domenica 27 gennaio 2013

DAL DIARIO DI ANNE FRANK PER NON DIMENTICARE






 I brani che seguono concludono una delle ultime lettere che Anne Frank invia a Kitty, un’amica immaginaria, dall’alloggio segreto di Prinsengracht 263 –1016 GV Amsterdam, dove restò nascosta con la propria famiglia ed altri amici, dal Luglio del 1942 sino al 4 Agosto del 1944 [due anni e trenta giorni], per sfuggire alla barbarie dei nazisti tedeschi e dei loro complici olandesi. Della lunga lettera ho scelto queste righe, scritte da Anna venti giorni prima di essere deportata nei campi di sterminio, perché contengono parole, ad un tempo di disperazione e di speranza, che tutti dovremmo poter condividere, ‘negazionisti’ compresi:



 “Ecco cos’è difficile in quest’epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. È  molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo.
 Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione. Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che anche questa durezza spietata finirà, e che nel mondo torneranno tranquillità e pace.” [Anne Frank, Diario, ed.it.,Einaudi,Torino,1993, p.293]





 Sull’olocausto vedi anche fra gli ARGOMENTI del Blog:

Narrativa: AMORE PER SEMPRE E SHOAH- post del 24 Settembre 2012
              IL GIORNO DELLA MEMORIA- post del 27 Gennaio 2010 


Cronaca: IL GIORNO DELLA MEMORIApost del 26 Gennaio 2012

Mitologia e Astrologia: ANNAFRANK: grafici del tema zodiacale post del 28 Gennaio 2010





  sergio magaldi                        

giovedì 24 gennaio 2013

PSICONEVROSI, FINZIONE, E MAGIA DELL'AMORE NELL'ULTIMO FILM DI TORNATORE

La Migliore Offerta [The Best Offer], film di Giuseppe Tornatore, Warner Bros, Italia, 2012-2013, durata: 124 minuti.



 “Se esiste un potere oscuro e ostile che immette a tradimento un filo nel nostro cuore col quale poi ci afferra e ci trascina su una via pericolosa e mortale che altrimenti non avremmo battuto… se un potere siffatto esiste, deve prendere dentro di noi la nostra stessa forma, deve anzi diventare il nostro io: soltanto così infatti possiamo crederci e concedergli quello spazio di cui ha bisogno per compiere quell’opera segreta”.




 È il brano di una lettera di Clara, il personaggio di un noto racconto di E.T.A. Hoffman, “L’uomo della sabbia” [1815] che fa parte dei Notturni di Callot. Ben si adatta per introdurci nel clima gotico-romantico del nuovo film di Tornatore, nel quale non manca anche una nana che sembra una bambola meccanica e che si rivela come una piccola rotella nell’ingranaggio dell’intera vicenda.

 Lavoro pregevole ed elegante, La migliore offerta di Giuseppe Tornatore ha spessore europeo e induce a riflettere sui sentimenti e sulle nevrosi presenti nell’animo umano, benché utilizzi a piene mani strumenti già noti e lasci intuire il finale del film con largo anticipo. 

 Virgil Oldman [Geoffrey Rush], come dice il suo cognome, è un uomo non più giovane, battitore d’asta di fama internazionale, eccezionale intenditore d’arte e collezionista di ritratti femminili di grande valore commerciale, che riesce a procurarsi grazie al fiuto di cui dispone e alla complicità dell’amico Billy [Donald Sutherland]. Volti di donna che per lui hanno prima di tutto grande valenza affettiva. Per la verità, egli colleziona anche guanti o meglio ne possiede per proprio uso e consumo in quantità industriale, perché non riesce a toccare gli altri e le cose a mani nude…

 Non è difficile utilizzare per Virgil la categoria del “perturbante”, cui Freud dedicò un saggio nel 1919, Das Unheimliche, che in tedesco significa non confortevole, non familiare, perturbante appunto, dalla negazione Un e da Heimliche [Heim=casa] che significa confortevole, familiare. In Filosofia della Mitologia [1846], Schelling definì Unheimliche “Tutto ciò che potrebbe restare segreto, nascosto e che invece è affiorato” [Ed. it., Milano, Mursia 1990, p.474]. Entrambi i significati si ritrovano nella vita e nella psiche del protagonista del film di Tornatore. Veniamo infatti a sapere che Virgil è cresciuto in un orfanatrofio e indoviniamo che la grande sala-cassaforte, in cui egli gode in segreto di ritratti femminili d’ogni epoca, assumerà presto nel racconto un significato che trascende la dimensione intimistica. 

 Nel saggio, Freud accenna  tra l’altro proprio all’Uomo della sabbia di E.T.A. Hoffman e individua nelle “rappresentazioni e imitazioni artistiche” l’unica forma di perturbazione o di spaseamento capace di suscitare angoscia ma anche “godimento elevatissimo”. A tale proposito, poco importa sapere che Virgil ha acquisito interesse e competenza per l’arte grazie ad un antiquario causalmente incontrato durante l’infanzia. Il fattore infantile come fonte primigenia del “perturbante” e causa della scissione tra principio del piacere e principio di realtà, trova in lui compensazione nell’amore per l’arte e nel godimento delle rappresentazioni artistiche, vere o false che siano.

 La misoginia di Virgil è solo apparente. Egli si nutre della bellezza femminile ma rinuncia alle donne in carne e ossa perché in lui è scisso sin dall’infanzia il binomio piacere-realtà. Quando però una giovane donna, che immagina bella come quelle che contempla attraverso i ritratti della sua camera segreta, entra casualmente[?!] nella sua vita, si compie in lui la metamorfosi che tuttavia non è ancora guarigione. Occorrerà che la donna gli si manifesti in forma misteriosa e non visibile, che possa ascoltarne la voce senza vederla e che infine possa contemplarla nella sua bellezza senza esserne visto, ricorrendo ad un piccolo stratagemma suggeritogli da Robert [Jim Sturgess], il giovane e valente meccanico, come lui appassionato di automi e di robot e che, grazie ai pezzi e agli ingranaggi che Virgil rintraccia poco a poco nella misteriosa villa di Claire, ricostruirà per lui l’automa di Vaucanson, il geniale inventore meccanico vissuto nel XVIII secolo.





  Come il Nataniele del racconto di Hoffman, che s’innamora di Olimpia, una bambola meccanica, e poi di Clara, una donna in carne e ossa, Virgil divide ora la sua anima tra il robot di Vaucanson e le sembianze di Claire [una Sylvia Hoeks non del tutto convincente]. Ma la donna, proprio come lui soffre di una rara forma del “perturbante”: l’agorafobia che dall’infanzia la costringe in una stanza segreta della sua villa ricca di vaste sale, quadri e mobili antichi.

 Nel vicendevole aiuto che Virgil e Claire si scambiano, nella complicità e nel mistero dell’innamoramento, si compie il miracolo della reciproca guarigione: lui imparerà finalmente ad amare una donna di carne e sangue, lei tornerà poco a poco a frequentare le piazze e le strade affollate.
  
 Virgil si muove ora in un universo nuovo ma che non  avverte più come Unheimicle “perturbante” o poco familiare, così com’è avvenuto durante tutta la sua vita. E la spiegazione di questo sentirsi a suo agio è nel paradosso che gli fornisce l’amico Billy, quando lo avverte che i sentimenti umani si possono simulare come le opere d’arte e che vivere con una donna è come partecipare ad un’asta, perché non sai mai se la tua offerta sarà la più alta. Virgil sa bene per esperienza che in ogni falso artistico si nasconde sempre qualcosa di autentico e che la migliore offerta in un’asta è quella di cui non si può mai essere sicuri. E sono proprio queste consapevolezze a indurlo a rischiare in amore tutto se stesso, così come per tanti anni ha fatto con successo in campo artistico.

 Forse Virgil non è del tutto guarito, forse ha confuso l’amore con l’arte, ma una cosa è certa: il feticismo estetico – che lo portava a contemplare ritratti di donna, pago solo di cogliere l’anima che l’artista aveva saputo imprimere sulla tela – si muta in romanticismo, ora che la magia dell’amore si è dispiegata in lui in tutta la sua potenza. Chi parlerebbe ancora del “perturbante” in Virgil, nella finzione di un incontro con Claire in una dimensione reale, come può esserlo la Staromestská Namesti di Praga o un Caffè adiacente alla piazza? Chi, innamorato, non ha creduto per qualche attimo di veder comparire all’improvviso la persona amata in un luogo consueto o solo vagheggiato da entrambi? Chi, amando, non ha sperato di vederla arrivare, anche in mancanza di un appuntamento?

 



 sergio magaldi












mercoledì 23 gennaio 2013

IL REDDITOMETRO E IL CARNEVALE






 Nel bel mezzo della campagna elettorale – sempre più “Festival della partitocrazia” e sempre meno esercizio di democrazia – la politica riscopre se stessa in un sussulto d’orgoglio, dopo essere stata costretta a chinare la testa di fronte all’assalto mediatico [già rientrato nel nulla] dell’antipolitica e a lasciare momentaneamente il campo libero al cosiddetto governo dei tecnici.

 In assenza di programmi e di idee, si fa un gran parlare in questi giorni del Redditometro che avrebbe la funzione sociale di stanare gli evasori, consentendo così per ogni euro recuperato, di diminuirne uno di tasse, secondo il fiero proposito dei soliti saggi che governano o aspirano a governare il Paese. Manco a dirlo, la diminuzione delle tasse avrebbe come effetto l’aumento dei consumi da parte dei cittadini, con la fine della recessione e l’inizio di una nuova crescita del prodotto interno lordo [P.I.L.]. In altre parole, l’istituzione del Redditometro, che entrerà in vigore da Marzo, sarà la vera panacea per curare tutti i mali dell’economia italiana. D’altra parte, nel vuoto metafisico di questa campagna elettorale – fatta come sempre di chiacchiere inutili e di denaro pubblico che serve ad organizzare banchetti elettorali, stampare manifesti, pagare circuiti mediatici, rimpinguare le casse dei partiti del denaro investito all’estero, speso malamente e/o semplicemente rubato da singoli e disinvolti amministratori – la questione non è di poco conto, perché diventa la cifra per distinguere tra destra sinistra e centro, di cui altrimenti l’elettore faticherebbe a cogliere le differenze.

 Il centro difende il nuovo istituto e dichiara, così come ha già fatto per l’IMU, che non è provvedimento del governo Monti, ma ereditato e che comunque va accettato perché assicura maggiore giustizia ed equità sociale, e può rappresentare davvero la panacea di cui si diceva sopra. Naturalmente va utilizzato secondo l’equilibrio che solo un governo di centro è in grado di garantire. Senza accertamenti di massa, ma con provvedimenti mirati a far emergere “il sommerso”. Il nuovo centro contraddice così, almeno a parole, la politica che nel secolo scorso ha caratterizzato un altro centro ben noto agli italiani, quello democratico-cristiano.

 Stato e partito insieme, la vecchia DC ha governato per quasi cinquant’anni un Paese che dell’evasione fiscale elevata a sistema aveva fatto la propria bandiera. Un sistema che dette i suoi frutti perché, in cambio di un forte e sempre più accentuato controllo pubblico sull’economia e di scarsi servizi sociali, generò il capitale esentasse e gli investimenti privati, consentendo alle imprese, alle corporazioni di arti, professioni e mestieri, agli istituti ecclesiastici con finalità commerciali, ai bottegai e ai mercanti più furbi di espandersi a dismisura, facendo nel tempo dell’Italia il primo paese in Europa quanto a risparmio e ricchezza privata, l’ultimo quanto a debito pubblico e differenze socio-economiche tra i cittadini. Ne nacque un popolo di evasori fiscali o di cittadini con redditi da terzo o quarto mondo, a seconda dei punti di vista con cui si riguardi il fenomeno, ove si consideri che a dichiarare redditi superiori ai 100.000 Euro è oggi poco più dell’un per cento degli italiani. Ecco spiegato perché a pagare le tasse sono sempre e soltanto i redditi fissi.

 Lo schema sociale ormai consolidato è semplice: da una parte i ceti privilegiati, tra i quali sono da annoverare anche politici e boiardi di stato, dall’altra la massa dei salariati a reddito fisso ai quali viene impedito di evadere perché tassati alla fonte e che una volta si arrangiavano con un secondo lavoro in nero. Naturalmente quando il lavoro c’era e non come oggi che il lavoro manca per tutti.

 Va detto, tuttavia, che, in questo contesto sociale, dove l’accaparramento individuale è ed è sempre stato la regola, non mancò mai, per paradosso solo apparente e grazie al conforto dell’opposizione più grande che si sia mai conosciuta in Europa, una gestione statalistica e burocratica del potere, unitamente a politiche di concreta solidarietà sociale, pagate a caro prezzo dalla classe media, destinata sempre più a proletarizzarsi. Persino l’imposta progressiva, giusta in sé, e vero e proprio fiore all’occhiello delle politiche della sinistra, contribuì a scavare il fossato delle differenze socio-economiche, perché – come avviene anche oggi con l’IMU – andò a colpire i soliti noti al Fisco, lasciando indisturbati non solo e non tanto i soliti ignoti, ma coloro che le tasse le pagano al massimo sul dieci o venti per cento del proprio reddito, che sono arcinoti e che oggi sono sempre meno gli imprenditori oberati di tasse, fiaccati dalla concorrenza sleale e da una politica governativa miope e asservita al capitale finanziario e all’ideologia tedesca.

 Da questo punto di vista, dunque, il ruolo del nuovo centro di Monti appare rivoluzionario perché punta a stanare l’evasione fiscale. Intenzione nobile che fa il paio con le proposte della nuova sinistra, sua probabile compagna di viaggio nel prossimo governo: A) Imposta progressiva dell’IMU sulla prima casa, con riduzione per i redditi più bassi, compensati dall’aumento della tassazione su quelli più alti, per una misura parzialmente ispirata ad un provvedimento già preso in passato dal governo Prodi, quando ci dissero che la tassa sulla prima casa era stato abolita e nessuno se ne era accorto! B) Patrimoniale sugli immobili, non sui redditi [forse perché si ha scarsa fiducia nel Redditometro] e che inevitabilmente, per produrre un consistente gettito, graverà su chi possiede una casa o al massimo due, insomma per intenderci una sorta di doppia IMU! C) Accettazione incondizionata del pareggio di bilancio già da quest’anno, provvedimento  che del resto la nuova sinistra ha votato in Parlamento e che comporterà, subito dopo le elezioni, manovre aggiuntive e altre tasse.

 Basteranno le Quattro Misure  [Redditometro e punti A-B-C] del prossimo governo di centro-sinistra ad avviare la ripresa dell’economia italiana? A stanare l’evasione fiscale che a giudizio del Presidente dell’Istat è anche la causa dei mancati investimenti degli operatori internazionali in Italia e dunque della costante diminuzione di produttività? Ragionamento che non fa una piega. Chi vorrebbe investire sapendo di subire la concorrenza sleale di chi non paga le tasse? Sapendo – aggiungo io –  di dover sottostare nello stesso tempo ad una delle tassazioni tra le più elevate d’Europa, alle vessazioni di una burocrazia corrotta e scarsamente efficiente e ad una riforma del sistema giudiziario sempre annunciata e mai realizzata?

 Insomma, le domande sono: 1) Il Redditometro, nella forma soft resa nota da Mario Monti negli ultimi giorni – dopo le tante levate di scudo di politici preoccupati delle sorti elettorali dei partiti che rappresentano – è davvero la chiave di volta per spalancare la porta oltre la quale si nasconde la massiccia evasione fiscale che per oltre sessant’anni è stata a fondamento della Repubblica e sulla quale i ceti privilegiati hanno costruito la propria ricchezza? [La stima dell’evasione, calcolata per difetto, è di ben 120 miliardi di Euro, annui]. Il Redditometro soft [ma soft per chi?] rappresenta davvero l’arma segreta e letale – dopo tanti proclami e tante inutili battaglie – con cui abbattere l’evasione e lanciare la ripresa? 2) C’è soluzione di continuità con il passato sulla politica fiscale del nostro Paese? Il nuovo centro e la nuova sinistra stanno davvero per imboccare una strada nuova e diversa oppure l’istituto che diverrà esecutivo tra meno di due mesi è solo uno spaventapasseri che al massimo fungerà da deterrente nei confronti dei soggetti più deboli?

 Domande intriganti ma alle quali non è difficile dare una risposta plausibile. Si crede davvero o si fa finta di credere che cittadini appartenenti in diversa misura alle categorie del privilegio e che per più di mezzo secolo hanno nascosto le entrate effettive siano disposti a rendere note le proprie spese? Nel migliore dei casi il Redditometro servirà a ridurre gli acquisti personali e/o ad occultarli attraverso lo schermo aziendale. I consumi ufficiali diminuiranno ulteriormente. Recessione, disoccupazione, esportazione di capitali all’estero aumenteranno e la crisi sarà totale!

 E la destra, che sembra averne la paternità, che ne pensa del Redditometro? Ora che non serve più a gettare fumo negli occhi, lo disconosce, non tanto temendone le conseguenze, ma soltanto perché ad usarlo strumentalmente sono gli avversari politici. La destra o almeno la destra di governo o sedicente partito dei moderati che ha guidato il Paese negli ultimi anni, non ha maggiore interesse del centro e della sinistra a colpire l’evasione fiscale e il perché non è difficile da comprendere. Il suo mestiere, pur con qualche venatura di populismo, è sempre stato la difesa delle corporazioni e dei privilegi acquisiti, il mantenimento dello status quo, l’irriducibile avversione contro il concetto di imposta progressiva e contro le tasse in genere, salvo che a pagarle non siano i redditi fissi, i ceti considerati garantiti dallo Stato, dunque politicamente infidi e da mungere. Con la fine dell’ideologia, la vera distinzione tra destra e sinistra s’è giocata proprio sulle tasse: esecrate a parole dalla destra, elevate a monumento dalla sinistra che le ha sempre considerate strumento di governo per colpire il ceto cosiddetto parassitario dei proprietari di immobili. Così facendo, la sinistra non s’è accorta o ha fatto finta di non accorgersi di consegnare la classe piccola e media, suo potenziale alleato, al centro che, per oltre sessant’anni, in un modo o nell’altro è riuscito a governare mediando tra destra e sinistra, continuando a garantire l’evasione fiscale dei ceti privilegiati e delle corporazioni, ma al tempo stesso, innalzando il livello di tassazione ben oltre il cinquanta per cento dei redditi accertabili, per sostenere la spesa pubblica e acquisire consensi. E ora che le casse dello Stato sono praticamente vuote, prosciugate dalle ruberie, dagli sprechi e dall’ingordigia della politica, ecco il nuovo centro riesumare il Redditometro, strumento già in passato miseramente fallito ma al quale si chiede di rinnovare l’illusione che si stia facendo sul serio.

 In conclusione, dunque, destra, sinistra e centro non vogliono che la stessa cosa: perpetuare all’infinito un regime fondato sull’evasione fiscale elevata a sistema, e se le conseguenza sarà la totale proletarizzazione dei ceti piccoli e medi, poco male, perché sarà fatta la volontà dell’oligarchia finanziaria internazionale e dei suoi manutengoli politici, tedeschi o filotedeschi, che governano l’Europa.

 Il Redditometro, dunque, è poco più di uno scherzo di Carnevale [anche se non tarderà a mietere vittime come al solito tra i ceti più deboli] e non bisogna averne paura, come ha osservato sapientemente e di recente il leader della sinistra e come ha ribadito il suo propugnatore e alfiere del nuovo centro, perché non modificherà di una virgola il sistema tributario italiano. E c’è da credergli, perché l’unica misura capace di colpire l’evasione fiscale è quella in uso negli Stati Uniti e nella sempre ammirata e invidiata Germania degli italiani: il controllo delle fatture incrociate e la possibilità di detrazioni fiscali per il consumatore, con il duplice risultato di stanare l’evasione fiscale e di ridurre le tasse per i cittadini. Non la si vuole, perché si dice che sia complicata da realizzare [più del Redditometro?!], mentre si tace che rivoluzionerebbe il costume degli italiani, con conseguenze imprevedibili per la sopravvivenza delle corporazioni e per i signori della politica che sarebbero costretti, questa volta e per davvero, ad abbattere privilegi non più tollerabili da parte di chi, dopo sessant’anni, si vedesse costretto a pagare il dovuto. E così, per evitare che nulla cambi in questo Paese, si sono preferiti nel recente passato gli spot televisivi, pagati dal contribuente, contro i cosiddetti parassiti sociali che evadono le tasse. Una misura ridicola e dispendiosa che fa il paio con quella adottata oggi con il Redditometro, la nuova maschera del carnevale permanente della politica italiana.

sergio magaldi

mercoledì 9 gennaio 2013

IL MAESTRO E L'INIZIATO IN THE MASTER DI PAUL THOMAS ANDERSON

THE MASTER, film di Paul Thomas Anderson,  U.S.A., 2012, 137 minuti

 The Master, premiato con il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia e con la Coppa Volpi per i suoi due grandi interpreti [Philip Seymour Hoffman nella parte di Lancaster Dodd e Joaquim Phoenix in quella del marinaio Freddie] ha appena ricevuto tre nomination all’Oscar. E subito mi chiedo se il gran parlare che si fa di questo film, il successo già ottenuto e che quasi sicuramente lo porterà a vincere almeno un Oscar, dipenda da intrinseche qualità oggettive o non piuttosto dal fatto di essere la parziale ricostruzione della vita del fondatore di un’organizzazione settaria, divenuta così popolare negli Stati Uniti, tanto da approdare alla costituzione di una vera e propria chiesa, la Church of Scientology, più nota in tutto il mondo semplicemente col nome di Scientologia, che letteralmente implica un discorso sulla conoscenza e che, da L.Ron Hubbard, suo capo carismatico e dai suoi seguaci, fu definita di volta in volta come una filosofia religiosa, un corpo organizzato di conoscenza, una filosofia religiosa applicata, una vera e propria chiesa con i suoi riti e i suoi ministri.

 Prescindendo da questo interrogativo, e dalla curiosità di sapere cosa sia realmente Scientology e cosa rappresenti ancora oggi a sessant’anni dalla sua costituzione [informazioni facilmente reperibili in rete], converrà giudicare il film di Paul Thomas Anderson, regista e sceneggiatore, per quello che realmente è. La critica appare divisa. Per lo più entusiasta quella americana, con punte di esaltazione, come nel giudizio di A.O. Scott sul New York Times: “Un film imponente, contraddittorio e alla fine meraviglioso. Una storia che mostra l’inganno e la follia della grandezza. La cosa più vicina a un grande film che abbia visto recentemente”; o come in quello di Brian Henry Martin [UTV]:“Per me è un capolavoro, un’esplosione di cinema puro. Se siete annoiati da questo film allora siete annoiati dalla vita”E in effetti, se dovessi scegliere un aggettivo per definire questo film, non direi che è noioso. Anche se di noia parla Gianni Rodolino sulla Stampa: “[…]Anderson, che ha realizzato alcuni film indubbiamente meritevoli, in particolare il precedente Il petroliere del 2007, non è riuscito a rendere affascinante e soprattutto avvincente una storia che appare, nella durata di due ore e mezza, piuttosto noiosa”. Parlerei semmai di un film narcisistico o “troppo innamorato di se stesso” come l’ha definito Rene Rodriguez del Miami Herald.

 L’interpretazione superba di due grandi interpreti – l’uno nella parte del Maestro, pieno di sé, dogmatico, bizzarro poligrafo, sognatore e opportunista al tempo stesso, l’altro in quella del discepolo selvatico, ignorante, misterioso e alcolizzato, reclutato tra i reduci di guerra, agli inizi degli anni Cinquanta – dà luogo ad una vicenda che esclude la noia, ma rimanda all’interrogativo se sia sufficiente da sola a rendere intrigante l’intero racconto. E la risposta è negativa non tanto per le motivazioni “ideologiche” che Curzio Maltese ne dà su Repubblica: The Master di Paul Thomas Anderson non è purtroppo il capolavoro annunciato. Dimenticate la potenza de Il Petroliere. La storia, per quanto negato dall’autore, è del tutto ispirata alla figura di Ron Hubbard, fondatore di Scientology, la potente setta para religiosa che da 60 anni miete soldi in mezzo al mondo, ma in particolare ad Hollywood, all’insegna del pagare per credere. Amici di Hubbard erano i regimi fascisti e razzisti e i milionari spostati. Nemici giurati il comunismo, gli omosessuali, la scienza ufficiale, i medici veri e la psicanalisi, avvertita come una minaccia perché toglieva i clienti migliori”.

 Perché la storia narrata nel film non riesce ad interessare più di tanto, o almeno a non interessare tutti alla stessa maniera? La ragione è forse nelle scelte del regista. In luogo di costruire una storia pregna di significati politici, culturali e religiosi, di osservare il fenomeno Scientology dall’esterno, Anderson sceglie di vederlo dall’interno, con una lente di ingrandimento grazie alla quale osserva da vicino una iniziazione, e lo fa ricorrendo ad un rapporto paradossale fondato su una scommessa del Maestro: domare lo spirito ribelle del neofita più distante dalle idee che egli professa. Così facendo, la prospettiva si modifica e capita spesso che il maestro diventi il discepolo e viceversa.

 In questo senso, mi sembra che il regista abbia ragione nel sostenere che il suo film non è propriamente o compiutamente la storia di Scientology e del suo fondatore, né è – come più di un critico si è affrettato a concludere – la vicenda di una manipolazione delle coscienze e/o del controllo di una mente sull’altra. Tant’è che il marinaio Freddie, sebbene ad un certo punto introietti le tecniche del maestro per avvicinare la psiche degli altri, non rinuncia all’atteggiamento riottoso e dissacrante che gli appartiene da sempre, forse dai milioni di anni in cui, secondo la prospettiva di Scientology, il suo spirito si è venuto reincarnando. E Dodd, il maestro, mentre cerca di domare l’animalità del discepolo, non disdegna l’utilizzo di certe sue misteriose pozioni [che poi tanto misteriose non sono…] per ritrovare la perduta energia né, pur rimproverandolo, evita di sorridere di fronte alle “lezioni” che Freddie, ubbidendo alla propria naturale animalità, impartisce a chi dissente dalla “Causa” o si pronuncia contro il Maestro.

 Maestro e discepolo s’incontrano anche sul tema della dissacrazione. Dodd cerca di estirparla dall’animo del discepolo che non esita a manifestarla pubblicamente. E quanto più il maestro cerca di volare in alto, con discorsi eloquenti dettati dal suo spirito, il pupillo gli ricorda la terra e l’animalità della natura umana: per esempio con un peto sonoro o con un biglietto che egli passa furtivamente ad una giovane segretaria dell’Organizzazione,  mentre tutti pendono dalle labbra del Maestro, chiedendole semplicemente se lei ha voglia di scopare con lui.

 Di contro, nella scena in cui i membri della “Causa” fanno e ascoltano musica – una delle modalità più elevate dello spirito – tra nudi femminili e corpi di maschi interamente vestiti, più che liberalità, desiderio e gioia dell’unione sessuale, traspare un palese richiamo alla categoria dell’osceno, misto ad un inquietante senso del potenziale asservimento di cui la carne umana può essere vittima. Ma è anche un’occasione per riflettere: mentre Freddie vive alla luce del sole la propria istintualità, Dodd e la sua Organizzazione costruiscono prigioni per l’istinto che la forza tremenda dell’inconscio non tarda ad abbattere. Sotto questo profilo, anche la fisicità dei due interpreti, oltre alla loro notevole bravura, c’insegna qualcosa. Dodd, con tutta la sua proclamata spiritualità e che sorridendo chiama spesso “maiale” il discepolo, ha qualcosa nell’espressione del volto rubicondo che, del maiale, richiama idealmente le fattezze. Freddie, con gli occhi semichiusi, il fare vagamente misterioso, il rimpianto e la nostalgia di un amore perduto, la cicatrice di un taglio sopra il labbro, il riso che sottolinea di frequente, più di tanti discorsi, il suo stupore o la sua delusione, ha  qualcosa insieme dell’angelo e della bestia.

 Blaise Pascal, per intenderci, e ricorda la “Querelle de l’existentialisme”, nell’immediato dopoguerra, di Maurice Merleau-Ponty, nel difendere Sartre dall’ “orribile e sozzo” episodio di L’Age de raison, allorché Ivitch, dopo aver bevuto sino a star male, vomita e Sartre narratore osserva: “Un aspro odore di vomito emanava dalla sua bocca così pura, Mathieu respirò appassionatamente quell’odore”. Notava allora in proposito Merleau Ponty [Sens et non sens, Nagel, Paris, 1948]: “Senza alzare il tono e senza cercare il paradosso, si può trovare nella frase di L'Age de raison che tanto urta Emile Henriot come un piccolo sublime, senza eloquenza e senza illusioni, che è, credo, un'invenzione del no­stro tempo. Si parla da un pezzo dell'uomo come angelo e animale insieme, ma la maggior parte dei critici sono meno arditi di Pascal. Trovano ripugnante mescolare l'angelico e l'animale nell'uomo. Occor­re loro un al di là del disordine umano e, se non lo trovano nella religione, lo cercano in una religione del bello”.

 Insomma, ho l’impressione che Anderson non volesse realizzare una “rappresentazione aperta a una serie di interpretazioni storiche e culturali, politiche e ideologiche, religiose e atee”, come avrebbe auspicato Gianni Rondolino. Neppure penso che egli abbia sciupato un’occasione, potendo disporre di due talenti come Philip Seymour Hoffman e Joaquim Phoenix. Il suo film è altro: non è né vuole essere la versione cinematografica più o meno edificante di una storia compiuta, è  piuttosto la descrizione di un incontro tra due esistenze inconsuete, portate a vivere casualmente e in modo radicale la loro condizione, l’una di Maestro, l’altra di iniziato. Il film non è bello, né gradevole, bensì fastidioso e dissacrante, irritante e compiaciuto di sé. Gli basterà sicuramente per vincere almeno un Oscar.

sergio magaldi

lunedì 7 gennaio 2013

RIPARTE IL CAMPIONATO DI CALCIO ALL' INSEGNA DELLA MEDIOCRITA'




 Dopo le deludenti partite del Sabato, con la Lazio che, in svantaggio col Cagliari, in una partita sonnolenta, alla fine prende i tre punti grazie ai favori della dea bendata [si fa per dire…], dopo le deludenti prestazioni del primo pomeriggio della Domenica di Inter, Fiorentina e Juventus e la solita vittoria striminzita – favorita come sempre dagli dei del del calcio – del Milan sull’ultima in classifica, mi aspettavo di vedere finalmente una bella partita, in serata, con Napoli-Roma, fidando soprattutto nel gioco spumeggiante dei giallorossi di Zeman. E invece un mediocre Napoli con un grande Cavani ha battuto una Roma capace solo di uno sterile possesso palla.

 Purtroppo il week end calcistico ha portato  solo conferme, con le cosiddette grandi che al rientro dalle vacanze stentano sempre, con la Juve che continua a praticare il suo “calcio totale”, tagliando dal gioco la punta centrale e ogni autentico attaccante, [lo ribadisco per l’ennesima volta: vedi il post del 26 Novembre u.s. e i precedenti], anche in presenza di una non eccellente forma fisica  dei suoi interpreti. Insomma, quando la squadra di Conte corre meno dei suoi avversari, quando utilizza tutti insieme giocatori che tanto piacciono all’allenatore, come De Ceglie, Padoin, Peluso e Giaccherini, quando il suo portiere Gigi Buffon [sempre più avviato a divenire un “monumento a se stesso”, secondo un’ efficace battuta di Franco Melli] non trattiene una palla, “buca” clamorosamente, cerca nella polvere palloni che andrebbero intercettati nella posizione eretta, prende goal sul proprio palo, ci sta anche che possa perdere, come ha fatto ieri, con la Sampdoria [finalmente in mano ad un allenatore vero come Delio Rossi], nel proprio stadio, undici contro dieci e con il vantaggio di un goal segnato su rigore. È illusorio, perdurando questa filosofia di gioco, pensare di risolvere i problemi in attacco con l’arrivo di Llorente [ammesso e non concesso che arrivi subito], che non vale più di Matri e che da tempo non gioca più con la sua squadra [Athletic Bilbao]. Del resto, i dirigenti juventini sono sempre più convinti che i bianconeri non abbiano problemi in attacco, condividendo con la Roma il maggior numero di goal segnati nel campionato. Porre così la questione, significa ignorarla, anche se, per vincere questo campionato così scarso, forse basterà alla Juve ritrovare i suoi corridori e affidarsi ai Giovinco e ai Vucnic [sempre più individualista e impreciso, il primo,  a corrente alternata e con rari goal, il secondo], affiancati dai centrocampisti titolari.

  E l’ennesima conferma viene anche dalla Roma che passa indifferentemente [secondo la più pura tradizione zemaniana, sostengono gli addetti ai lavori] da partite entusiasmanti dove segna quattro goal, a partite deludenti, come quella di ieri sera, dove ne prende altrettanti. È tutto merito e/o colpa di Zeman? Forse il tecnico boemo ci ha messo qualcosa di suo, per esempio permettendo a Cavani di giocare come sul prato di casa sua, preferendo Destro a Osvaldo, con Bradley fuori posizione rispetto a quella di centrale di centrocampo, l’unico ruolo in cui sin qui ha mostrato di essere efficace. Dato a Zeman quel che è di Zeman, bisogna però dire che la Roma è la squadra che più di ogni altra è stata danneggiata dagli dei del pallone. C’è anche altro: alcuni allenatori e più di un giornalista continuano a sostenere che l’organico di questa squadra è tra i più forti del campionato, pari addirittura a quello della Juventus, sosteneva ieri sera Walter Mazzarri in una intervista di fine partita. Perché lo si dica, non mi è chiaro: mediocre il portiere Goigoechea, efficace solo con i piedi e fuori dell’area di rigore, troppo poco. Tra i difensori bene solo il giovane Marquinhos [che ieri sera, squalificato, non era in campo] e in parte Balzaretti ma soprattutto per la fase offensiva. Inguardabile Piris, mediocre Castan, a corrente alternata il vecchio Burdisso. Passiamo al centrocampo: poco tecnico Bradley che supplisce con la volontà, ma solo quando gioca centrale, appena sufficiente Pjanic, anche se dotato di buona tecnica, ingiudicabile De Rossi, sempre più l’ombra del giocatore di anni fa, inadeguato nel ruolo di centrale di centrocampo, incapace ormai di lanci che arrivino alle  punte invece di andar fuori,  più adatto forse davanti alla difesa, sempre che non si fermi e si rigiri su se stesso, alla Pizarro, suo ex compagno di squadra. Incostante ma volitivo Florenzi: poco più di una promessa. Inguardabile Taxidis, proprio come Piris. Davanti, bene Lamela, ma solo quando la squadra gira al massimo e che comunque è dotato di grande tecnica.  Deludente Destro, esaltato come astro nascente, ma poco concludente e sempre piuttosto impacciato. Ottimi infine Osvaldo e  un “eroico” Totti  che, oltre a segnare, lancia le punte come dovrebbe fare e non fa De Rossi. Con queste potenzialità, nessun allenatore farebbe meglio di Zeman che, se non altro, nella generale mediocrità del nostro campionato, ci regala a volte pagine di grande calcio.

sergio magaldi

domenica 6 gennaio 2013

LA DONNA E IL MITO DELLA PIETRA FILOSOFALE




   Uno dei miti femminili, più antico e significativo ancorché poco conosciuto, è quello della dea ittita Kubaba che dalle sponde dell’Eufrate trascorre in Asia Minore e in Frigia col nome di Kubebe e Kybele. In nessun caso Cibele può essere assimilata a Rea come fecero i Greci e i Romani, la sua peculiarità, infatti, è di non essere soltanto la Grande Madre degli dei e degli uomini, ma di rivestire un principio più arcaico e primordiale. Cibele è la natura naturante nel momento del Caos, quando il principio creativo che è in lei non l’ha ancora trasformata in natura naturata.

 Grande Madre degli dei, Cibele aveva il suo culto più noto in Frigia, nei pressi di Pessinunte, su una scogliera deserta chiamata Agdos. Era simboleggiata da una pietra nera, rappresentando la totalità primordiale della Natura, l’unità indistinta e caotica di maschio e femmina. In questa forma, pare fosse caduta dal cielo e il suo culto segreto si celebrava nelle viscere delle montagne, in grotte o nicchie scavate nella roccia.
 






  Attis o Atti discendente da seme divino caduto sulla pietra, tentò invano di vivere la propria polarità sessuale maschile, unendosi in nozze con Atta, la figlia del re Mida di Pessinunte. Ad impedire le nozze sopraggiunse sua madre Cibele, nella veste maschile e violenta di Agdìstis. Al suono della siringa di Pan, la dea provocò la follia degli invitati e dello stesso Attis che, come racconta Ovidio, si evirò sotto un pino[1], assumendone la forma e tornando così all’androginia originaria e primordiale.
 



 Il culto della pietra nera ha origini remote, risalendo addirittura alle civiltà megalitiche e all’adorazione del menhir, la roccia conficcata nel ventre della terra. Collocata in una nicchia di uno degli angoli della Ka’ba, l’edificio cubico della Mecca, sacro all’Islam, la pietra nera è tutt’ora oggetto di venerazione da parte dei musulmani. Il suo culto esisteva già in epoca preislamica, ma fu Maometto a sottrarla all’idolatria e a farne, sulla scia della tradizione abramitica, la pietra di fondamento della casa di Dio. 

 Nell’ Antico e nel Nuovo Testamento si fa spesso riferimento a una pietra  la cui funzione è di stabilire un collegamento tra terra e cielo, tra uomo e Dio. L’esempio più noto è il sogno di Giacobbe nel quale, su una scala poggiata a terra e la cui cima raggiunge il cielo, scendono e salgono gli angeli di Dio [2]. Il guanciale su cui Giacobbe riposa è una pietra che al risveglio sarà da lui eretta in stele e chiamata Bet – El  (Casa di Dio) [3]. E Dio stesso domanda a Giobbe: sai tu su che si fonda la terra, chi ha posto la sua prima pietra? [4]

  Il tema della pietra ricorre in tutti i Vangeli: su una pietra immortale e, in apparenza di poco valore, Cristo fonda la sua chiesa [5] e nella Lettera agli Efesini, rivolgendosi a ebrei e pagani, Paolo di Tarso chiama Cristo pietra principale [6].

  Né di minore importanza è, nell’antichità romana, il lapis niger, collocato accanto al Mundus, la fossa scavata da Romolo all’atto della fondazione di Roma. E, in età medievale, la ricerca del Graal, la coppa che non è una coppa, si fonde spesso con quella del lapis exilis o lapis ex coelis, la pietra caduta dal cielo, e lo stesso nome di re Artù (art nella lingua dei celti significa ‘roccia’) sembra collegarsi alla pietra.








   C’è poi una pietra di cui si parla sin dall’antichità in tutte le tradizioni e la cui virtù consiste nel trasformare in argento e oro i metalli vili. E’ la pietra filosofale degli alchimisti e la sua nerezza mostra che il processo di trasformazione è possibile anche se è appena iniziato. Questa pietra, che non è una pietra, esiste in natura nel caos degli elementi che la compongono e il primo compito dell’alchimista consiste nell’individuare, separandoli, sale, mercurio e zolfo, come altrettanti simboli del corpo, dell’anima e dello spirito. Come Artù è capace di estrarre la spada (simbolo del fuoco) dalla roccia, così l’alchimista, che abbia portato a compimento l’Opera, è in grado di estrarre l’oro dalla pietra.

  La triplice distinzione in sale, mercurio e zolfo si deve, com’è noto, a Paracelso (1493 – 1541). Non mi convince tuttavia la corrispondenza dello zolfo con l’anima e del mercurio con lo spirito. Il corpo (sale - terra) assicura la transitoria unità di elementi antagonistici e perennemente in lotta (acqua e fuoco), ma è l’anima, nella sua natura informale, propria dell’acqua, a costringere lo spirito a vivificare il corpo e ciò è possibile per l’azione contemporanea dello zolfo e del soffio (vento o vapore degli alchimisti) o pneuma dei Greci o ruach Elohim degli Ebrei (fuoco e aria).

  In altri termini, l’acqua mercuriale (anima) vela in essenza, col suo mantello lunare, l’unità triplice e caotica del composto androgino e svolge un’azione temporanea, esattamente come il corpo che è il mezzo che la contiene. Cessando il corpo, cessa anche l’anima e la qualità del fuoco che si libera nell’aria testimonia del grado di trasformazione. Che se poi si vuol dire che l’Opera necessità di forza d’animo e di volontà e a tali qualità si attribuisce la natura ignea, occorrerà duplicare il mercurio o addirittura triplicarlo, facendone insieme: la materia prima, l’acqua che cuoce e l’acqua di vita.







  Cibele è dunque la natura naturans, il grande organismo vivente pervaso di energia creatrice e, al tempo stesso, è il lapis niger, la pietra nera o prima materia degli alchimisti. Perché è rappresentata in forma di donna? Per la verità, benché il mito ne sveli l’androginia originaria, natura e cultura continuano a presentarcela nella sua figura possente e femminile di Mater creatrice. E non a torto, direi, considerando che tutto ciò che nasce, nasce di donna o dal suo equivalente, principio femminile.
  

 sergio magaldi




[1] “…et succincta comas hirsutaque vertice pinus,
     grata deum matri, siquidem Cybeleius Attis
     exuit hac hominem truncoque induruit illo.”
 “…e il pino dall’ispido tronco
        solo in cima frondoso,
        grato alla madre degli dei
        se il figlio di Cibele,
        Attis lasciò la forma d’uomo
        e  in quel tronco fu pietra”
[2] Genesi, 28, 12
[3] Ib., 28, 18 – 19 e 22
[4] Giobbe, 38, 6
[5] ‘Tu sei Simone il figlio di Giovanni. Ora il tuo nome sarà Cefa (in ebraico Cefa è lo stesso che Pietro e vuol dire pietra’(Giovanni, 1, 42), ‘Per questo ti dico che tu sei Pietro e su di te, come su una pietra, io costruirò la mia chiesa e nemmeno la potenza della morte potrà distruggerla’ (Matteo, 16, 18), ‘La pietra che i costruttori hanno rifiutato è diventata la pietra più importante. Questo è opera del Signore ed è una meraviglia per i nostri occhi’ (Matteo, 21, 42; Marco, 12, 10; Luca, 20, 17)
[6] ‘Anche voi, insieme con gli altri, appartenete al popolo e alla famiglia di Dio. Siete parte di quell’edificio che ha come fondamento gli apostoli e i profeti e come pietra principale lo stesso Gesù Cristo’ (Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini, 2)