mercoledì 27 marzo 2013

IL GIOCO DELLE TRE CARTE




 Bersani ha incontrato i rappresentanti del M5S. Lo ha fatto con dignità e semplicità. Il discorso per convincere i capogruppo grillini di Senato e Camera non ha evidenziato, come del resto era scontato, “proposte indecenti” per riceverne in cambio la fiducia ad un suo sempre più problematico governo, ma l’argomentare è sembrato nel complesso pensoso, pacato e senza anatemi. Forse un po’ ingenuo e antiquato nel riproporre il “doppio binario”, l’uno rivolto al M5S, per il governo, l’altro al PDL per le riforme costituzionali, o nel ribadire la scarsa volontà di privare i partiti del finanziamento pubblico -  questione vitale per mantenere i tanti funzionari del suo partito – allorché Bersani s’è detto disposto a “rivedere il finanziamento della politica”, aggiungendo vagamente minaccioso che contestualmente occorrerebbe occuparsi delle regole che disciplinano la vita democratica di un partito, con chiara allusione al M5S.

 Insomma niente di nuovo sotto il sole, neppure la proposta di discutere insieme per l’intera giornata, prima di recarsi al Quirinale, i 28 punti di riforma lanciati da entrambi [gli 8 del PD e i 20 del M5S]. Una sorta di gioco delle tre carte, con l’ipotesi di tre governi diversi: quello di Bersani, il governissimo e il governo del M5S. Semmai l’implicito riconoscimento da parte di Bersani che almeno due dei suoi vaghissimi 8 punti sono mero “flatus vocis”: il finanziamento della politica di cui si diceva sopra, che sia pure in forma diversa deve restare, con l’alibi ottocentesco che altrimenti la politica la fanno i ricchi, e nessuna restituzione o soppressione dell’IMU sulla prima casa degli italiani, ma solo una riforma alla Prodi che, non a caso, resta per il PD l’inquilino più gradito per il Quirinale. Comunque sia, almeno un discorso consapevole quello di Bersani e non come quello di Luigi Zanda, ieri sera a Ballarò. Già, perché l’ineffabile capogruppo del PD al Senato ha affermato che tutti i partiti dovrebbero essere lieti, senza nulla chiedere in cambio, di appoggiare “il governo delle meraviglie” che si accinge a fare il PD e  che, se non lo fanno, è perché mancano del senso di responsabilità. Un discorso senza capo né coda,  non si capisce se più ingenuo o più arrogante.

 Dal canto suo, il M5S ha ribadito, per bocca della Lombardi e di Crimi, quanto già si sapeva: nessuna fiducia ad un governo formato da PD o PDL, ma disponibilità a votarne le singole misure se saranno convincenti. Nessuna probabilità che si verifichi quanto è accaduto per l’elezione di Grasso alla presidenza del Senato: allora la decisione all’interno dei gruppi parlamentari, di continuare a votare scheda bianca, fu maggioritaria, questa volta la scelta di non votare la fiducia al governo è stata presa all’unanimità.

 Poco o nulla si ricava dunque dall’incontro. Eppure, riflettendo con maggiore attenzione si nota in generale un clima più disteso tra le parti, probabilmente dovuto alla diretta streaming. Si nota altresì come il M5S non solo risponda alle domande dei giornalisti in diretta, ma elabori, motivandola, una sua proposta per uscire dalla crisi: giocando per così dire alla Bersani, il movimento ribadisce la proposta già fatta a Napolitano di formare  in proprio un  governo che in Parlamento abbia la fiducia degli altri partiti. E la motivazione è semplice: PD e PDL per vent’anni hanno promesso riforme senza realizzarne neppure una, non sono dunque credibili. Si dia pertanto al Movimento Cinque Stelle l’opportunità di realizzarle e se oggi la volontà del cambiamento è reale, in uno o in tutti e due quei partiti, lo si veda alla prova dei fatti. Ragionamento ineccepibile, sul quale Napolitano e il PD dovrebbero riflettere. Proposta impresentabile, forse, ed è per questo che il M5S la fa. I grillini sanno benissimo, che quando Bersani assicura che non farà mai un governo col PDL, sta parlando a titolo personale e non a nome di tutto il partito. Hanno ragione di pensare che una soluzione “dalle larghe intese” prima o poi sarà trovata. Le manovre sono già in atto dietro le quinte. E se nel futuro il PDL dovesse ritirare la fiducia, a certe condizioni e in base ai provvedimenti già votati o da votare, il M5S potrebbe decidere di rientrare nel “grande gioco”.

sergio magaldi   

sabato 23 marzo 2013

A PROPOSITO DI CIO' CHE IL PD DOVREBBE ESSERE O NON ESSERE...FARE E NON FARE...




 Le cittadine e i cittadini di Democrazia Radical Popolare pubblicavano ieri sul loro sito il mio post  del 21 Marzo con questo breve commento:

“Per la raffinatezza e l’interesse dei ragionamenti proposti, proponiamo la lettura di
anche se non condividiamo alcune analisi e giudizi di Sergio Magaldi, specie a proposito di cosa dovrebbero fare o non fare (e per quali ragioni) il Partito Democratico e Pierluigi Bersani.
Anzi, in proposito ribadiamo le valutazioni espresse in

LE CITTADINE E I CITTADINI DI DEMOCRAZIA RADICAL POPOLARE (www.democraziaradicalpopolare.it)
[ Articolo del 17-22 marzo 2013 ]”

 Nel ringraziarli per l’apprezzamento circa “la raffinatezza e l’interesse dei ragionamenti”, devo osservare che io non ho inteso “suggerire” né al PD né tantomeno a Bersani cosa dovessero fare, mi pare piuttosto che lo facciano loro di DRP… e non che non sia d’accordo nel merito, perché aver accettato solo un mandato esplorativo toglie molte possibilità a Bersani di gestire in proprio la crisi e, contestualmente, almeno sotto il profilo della coerenza, sono convinto anch’io che il PD avrebbe dovuto esigere la nomina di Bersani o pronunciarsi per “il ritorno alle urne in tempi rapidissimi”. Restando tuttavia irrisolto il problema della legge elettorale. Perché andare a votare ancora con il “porcellum” non risolverebbe probabilmente la questione della governabilità e susciterebbe l’ilarità del mondo intero.

 Se non ho dato gli stessi “consigli” di DRP è unicamente perché avevo presente che il PD è un partito assai composito, formato di “amici” e “compagni”, tra loro divisi trasversalmente in correnti e sottocorrenti e che il presidente Napolitano, in virtù della scrupolosa osservanza delle norme costituzionali che da sempre ne caratterizza l’azione, mai avrebbe dato a Bersani un mandato pieno, mancando di fatto una maggioranza precostituita. Senza contare che, in una simile congiuntura, come una parte sempre crescente in questi giorni di coloro che militano nel suo partito di provenienza, egli vede di buon occhio un governo di “larghe intese” che, affrontando i problemi più immediati del Paese,  approvi una nuova legge elettorale e indìca nuove elezioni nell’arco di un paio d’anni. Prospettiva che giustamente i “giovani turchi” ritengono dannosa perché svuoterebbe ancora l’elettorato del PD a vantaggio del M5S, ma che nei disegni di altri, nel PD, trova consensi e rappresenterebbe persino una strategia vincente: con l’adozione di provvedimenti importanti [?!] e soprattutto con l’introduzione di una legge elettorale che ripristini il voto di preferenza e istituisca magari il doppio turno, si spunterebbero le armi del M5S, riducendo di molto la sua consistenza parlamentare.

 Proprio ad evitare sia le elezioni a breve tempo, che a mio giudizio e come ho scritto nel post in questione, favorirebbero il centro-destra, sia il governo delle “larghe intese” ma del “nessun cambiamento”, auspicavo, non da parte di Bersani o del PD, ma direttamente dal capo dello stato, l’emergenza di un governo che, nello spirito adottato nel dopo-voto dalla coalizione “Italia, bene comune”, rappresentasse l’occasione storica di un reale mutamento della politica italiana.

sergio magaldi    

giovedì 21 marzo 2013

NAPOLITANO E LA REGIA NELLA COMMEDIA DELL'ARTE





 Pensavo che il regista nella commedia dell’arte della politica italiana contasse poco, che si limitasse a prendere atto delle battute improvvisate degli attori e soprattutto, dei suggerimenti dei grandi capo-comici tedeschi, travestiti da europei. E invece non è stato così. Spogliatosi dei panni di Grande Notaio della Repubblica Italiana e di Fiduciario dell’Eurogermania - con i quali aveva imposto agli smarriti interpreti italioti,il super-canovaccio della maschera filoteutonica di Rigor Montis - il regista naturale della commedia all’italiana, con tre significativi gesti, sembra aver ripreso saldamente in mano la direzione dello spettacolo.

 Il primo gesto è stato “il gran rifiuto” ad incontrare il leader socialdemocratico tedesco che aveva offeso gli italiani per le loro scelte elettorali. Il secondo, quello di ribadire la separatezza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, ma anche il fondamentale assunto che l’investimento popolare non rappresenta in nessun caso un salvacondotto per operare extra legem o peggio ancora contra legem. Recita in proposito, tra l’altro, il comunicato del presidente Napolitano:

“[…] ho indicato nel "più severo controllo di legalità un imperativo assoluto per la salute della Repubblica" da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell'investitura popolare ricevuta.

Con eguale fermezza ho sollecitato il rispetto di rigorose norme di comportamento da parte di "quanti sono chiamati a indagare e giudicare", guardandosi dall'attribuirsi missioni improprie e osservando scrupolosamente i principi del "giusto processo" sanciti fin dal 1999 nell'art. 111 della Costituzione con particolare attenzione per le garanzie da riconoscere alla difesa”.


 Con altrettanta fermezza e abilità dialettica, il capo dello stato respinge come “inammissibile” il sospetto che si voglia far fuori “per via giudiziaria” il leader di un partito politico di rilevanza nazionale:

 “[…]E' comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile. Non è da prendersi nemmeno in considerazione l'aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco - "per via giudiziaria" come con inammissibile sospetto si tende ad affermare - uno dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale”.

 La sostanziale proposta che in questa delicata fase della vita politica e per circa un mese i tamburi della magistratura si facciano più silenziosi nei confronti del Cavaliere non è solo una pretesa istituzionale e giuridica. Prescindendo dal fatto che i tribunali hanno il sacrosanto diritto-dovere di pronunciarsi, in tempi ragionevoli, circa l’innocenza o la colpevolezza di qualsiasi imputato, resta la non indifferente questione di dover avviare le complesse procedure per la formazione di un governo, nello momento stesso in cui il leader del PDL fosse condannato o addirittura arrestato.

 I tanti critici del comunicato di Napolitano dovrebbero riflettere che una simile eventualità - come pure quella che il nuovo Parlamento si pronunci sull’ineleggibilità di Berlusconi sulla base di una norma del 1957 [!] - nell’ipotesi sempre più accredidata di nuove elezioni a breve termine, finirebbe con molta probabilità per assegnare la vittoria al centro-destra. E allora? Ha ragione chi osserva che, in tale prospettiva, il cavaliere finisca sempre col sottrarsi al giudizio: quando è al governo, in campagna elettorale e anche  dopo? Sì e no. Sì, perché nei fatti la complessa questione sembra avvitarsi su se stessa e trascinarsi per le lunghe. No, perché nel frattempo sono arrivate alcune sentenze anche se non definitive e soprattutto perché è ormai certo che l’ossessione che perdura in molti nei confronti di Berlusconi non fa che aumentarne il potere!

 Il terzo gesto significativo di Napolitano, forse il più convincente per l’opinione pubblica, è stato quello di aver bloccato le ambizioni di chi, “per non marcire”, aveva chiesto di fare il presidente del Senato.

 Monti si era presentato come un Cincinnato, ma si era subito capito che non lo era, pretendendo l’elezione a senatore a vita per presiedere un governo filotedesco di supertecnici che avrebbe salvato l’Italia e che invece l’ha sospinta sempre più sull’orlo del baratro. Di più lo si è capito quando, in luogo di tornare ad arare il proprio campicello e magari la vigna tedesca, Monti s’è presentato agli elettori come se nulla fosse, chiamandosi fuori dalle tante responsabilità: per non aver fatto nessuna della riforme annunciate, aumentato recessione e disoccupazione e potendo rivendicare soltanto, grazie al sacrificio dei soliti noti, l’abbassamento dello spread. Merito quest’ultimo non trascurabile, certamente, ma più di Draghi che suo e gli elettori l’hanno capito con il modesto consenso con cui l’hanno congedato forse definitivamente dalla vita politica. Per rientrare nel “grande gioco”, se Napolitano non l’avesse fermato, non avrebbe esitato a mollare la presidenza del consiglio dei ministri di un governo che non ha i pieni poteri ma che ha ancora il dovere di svolgere una funzione importante in Italia e in Europa.

 Forse ha ragione lui: nel nostro Paese, Monti non sa più che fare dopo aver “spremuto” tutto quello che c’era da spremere dai lavoratori e dalla borghesia piccola e media, e in Europa sembra finita per lui l’epoca in cui la Merkel lo prendeva a braccetto, mentre ora lo saluta appena per lasciarselo frettolosamente alle spalle… O forse ha ragione Tremonti [sì, proprio quello che s’era fatto garante della solidità delle nostre banche!] nel definirlo, magari pensando a se stesso, “un bicchiere di talento in un oceano di presunzione”. Comunque sia, Monti prenda spunto da Napolitano che rifiuta una rielezione certa, magari persino sbagliando in un momento come questo, non per l’età avanzata o perché la Costituzione lo vieti, ma semplicemente per evitare il precedente pericoloso di un settennato che si trasformi in quattordici anni di potere ininterrotto.

 Resta da dire qualcosa sui protagonisti della commedia all’italiana. Bersani e i suoi sostenitori del Partito Democratico sembrano intenzionati ad andare avanti, in parte sperando che si ripeta la scena che ha consentito l’elezione di Grasso alla presidenza del Senato, in parte auspicando che Napolitano conferisca comunque al leader del PD la nomina per formare un governo e non un pre-incarico o peggio ancora un mandato esplorativo. E si capisce perché: Bersani resterebbe in carica durante la successiva campagna elettorale imputando al Movimento Cinque Stelle la mancata realizzazione dell’ormai famoso programma degli 8 punti, con l’evidente calcolo di recuperare il voto di quanti, più o meno provvisoriamente, hanno voltato le spalle al PD per scegliere il M5S. Calcolo errato a mio giudizio, ancorché di parte e poco preoccupato delle sorti del Paese. Infatti, se è probabile che, in mancanza di un governo che ottenga la fiducia alle Camere, il M5S veda calare i propri consensi, è più probabile che questo avvenga da destra [vedi i tanti piccoli imprenditori del nord-est che nelle recenti elezioni hanno mollato Lega e PD con la elle], mentre da sinistra potrebbe addirittura vederli crescere, considerando la differenza qualitativa che intercorre tra gli 8 Punti  generici e timidi di Bersani e i 20 Punti chiari e determinati di Beppe Grillo e anche in virtù dell’uscita recente del movimento circa la necessità di rivalutare Marx.

 In una prospettiva del genere, la vittoria andrebbe quasi sicuramente a Berlusconi che, anche con questa legge elettorale potrebbe raggiungere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con o senza l’aiuto dei centristi, molti dei quali, sempre più spaventati dai grillini, già in sede elettorale lascerebbero Monti per votare PDL. Tanto varrebbe allora per Bersani e i suoi appoggiare il governo del M5S proposto al capo dello stato dalla delegazione del movimento. Cosa impensabile persino per i “giovani turchi”, perché farebbe cadere il disegno di recuperare consensi riprendendoli al M5S e porterebbe a spaccare un partito a malapena incollato tra amici e compagni.

 La strategia di Berlusconi è altrettanto chiara: solo il “governissimo” con il PD lo salverebbe dall’estromissione dalla vita politica offrendogli, almeno per ora, un efficace salvacondotto, oppure elezioni a Giugno o al più tardi ad Ottobre prima che il tribunale si pronunci definitivamente [sentenza prevista per la fine dell’anno] sul primo dei  tanti processi contro di lui. E se il PD ha in mente di recuperare parte del proprio elettorato “ prestato” al M5S, sventolando in campagna elettorale le responsabilità di un movimento che vuole uscire dall’euro [ma è davvero così? O non chiede più semplicemente ai cittadini di pronunciarsi in merito?] e che non ha voluto sostenere gli 8 punti, panacea di tutti i mali della politica italiana e delle sue trasversali ruberie, il partito di Berlusconi e dei superstiti della Lega potrà sempre rimproverare al PD di aver fatto fallire la possibilità di dare un governo all’Italia, suscitando nel Paese l’immagine, neppure nuova, di una sinistra impotente e prigioniera dell’estremismo anti-sistema. Con la prospettiva del risultato di cui si diceva sopra: recupero di parte di quei 6 milioni di voti che forse fisiologicamente gli appartengono, provenienti dagli astenuti, dai grillini di destra e da centristi pentiti e spaventati.

 Mutatis mutandis, il calcolo del PD con la elle somiglia tanto a quello del PD senza elle. Dietro la comune facciata del bene dell’Italia, mascherano l’interesse di fazione e/o l’interesse personale. In tale prospettiva si può dar torto al Movimento Cinque stelle che non vuole saperne di allearsi con nessuno dei due? Non con il PD che lo vuole a sostegno del governo unicamente per “vampirizzarlo”, non con il PDL , con il quale paradossalmente, sulla carta e per il momento, ha almeno più punti [5] in comune [abolizione dell’IMU, soppressione del finanziamento della politica, dimezzamento dello stipendio dei parlamentari, soccorso della piccola e media industria e scetticismo sull’euro], di quanti ne abbia con il PD, ma dal quale è distante anni luce per visione della società, per la faccia impresentabile del leader e di gran parte dei dei suoi dirigenti, per la vocazione camaleontica che da sempre condiziona le scelte del PDL in funzione del potere.

 Con questi attori, ai quali si affiancherà presto un nuovo regista [per questo ruolo si continua a parlare dei Prodi, degli Amato, persino dei Pisanu e dei Letta: è davvero incredibile!], c’è da pensare che la commedia dell’arte della politica italiana si trasformi ben presto in farsa preludendo alla tragedia. A meno che, il regista ancora in carica non compia un quarto significativo gesto: dettare un nuovo canovaccio affidandolo ad interpreti d’eccezione. Per uscire di metafora, un governo delle personalità [ma per carità non si facciano i nomi già apparsi nei giorni scorsi sulla carta stampata!], competenti o addirittura illustri nel proprio campo e che, senza essere tecnocrati o politici di mestiere, siano capaci innanzi tutto di trovare un minimo comune denominatore tra i punti indicati dai partiti e in un secondo momento tentino addirittura la strada delle grandi riforme di cui in Italia si continua inutilmente a parlare almeno dalla caduta del fascismo.   


sergio magaldi

venerdì 1 marzo 2013

BERSANI OVVERO L'ACCHIAPPAGRILLI CON VECCHIA RETE DA PESCA...




 Primo, ma non vincitore delle elezioni, per sua stessa ammissione, Bersani lancia la proposta per la governabilità del Paese. Purtroppo, lo fa con la tracotanza che ricorda quella dei vecchi capi democristiani. Nella sostanza, il leader della coalizione di centro-sinistra dichiara di non voler fare né tavoli né accordi con le altre forze politiche presenti in Parlamento, non con il PDL, escludendo esplicitamente il cosiddetto governissimo, e neppure con il Movimento di Beppe Grillo, al quale lancia però un monito e un velato appello, invitandolo alla responsabilità e sollecitandolo con un programma essenziale dai titoli generici che, per indeterminazione e assenza di contenuti, può essere condiviso da chiunque. Dice in proposito e con tono seccato il presidente del consiglio in pectore:

 “Quindi per quello che ci toccherà, la nostra ispirazione non ci porterà a proporre alleanze e diplomazie con questo o con quello. Noi proporremo alcuni punti fondamentali di cambiamento e cioé un programma essenziale da rivolgere al Parlamento su riforma delle istituzioni, riforma della politica a partire dai costi e una nuova legge sui partiti, moralità pubblica e privata, difesa dei ceti più esposti alla crisi.”

 La strategia del PD è se non altro chiara e strumentale e sembra accomunare i dirigenti della vecchia nomenclatura di scuola PCI-DC: presentarsi in Senato, avendo già intascato la fiducia alla Camera, con un governo monocolore, magari ravvivato dei tanti ex-salvatori della patria o cosiddetti esperti, sempre utili in circostanze simili, e con un programma-indice che, strizzando l’occhio al Movimento 5 Stelle, sia condivisile, per la sua indeterminazione, anche ai volonterosi di altre parti politiche. Se un tale governo non dovesse ottenere la fiducia, la responsabilità ricadrebbe sugli altri e si andrebbe a nuove elezioni con la certezza [l’ennesima!] che questa volta l’elettorato, anche in virtù di un appello lanciato in prossimità della nuova tornata elettorale, punirebbe i partiti dell’ingovernabilità, dando finalmente alla coalizione di centro-sinistra, con o senza l’appoggio di Monti, l’auspicata maggioranza.

 Una strategia che tiene conto dell’impraticabilità di un governo PD-PD con la L [secondo la nota distinzione che Beppe Grillo fa tra centro-sinistra e centro-destra], anche solo per le cosiddete riforme istituzionali,  per un’intesa dalla quale sarebbe escluso Monti, rigettato da Berlusconi e che, a sua volta, ha fatto sapere di non essere disponibile ad un accordo con il cavaliere. Un governo che sarebbe comunque un ponte teso verso nuove elezioni, nelle quali il Movimento 5 Stelle potrebbe addirittura vedere accrescere le proprie forze.

 Eppure, c’è nel PD chi propone un vero e proprio patto di mezza o piena legislatura con il PDL. Per fare che? E senza neppure la mediazione di Monti? Si è già visto cosa ha portato in un anno e mezzo: lacrime, sangue, oltre dieci milioni di voti persi da entrambi i partiti e neppure una nuova legge elettorale!

 Una strategia schizofrenica quella proposta da Bersani e dalla dirigenza del Partito Democratico. In toni arroganti, ci si limita a far sapere ai grillini che, per il loro bene e per il bene dei loro figli, dovrebbero dare la fiducia al nuovo governo [magari in cambio della dolorosa concessione della presidenza della Camera, e con Massimo D’Alema che, in un eccesso di ecumenismo, teso più che altro a dimostrare l’intercambiabilità degli alleati, in stile vecchia DC, arriva addirittura ad offrire a M5S e PDL la presidenza dei due rami del Parlamento] per una politica che non si sa ancora bene in cosa consista, ancorché contenga le solite generiche e velleitarie dichiarazioni di principio della vecchia politica e persino una perla che tradisce un lapsus, con la moralità privata invocata in forza di legge, che rievoca gli antichi scenari del Savonarola.

 Si aspettava Bersani, una risposta diversa da quella che Beppe Grillo gli ha dato?

 Il leader del Movimento5 Stelle, ricorda innanzi tutto le espressioni utilizzate sin qui da Bersani nei confronti suoi e dei grillini:

Fascisti del web, venite qui a dirci zombie"
"Con Grillo finiamo come in Grecia"
"Lenin a Grillo gli fa un baffo"
"Sei un autocrate da strapazzo"
"Grillo porta gente fuori dalla democrazia"
"Grillo porta al disastro"
"Grillo vuol governare sulle macerie"
"Grillo prende in giro la gente"
"Nei 5 Stelle poca democrazia
"Grillo fa promesse come Berlusconi"
"Grillo dice cose sconosciute a tutte le democrazie"
"Grillo? Può portarci fuori da Europa"
Basta con l’uomo solo al comando, guardiamoci ad altezza occhi, la Rete non basta"
"Se vince Grillo il Paese sarà nei guai"
"Siamo di gran lunga il primo partito e questo vuol dire che siamo compresi. Perché a differenza di quello lì che urla, noi ci guardiamo in faccia, noi facciamo le primarie, stiamo tra la gente"
"Indecente, maschilista come Berlusconi"
"Da Grillo populismo che può diventare pericoloso"

 Poi, Grillo, rispedendo al mittente la “generosa” offerta di Bersani di rendersi disponibile ad accettare il voto di fiducia dei grillini, precisa:

 “M5S non darà alcun voto di fiducia al Pd (nè ad altri). Voterà in aula le leggi che rispecchiano il suo programma chiunque sia a proporle. Se Bersani vorrà proporre l'abolizione dei contributi pubblici ai partiti sin dalle ultime elezioni lo voteremo di slancio (il M5S ha rinunciato ai 100 milioni di euro che gli spettano), se metterà in calendario il reddito di cittadinanza lo voteremo con passione”.

 Occorre altro. Centro-sinistra e Movimento 5 Stelle hanno avuto quasi 19 milioni di voti sui circa 34 milioni di voti espressi e il M5S è alla Camera il primo partito italiano. In una democrazia autentica si aprirebbe tra queste forze un confronto alla luce del sole per formare un governo. Se questo non avviene è perché tra PD e M5S corre una distanza misurabile in anni luce o perché in Italia non c’è vera democrazia. Gli italiani non hanno votato male, né tutte le colpe si possono scaricare sul Porcellum. Con il sistema proporzionale e senza il famigerato premio di maggioranza che assegna circa 200 deputati [su un totale di 630] alla coalizione che abbia ottenuto almeno un voto in più dei suoi avversari, la situazione sarebbe anche peggiore, con la necessità di un’intesa tra partiti non solo al Senato ma anche alla Camera. Se il PD vuole davvero evitare il ritorno della grande coalizione che lo ha reso per oltre un anno speculare al PDL e non vuole che il Paese vada di nuovo alle urne, ha l’obbligo di ascoltare il Movimento 5 Stelle in luogo di lanciare l’Opa per il governo. Invece, nessuna diplomazia e nessuna trattativa, ha sottolineato Bersani con nervosismo e compiacimento, ma solo un prendere o lasciare che più che la fermezza dei forti denuncia l’arroganza dei deboli.

 Ciò premesso, anche per Beppe Grillo si pone un problema effettivo. A prescindere dagli insulti, peraltro sempre ricambiati, e dalle “proposte indecenti” di Bersani. I circa 170 parlamentari grillini eletti con quasi 9 milioni di voti potrebbero non trovarsi mai nella condizione di votare una legge che li appassiona, per il semplice motivo che senza la fiducia al governo nessuna legge sarà mai proposta in aula. A tale proposito, corre in rete la petizione di Viola [per sottoscriverla è sufficiente entrare nel sito www.change.org], una giovane elettrice del M5S, che ha già raccolto in un solo giorno più di centomila firme e che  chiede a Beppe Grillo e a tutti i parlamentari di M5S di “non perdere questa occasione storica”. Gli fanno eco altri guppi, come “Elettori di Movimento 5 Stelle indignati” e quello che fa riferimento a Jacopo Fo, figlio di Dario, con il lancio su Facebook di “10 riforme subito: vogliamo l’accordo tra Italia Bene Comune e Cinque Stelle”. Un programma neppure tanto rivoluzionario e che almeno per 8/10 potrebbe essere accettato dal PD, se si escludono, forse, il reddito di cittadinanza e l’accesso gratuito alla rete, per i problemi di natura economica e privatistica che in questo momento di crisi economica comporterebbero. Questi tutti i punti per votare la fiducia al governo:

1. Una nuova legge elettorale;
2. Una legge contro la precarietà e l’istituzione del reddito di cittadinanza;
3. La riforma del Parlamento, l’eliminazione dei loro privilegi [sic], l’ineleggibilità dei condannati;
4. La cancellazione dei rimborsi elettorali;
5. L’abolizione della legge Gasparri e una norma sul conflitto d’interessi;
6. Una legge anticorruzione che colpisca anche il voto di scambio; e l’istituzione di uno strumento di controllo sulla ricchezza dei rappresentanti del popolo (il “politometro”);
7. Il ripristino dei fondi tagliati alla Sanità e alla Scuola;
8. L’istituzione del referendum propositivo senza quorum;
9.  L’accesso gratuito alla Rete;
10. La non pignorabilità della prima casa.

 Siano queste od altre le proposte del M5S, appare comunque evidente, con il passare delle ore, la necessità di non “sprecare l’occasione” che, come dicevo già nel post di Martedì, si presenta non solo per il neonato, sotto il profilo istituzionale, Movimento 5 Stelle, ma soprattutto per PD-SEL  e la memoria storica di molti dei suoi militanti.

 Sarà difficile, perché dalla Germania, ambasciatore il presidente Napolitano [encomiabile per non aver voluto incontrare il leader socialdemocratico che ha offeso gli italiani], arrivano venti contrari. Ora si teme il “caso Italia”, più che per lo spread che riprende a salire, per “il movimento degli indignati” che, entrando al governo in Italia, potrebbe “infettare” il “ventre molle” di quell’Europa che tenta ancora di opporsi all’egemonia tedesca e al Potere Finanziario che se ne serve.

sergio magaldi