giovedì 21 marzo 2013

NAPOLITANO E LA REGIA NELLA COMMEDIA DELL'ARTE





 Pensavo che il regista nella commedia dell’arte della politica italiana contasse poco, che si limitasse a prendere atto delle battute improvvisate degli attori e soprattutto, dei suggerimenti dei grandi capo-comici tedeschi, travestiti da europei. E invece non è stato così. Spogliatosi dei panni di Grande Notaio della Repubblica Italiana e di Fiduciario dell’Eurogermania - con i quali aveva imposto agli smarriti interpreti italioti,il super-canovaccio della maschera filoteutonica di Rigor Montis - il regista naturale della commedia all’italiana, con tre significativi gesti, sembra aver ripreso saldamente in mano la direzione dello spettacolo.

 Il primo gesto è stato “il gran rifiuto” ad incontrare il leader socialdemocratico tedesco che aveva offeso gli italiani per le loro scelte elettorali. Il secondo, quello di ribadire la separatezza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, ma anche il fondamentale assunto che l’investimento popolare non rappresenta in nessun caso un salvacondotto per operare extra legem o peggio ancora contra legem. Recita in proposito, tra l’altro, il comunicato del presidente Napolitano:

“[…] ho indicato nel "più severo controllo di legalità un imperativo assoluto per la salute della Repubblica" da cui nessuno può considerarsi esonerato in virtù dell'investitura popolare ricevuta.

Con eguale fermezza ho sollecitato il rispetto di rigorose norme di comportamento da parte di "quanti sono chiamati a indagare e giudicare", guardandosi dall'attribuirsi missioni improprie e osservando scrupolosamente i principi del "giusto processo" sanciti fin dal 1999 nell'art. 111 della Costituzione con particolare attenzione per le garanzie da riconoscere alla difesa”.


 Con altrettanta fermezza e abilità dialettica, il capo dello stato respinge come “inammissibile” il sospetto che si voglia far fuori “per via giudiziaria” il leader di un partito politico di rilevanza nazionale:

 “[…]E' comprensibile la preoccupazione dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile. Non è da prendersi nemmeno in considerazione l'aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco - "per via giudiziaria" come con inammissibile sospetto si tende ad affermare - uno dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale”.

 La sostanziale proposta che in questa delicata fase della vita politica e per circa un mese i tamburi della magistratura si facciano più silenziosi nei confronti del Cavaliere non è solo una pretesa istituzionale e giuridica. Prescindendo dal fatto che i tribunali hanno il sacrosanto diritto-dovere di pronunciarsi, in tempi ragionevoli, circa l’innocenza o la colpevolezza di qualsiasi imputato, resta la non indifferente questione di dover avviare le complesse procedure per la formazione di un governo, nello momento stesso in cui il leader del PDL fosse condannato o addirittura arrestato.

 I tanti critici del comunicato di Napolitano dovrebbero riflettere che una simile eventualità - come pure quella che il nuovo Parlamento si pronunci sull’ineleggibilità di Berlusconi sulla base di una norma del 1957 [!] - nell’ipotesi sempre più accredidata di nuove elezioni a breve termine, finirebbe con molta probabilità per assegnare la vittoria al centro-destra. E allora? Ha ragione chi osserva che, in tale prospettiva, il cavaliere finisca sempre col sottrarsi al giudizio: quando è al governo, in campagna elettorale e anche  dopo? Sì e no. Sì, perché nei fatti la complessa questione sembra avvitarsi su se stessa e trascinarsi per le lunghe. No, perché nel frattempo sono arrivate alcune sentenze anche se non definitive e soprattutto perché è ormai certo che l’ossessione che perdura in molti nei confronti di Berlusconi non fa che aumentarne il potere!

 Il terzo gesto significativo di Napolitano, forse il più convincente per l’opinione pubblica, è stato quello di aver bloccato le ambizioni di chi, “per non marcire”, aveva chiesto di fare il presidente del Senato.

 Monti si era presentato come un Cincinnato, ma si era subito capito che non lo era, pretendendo l’elezione a senatore a vita per presiedere un governo filotedesco di supertecnici che avrebbe salvato l’Italia e che invece l’ha sospinta sempre più sull’orlo del baratro. Di più lo si è capito quando, in luogo di tornare ad arare il proprio campicello e magari la vigna tedesca, Monti s’è presentato agli elettori come se nulla fosse, chiamandosi fuori dalle tante responsabilità: per non aver fatto nessuna della riforme annunciate, aumentato recessione e disoccupazione e potendo rivendicare soltanto, grazie al sacrificio dei soliti noti, l’abbassamento dello spread. Merito quest’ultimo non trascurabile, certamente, ma più di Draghi che suo e gli elettori l’hanno capito con il modesto consenso con cui l’hanno congedato forse definitivamente dalla vita politica. Per rientrare nel “grande gioco”, se Napolitano non l’avesse fermato, non avrebbe esitato a mollare la presidenza del consiglio dei ministri di un governo che non ha i pieni poteri ma che ha ancora il dovere di svolgere una funzione importante in Italia e in Europa.

 Forse ha ragione lui: nel nostro Paese, Monti non sa più che fare dopo aver “spremuto” tutto quello che c’era da spremere dai lavoratori e dalla borghesia piccola e media, e in Europa sembra finita per lui l’epoca in cui la Merkel lo prendeva a braccetto, mentre ora lo saluta appena per lasciarselo frettolosamente alle spalle… O forse ha ragione Tremonti [sì, proprio quello che s’era fatto garante della solidità delle nostre banche!] nel definirlo, magari pensando a se stesso, “un bicchiere di talento in un oceano di presunzione”. Comunque sia, Monti prenda spunto da Napolitano che rifiuta una rielezione certa, magari persino sbagliando in un momento come questo, non per l’età avanzata o perché la Costituzione lo vieti, ma semplicemente per evitare il precedente pericoloso di un settennato che si trasformi in quattordici anni di potere ininterrotto.

 Resta da dire qualcosa sui protagonisti della commedia all’italiana. Bersani e i suoi sostenitori del Partito Democratico sembrano intenzionati ad andare avanti, in parte sperando che si ripeta la scena che ha consentito l’elezione di Grasso alla presidenza del Senato, in parte auspicando che Napolitano conferisca comunque al leader del PD la nomina per formare un governo e non un pre-incarico o peggio ancora un mandato esplorativo. E si capisce perché: Bersani resterebbe in carica durante la successiva campagna elettorale imputando al Movimento Cinque Stelle la mancata realizzazione dell’ormai famoso programma degli 8 punti, con l’evidente calcolo di recuperare il voto di quanti, più o meno provvisoriamente, hanno voltato le spalle al PD per scegliere il M5S. Calcolo errato a mio giudizio, ancorché di parte e poco preoccupato delle sorti del Paese. Infatti, se è probabile che, in mancanza di un governo che ottenga la fiducia alle Camere, il M5S veda calare i propri consensi, è più probabile che questo avvenga da destra [vedi i tanti piccoli imprenditori del nord-est che nelle recenti elezioni hanno mollato Lega e PD con la elle], mentre da sinistra potrebbe addirittura vederli crescere, considerando la differenza qualitativa che intercorre tra gli 8 Punti  generici e timidi di Bersani e i 20 Punti chiari e determinati di Beppe Grillo e anche in virtù dell’uscita recente del movimento circa la necessità di rivalutare Marx.

 In una prospettiva del genere, la vittoria andrebbe quasi sicuramente a Berlusconi che, anche con questa legge elettorale potrebbe raggiungere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con o senza l’aiuto dei centristi, molti dei quali, sempre più spaventati dai grillini, già in sede elettorale lascerebbero Monti per votare PDL. Tanto varrebbe allora per Bersani e i suoi appoggiare il governo del M5S proposto al capo dello stato dalla delegazione del movimento. Cosa impensabile persino per i “giovani turchi”, perché farebbe cadere il disegno di recuperare consensi riprendendoli al M5S e porterebbe a spaccare un partito a malapena incollato tra amici e compagni.

 La strategia di Berlusconi è altrettanto chiara: solo il “governissimo” con il PD lo salverebbe dall’estromissione dalla vita politica offrendogli, almeno per ora, un efficace salvacondotto, oppure elezioni a Giugno o al più tardi ad Ottobre prima che il tribunale si pronunci definitivamente [sentenza prevista per la fine dell’anno] sul primo dei  tanti processi contro di lui. E se il PD ha in mente di recuperare parte del proprio elettorato “ prestato” al M5S, sventolando in campagna elettorale le responsabilità di un movimento che vuole uscire dall’euro [ma è davvero così? O non chiede più semplicemente ai cittadini di pronunciarsi in merito?] e che non ha voluto sostenere gli 8 punti, panacea di tutti i mali della politica italiana e delle sue trasversali ruberie, il partito di Berlusconi e dei superstiti della Lega potrà sempre rimproverare al PD di aver fatto fallire la possibilità di dare un governo all’Italia, suscitando nel Paese l’immagine, neppure nuova, di una sinistra impotente e prigioniera dell’estremismo anti-sistema. Con la prospettiva del risultato di cui si diceva sopra: recupero di parte di quei 6 milioni di voti che forse fisiologicamente gli appartengono, provenienti dagli astenuti, dai grillini di destra e da centristi pentiti e spaventati.

 Mutatis mutandis, il calcolo del PD con la elle somiglia tanto a quello del PD senza elle. Dietro la comune facciata del bene dell’Italia, mascherano l’interesse di fazione e/o l’interesse personale. In tale prospettiva si può dar torto al Movimento Cinque stelle che non vuole saperne di allearsi con nessuno dei due? Non con il PD che lo vuole a sostegno del governo unicamente per “vampirizzarlo”, non con il PDL , con il quale paradossalmente, sulla carta e per il momento, ha almeno più punti [5] in comune [abolizione dell’IMU, soppressione del finanziamento della politica, dimezzamento dello stipendio dei parlamentari, soccorso della piccola e media industria e scetticismo sull’euro], di quanti ne abbia con il PD, ma dal quale è distante anni luce per visione della società, per la faccia impresentabile del leader e di gran parte dei dei suoi dirigenti, per la vocazione camaleontica che da sempre condiziona le scelte del PDL in funzione del potere.

 Con questi attori, ai quali si affiancherà presto un nuovo regista [per questo ruolo si continua a parlare dei Prodi, degli Amato, persino dei Pisanu e dei Letta: è davvero incredibile!], c’è da pensare che la commedia dell’arte della politica italiana si trasformi ben presto in farsa preludendo alla tragedia. A meno che, il regista ancora in carica non compia un quarto significativo gesto: dettare un nuovo canovaccio affidandolo ad interpreti d’eccezione. Per uscire di metafora, un governo delle personalità [ma per carità non si facciano i nomi già apparsi nei giorni scorsi sulla carta stampata!], competenti o addirittura illustri nel proprio campo e che, senza essere tecnocrati o politici di mestiere, siano capaci innanzi tutto di trovare un minimo comune denominatore tra i punti indicati dai partiti e in un secondo momento tentino addirittura la strada delle grandi riforme di cui in Italia si continua inutilmente a parlare almeno dalla caduta del fascismo.   


sergio magaldi

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