore Dreiser: Una tragedia americana del 1925.






  In Match Point, l’arrampicatore sociale Chris [Jonathan Rhys Meyers] prima sposa Chloe [Emily Mortimer], la donna giovane e ricca che s’innamora di lui, poi uccide deliberatamente la bellissima Nora Rice [Scarlett Johansson] di cui si è invaghito e dalla quale aspetta un figlio. Se in Un posto al sole, il crimine è in gran parte motivato dall’amore e da oscuri sentimenti inconsci, in Match Point la prospettiva viene rovesciata con genialità e cinismo: l’amore poco conta quando si tratta di mettere in ballo l’appartenenza alla classe che conta. Chris uccide lucidamente, naturalmente anche lui non senza rimorsi, per non perdere i frutti della scalata sociale e perché – e qui s’intravede il tocco beffardo del grande Woody Allen – la famiglia in cui è entrato a far parte non è soltanto ricca, è anche espressione di un’armonia che l’ambiente familiare in cui è cresciuto non gli ha mai regalato. C’è di più, infrangendo una regola aurea del cinema e della letteratura che vuole punito il colpevole, il delitto di Chris resterà impunito perché il Fato ha così deciso, anche se le Erinni continueranno a dargli la caccia forse per il resto della vita: lucida e spietata lettura dei comportamenti sociali e del ruolo che la Fortuna assume nelle vicende umane. Tema ricorrente, quest’ultimo, nel cinema del Woody Allen più maturo. [Si veda in proposito il post  Basta che funzioni del 27 Ottobre 2009. Per altri film di Woody Allen in questo blog, si vedano i post L’omaggio di Woody Allen all’Italia che fu del 26 Aprile 2012 e Midnight in Paris del 6 Dicembre 2011].



  Blue Jasmine [Gelsomino blu], il film in questi giorni sugli schermi italiani, scritto e diretto da Woody Allen, è il remake di un altro famoso film del 1951 che ottenne quattro Oscar e quattro Nomination: Un tram che si chiama desiderio, a sua volta riduzione cinematografica del dramma di Tennessee Williams. La Blanche [Vivien Leigh] del film di Elia Kazan diventa Jeanette [Cate Blanchett] che i genitori adottivi ribattezzano con il nome di Jasmine, il fiore azzurro, bello e delicato che sboccia di notte, il Solanum Jasminoides Blue che nel linguaggio segreto dei fiori rappresenta il desiderio [Si veda il post recente: Linguaggio artistico, scientifico e simbolico del disegno botanico]. 





 Stella, la sorella di Blanche, diventa Ginger [Sally Hawkins], adottata anche lei dagli stessi genitori. La profonda differenza tra le sorelle adottive è giustificata dal sangue diverso che circola nelle loro vene. Per quanto Jasmine è aristocratica, Ginger è, per così dire, plebea. Dove l’una sembra potersi realizzare solo nel desiderio di essere amata e nel circondarsi di cose belle e preziose [Jasmine], l’altra si adatta alla vita e alla volgarità con consapevole rassegnazione, senza mai perdere di vista i buoni sentimenti e l’altruismo della propria natura.

 Il desiderio di Jasmine non ha nulla a che vedere con quello della Blanche di Kazan. L’erotismo, le sue tante sfumature e perversioni non la riguardano, così come non riguardano suo marito, il ricco Harold [Alec Baldwin], se non per le tante avventure consumate con altre donne, all’insaputa della moglie. Ma il paradosso e insieme l’abilità narrativa di Woody Allen, il suo saper essere beffardo, è nel rendere plausibile e contemporaneo lo scatenamento del dramma, pur saldandolo con gli istinti primordiali della natura umana: saranno le frodi finanziarie a perdere Harold, ma l’amore tradito - quando Harold confesserà a Jasmine di essersi innamorato di una donna più giovane - avrà un ruolo determinante nella vicenda, proprio come, mutatis mutandis, nel film di Elia Kazan.

 Il desiderio di Jasmine si tinge di blu, si accompagna cioè alla triste condizione di chi vive nelle profondità dell’egoismo e nella strenue difesa di ciò che crede appartenerle di diritto: l’amore e il patrimonio di Harold, anche se frutto di inganno e rapina nei confronti degli altri. Perché, anche se lo nega più volte, con la sorella e con le amiche, Jasmine ha sempre saputo il modo di fare i soldi di suo marito. E la cecità è tale che non le lascia neppure il tempo e la capacità di vedere che la vendetta la condurrà proprio alla distruzione di quell’io che intende proteggere. Con il lento ma inesorabile scivolamento nella follia…








 

 Conosciamo il significato che il blu ha per Woody Allen. Ce lo ricorda Enrico Andreoli nella sua intrigante recensione del film [affariitaliani.it]. Blue è per gli americani parola mitica. Il Blues è il racconto celebrativo del dolore. Blue Moon [Luna blu], le cui note risuonano spesso nel film, è il canto del lato notturno, triste e lunare della femminilità, quello che nella tragedia greca travolge tutto, quando si scatena… Osserva Andreoli, in una prosa forse rude e spregiudicata ma efficace:

“[…] Mai errore di più vasta portata che questo! Mai confessare ad una donna ageè che non è più oggetto di desiderio sessuale; mai dirle che ti scopi una più giovane. La trasformi in una belva omicida, come ben ci narra Allen”.

 Con il suo modo ineguagliabile di fare cinema, con tutta la perfezione stilistica di cui è capace, miscelando sapientemente gli ingredienti, e persino con la grande interpretazione di Cate Blanchett, il film di Woody Allen non mi entusiama, a tratti mi ha persino annoiato. Gli manca non solo l’imprevedibilità e la freschezza di Match Point ma anche la capacità di stupire lo spettatore, come osserva acutamente – voce forse isolata – Elena Pedoto su evereye.it :


 “Un film che non riesce a coinvolgere e/o stupire a sufficienza. Un risultato che lascia l’amaro in bocca e un generale senso di incompiutezza e che appare addirittura assai deludente se si tiene conto del cast e delle capacità (psic)analitiche che ha dimostrato di possedere il geniale Allen in quasi cinquant'anni di carriera”.

 La critica italiana e internazionale è quasi unanime nel riconoscere grandi meriti a Blue Jasmine. Il Guardian osserva che Woody Allen torna finalmente ai film di una volta, dopo la contraddittoria esperienza europea, il New Yorker parla di sorprendente omaggio a Un tram che si chiama desiderio. E le parole che Maurizio Porro scrive su Il Corriere della Sera mi lasciano perplesso:

 “[…]Woody raggiunge una straordinaria armonia nel raccontare la verosimile storia di una vita a due punte, tra presente e passato, un ping pong di esattezza e tempismo tra l’alta società di Manhattan e i poveri sempre più poveri, un confronto di due volgarità, una sofisticata e una naturale”.

 Perché la contrapposizione sociale, acuita dalla presente congiuntura, che Porro giustamente sottolinea, come osserva anche Alberto Crespi su L’Unità ["… Fin troppo facile. Anche se giusto, leggere Blue Jasmine come il “il film di Woody Allen sulla crisi economica"],nella filosofia del grande regista americano non è determinata dalla condizione storica del presente o del passato, ma dalla lettura esistenziale della realtà sociale. E finisce col risolversi nella celebrazione mistica e consolatoria del destino e delle sue leggi inoppugnabili: la rassegnazione della classe povera può generare buoni sentimenti e relativa felicità; il desiderio di potere e di ricchezza della classe alta viaggia sempre ai confini della frode e della rovina e può degenerare in follia e infelicità.


sergio magaldi

lunedì 9 dicembre 2013

LINGUAGGIO ARTISTICO, SCIENTIFICO E SIMBOLICO DEL DISEGNO BOTANICO

Laura Mancuso, Arum maculatum [Gigaro macchiato, famiglia delle Araceae], disegno botanico


 L’associazione Garden Club annota giustamente sul proprio sito [www.gardenclub.it] che “Il disegno botanico è una disciplina artistica, nata dall’incontro tra Arte e Scienza, attraverso l’osservazione attenta del mondo vegetale e della natura in generale e caratterizzata da una realistica rappresentazione dal vero, del Regno Vegetale. Ha sicuramente radici antichissime e rappresenta un armonico equilibrio tra ricerca estetica e rigore scientifico. É stato per botanici, medici e farmacisti per tanto tempo, un modo importante per contribuire alla conoscenza e alla divulgazione scientifica.”
 
 L’autrice del pezzo che segue [corredato di immagini di alcuni dei suoi disegni botanici] si muove nella stessa prospettiva, ma sembra assegnare al disegno botanico, oltre alla funzione di realizzare il connubio di arte e scienza, anche la capacità di proporsi come un’autonoma e particolare forma di spiritualità.

 L’osservazione  di immagini artistiche di fiori e di piante, come e persino più della loro visione in natura, induce a riflettere anche sul loro simbolismo arcaico, espressione di un sapere che, pur nella probabile differenza di significato, accomuna il sentire comune a quello iniziatico nel vivere sensazioni ed emozioni capaci di modificare la visione del reale, tanto a livello esteriore che interiore.

 Se è vero che il linguaggio dei fiori e delle piante si sviluppa come forma di comunicazione soprattutto in epoca vittoriana, il simbolismo del mondo vegetale è molto più arcaico. Si pensi, solo per fare un esempio, all’oleandro nel mondo occidentale e all’acacia in quello medio-orientale.

 L’oleandro [Nerium oleander], con le sue foglie disposte a gruppi di tre simboleggiava nella scuola pitagotica l’armonia dell’universo formata da triadi. Per il senso comune questa pianta conobbe prima un significato propiziatorio, che si andò via via trasformando nel suo opposto, quando ci si rese conto che era velenosa. Nella favola di Apuleio, Lucio trasformato in asino, scambia un oleandro per la pianta di rose che dovrebbe ridargli la forma umana. Quando se ne accorge, fugge via terrorizzato. In Toscana e in Sicilia c’era anticamente  l’abitudine di coprire i morti con i fiori di oleandro. Gli attuali dizionari di Florigrafia gli attribuiscono significati poco rassicuranti: fare attenzione, c’è un pericolo imminente…

 L’acacia [Acacia] è la pianta più richiamata nell’Antico Testamento. Sulla scia degli Egizi che la divinizzarono [Nel mito, Iside ricompone in una bara di legno d’acacia le membra disperse di Osiride, lo sposo fatto a pezzi da Seth, e lo fa rivivere], gli Ebrei consideravano sacra la shittah, tanto da farne l’unico legno adatto a costruire le tavole della Legge, per l’eterno patto tra l’uomo e Adonai. Questa pianta dal legno durissimo, che cresce spontanea mettendo profonde radici anche nei terreni più aridi e che non ha bisogno di cure, ha foglie tenerissime e grappoli di fiori gialli a simboleggiare la luce del sole. L’acacia  si lega al mito di Hiram, l’architetto del tempio di Gerusalemme: quando i suoi assassini ne seppellirono il corpo in modo che non fosse ritrovato, una piantina di acacia germogliò nel deserto [simbolo della vita sempre risorgente], rivelando il luogo della sepoltura. Facendo propri entrambi i miti, la Massoneria considera l’acacia il simbolo stesso dell’iniziazione e dei suoi segreti. Com’è noto, i massoni sono anche detti “Figli della Vedova” [Iside] e Hiram rappresenta il Maestro, l’arte muratoria nel suo  grado più alto. Florigrafia e senso comune fanno dell’acacia il simbolo dell’amore segreto, con un significato, dunque, non troppo distante da quello della tradizione iniziatica.


 
Vanessa Diffenbaugh, IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FIORI, Garzanti, Milano,2011, pp.359


 Per chi voglia saperne di più sul simbolismo attuale di fiori e piante, consiglio di leggere Il linguaggio segreto dei fiori, di Vanessa Diffenbaugh, pubblicato da Garzanti nel 2011. In realtà, si tratta di un romanzo  in cui la protagonista, da un iniziale stato di misantropia, non a caso rappresentata dalla pianta e dal fiore del cardo [Cirsium arvense], riesce infine a comunicare le emozioni più profonde attraverso i fiori e le piante. Il libro contiene in appendice un vero e proprio dizionario di Florigrafia [pp.337-346].

Tornando al disegno botanico e al suo linguaggio propriamente artistico e scientifico, vediamo cosa scrive in proposito Laura Mancuso, nel catalogo di presentazione dei suoi disegni, dopo aver detto che ciò che vuole catturare con il suo lavoro è “Il mistero della bellezza e la bellezza del mistero”.

sergio magaldi



 IL DISEGNO BOTANICO
di Laura Mancuso


 Il disegno botanico è un genere artistico con un’antica tradizione che vede come “padri spirituali” artisti quali Pisanello, Leonardo, Dürer, Hoefnagel, Ligozzi, Garzoni, ecc…

 Sul finire del XX secolo questo genere ha avuto una rinnovata attenzione che sta portando gli artisti naturalisti fuori da una specie di ghetto che li rinchiudeva come produttori di “arte minore” e quindi non degni di un pieno riconoscimento nella considerazione del pubblico, gallerie d’arte e della critica.




 L’illustrazione naturalistica, quando tutto sembra essere riprodotto tramite la grafica computerizzata, continua a mantenere il suo interesse scientifico oltre che artistico.

 Nel corso dei secoli sono cambiate le tecniche di raffigurazione ma la validità didattico-scientifica di questo tipo di riproduzione resta inalterata. Neanche l’immagine fotografica, che a prima vista sembrerebbe un’evoluzione nella rappresentazione delle specie vegetali (e animali) è in grado di sostituire l’illustrazione dipinta o disegnata.






 L’evento della macchina fotografica  ha sì permesso di riprodurre i vegetali cogliendone aspetti che vanno al di là delle capacità della vista, così come la macchina da presa ha permesso di studiare  il “comportamento” delle piante, ma dal punto di vista delle esigenze scientifiche lo strumento di lavoro più idoneo resta il disegno. Il disegno botanico è infatti il mezzo migliore per sottolineare le caratteristiche essenziali e indispensabili per distinguere una pianta da un’altra, specie da specie, varietà da varietà.

 Il Disegno Botanico vuole invitare l’osservatore ad approfondire la conoscenza della natura, specialmente della botanica e dell’entomologia.






 “L’artista naturalista” deve possedere notevoli conoscenze botaniche e zoologiche, deve conoscere l’anatomia, l’ecologia e l’etologia delle specie rappresentate e tutto questo unito alla padronanza delle tecniche pittoriche. Non può abbandonarsi alla fantasia delle sue rappresentazioni, ma deve rigorosamente rispettare la realtà davanti ai suoi occhi. Ma da ciò non nasce un’opera fredda e anonima. Tutt’altro. Pur nel totale rispetto della scientificità dell’operazione, il disegnatore naturalista riesce a trasfondere il suo amore per l’oggetto rappresentato, cogliendone l’aspetto più interessante e artisticamente attraente. Non c’è pianta o insetto che sfugga a questa logica. E non ci sono soggetti “nobili” e soggetti “umili”. Il fiore di cicoria , che si apre alle prime ore del mattino e che viene colto nel fulgore del suo azzurro, mentre un insetto è pronto a visitarlo, risulterà nel foglio del disegnatore anche più bello di una rosa o una camelia.






sabato 30 novembre 2013

I L P A S S A T O

Asghar Farhadi, Il Passato, Francia 2013, 130 minuti


Con Una Separazione, premiato con quattro riconoscimenti [miglior film e montaggio, migliore regia e sceneggiatura] alla sesta edizione degli Asian Film Awards e candidato all’Oscar 2012 per il miglior film straniero [vedi il post TABU’RELIGIOSI MASCHILISMO E POTERE], il regista iraniano Asghar Farhadi poneva la questione della crisi della famiglia, all’interno di una società piena di contraddizioni e governata da un regime che soffoca la libertà di pensiero, non lascia intravedere un futuro per le giovani generazioni e impone ai coniugi la separazione consensuale come unica soluzione allo scioglimento del matrimonio. La critica politica, per comprensibili ragioni di censura, era solo abbozzata ma non per questo meno evidente in diverse sequenze del film: dalle scene che mostrano i paradossi della fede, al colloquio in tribunale tra Simin [Leila Hatami] e un giudice nascosto dalla macchina da presa ma determinato a ribadire gli angusti valori della società iraniana. E persino nelle menzogne, nei compromessi, nei pregiudizi e nella violenza dei protagonisti della vicenda, soprattutto se maschi, Asghar Farhadi adombra le contraddizioni sociali  di cui il regime si rende responsabile.








 Con Il Passato [Le Passé], film premiato di recente a Cannes per la migliore interpretazione femminile, Asghar Farhadi torna sul tema della separazione familiare ma in una prospettiva completamente diversa, se non addirittura opposta. Una Separazione si svolge in una cornice medio-orientale piena di tabù e nella prospettiva di una “liberazione” che sembra poter avvenire solo con la “fuga” in Occidente. Il Passato è girato tutto alla periferia di Parigi e mostra che i valori del cosiddetto mondo libero non sono meno contraddittori di quelli iraniani, forse persino più spietati, se è vero che, per sfuggire alla crisi e alla depressione, dall’Occidente bisogna andarsene!

 L’inizio del film è di grande effetto: Marie [Bérénice Bejo] e Ahmad [Ali Mosaffa], coniugi separati, si parlano e si sorridono nel rivedersi, divisi da una vetrata che impedisce loro di sentire ciò che stanno dicendo. Ahmad è giunto all’aeroporto direttamente da Teheran e sua moglie è andata a prenderlo con un’auto che si scoprirà presto essere quella del suo nuovo compagno. Ahmad torna a Parigi dopo quattro anni, da quando ha lasciato la famiglia, a seguito di una depressione causata dal vivere in una società non adatta a lui, come più tardi gli ricorda un connazionale che gestisce un ristorante a Parigi. È tornato per apporre la sua firma sull’atto di scioglimento del matrimonio ma anche nel desiderio di rivedere Lucie [Pauline Burlet] e Léa [Jeanne Jestin],  le figlie, l’una adolescente, l’altra bambina, che Marie ha avuto da precedenti nozze e alle quali si sente particolarmente legato. Per la sola firma, infatti, avrebbe potuto benissimo farsi rappresentare.

 Lo spettatore ha come l’impressione che, nonostante le premesse, forse qualcosa può ancora accadere tra Marie e Ahmad, se i due riuscissero a rompere il velo dell’incomprensione. L’illusione sembra cadere  quando entra in scena Samir [Tahar Rahim], il magrebino titolare di una tintoria, dal quale Marie aspetta un figlio e che sposerà non appena egli resterà vedovo della moglie che è all’ospedale in coma profondo. Sospettiamo inoltre, ma il regista volutamente non approfondisce il discorso, che forse alla base della “fuga” di Ahmad  ci sia anche una delusione provocata da sua moglie. Per amore? Sembra piuttosto per l’incapacità di comprendere la sua crisi. Una donna molto determinata, Marie, consapevole dei propri diritti, ma anche con molti “appetiti” e un robusto egoismo, come ce la presenta la figlia Lucie, rimasta molto legata ad Ahmad e sempre in crisi con la madre di cui non condivide le scelte amorose e soprattutto il progetto di sposare Samir che a sua volta ha un figlio.

 E Lucie e Fouad [Elyes Aguis], il figlio piccolo di Samir, rappresentano agli occhi del regista iraniano, il riscontro della crisi di valori della società occidentale. Il disagio, l’aggressività, la reazione talora crudele, il pentimento e il rimorso di un bambino e di un’adolescente ormai quasi donna, rappresentano il costo che le giovani generazioni di entrambi i sessi sono destinate a pagare nell’illusione – sembra voler dire Asghar Farhadi – della libertà.

 Sia che si tratti di una società oppressa come quella iraniana, sia che si tratti di una società in cui le libertà individuali siano garantite, il risultato non cambia. Anzi – e qui non si può non risconoscere un’involuzione nel messaggio di Farhadi che farà piacere ai governanti del suo Paese –  nella gestione dell’universo familiare, l’Europa è addirittura peggiore del Medio Oriente. Ahmad, a Teheran si è ripreso dalla depressione, e nel tornare a Parigi si comporta saggiamente. L’unico a saper ancora parlare a Lucie, Léa e Fouad, il solo capace di comprenderne le esigenze vitali e affettive.








 Insomma, sembra voler concludere Asghar Farhadi, la società in cui viviamo sarà pure responsabile delle nostre azioni, ma solo perché non siamo capaci di lavorare a fondo su noi stessi, affrancandoci dai tabù che sono propri della natura umana [i ben noti idola tribus, specus, fori e theatri di Francesco Bacone]. Discorso elitario finché si vuole, ma non privo di qualche fondamento. È sintomatico che, in entrambi i film, a commettere, sia pure senza volerlo, i danni più gravi e spesso fatali, siano donne in cui la semplicità della condizione esalta la forza del pregiudizio: Razieh [Sareh Bayat], la badante del padre di Nader [Peyman Moadi] in Una Separazione, Naïma [Sabrina Quazani], la lavorante di Samir, in Il Passato.

sergio magaldi 



  


sabato 23 novembre 2013

PUBBLICO E PRIVATO



   In base a quali criteri si può decidere se un servizio di interesse pubblico debba essere gestito dai privati o dagli enti pubblici? Se il criterio fosse soltanto politico si arriverebbe addirittura a teorizzare, come fanno alcuni, che le perdite di gestione sono più che compatibili con la natura del servizio reso e che lo Stato deve farsene garante. Se il criterio fosse soltanto economico, si dovrebbe concludere che la maggior parte delle aziende pubbliche italiane, in deficit di milioni di euro, dovrebbero essere privatizzate.

 Resta la domanda di quale sia l’interesse del privato nel gestire attività che non solo non danno profitto, ma che risultano in grave perdita. La risposta che viene da una certa parte politica è molto chiara: per rendere remunerativi gli investimenti, il privato razionalizzerà il servizio, tagliando i rami secchi e licenziando il personale, con grave danno non solo per l’occupazione ma anche per le utenze. Tanto per fare qualche esempio si pensi a cosa avverrebbe se la distribuzione dell’acqua o la gestione dei trasporti fosse affidata ai privati: le periferie comunali sarebbero tagliate fuori dai rispettivi servizi con il crescente disagio degli strati sociali più emarginati. Senza contare il pessimo esempio che viene da Telecom e Alitalia e dalla tendenza dell’imprenditoria italiana a “spolpare” le aziende d’interesse pubblico, dopo averle acquistate, salvo a rivenderne il guscio vuoto allo Stato e agli enti pubblici, i quali dal canto loro saranno costretti a ricomprare aziende più decotte di quando le avevano vendute. [Vedi il post: Il Belpaese dismesso]. Ve le immaginate le città, i cui mezzi trasporto pubblico cessino di funzionare o dove l’acqua smetta di essere erogata?

 Il ragionamento non fa una piega, ma potrebbe trovare la sua pietra d’inciampo nella realtà, sottoforma di impossibilità a reperire nuove risorse per continuare a gestire in perdita, da parte delle aziende municipalizzate, servizi di preminente interesse pubblico. È un po’ quello che sta avvenendo in questi giorni in Italia, con il caso del trasporto pubblico genovese in prima fila. Fassino, il sindaco di Torino, dichiara che non bisogna temere che i privati abbiano interesse a danneggiare i cittadini e che basterebbe accompagnare le privatizzazioni con clausole a salvaguardia dei servizi e dell’occupazione. Dopo di che resterebbe da chiedersi perché i privati dovrebbero accettare simili condizioni. Per investire sulla perdita?




 A meno di non ammettere che il deficit di tante aziende pubbliche sia unicamente dipeso dagli sprechi dei dirigenti pubblici e dalle ruberie dei politici. Basti pensare a quanto è successo a Roma, dove venivano stampati biglietti falsi di mezzi pubblici, pare, per finanziare la politica e dove appena un cittadino su dieci timbra il biglietto in autobus o sul tram, perché a differenza di quello che avviene in tutte le capitali europee, non è costretto a pagare o a mostrare il biglietto al conducente, al momento di salire sul mezzo di trasporto. Se le cose stanno così, allora ha ragione Fassino e resta solo da valutare quali misure siano più idonee a salvaguardare utenze e lavoratori.

 Le considerazioni di cui sopra inducono ad ulteriori analisi. Non è difficile distinguere tra enti pubblici che erogano servizi di rilevante interesse pubblico ed enti che, pur svolgendo un servizio pubblico, non risultano di vitale importanza per i cittadini, in grado di usufruire dei medesimi servizi grazie all’offerta privata e magari con maggiore risparmio. È chiaro che se i bilanci di tali aziende sono in attivo o almeno in parità, non vanno toccati, ma se così non è [e purtroppo così non è per la maggior parte] e hanno bisogno di continuo di essere foraggiati con denaro pubblico, non si vede quali ragioni ostino alla loro privatizzazione. A meno che tali aziende decotte, non rappresentino la chiave di volta del regime. 

sergio magaldi                                                        



mercoledì 20 novembre 2013

QUESTIONE DI TEMPO

Richard Curtis, Questione di Tempo, 123 minuti, USA, 2013




   Persino ovvio ricordare che il tempo è il metronomo della realtà e che il tentativo di isolarlo, per poterlo manipolare anche per un istante infinitesimale, è fantasia di poeti, la magia impossibile del Faust di Ghoete [… Fermati, attimo, sei bello!...]. Eppure, come già osservava Jean Paul Sartre in L’imaginaire, si danno almeno due modalità in cui il tempo non si identifica necessariamente con il reale: il tempo della dimensione onirica e quello dell’immaginazione.








 Lo spazio e il tempo del sogno e dell’immagine, infatti, ubbidiscono a leggi che nulla hanno a che vedere con quelle della comune percezione. Direi non a caso, perché Immanuel Kant sta lì a ricordarci che spazio e tempo non sono entità metafisiche ma forme pure a priori della nostra esperienza e della nostra sensibilità. Se, tuttavia, nulla o poco possiamo fare per influire sul tempo di un sogno [benché ci sia chi conceda al sognatore esperto questa possibilità], nell’immaginazione possiamo intervenire, viaggiando a piacimento tra le ekstasi temporali di passato, presente e futuro, e provando ad immaginare per noi stessi un destino diverso da quello posto in essere dalle scelte passate.

 Sören Kierkegaard, il padre dell’esistenzialismo, ha parlato di angoscia legata alla scelta. Perché, nel momento in cui scegliamo, escludiamo per ciò stesso ogni altra possibile realtà, ma ciò a cui deliberatamente voltiamo le spalle [un’opportunità mancata, un amore sacrificato, la buona azione non fatta ecc…], può reclamare il proprio diritto di esistere come possibilità non realizzata e rimpianta.






 Il cinema, che per definizione è arte dell’immagine, ha più volte tentato questa strada, mostrando come il tempo sia la via maestra per comprendere il nostro destino. Non si vuole dire, con ciò, che About Time [proposto in questi giorni sugli schermi italiani con il titolo poco appropriato di Questione di tempo], il film del regista e sceneggiatore inglese Richard Curtis, si proponga come un déjà vu o manchi di originalità. Innanzi tutto perché qui, più che “manipolare” il tempo, si tratta di “emendarlo” delle scelte precipitose o poco consapevoli che hanno generato gli eventi negativi. Poi, perché questo “aggiustamento” si limita al passato individuale più o meno recente, non riguarda il futuro - proprio perché il futuro è il frutto delle scelte passate - e non è ottenuto, per così dire, grazie all’azione di una bacchetta magica ma con le regole della prudenza, intesa come la virtù dianoetica del discernimento, e della bontà, vista come Pietas dei Romani o Yetzer tov [inclinazione buona] degli Ebrei.

 Questione di tempo è una piacevole commedia montata su tre registri: c’è l’amore che naturalmente per essere tale deve essere romantico, esattamente come nel film di Curtis di dieci anni fa: Love actually [“L’amore davvero”]: dieci storie d’amore di cui la più romantica e originale è quella che unisce uno scrittore ad un’umile ragazza portoghese molto più giovane di lui.

 La storia d’amore tra Tim [Domhnall Gleeson] e Mary [Rachel McAdams] introduce al secondo registro della narrazione che è appunto la questione del tempo: Tim viene messo a parte da suo padre [un inappuntabile Bill Nighy] di un segreto: il dono che i maschi della famiglia hanno, attraverso un rituale peraltro molto sbrigativo, di tornare su un evento del proprio passato per poterlo modificare. D'altra parte, se il dono fosse appartenuto anche alle femmine, Curtis avrebbe dovuto cancellare un pezzo non poco significativo della sua storia!

 Il generoso intervento di Tim a favore di Harry - il commediografo amico dei suoi genitori [Tom Hollander] - per evitargli il flop di una pièce causato dal blocco mentale di un attore, fa svanire la conoscenza della ragazza che Tim ritiene essere l’amore della sua vita: il giovane, infatti, non può trovarsi contemporaneamente a teatro, dove s’è prodotto il “guasto da emendare”, e nel luogo [peraltro alquanto particolare e sul cui significato molto ci sarebbe da dire] in cui ha conosciuto Mary.

 L’ironia, spesso presente nei film di Richard Curtis [inventore del personaggio di Mister Bean o regista di film come Quattro matrimoni e un funerale], si avverte meno in Questione di tempo, allorché per esempio si sente risuonare la celebre canzone di Jimmy Fontana: Il mondo. Non solo perché il cantante è scomparso di recente, ma soprattutto perché lo spettatore si è forse già avventurato nei ricordi personali e per un istante si è illuso di poter tornare sul proprio passato, magari per modificare le vicende di un amore sfortunato e ancora rimpianto. Le parole della canzone di Jimmy Fontana: “ …Nel tuo silenzio io mi perdo e sono niente accanto a te. Il mondo non si è fermato mai un momento…” , gli lasciano poche speranze e non certo la voglia di sorridere.







 Il terzo registro è utilizzato da Richard Curtis per l’ultima parte del film che è anche la più debole e la meno interessante. Il tempo e l’amore non sono più visti nella prospettiva di una vita vissuta all’insegna della bellezza, della fantasia e della continua scoperta di se stessi, ma nella consolatoria accettazione della normalità borghese, in cui diventa facile rinunciare ad un amore o sacrificare il dono ricevuto di intervenire sul tempo, in cambio della facoltà concessa a tutti di poter riguardare ogni giorno, anche quello più triste o pesante, con l’occhio dell’innamorato della vita in quanto tale.

 Nell’insieme, una commedia ben riuscita e un film da non perdere.


sergio magaldi