mercoledì 29 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA

Paolo Sorrentino, La grande bellezza, film, Roma , 2013

 Circa due ore e mezzo tra balli, canti e immagini stupende di statue, monumenti, palazzi e paesaggi di una Roma deserta, nell'intento di far rivivere la città di Federico Fellini. Ma il tentativo non ha fortuna: tra “ragazze” cinquantenni che mostrano corpi nudi senza suscitare desiderio, attori falliti [spiace per il poco spazio assegnato ad un grande come Carlo Verdone], attricette in cerca di gloria che passano con disinvoltura dalla velleità di recitare a quella di scrivere, erotomani, cocainomani, illusionisti del trucco per ridare la giovinezza a 700 euro per la visita di qualche minuto, principi che si affittano per le feste dei nuovi ricchi – presumibilmente bottegai, politici e membri delle corporazioni – bambine prodigio che imbrattano tele di gran prezzo, cifra non sempre spiegabile del successo nel nostro tempo, e ancora: macchiette di cardinali, suore e suorine che accudiscono bambini e raccolgono arance e persino una santa che alterna momenti mistico-magici a stati vegetativi, una folla di disadattati della vita che cerca invano di esorcizzare la vecchiaia e la morte, e una pennellata di plebe passata maldestramente sullo schermo con l’eco delle cosiddette parolacce della tradizione romanesca.

 Unico film italiano presente a Cannes, l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino, ma senza  ottenere riconoscimenti ufficiali. Si dice con apprezzamento della stampa straniera, ma con scarso elogio di quella italiana, più disincantata di fronte all’affresco che, Jep Gambardella, giornalista e scrittore napoletano, trapiantato a Roma da quarant’anni, tenta di fare di una “grande bellezza”. Perché la Roma di Sorrentino è bella, ma fredda e cinica come un’amante senz’anima che riguardi con indifferenza la turba improvvisata dei suoi tanti improbabili e decrepiti amanti. La Roma di Fellini è fieramente plebea, così come mostrano le inimitabili sequenze del film dedicato alla “città eterna” nel 1972:

  La Roma di Fellini è scanzonatamente papalina, come nella celebre Sfilata di moda ecclesiastica, video già riportato su questo blog [vedi il post  Luciano Luciani uomo ballerino coreografo artista], per mostrare un artista, interprete delle “Variazioni sacristianesche per cerimonie di prima classe” nel film di Fellini.

 La Roma di Fellini, benché mostri con La Dolce vita del 1960 i segni di una decadenza inesorabile e le rughe di un’aristocrazia impegnata nel difendersi dalla noia, si mostra amante partecipe e pietosa, mai indifferente. Ma il tempo è passato tra la Roma vista con gli occhi di un giovane aspirante scrittore, stupendamente interpretato da Marcello Mastroianni, e quella che lo scrittore di un solo romanzo, un Toni Servillo altrettanto bravo, giunto ormai in età avanzata, descrive nelle sue “passeggiate”. Il primo vive nel caos esistenziale la speranza del proprio tempo, nel nuovo che avanza, con il boom economico degli anni Sessanta, ma anche lasciando intravedere la deriva del “mostro” che inesorabilmente si annuncia. Nel finale del film, con la folla che si accalca attorno al cadavere della bestia, ma anche nelle parole che una sorridente e giovanissima Valeria  Ciangottini cerca inutilmente di far ascoltare a Marcello.

  Jep Gambardella pretende di cavalcare “il mostro”, la Roma degli anni Duemila, ma il monologo moraleggiante e talora banale non raggiunge mai la coscienza se non per un messaggio individualistico che lascia spazio solo alla vecchiaia e alla morte. E la speranza-avvertimento che Valeria lascia immaginare nel linguaggio muto del finale della Dolce Vita si risolve nel finale della Grande Bellezza, con il volto sorridente di una giovane donna che rappresenta il ricordo dolce e consolatorio del primo amore. Forse l’argomento per il secondo romanzo di Jep Gambardella. E proprio in questo consiste il limite del film di Sorrentino: “Aver voluto imitare il gigantesco Fellini” [come scrive Hollywood Reporter], quasi scena dopo scena, persino il Fellini della Città delle donne, dove alla inquietante galleria femminile e all’emblematico Snaporaz si sostituiscono un anonimo personaggio, sbucato dal nulla di una narrazione senza trama, e la sua galleria di foto fatte giorno dopo giorno dall’infanzia alla maturità. Anche qui segno del funereo e del cimiteriale contrapposto all’archetipo vitale e composito dell’eterno femminino rappresentato nella Città delle donne

 A poco serve aver riempito il film di musiche sacre e profane, talora di pregevole ascolto, talora solo riempitive e assordanti tra un monologo e un finto dialogo. Intendiamoci, il lavoro di Sorrentino ha un impianto costruito a regola d’arte, ma non decolla perché, pur nella bellezza delle immagini di una Roma, vegliata dai sette colli e cullata dal Tevere, lascia a terra la “zavorra” umana di in una città indifferente alle vicende umane, come un dio aristotelico. 

 Qualcosa di più delle “cartoline illustrate” della Roma di un grande maestro del cinema come Woody Allen [vedi il post: L’omaggio di Woody Allen all’Italia che fu, nel film To Rome with love], meno, irrimediabilmente meno, della Roma felliniana. Ma il film di Sorrentino merita ugualmente di essere visto. Anche perché "la dolce vita" se ne va per tutti, come in Vacanze romane, il vecchio e sempre bel canto dei Matia Bazar.


sergio magaldi 










sabato 25 maggio 2013

GLI ULTIMI GIORNI DI ALDO MORO E LA SOVRANITA' LIMITATA DELL'ITALIA

Ferdinando Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia,  Newton Compton Editori,  Roma,  2013, pp.310

 L’ennesima ricostruzione degli ultimi giorni di Aldo Moro appare in questi giorni in libreria con il libro di Ferdinando Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, per Newton Compton Editori. Che c’è di nuovo rispetto a quanto, colui che tra il 1978 e il 1984 fu il giudice istruttore del processo Moro, scriveva in Doveva Morire, pubblicato qualche anno fa per le edizioni di Chiarelettere?







 La risposta è già nella Prefazione [pp.7-12] di Antonio Esposito, presidente di sezione della Corte di Cassazione. Emergerebbero prove difficilmente confutabili circa “clamorose inadempienze e scandalose omissioni da parte degli apparati dello Statoche pur essendo a conoscenza del luogo di detenzione di Aldo Moro, nulla fecero per salvargli la vita. Prove basate su testimonianze oculari, ancorché tardive – aggiungerei –  come spesso avviene in Italia per fatti e misfatti del genere. Del resto, osserva Esposito, qualcosa di simile era già vagheggiato in Doveva morire, che riportava le dichiarazioni di Steve Pieczenik, braccio destro di Kissinger e figura di spicco del Comitato di crisi, durante i 55 giorni del sequestro dello statista democristiano:

 “Sono stato io,lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro, allo scopo di stabilizzare la situazione italiana. Le Brigate rosse avrebbero potuto rilasciare Aldo Moro e così avrebbero senza dubbio conquistato un grande successo, aumentando la loro legittimità. Al contrario, io sono riuscito con la mia strategia, a creare una unanime repulsione contro questo gruppo di terroristi […] La trappola era che loro dovevano uccidere Aldo Moro. Loro pensavano che io avrei fatto di tutto per salvare la vita di Moro, mentre ciò che è accaduto è esattamente il contrario. Io li ho abbindolati a tal punto che a loro non restava altro che uccidere il prigioniero”[pp.8-9].

 Dal canto suo, nell’Introduzione [pp.13-23], Ferdinando Imposimato ribadisce una tesi già nota: aver egli creduto per trent’anni alla esclusiva responsabilità delle BR, nel rapimento e nell’uccisione di Moro, e ancor più “alla necessità giuridica e morale della linea della fermezza imposta dal governo contro i ricatti dei brigatisti”.

 Com’è noto la cosiddetta linea della fermezza, in quella vicenda, era sostenuta da gran parte della Democrazia Cristiana e da tutto il Partito Comunista. E se ne comprendono facilmente le ragioni: la DC era legata a doppio filo con le sue alleanze internazionali e il PCI non avrebbe potuto tollerare una qualsiasi trattativa con un partito armato alla propria sinistra. La DC scontava trent’anni di vassallaggio suo e dello Stato italiano e il PCI la sua nuova politica filoeuropea e anti-Unione Sovietica. Per la linea della trattativa si schierò invece il Partito socialista di Bettino Craxi, non per umana pietà e/o realismo politico, come si cercò di far credere, ma unicamente – almeno stando alle recenti e candide  dichiarazioni dell’ex-ministro Gianni De Michelis a “Porta a Porta” – per ragioni di opportunità legate all’incipiente compromesso storico tra cattolici e comunisti che avrebbe escluso il PSI dal potere. Con il paradosso, comprensibile solo in politica, che i socialisti, adottando una tattica completamente opposta a quella della fermezza, perseguirono la medesima strategia di chi, in campo nazionale e internazionale, non voleva il compromesso storico e cercava di impedirlo con ogni mezzo. Per contro, i comunisti, i più intransigenti nel respingere ogni trattativa con le BR, finirono col lasciare Moro alla sua triste sorte, con lui sacrificando la linea politica adottata da Enrico Berlinguer e che proprio nel leader democristiano aveva trovato il suo unico, reale e credibile interlocutore. Non a caso, dopo l’appoggio del PCI al governo monocolore di Andreotti, che simulava, proprio nei giorni del rapimento di Moro, una timida espressione del "compromesso storico", il PCI fu estromesso nuovamente e definitivamente dal potere, a cominciare dal quinto governo Andreotti dell’agosto del ’78 [a pochi mesi dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro], per proseguire con i due governi Cossiga. Non a caso i due uomini politici della DC, Andreotti e Cossiga, fra i più determinati, insieme ai dirigenti del PCI, nella linea della fermezza. Bisognerà attendere altri governi [12 in tutto, dopo i primi 3], la caduta del muro di Berlino [9 Novembre 1989] e più di 4 anni prima che l’ex-PCI, divenuto PDS, si riaffacci nella “stanza dei bottoni”, col governo Ciampi del 10 Maggio 1994.

 Proseguendo nelle sue analisi, Imposimato – con una digressione che induce a riflettere sulla semi-sovranità dell’Italia dalla Liberazione in poi e che per ragioni molteplici perdura tutt’oggi, senza neppure le sacrosante ragioni di ieri [il pericolo reale che il nostro Paese divenisse una “democrazia popolare”, satellite dell’Unione Sovietica] – espone la tesi  che “Il tragico destino di Aldo Moro non inizia il 16 Marzo 1978, con il sequestro di via Fani, ma quindici anni prima, con l’arrivo in Italia , nel luglio 1963, di John Fitzgerald Kennedy”.[p.25].

 Come Aldo Moro, il presidente americano condivideva la necessità di aprire le frontiere del governo italiano alle forze progressiste, anche nella strategia di dividere il Partito socialista da quello comunista, ancora filosovietico. Esattamente un anno dopo la visita di Kennedy, nel Luglio del 1964, nasce in Italia il primo governo Moro di centro-sinistra, con il PSI che era ancora considerato da molti, sia in Italia che in USA, un partito socialcomunista. Scrive Imposimato nel I capitolo del libro, denominato “L’antefatto”[pp.25-62]:

 “Il presidente americano era un convinto sostenitore del leader democristiano e della sua politica di dialogo coi socialcomunisti contro il parere dei conservatori statunitensi e dei grandi petrolieri. Questo sguardo comune ai due statisti verso le nuove frontiere dell’occidente li avrebbe condotti a divenire bersagli degli stessi nemici, tra America e Italia […]” [p.25].

 Benché Kennedy avesse dato prova di fermezza e di forza nel combattere il comunismo sovietico, come per esempio nel caso dei missili di Cuba che alla fine di Ottobre del 1962 Chruščëv fu costretto a ritirare dall’isola, molti dei suoi avversari guardavano con diffidenza al dialogo con le forze progressiste dell’Occidente e con il comunismo internazionale. Personalmente, tuttavia, non credo troppo alla tesi di Imposimato, non credo cioè che Kennedy fu assassinato per questo motivo o almeno non soltanto per questo. Per quanto l’ex-giudice si sforzi di farlo credere riferendo di un colloquio privato con un agente CIA, dal nome in codice di Louis, avvenuto a distanza di qualche anno dalla morte di Aldo Moro:

 “[…]Un giorno Louis mi confidò:’La morte di Moro è stato un bene per l’Italia e gli Stati Uniti. Non era amato né da Kissinger, né dagli americani […] Moro, come Kennedy, dialogava troppo con i comunisti […] I russi sono pericolosi in tutto il mondo. Ci hanno portato il comunismo in casa. A Cuba. Tutta l’America Latina è diventata una polveriera, piena d’odio per gli americani, gli yankees! Se fosse stato rieletto, Kennedy sarebbe stato una rovina per l’America”[pp.28-29].

   Convinto che l’assassinio di Kennedy si spieghi con il dialogo da lui ricercato con il comunismo, Imposimato si getta poi a capofitto nella individuazione dei probabili mandanti che – come vedremo –  gli torneranno buoni anche nel caso  di Moro. Lo statista cattolico, dopo 14 anni di governo con il PSI, aveva pensato che era venuto il momento di non tenere più fuori dalla porta il partito comunista di Enrico Berlinguer, forte del 34% dei voti, divenuto europeista e filoatlantico, nonché fortemente critico dell’Unione Sovietica. Tanto da non sembrare un incidente quello che  il 3 Ottobre del 1973 capitò al segretario del PCI, in visita ufficiale a Sofia, allorché la vettura in cui viaggiava fu investita da un camion militare, con la morte di tre passeggeri, tra cui due dissidenti del Partito Comunista Bulgaro. Uscito miracolosamente illeso, di ritorno a Roma, Berlinguer raccontò ad Emanuele Macaluso – il quale ne riferì solo 18 anni più tardi in un’intervista a “Panorama”, secondo la “buona” tradizione italiana di cui si diceva sopra – che, con ogni probabilità, “L’incidente” era stato organizzato dal KGB e dai servizi segreti bulgari.

 Scrive Imposimato [p.41] a proposito dei probabili mandanti dell’assassinio di Kennedy: “[…]Ma a confermare che nell’assassinio di Kennedy la Libera Muratoria aveva svolto un ruolo è stato Aldo Mola [Storia della Massoneria Italiana, Bompiani, Milano, 1992], il maggiore storico della massoneria al mondo, che sostenne pubblicamente: ‘Alla Gran Loggia Nazionale Francese […] si sottoscriveva la dichiarazione resa dal fratello Warren, quello che con il massone Hoover, già capo dell’FBI [Vedi il post Potere e Democrazia nel film J.Edgar di Clint Eastwood], concorse a seppellire l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy a Dallas sotto le migliaia di pagine […] “Mi è stato domandato se l’appartenenza al Partito comunista comporti una condotta antimassonica:la mia risposta è sì!”, disse Warren. Ciò significava che l’appartenenza alla grande fratellanza giustificava un’azione preventiva contro l’avanzata del totalitarismo dell’URSS e dei suoi alleati in Occidente, tra cui l’Italia’ [A.Mola, cit.,p.723]”.

 Insomma, conclude Imposimato, il massone Edgar Hoover, capo dell’FBI, affossò l’inchiesta parlamentare sull’assassinio del presidente Kennedy. A conferma dei presunti e perenni “intrighi massonici” nella storia americana e non solo, egli cita [p.45] anche il più recente Cossiga  [F.Cossiga con A.Cangini, Fotti il potere, Aliberti, Roma, 2010]: Cossiga affermava che ‘la gente non sa che la P2 è stata inventata dagli Stati Uniti, Paese in cui l’influenza degli illuminati è rappresentata dalla simbologia massonica  emblematicamente sulle banconote da un dollaro’ e che  ‘dei quarantaquattro presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca, solo tre non erano massoni; due di loro, Mc Kinley e Kennedy, furono ammazzati, mentre il terzo fu costretto alle dimissioni. Quanto a Obama, se finirà ammazzato vuol dire che non era massone’.

  Se conservo forti dubbi circa i motivi che, a giudizio di Imposimato, posero tragicamente fine alla vita di Kennedy, minore perplessità suscita in me l’idea che il destino di Moro sia stato deciso dalla sua politica lungimirante, l’unica ormai possibile in un Paese in cui la democrazia dell’alternanza era vietata dal persistere della “guerra fredda” e che continuava ad escludere dalle scelte di governo le classi popolari e gli intellettuali della nazione, con il risultato che le differenze sociali tra i cittadini s’ingigantivano, le corporazioni si consolidavano e la corruzione pubblica dilagava, preparando putroppo l’Italia che oggi conosciamo. In questo e a modo suo, Moro fu un grande, “un pioniere” che pagò con la vita ciò che nessun altro politico italiano del suo tempo seppe intuire, neppure Berlinguer, che lanciò la politica del compromesso storico ma sacrificò, per calcoli di bottega che alla fine si dimostrarono errati, l’unico leader cattolico col quale avrebbe potuto realizzarlo, nulla comprendendo veramente di ciò che stava avvenendo in Italia e/o facendo finta di credere che dietro i brigatisti armati ci fossero… solo le brigate rosse!

 Osserva ancora Imposimato che, dopo la morte di Kennedy e con la presidenza Nixon, la campagna americana contro Aldo Moro si fece più aggressiva. Tanto che Kissinger, riferendosi alla politica italiana dei primi anni Settanta, lamentava che il sostegno che Kennedy aveva dato alla politica italiana del centro-sinistra, in luogo di isolare i comunisti, li aveva resi più forti. E che Aldo Moro tendeva sempre più a togliere potere ai socialisti per darlo ai comunisti. Da queste premesse, l’ex-giudice istruttore del processo Moro trae la conclusione che Gladio, P2, servizi segreti deviati e quant’altro non fossero estranei al rapimento del leader democristiano.

 Entrando nel vivo degli avvenimenti che precedettero il sequestro di Moro e poi nei 55 ultimi giorni della sua prigionia, Imposimato analizza le varie “piste”, le stesse che in tanti anni di “inutile” ricerca della verità furono perseguite dai vari inquirenti o che risultarono supposizioni della carta stampata, attraverso libri e giornali. Il lettore ha come l’impressione che  tutti i più importanti servizi segreti del mondo, e non solo, fossero al corrente del prossimo rapimento di Moro, come dimostra anche l’annuncio del sequestro dato da un giornalista di Radio Città Futura alle 8:30 del 16 Marzo 1978, mezz’ora prima che accadesse il fatto e nel tentativo di scongiurarlo [p.147]. E sembra che in molti conoscessero perfettamente l’unico luogo della detenzione dello statista, sito all’interno 1 di via Montalcini 8, e non già in via Gradoli, come i media continuarono ad affermare per lungo tratto, dopo il ritrovamento del cadavere. Tant’è che l’appartamento sopra quello del sequestrato fu adibito a centro di “ascolto e registrazione delle conversazioni che avvenivano in prigione” [p.191]. Questi sembrano i fatti nuovi che emergono dal lavoro di Imposimato, frutto di testimonianze oculari, ancorché tardive, di due militari, di cui l’ex-giudice fornisce nome e cognome. E insieme a questi, l’episodio non meno inquietante e drammatico, secondo il quale, alla vigilia dell’esecuzione di Aldo Moro, fu annullato “l’intervento di un commando di otto persone appartenenti al GIS dei carabinieri” [p.207], guidato dal generale Dalla Chiesa [p.255] e pronto per liberare il prigioniero. L’ordine di annullamento del previsto intervento, secondo le citate testimonianze, “era arrivata dal Ministero dell’Interno” [p.207], con grave sgomento dei militari e degli stessi rappresentanti dei servizi segreti internazionali presenti nel centro d’ascolto istituito nell’appartamento soprastante l’alloggio “segreto” del prigioniero [p.195].

  Di seguito, si riportano le pp. 290 e 291 delle “Conclusioni” contenute nel libro, nelle quali l’autore si pone la domanda se siano vere le considerazioni adombrate da Cossiga [allora ministro dell’Interno, mentre Andreotti era presidente del Consiglio del monocolore democristiano appoggiato dal PCI. A puro titolo informativo, Cossiga fu eletto Presidente della repubblica 7 anni dopo la morte di Aldo Moro e nominò Andreotti senatore a vita “per meriti in campo sociale e letterario”, un anno prima della fine del suo mandato] circa la limitata sovranità dell’Italia rispetto alla gestione del caso Moro. E la risposta appare più che dubitativa: le dichiarazioni di Steve Pieczenik, rappresentante del governo americano nel Comitato di crisi e di cui si è già parlato sopra, sembrano mettere in dubbio le affermazioni circa la sovranità limitata dell’Italia durante i giorni del sequestro Moro. Per quanto incline alla linea della fermezza, Steve Pieczenik “sapeva che il suo compito era di cercare di salvare l’ostaggio, senza cedere alla pressione dei terroristi, mantenendo una flessibilità tattica e facendo leva sull’aspetto umanitario della questione”[p.291]. In conclusione, afferma Imposimato, “Non c’erano state ragioni di Stato internazionali nella scelta finale del mancato intervento” per liberare Aldo Moro [p.292]. 



























  





 Concludendo, per quanto nel libro di Imposimato compaiano fatti e presunti misfatti già noti agli inquirenti e all’opinione pubblica, per quanto sia arduo per il lettore districarsi tra le tante “piste” che s’intrecciano continuamente tra loro quasi per escludersi a vicenda, resta il merito dell’autore di aver ricostruito pazientemente la drammatica vicenda di Aldo Moro alla luce di nuove testimonianze che certamente non compete al lettore di avvalorare, ma che sottolineano ancora una volta il ruolo e il valore della libera informazione.



sergio magaldi
 

mercoledì 15 maggio 2013

DIZIONARIO CABBALISTICO



 In precedenti post, ho più volte accennato alla Qabbalah, la dottrina esoterica dell’ebraismo [Post: L’Albero della vita Narrativa e QabbalahAlchimia e Qabbalah nel I capitolo di AESH MEZAREPHPensiero sapienziale e pensiero religioso]. Di seguito, qualche chiarimento sui principali concetti dell’universo cabbalistico.

 Qabbalah significa Tradizione rappresentando, per così dire, il crogiolo di ogni studio e commento della Torah e più in generale di ogni forma del pensiero ebraico quale si configura nelle dottrine e nei racconti dei rabbini e nel Talmud e, soprattutto, nelle speculazioni cosmogoniche sull’opera della Creazione o Ma’asè Bereshit e nelle meditazioni a sfondo mistico sull’opera del Carro o Ma’asè Merkavah.

  In tale prospettiva, non ha senso contrapporre la Qabbalah alla filosofia, né assimilarla al modello delle filosofie occidentali. Infatti, se per filosofia s’intente un “Sistema” teorico e concettualmente concluso, la Qabbalah non ha nulla di sistematico. Così, per esempio, l’universo o albero delle dieci Sephiroth  non è il mondo platonico delle idee e il suo manifestarsi da En Soph ‘Infinito’ o ‘Illimitato’ non ha le caratteristiche proprie dell’emanatismo neoplatonico. Le Sephiroth  si collocano sull’Albero e sono luci, numeri primordiali o forme pure. Sono dieci quante le dita delle nostre mani e tramite loro, secondo un ben definito progetto architettonico, si manifesta tutta la realtà.

   Si suole innanzi tutto distinguere tra una Qabbalah letterale e una Qabbalah non scritta che, attraverso una tradizione orale ininterrotta, verrebbe trasmessa bocca-orecchio di maestro in discepolo. C’è poi una Qabbalah pratica o Teurgia basata sull’idea che ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico, con cui Dio ha creato il mondo, rappresenti un Essere Vivente (Haioth Hakodesch), un Geroglifico, un Idea, un Numero. Combinare le lettere significa allora conoscere leggi e fondamenti della Creazione. Di più, questo sistema di ventidue lettere si fa corrispondere alla tre Sephiroth superne (Kether – Hochmah – Binah) dell’Albero, alla ruota dello Zodiaco o Galgal e all’asse del mondo o Teli.

  Alcuni autori parlano anche di una Qabbalah rituale, con aperto sconfinamento nella magia cerimoniale e dei talismani, mentre una ulteriore distinzione è quella introdotta da Avraham Abulafia, tra una Qabbalah teosofica e una Qabbalah estatica o profetica il cui fine sembra essere quello di accedere a stati di meditazione suscettibili di modificare, anche profondamente, il vissuto di coscienza.

  Infine, comune ad ogni aspetto della Qabbalah, tanto sotto il profilo speculativo che operativo, è l’uso di particolari tecniche di apprendimento quali soprattutto la Ghematria, il Notariqon e la Temurah. Sono questi strumenti ritenuti indispensabili, perché vere e proprie ‘scorciatoie’ nel processo conoscitivo e/o teurgico.

   Se si guarda alla Qabbalah storica, quella cioè che si diffonde in età medievale, sulle rive del Mediterraneo, tra le fiorenti comunità ebraiche, ci si accorge che la Qabbalah ha anche questo di peculiare rispetto alla Filosofia occidentale: non si afferma nell’opinione pubblica per l’azione di alcuni ‘maitre à penser’, ma si struttura piuttosto in comunità di studio e centri di ricerca in cui entrano solo i più degni. Se mancano i maitre a penser, le cui idee si diffondono rapidamente, creando ‘correnti di pensiero’ o suscitando ‘mode’ più o meno durature, nelle scuole di Qabbalah insegnano tuttavia maestri dotati di grande carisma.

  Uno di questi fu Isacco il Cieco, vissuto tra la seconda metà del 1100 e la prima metà del 1200, e primo grande maestro delle scuole di Qabbalah che, in età medievale, operarono in Provenza e in Catalogna, in un clima di grande sviluppo culturale delle comunità ebraiche. Isacco fu detto il Chassid (il pietoso) o il Cieco (paradossalmente, perché ‘possedeva luce’ in eccesso), il parush o il sagghì-nahòr (quello che oggi diremmo un illuminato) e fu uno tra i maggiori peruschim.

   Se Isacco fu il primo grande maestro delle scuole storiche di Qabbalah, l’antesignano fu comunque il padre di Isacco, Abraham ben David (1125-1198) di Posquières (Narbonne), autore di scritti in polemica con Maimonide, di commenti sul Talmud e che fondò un’accademia talmudica, dove ben presto si praticò la kavvanah (concentrazione), lo studio della Torah e la lettura del Sepher Bahir.  Di qui si formarono diversi circoli di asceti o perushim. Il più noto fu, in un primo tempo, il gruppo di Jacob Hanazyr dedito in particolare alla meditazione sulle Sephiroth. I perushim provenzali studiavano quasi senza interruzione, praticando digiuni e astenendosi dalla carne e dall’alcool. Si reclutavano tra i primogeniti e preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi. Huqe ha-Torah, un documento provenzale, descrive la vita che si svolgeva in questi centri per lo studio della filosofia e dell’esoterismo: devozione al maestro, piccoli gruppi di studio, diversificazione dei livelli di apprendimento, massima stimolazione per facilitare la libera espressione e il dibattito tra i discepoli.

 Il dizionario che segue non pretende di essere esaustivo né rispetta l’ordine alfabetico delle voci, osserva piuttosto un criterio logico-discorsivo. Le parole in grassetto costituisco altrettante “voci” del breve dizionario. La grafia ebraica delle lettere è stata omessa  perché il relativo font  non è sempre presente nel Pc dei lettori.

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Torah: la Torah scritta si compone dei libri del Pentateuco (Genesi o Bereshit, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Inizia con la lettera Bet di Bereshit e termina con la lettera Lamed di Israel con cui si chiude il Deuteronomio. Insieme, le due lettere formano la parola Lev  [Lamed-Bet]cuore, a indicare che la vera conoscenza della Torah è una conoscenza del cuore e non dell’intelletto, il che, naturalmente, non significa che la Torah non debba essere studiata, come invece raccomanda espressamente la tradizione ebraico-cabbalistica. Lev ha valore numerico 32 (consulta in proposito la voce Ghematria) come i Trentadue sentieri dell’Albero della vita

Talmud:  ‘studio’ o ‘insegnamento’ è una raccolta enciclopedica della tradizione ebraica, compilata durante un periodo di circa ottocento anni, dal 300 a. C. al 55 d.C., in Palestina e in Babilonia. Il vasto materiale comprende l’Halakhah o ‘cammino’ da seguire nella vita per realizzare i precetti della Torah e l’Haggadah  o ‘narrazione’ di genere vario.
 L’ Halakhah è composto di Mishnah o ‘insegnamento orale’ e di Ghemara o ‘completamento’ della Mishnah mediante numerosi commentari sulla Legge. La Mishnah contiene sei Ordini diversi (I. Zeraim o ‘Sementi’, II Moèd o ‘Stagione’, III. Nashim o ‘Donne’, IV. Nezikin o ‘Danni’, V. Kodashim o ‘Cose sante’. VI. Teharoth o ‘Cose pure’), ciascuno dei quali comprende numerosi trattati (11+12+7+10+11+12). Tra i 63 complessivi trattati (senza contare quelli posteriori alla Mishnah o giudicati apocrifi) ci limitiamo a citare: Berachoth o ‘Benedizioni’, Orlah o ‘Incirconcisione’, Bikkurim o ‘Primizie’ (I.), Shabbat o ‘Sabato’, Pesachim o ‘Pasqua’, Sukkah o ‘Tenda’, Betzah o ‘Uovo’, Rosh Hashanah o ‘Capo d’Anno’, Megillah o ‘Rotolo’ (II.), Nazir o ‘Nazireo’, Kiddushin o ‘Santificazione’ (III.), Sanhedrin o ‘Tribunali’, Abodah Zarah o ‘Idolatria’, Pirqè Aboth o ‘Capitoli dei Padri’ (IV.), Middoth o ‘Dimensioni’ del Tempio (V.), Teharoth o ‘Cose pure’, Niddah o ‘Impurità della mestruazione’, Jadayim o ‘Mani’: della loro impurità e della loro purificazione (VI.).  L’Haggadah costituisce la parte non legale della letteratura rabbinica, ma esprime soltanto l’opinione dei maestri e dei rabbini attraverso i Midrash, cioè i racconti o commentari.


Ma’asè Bereshit: Opera della Creazione. E’ parte rivelante nello studio della Qabbalah, perché è proprio dal commento e dall’approfondimento del Genesi o Bereshit che nascono i testi più importanti della letteratura cabbalistica. Già la lettera con cui inizia il Genesi, è fonte di innumerevoli speculazioni. Ci si domanda innanzi tutto perché il libro, nel quale si narra l’opera divina della Creazione, abbia inizio con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico (la Bet ) e non con la prima. La risposta è che la  Bet  è una lettera aperta solo da un lato a significare che unicamente gli eventi accaduti dopo il  Bereshit o Principio sono accessibili all’indagine umana.


  ‘Alef  – dice il Sepher Bahir (48) – determina piuttosto l’esistenza di tutte le lettere, a somiglianza del cervello. Come per la alef, alla cui menzione apri la bocca, così avviene per il pensiero, quando pensi a ciò che non ha fine né limite. Dalla alef escono tutte le lettere. Non vedi forse che essa è posta al loro inizio?…”   Di qui l’analogia che i cabbalisti fanno tra  Alef  ed En Soph.

 Un’altra tipica speculazione cabbalistica, riferita ai primi versetti del Genesi, è quella che s’interroga sulle dieci volte in cui è scritto: Dio disse. L’espressione è citata nove volte nel 1°Capitolo del Genesi e precisamente ai versetti: 3-6-9-11-14-20-24-26-29. Compare una sola volta nel versetto 18 del 2°Capitolo. Qui, tuttavia, il nome di Dio non è più soltanto Elohim, perché è preceduto dal  Tetragramma o nome di quattro lettere.

  Il punto di luce, adombrato dalla luce infinita e per noi oscura, è il primo dei dieci “Dio disse” del Genesi ed è anche il primo istante della creazione. Facendosi altro da sé, l’Infinito si determina ad essere il finito illimitato. E’ davvero così? L’invisibile puntino da cui lo yud -la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico- è tracciato è davvero altro? Osserviamo intanto che quel puntino di luce è per noi invisibile  proprio come la luce oscura e, dunque, partecipa della stessa natura di questa. Da che riconoscere allora la luce che si diffonde da quel primo punto? La risposta è nel successivo versetto del Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre.” (Genesi 1:4). La separazione consentì all’uomo -vista l’impossibilità di percepire il puntino luminoso o primo istante della creazione- di vedere finalmente la luce attraverso le cose. Ciò che significa vedere la luce nel contrasto con le tenebre. Naturalmente questa oscurità non ha nulla a che vedere con l’Oscurità originaria, da cui scaturì il primo punto di luce.

 La questione riguardante il nome o i nomi di Dio è assai complessa. In particolare perché solo la decima volta che appare ‘Dio disse’, il nome Elohim è preceduto dal Tetragramma? Una possibile risposta è data dall’osservazione che nelle precedenti nove volte Dio crea singoli aspetti della realtà, mentre la decima volta, dopo il cielo e la terra, Egli crea anche l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza.

  Sull’importanza della creazione dell’uomo in funzione della completezza del nome di Dio, Isacco il Cieco, maestro della prime scuole storiche di Qabbalah ebraica, sorte in Provenza e in Catalogna attorno al 1200, soleva dire che nel giorno in cui Dio creò il cielo e la terra il nome non era completo perché l’uomo non era stato ancora creato e il sigillo non era stato ancora posto.


Ma’asè Mercavah: Opera del Carro. Costituisce tanta parte della mistica ebraica e della Qabbalah estatica o profetica di Avraham Abulafia. Si ispira alle visioni di Ezechiele (Ez.1:1-28) e si collega alla letteratura degli Hekalot  o Palazzi. In una prospettiva esoterico – cabbalistica, questi Palazzi sono altrettanti centri di consapevolezza, paragonabili ai Chakras dell’induismo. Sono centri sottili e tuttavia hanno una corrispondenza nel corpo umano. Se si permette all’energia spirituale di scorrere e di soffermarsi in ciascuno di loro, non solo se ne trarrà motivo di benessere fisico e di purificazione ma sarà anche possibile accedere a visioni di esperienza non ordinaria. La ‘discesa’ nella Mercavah si configura, dunque, come un viaggio nella propria interiorità e tale viaggio sarà tanto più luminoso quanto più saremo stati capaci di alleggerire il carro, liberandolo di  inutile zavorra.
 

Sephiroth è stato spesso tradotto con ‘emanazioni’, facendolo derivare dall’etimologia greca, con ciò stabilendo un collegamento tra Qabbalah e neoplatonismo. Più corretta è la derivazione dall’ebraico [Samekh-Phe-Resh]  Safor che significa contare e che delle Sephiroth fa dunque i numeri primordiali della creazione, ben distinti dai misparim o numeri ordinari. Com’è noto, tali numeri primordiali sono soltanto i primi nove, giacché il 10 non è altro che la riproposizione dell’unità e dunque la prima manifestazione della pluralità. Non a caso la decima Sephirah (Malchuth) rappresenta la terra o il regno nell'unità rappresentativa della molteplicità dei fenomeni. Le Sephiroth sono perciò ‘luci’ o ‘pure forme’ del reale manifesto. Nella tradizione cabbalistica, le Sephiroth si dispongono sui tre pilastri dell’Albero. Ad ogni Sephirah è attribuito un nome. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether corona, 6 Tiphereth bellezza e armonia, 9 Yesod  fondamento o generazione, 10 Malchuth regno o terra. Alla colonna di destra: 2 ‘Hochmah  sapienza, 4 ‘Hesed  grazia 7 Netzach  vittoria. Alla colonna di sinistra: 3 Binah intelligenza,  5 Gheburah  forza e rigore, 8 Hod  splendore. Nella Qabbalah medievale, i sette bracci della Menorah sono associati alle sette Sephiroth inferiori: da ‘Hesed a Malkuth. Nel Sepher Temunah o Libro della figura,il candelabro puro d’un sol pezzo lavorato a martello’ è identificato con Binah, la Sephirah dell’intelligenza, e i sette bracci, con le sette Sephiroth inferiori che da lei provengono. Mentre i 49 tra calici e boccioli che sono tutto un pezzo col candelabro, come è scritto in Esodo, formano “Le 49 porte dell’intelligenza cioè della Sephirah Binah che ne è la Cinquantesima e che neppure a Mosé, come è detto nel Talmud (bRo’sh ha-shanah 21 bbNedarim 38a.) fu dato oltrepassare.


En Soph  ‘Infinito’ è stato spesso confuso con Apeìron ‘Senza limite’ di Anassimandro. In realtà, l’Apeìron del filosofo ionico, dall’alfa privativo greco che indica la negazione, esprime solo il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tutte le cose. L’En Soph dei cabbalisti ebrei, invece, non è privativo di qualità ma di luogo e indica l’impossibilità di cogliere l’origine e il fine e ha solo la funzione di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere ovunque e tutto risolvere in se stesso. Come è scritto, in più di un testo della Qabbalah, in En Soph, infinito, non c’è alcuna apertura, su di lui ogni interrogativo è vano, come su ogni idea che attenga alle possibilità del pensiero. Quando, nelle prime scuole medievali di Qabbalah si nomina En Soph è più che altro per sottolineare l’impossibilità di conoscere l’infinito. Si osservi, infine, che En Soph si scrive in ebraico con le lettere Alef (valore 1), Yud (10), Nun (50), Samek (60), Waw (6), Phe (80) e che, per Ghematria, vale 207 come Raz segreto e Or luce.


Teurgia: La Teurgia ebraica, pur basandosi su principi magico-simpatetici, si distingue dalla Magia vera e propria, pure praticata in ambiente giudaico, perché il suo quadro di riferimento è la religione biblica e il rispetto di un rituale predeterminato, inoltre la Teurgia, a differenza della Magia, non opera a vantaggio personale ma per il bene del cosmo e dell’umanità. Si possono individuare cinque forme di azione teurgica negli scritti dei primi cabbalisti: 1) (azione) instauratrice (esempio: Genesi 28:20-22, Levitico 26:3-13, Esodo 29:42-46 ecc…) 2) restauratrice (Genesi 8:18-22 ecc…) 3) conservatrice (Le offerte dei sacrifici) 4) amplificatrice (“Benedetto il suo nome…”, la formula sembra in grado aumentare la potenza (Gevourah) di Dio. 5) attrattiva (Esodo 25:8, La Lettera sulla santità ecc..).  Un intento teurgico è anche presente nella tradizione rabbinica, infatti, oltre a coloro che ritengono impossibile per l’uomo aumentare la potenza divina, ci sono anche quelli che ammettono che un comportamento umano conforme alla Legge, lo studio della Torah ecc.. siano in grado di accrescere la presenza di Dio nel mondo.


Galgal nel Talmud designa la ruota dello zodiaco. Nel Sepher Bahir (106) è utero o ventre. A differenza di Teli non definisce il tempo ma vi si trova dentro. Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico in connessione con Galgal formano le 231 Porte della conoscenza. Per i cabbalisti, Israele nasconde nel nome, anzi è la totalità delle porte della conoscenza di questo universo. Infatti, distanziando tra loro le lettere ebraiche che formano la parola [yud-shin-resh-alef-lamed] Israel e invertendo di posto la Alef  e la Lamed  si ha  Iesh  relà [ yud-shin, resh-lamed-alef] che significa ‘è 231’ con chiaro riferimento alle 231 Porte della Conoscenza. Le Porte si ricavano applicando una formula basata sul principio seguente: dato un certo numero di punti (n) in una circonferenza, il numero delle linee (L) che si ricavano connettendo tra loro tutti i punti è L=n (n-1) / 2. Applicando tale formula alle 22 lettere si ha: L= 22x21/2=231. La conoscenza delle 231 Porte pare servisse alla costruzione di un Golem, perché ciò potesse avvenire erano necessarie 97.240 pronunce di lettere associate alla cinque vocali primarie e alle quattro lettere del Tetragramma.


Golem: la leggenda del Golem prende spunto dal Salmo 139: 

  “Ti lodo, Signore, mi hai fatto come un prodigio. Lo riconosco: prodigiose sono le tue opere./ Il mio corpo per te non aveva segreti quando tu mi formavi di nascosto e mi ricamavi nel seno della terra./ Non ero ancora nato e già mi vedevi. Nel tuo libro erano scritti i miei giorni, fissati ancor prima di esistere” (139:14-16)

  La leggenda si alimenta di racconti talmudici del III e IV secolo, ma si sviluppa soprattutto nel Medioevo in ambienti chassidici e cabbalistici. Il Golem dei cabbalisti, tuttavia, non è creazione reale, bensì visione estatica provocata dalla sapiente permutazione delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Le 22 lettere dell’alfabeto, infatti, in connessione a Galgal o ruota celeste (che nel Talmud designa la ruota dello zodiaco) formano le 231 Porte della conoscenza.  L’immagine del colosso d’argilla creato dai ‘poteri’ dell’uomo trovò spazio nella fantasia popolare ed ebbe vasto eco soprattutto nella letteratura ebraica e tedesca del XIX secolo. Il romanzo di Gustav Meyrink è del 1915 ed ebbe molta fortuna, conoscendo anche più di una versione cinematografica. Si tratta in realtà di una trama assai complessa e che si svolge quasi interamente nel ghetto di Praga.

  Se al lettore di oggi riuscirà di varcare il muro del sonno e dei sogni, potrà credere anche lui, come il protagonista del romanzo, di rivivere le vicende di Athanasius Pernath, intagliatore di pietre preziose, e di venire a sapere che ‘la Cabala ha due aspetti, uno magico e uno astratto’ e che non bisogna confonderli, perché se l’aspetto magico contiene l’altro, non è vero il contrario (G. Meyrink, Il Golem e altri racconti, trad.it., Roma 1994, p.154). Gli capiterà di apprendere da Shemajah Hillel o genio del bene che ‘gli uomini non percorrono alcun sentiero; né quello della vita né quello della morte’ e che ‘essi sono spinti qua e là dal vento come la pula’ (Ibid., p.89). Gli potrà accadere, innocente, di essere sbattuto in carcere, d’innamorarsi di Miriam, figlia di Shemajah Hillel, di sentir parlare del libro Ibbur [‘Il libro Ibbur apparve dinnanzi a me, con due lettere fiammeggianti: una simboleggiava la Donna archetipo, le cui vene pulsavano a guisa di terremoto, l’altra – a una distanza infinita – l’Ermafrodito assiso sul trono di madreperla, con la corona di legno rosso sul capo.’ (Ibid., p.93)], e magari di essere scambiato per un Golem o di imbattersi lui stesso nel vero Golem [‘E’difficile raccontare qualcosa del Golem (…) Ogni trentatré anni circa succede qualcosa per le nostre strade, qualcosa che non è molto allarmante di per sé, ma che provoca un terrore tanto profondo che non si riesce a darne una spiegazione né una ragione. Ogni volta appare qualcuno –un uomo diverso dagli altri, sbarbato, dalla pelle gialla e i tratti mongolici, vestito con abiti lisi e fuori moda; viene dalla parte della Altschulegasse, attraversa il ghetto camminando in modo strano, come se avesse paura di cadere e, improvvisamente… scompare.’ (Ibid., p.68) ].
 

Teli, Drago o Dragone riveste grande importanza in Qabbalah. Telì è per molti cabbalisti l’occhio immaginario attorno al quale ruotano i cieli, il luogo dove tutto è appeso, dalla radice Talah (appendere). I due punti in cui l’orbita di un pianeta interseca il piano dell’eclittica sono detti Testa (nodo ascendente) e Coda (nodo discendente) del Drago. La caratteristica dei due nodi è di formare un Asse chiamato Axis Mundi. Secondo il grande cabbalista Abulafia ‘la testa del Drago’ significa merito mentre la coda significa responsabilità e in tutte le tradizioni ha un significato ‘malefico’, soprattutto quando, nel cielo di nascita, è congiunta al Sole. Analogamente pensavano gli Esseni (Setta ebraica di ispirazione ascetica, II sec. A. C – I sec. d.C), che risiedevano a Qumran sulla riva occidentale del Mar Morto. La comunità essenica conosceva una rigida organizzazione sociale e si caratterizzava per gli ideali di purezza con cui cercava di vivere la fede ebraica. Nel tracciare gli oroscopi, davano molta importanza ai nodi lunari che insieme ai cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), al Sole e alla Luna formavano le ‘nove parti’. Il pronostico, fatto sul tema di nascita, era favorevole quando la luce prevaleva sulle tenebre, quando cioè le ‘nove parti’ erano in prevalenza nel cosiddetto emisfero di luce, individuato al di sopra dell’orizzonte. Nessuno, naturalmente, è interamente nella luce o interamente nelle tenebre perché, se il nodo lunare nord (testa del Drago) si trova sopra l’orizzonte, il nodo lunare sud (coda del Drago) si troverà necessariamente al di sotto e viceversa. Teli [Taw-lamed-yud] = 440, per Ghematria si converte in  Tam [Taw-mem]completo e Met [Mem-taw] morte, entrambi parole con lo stesso valore numerico di Teli


Avraham Abulafia (Saragozza 1240 – Sicilia 1291?) Cabbalista itinerante: fu in Grecia dove forse subì l’influenza dell’Esicasmo cristiano, in Israele, in Italia, a Capua dove gli fu maestro Rabbi Hillel di Verona, in Catalogna, in Castiglia dove ebbe numerosi e importanti discepoli e, infine, in Sicilia dove, con molta probabilità terminò la sua vita. Famoso il suo tentativo di incontrare il Papa Niccolo III nel 1280 presso il castello Orsini di Soriano, nonostante le minacce papali di rogo. Il Papa che si era rifiutato d’incontrarlo e che lo aveva minacciato di morte, morì all'improvviso.

 Abulafia conobbe l’ostilità tanto dell’ambiente ebraico–cabbalistico quanto di quello cristiano. L’ossessione, per così dire, che egli manifesta per l’Uno e per l’Unità (Ichud) lo porta a polemizzare aspramente col concetto cristiano di Trinità, mentre, sul versante cabbalistico, lo induce al conflitto con la cosiddetta Qabbalah delle Sephiroth, di fronte alla quale, sulla scia di Isacco il Cieco, ripropone con forza la Qabbalah del nome di Dio e delle ventidue lettere dell’alfabeto con cui Dio creò il mondo.

 Abulafia è ritenuto, l’iniziatore di una Qabbalah estatica o profetica. Ma, a parte la considerazione che molti dei temi da lui trattati erano stati già affrontati da Isacco il Cieco e dalla sua scuola, la stessa pratica della concentrazione e della meditazione non era mai venuta meno nella tradizione ebraica. Già la preghiera era sempre stata uno strumento di meditazione (soprattutto L’Amidà e lo Shemà Israel), come pure l'uso di prendere un versetto della Bibbia come oggetto di meditazione (gherushin), la concentrazione per la conoscenza del sé o hitbonenuth (già utilizzata da Maimonide) che può prendere a riferimento una pietra, una foglia, un fiore, un'idea ecc...ma che ha lo scopo la comprensione di se stessi alla luce degli altri oggetti della creazione. Noto era anche l’uso del mantra (Ribbonò shel Olàm, ‘Padrone dell'Universo’, il più importante) per il mantenimento della concentrazione.

 L’originalità di Abulafia, tuttavia, consiste nell’aver saputo distinguere tra contemplazione semplice e concentrazione capace di condurre sino alla visualizzazione. L’esperienza mistica della visione dei colori ( per esempio, i cinque colori che si sprigionano dal lume di una candela o da una lampada ad olio: biancogiallorosso neroazzurro) è da lui considerata la più semplice tra quelle consentite dalla Qabbalah, ma è di grande importanza perché rappresenta lo stadio iniziale di ogni ulteriore e più complessa visualizzazione. Il valore numerico di Machazeh visione è 60, con lo stesso valore: Kli  recipiente (uno dei 72 nomi di Dio), Ganaz nascondere, Hineh  ecco! Halakhah  regola di vita, Gaon  sapiente. In Abulafia è anche frequente la Ghematria ha Machazeh (65) la visione con Adonai (65), terzo tra i nomi di Dio, dopo il Tetragramma ed Elohim.

 La meditazione vera e propria è tuttavia, per Abulafia, quella che si esercita attraverso la contemplazione delle lettere dell’alfabeto, a cominciare dalle tre lettere madri: Alef  Mem  Shin e dal nome di Dio di quattro lettere (Tetragramma), anche ricorrendo alla tecnica della permutazione o temurah. La meditazione sul Tetagramma può cominciare dalla consapevolezza di uno dei suoi significati: la prima lettera, la Yud è la moneta  o la vita, la seconda, la He  è la mano divina che dona la vita, la terza lettera o Waw è il braccio che si tende per donare, la quarta lettera, infine, o seconda He e la mano di chi riceve.

 Un’altra meditazione raccomandata da Abulafia è quella su Ayn, nulla, alla quale si può accedere fingendo di contemplare ciò che si vede dietro la nostra testa, oppure mettendo in relazione Ayn, nulla con Anì, io.

Maimonide: Mosè Maimonide, medico cordovese (1135-1204). Si dedicò soprattutto all’interpretazione della legge ebraica (Halakhah). Anche se non può certo essere definito un cabbalista, egli esercitò una notevole influenza su Abulafia. L’opera sua più nota è ‘LaGuida dei perplessi terminata di scrivere in arabo nel 1190 e tradotta in ebraico nel 1204. Egli interpreta i principali concetti biblici servendosi del metodo aristotelico, anche se non concorda né con Aristotele né con la maggior parte dei cabbalisti circa l’esistenza ab aeterno del mondo. Influenzato da Averroè arabo cordovese(1126-1198), egli sostiene il primato della ragione sulla fede. Nella maggior parte dei casi – dice Maimonide - non c’è contraddizione tra fede e ragione, in altri casi anche se la ragione non è in grado di provare alcune verità di fede, può almeno provare l’infondatezza delle tesi opposte.

 Io credo – dice Maimonide – (Guida, I, 71) che il vero metodo che elimina il dubbio consiste nello stabilire l’esistenza di Dio, la sua unità e la sua incorporeità coi procedimenti dei filosofi, procedimenti fondati sull’eternità del mondo. Ciò non perché io creda all’eternità del mondo o faccia a questo proposito qualche concessione; ma perché soltanto con questo metodo la dimostrazione diventa sicura e si ottiene certezza su tre punti: 1) che Dio esiste 2) che è uno 3) che è incorporeo, senza che importi decidere nulla rispetto al mondo cioè se esso sia eterno o creato…

  Più avanti tuttavia(Guida II, 19), egli nega la necessità dell’Essere (Aristotele) e dunque l’eternità del mondo, dicendo che il mondo avrebbe potuto essere diverso da quello che è, e se, dunque, è quello che è, ciò è dovuto ad una libera scelta di Dio, una scelta creatrice:

 “Se al di sotto della sfera celeste vi è tanta disparità di cose, nonostante la materia sia una, tu puoi dire che tale disparità è dovuta all’influenza delle sfere celesti e alle posizioni differenti che la materia assume di fronte ad esse, come ha insegnato Aristotele. Ma la diversità che esiste tra le sfere stesse, chi ha potuto determinarla, se non Dio?(…) Dio ha determinato la direzione e la rapidità del movimento di ciascuna sfera, ma noi ignoriamo il modo in cui, nella sua saggezza egli ha effettuato la cosa”.

  Quasi non ci fu tema con il quale Maimonide non ebbe a polemizzare con i cabbalisti. Nota, per esempio, era la sua avversione all’astrologia, mentre nella tradizione cabbalistica l’astrologia è addirittura considerata uno strumento di conoscenza soprattutto in riferimento alla ruota dello zodiaco o Galgal e all’asse del mondo o Teli. Sull’astrologia [Vedi il post MAZAL TOV. L’ASTROLOGIA NELLA TRADIZIONE EBRAICO-CABBALISTICA], egli scrisse due Epistole. La prima, diretta alla comunità yemenita, mira a sconfiggere l’idea, allora assai diffusa in quella comunità, di un’influenza delle grandi congiunzioni planetarie negli accadimenti storici. Egli così scrive agli yemeniti:

 “Noto che siete inclini a credere nell’Astrologia e all’influenza delle congiunzioni planetarie, passate e future, sugli eventi umani. Dovete scacciare tali idee dalla vostra testa (…) I veri saggi, che siano o no religiosi, rifiutano di credere nella verità di questa scienza. I suoi postulati possono essere respinti con vere prove e su base razionale…”


 Nell’Epistola ai rabbini di Provenza del 1194, Maimonide polemizza con l’astrologia oraria la cui pratica era diffusa nelle comunità ebraiche del Mediterraneo e rispolvera l’idea che, in fondo, l’astrologia altro non sia che astrolatria.


Ghematria: E' una metatesi della parola greca grammatèia e si fonda sul valore numerico attribuito ad ogni lettera dell’alfabeto. Il valore numerico dato dai cabbalisti a una singola parola o a un’intera preposizione comporta perciò la possibilità di stabilire analogie (sodot o ‘segreti numerologici’) cariche di significato tra parole o intere frasi dello stesso valore numerico.

 I sodot avevano, in origine, due scopi: garantire che i nomi venissero scritti esattamente come i compositori di ghematriot  li ricevevano dalle fonti orali e scritte e, inoltre, attribuire ‘intenzioni’ (kavvanot) a questi nomi, come incentivo a una meditazione più profonda. Così, per esempio, Raz [Resh-zain] segreto ha lo stesso valore numerico (207) di Or [Alef- waw- resh ] luce. Infatti Raz è formata delle lettere resh (valore: 200) e zain (7), mentre Or dalle lettere alef (1), waw (6) e resh (200). Ancora: in Abulafia è frequente la ghematria ha Machazeh (65) ‘la visione’ con Adonai (65), terzo tra i nomi di Dio, dopo il Tetragramma ed Elohim.


Notariqon: Deriva dalla parola latina notarius, stenografo. E, in effetti, si tratta di una sorta di sistema stenografico che, a partire dalle lettere che compongono una o più parole, individua la possibilità di creare altre parole con significati nuovi e del tutto differenti ma capaci al tempo stesso di conservare nascostamente le primitive kavvanot (intenzioni).  Così, per esempio, Le iniziali di Teli, [Taw], Asse del mondo Galgal, [Ghimel] e Lev, [Lamed] cuore  formano per notariqon la parola Taghel  [Taw-Ghimel-Lamed], presente nel versetto di Isaia (61:10): ‘La mia anima si delizierà in Dio’. La meditazione su questi tre elementi può condurre all’estasi mistica. Anche se le forme che il notariqon può assumere sono diverse, unico è il principio che lo anima e cioè quello di creare parole da altre parole senza che si perda alcuno dei significati presenti nelle parole creatrici.


Themurah significa permutazione. Seguendo certe regole, una lettera è sostituita da un altra che la precede o la segue nell'alfabeto, e così una parola può essere sostituita da un'altra parola di ortografia interamente diversa. Molti comunque sono i metodi di permutazione, dal più semplice o Thashraq che consiste nello scrivere una parola alla rovescia, a metodi via via più complessi. Quello usato maggiormente è l’Atbas: l'alfabeto è piegato nel mezzo e una metà è sovrapposta all'altra, allora è possibile lo scambio tra la prima e l’ultima lettera, tra la seconda e la penultima, tra la terza e la terz’ultima e così via. Oltre a ciò, vi sono significati nascosti nella forma delle lettere dell'alfabeto ebraico ed è possibile scomporre ciascuna consonante per scoprire altre lettere alle quali rinvia e ancora: la forma di una lettera in fine di parola può talora differire dalla forma che solitamente assume quando è lettera finale o, al contrario, la forma di una lettera scritta nel corpo di una parola, si presenta con la forma propria di una lettera finale, oppure una  lettera scritta in una dimensione più piccola o più grande di quelle del restante manoscritto.

Isacco il Cieco (1160-1235) indagò sul nome di Dio, sulla luce e sulle tenebre (luce e tenebre scaturiscono dall’Oscurità primordiale), sulle Sephiroth e sui Trentadue Sentieri dell’Albero, sulla catena degli esseri, sulla simpatia universale. Assai prima della Qabbalah luriana, sembra abbia parlato di trasmigrazione delle anime, limitandola a tre ritorni, come si annuncia in Giobbe 33:29: ‘Tutto ciò Dio la fa tre volte in un uomo: ricondurre l’anima dalla sua putrefazione, affinché essa brilli nella luce della vita’.

 Isacco anticipò inoltre il tema dei cicli cosmici o shemittoth con riferimento anche alla trasmigrazione animale. Si occupò ancora dei segreti (sodot) della Torah e del problema del male, collegandolo alla frattura del Nome di Dio che ritorna incompleto com’era prima della creazione dell’uomo, a seguito dell’episodio annunciato nel versetto 17:7 dell’Esodo: Vedremo se il Signore è con noi o no’. Dopo l’uscita dall’Egitto venne Amalek, capo degli Amaleciti, beduini del sud di Canaan: ‘la mano di Amalek si levò sopra il trono di Y(a)h’ e Isacco descrive la lotta di Mosé contro l’Arcangelo di Amalek: ‘Mosé dovette ricorrere all’elevazione delle mani per lottare contro l’Arcangelo e respingere le sue mani dalla sephirah Ghevourah’.

  Aron e Chur sostengono le mani di Mosé e Israele può vincere, ma il male si è generato, la distruzione del Tempio e l’esilio lo accresceranno. Il Nome che non potrà più essere pronunciato nel Tempio troverà posto nel cuore dei cabbalisti. Conseguenza dell’esilio e della distruzione del Tempio è il ritrarsi dei Sephiroth superiori in alto.  Sotto la sua spinta, nel 1230, sorge il gruppo cabbalistico di Girona: la Chaburah qedoshah o Associazione Sacra, vero e proprio punto di riferimento per la diffusione dell’ebraismo e della Qabbalah in tutto il Mediterraneo.

 A Isacco viene attribuita l’espressione che la Qabbalah ebraica differisce dalle religioni perché consiste in una filosofia esoterica basata unicamente sullo studio e sulla conoscenza. D’altra parte, per raggiungere Da’at (la cosiddetta undicesima Sephirah occulta dell’Albero, non è sufficiente far agire il solo intelletto (Binah, la terza Sephirah) ma occorre anche impegnare il cuore (riferimento alla Sephirah centrale dell’Albero: Tiphereth, bellezza, armonia, equilibrio).

Sepher Bahir: Tra i testi che circolano maggiormente nei circoli kabbalistici provenzali c’è il Sepher Bahir o ‘Libro Fulgido’.  L’opera apparve in Provenza tra il 1150 e il 1200 proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Tra le fonti, oltre a testi più antichi, le opere dei Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo, il misticismo della Ma’asè Merkavah  e in particolare il libro, andato perduto, ma ripetutamente citato, soprattutto da autori caraiti, il Razà Rabbà o Grande Mistero, composto tra il V secolo e il secolo VIII e che rappresenta una fase più tardiva di quella dei testi più importanti della Merkavà. Il contenuto magico e angelologico di questo libro è attestato da tutti e sarebbe parte di quella Gnosi ebraica che – a giudizio dello Scholem - deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Vedremo poi, analizzando il Sepher Bahir, come il giudizio dello Scholem possa essere addirittura rovesciato e portare alla conclusione, sostenuta da più di uno studioso, di una derivazione dello Gnosticismo dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette ebree’(Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.

 

 Si riportano, di seguito, alcuni passi del Bahir (la traduzione italiana è tratta in gran parte da Mistica Ebraica, Einaudi, Torino, 1995) scelti e accorpati secondo una sorta di glossario che comprende le voci seguenti: Luce - Tohu e Bohu (caos e informità) – Male e BeneAcqua e fuocoAlbero e Giardino. I paragrafi da cui i passi sono tratti vengono indicati in parentesi.


Luce: Gli uomini non sopportano la vista della luce troppo fulgida (bahir), il buio è per te come la luce(1) Solo della luce c’è sostanza, non così della tenebra che, pure, è creata da Dio(13) La luce precedette il mondo(16) Nessuna creatura può guardare la prima luce(147). Qual è il nascondiglio della potenza di Dio? E’ la luce che ha celato e nascosto e che tiene in serbo per i giusti del ‘olam ha-ba o mondo a venire, quella che rimane è per coloro che confidano in Dio, osservano la Torah, compiono i suoi precetti, santificano il suo Nome e ne proclamano l’unità in segreto e in pubblico(148) La Torah è una luce(149) Fu così creata una grande luce, che nessuna creatura avrebbe potuto sopportare. Il Santo, sia Egli benedetto, vide che nessuno poteva tollerarla: ne prese allora la settima parte, e la sostituì, per essi all’intero. Il resto lo ripose per i giusti a venire(160)E’ scritto: E Dio disse: Sia la luce, e la luce fu. In verità, questo ci insegna che la luce era assai grande, né alcuna creatura poteva fissarla (190).

Tohu-Bohu (Caos e informità): La terra era caos e informità. Significa che era già caos. Era Tohu e tornò ad essere Bohu(2) I concetti di materia e forma si collegano a quelli di luce e tenebra. La riconoscibilità del bene attraverso il male, come la luce attraverso la tenebra. La terra era caos perché prodotta dalla condensazione della luce originaria che si era ridotta per poter essere vista, nella parte mancante della luce originaria subentra la tenebra, la luce condensata o materia caotica. Dio ha fatto una cosa contrapposta all’altra(Eccl.7.14) Creò l’informità(bohu) e la collocò nella pace. Creò il caos(tohu) e lo collocò nel male, creò l’informità e la collocò nella pace, nel bene(11) Da dove si deduce che il caos è nel male? Dal versetto: Colui che opera il bene e crea il male-(Is.45.7). La forma o informità viene dunque creata per limitare o circoscrivere il male. E’ la luce rimasta dopo la riduzione della luce originaria e che serve a rimettere ordine nel caos della materia(12) E’ il tohu dal quale proviene il male che stupisce gli uomini(135) ‘…compi il tuo lavoro nella tua dimora…In tal modo, non potranno vederti né nuocerti, giacché essi… si tengono lontani da ogni condotta buona e scelgono il cattivo comportamento. Quando vedono che un uomo s’avvia lungo una strada onesta, e la percorre, lo prendono in odio. Che cos’è? E’ Satana. Questo ci insegna che il Santo, sia Egli benedetto, ha un attributo il cui nome è male(162) E tohu significa male che frastorna il mondo affinché pecchi. Ogni cattiva inclinazione dell’uomo proviene di là…Perché l’istinto del cuore umano è inclinato al male fin dalla sua adolescenza(Gen.8.21) e il compito dell’uomo è nel vincere le cattive inclinazioni, nel mettere ordine nel caos dei desideri, nel dare forma alla sua vita nella materia(167)

Male e Bene: Che significa il versetto: E avvenne che, quando Mosè teneva la sua mano alzata, Israele era più forte, ma quando egli faceva riposare la sua mano, Amalec era più forte(Es.17.11)? Ci insegna che il mondo esiste grazie all’elevazione delle mani. Per quella forza che è stata data a Giacobbe nostro padre, il cui nome è Israele. Ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe furono date forze, una a ciascuno di essi, in base all’attributo secondo il quale ognuno regolava la propria condotta. Abramo era caritatevole verso il mondo… (135) Quando Mosé chiese di conoscere il Nome glorioso e terribile, sia benedetto… domandò perché a un giusto tocchi in sorte il bene e a un altro il male, e parimenti, a un malvagio tocchi in sorte il bene e a un altro il male. Ma non gli fu dato di saperlo(194) Perché a un giusto tocca in sorte il bene e a un altro il male? Giacché quel giusto, a cui tocca il male, era stato in precedenza un malvagio, e ora incorre nella punizione. E’ possibile che lo si punisca per quanto compiuto durante la giovinezza?… Gli rispose: Non parlo di questa vita, ma di quanto è già accaduto nel passato… A che cosa si può paragonare? A un uomo che piantò una vigna nel proprio giardino, con la speranza di produrre buona uva, ma non ne ottenne che di scadente. Quando vide che non aveva avuto successo, la piantò, la recintò, la rafforzò, ripulì i grappoli buoni dai cattivi, e poi la ripiantò una seconda volta, ma vide che non era riuscito; la piantò ancora e la recintò, dopo averla ripulita; ancora non riuscì: sradicò e piantò nuovamente. Per quante volte? Per mille generazioni(195) Se non vi fossero le vostre colpe non vi sarebbe differenza tra voi e lui... L'uomo avrebbe un’anima superiore se non fosse per le colpe. L’hai fatto poco meno di un Dio(Sal.8.6) Cosa significa poco meno? Che egli ha colpe, ma il Santo, sia Egli benedetto, non ne ha, che Egli sia benedetto e benedetto il suo Nome in eterno. Egli non ha colpe e tuttavia la cattiva inclinazione proviene da lui! (196)

Acqua e Fuoco: ‘…Il Signore, benedetto Egli sia…A che cosa si può paragonare? A un re che desiderava costruire il proprio palazzo su rocce dure: tagliò i massi e fendette le pietre finché sgorgò davanti a lui una grande sorgente di acque vive. Egli disse allora: poiché dispongo di acqua sorgiva, pianterò un giardino, per trarne diletto insieme al mondo intero(5) Che cosa significa la benedizione? E’ simile a un re che piantò alberi nel proprio giardino: benché cadesse la pioggia e venisse assorbita, e il terreno ne fosse sempre umido e impregnato, nondimeno egli dovette attingere a una fonte… (6) Il vero significato di Hiriq è Harak, il bruciare, poiché è un fuoco che brucia tutti i fuochi, com’è scritto: Allora cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la polvere e prosciugò l’acqua che era nel canale(I Re 18.38) (44) La voce del Signore intaglia lingue di fuoco(Sal.29.7): quando mette pace tra l’acqua e il fuoco, sprizza la forza del fuoco e le impedisce di annientare l’acqua, mentre impedisce a questa di spegnere il fuoco(45) Non vi furono forse le acque, e da esse uscì il fuoco? Gli risposero: è quanto tutti dicono. Se è così, le acque racchiudono il fuoco(188)

 (Si confronti 45 e 188 con la massima ermetica: ‘Qui scit comburere aqua et lavare igne facit de terra caelum et de caelo terram pretiosam’: ‘Chi sa bruciare con l’acqua e lavare col fuoco fa della terra il cielo e del cielo la terra preziosa’).

Dal cielo ti fece ascoltare la sua voce per ammonirti e sulla terra ti mostrò il suo grande fuoco, e tu ascoltasti le sue parole di mezzo al fuoco(Deut.4. 36). Che cos’è questo grande fuoco…? (46) Ci hai insegnato, o nostro maestro, che Egli prese le acque e le divise: ne pose metà nel firmamento e metà nel mare oceano; questo è il significato di quanto è scritto: il ruscello di Dio è pieno d’acqua. Per mezzo di questa l’uomo apprende la Torah… com’è scritto: Orsù, voi tutti assetati, venite all’acqua! Anche chi non ha argento…(51) Che cosa significa shamayim, ‘cielo’? Ci insegna che il Santo, sia Egli benedetto, impastò fuoco ed acqua, e li stese l’uno nell’altro, e con essi fece il principio della propria parola, com’è scritto: Il principio della tua parola è verità (Sal.119.160). Ecco infatti che è scritto shamayim, ovvero sham-mayim: ‘là è acqua’; esh e mayim, ‘fuoco e acqua’(59) E cosa significa Mem? Non leggere Mem ma mayim, acqua. Come l’acqua è umida così il ventre è sempre umido. E perché la mem aperta è composta dal maschio e dalla femmina, mentre quella chiusa consta solo del maschio? Per insegnarti che il fondamento della mem è il maschio, mentre la sua apertura è stata aggiunta a significare la femmina. Come il maschio non può generare senza l’apertura, così la mem chiusa non può generare se non con la mem aperta. Come la femmina genera attraverso la propria apertura, così avviene per la mem aperta e chiusa (85)

 Seconda lettera madre dell’alfabeto ebraico, la Mem è scritta nel suo ‘riempimento’ con la consonante che si ripete due volte: una Mem aperta iniziale e una Mem chiusa finale. Rabbi Aqiva (Alfabeto di Rabbi Aqiva) dice che Dio, quando siede sul Trono di Gloria, si pone ai lati le due lettere e le riconcilia esclamando che il suo Regno è chiamato per mezzo loro, allora l’intero firmamento si inginocchia al cospetto del Signore. Mayim [Mem-yud-mem] significa acqua e si scrive con le due lettere separate da una Yod, simbolo dello Spirito divino che le prende per mano e le riconcilia. Acqua di sorgente che scorre o fontana sigillata, la Mem aperta allude alla manifestazione di Dio mentre quella chiusa rimanda al mistero che è in Lui..

 Che cos’è la quinta? la quinta è il grande fuoco del Santo, sia Egli benedetto… E’ la sinistra del Santo… (145)

 Ci si riferisce qui alla quinta Sephirah dell’Albero, Gevourah (rigore). E’ detto infatti che Dio governa il mondo con Benevolenza (Chesed, la quarta Sephirah) e con Rigore

Albero e giardino: già citati (5) e (6). Io sono colui che ha piantato questo albero, affinché tutto il mondo ne tragga diletto; ho fissato tutto in esso, e l’ho chiamato tutto, giacché da esso tutto dipende e da esso tutto deriva. Tutti ne hanno bisogno, lo scrutano e lo attendono: da esso si propagano le anime superiori in letizia (22)
Da quanto affermi apprendiamo che il Santo, sia Egli benedetto, creò quanto era necessario a questo mondo prima di creare il cielo? Sì, gli rispose. A che cosa si può paragonare? A un re, che voleva piantare un albero nel proprio giardino. Ispezionò tutto il giardino per sapere se vi fosse una fonte d’acqua sorgiva, che potesse sostentarlo. Non la trovò, e disse: Scaverò fino a trovare l’acqua e farò scaturire una fonte, affinché l’albero possa sopravvivere. Scavò e fece scaturire una fonte abbondante d’acqua viva: piantò quindi l’albero, che attecchì e fece frutto, giacché le sue radici lo ristorarono sempre con l’acqua della fonte (23). Come in shoresh , radice, la Shin è simile alla radice dell’albero, e la Resh indica che ogni albero è ritorto. Qual è la funzione della seconda Shin ? Ti insegna che se prendi un ramo e lo pianti mette radice a sua volta (81). E perché sono in numero di 32? A che cosa si può paragonare? A un re che aveva un bel giardino, con 32 sentieri. Mise un guardiano a custodire quei sentieri, e a lui solo li svelò. Gli disse: Custodiscili, e percorrili ogni giorno: ogni volta che li percorrerai, la pace sarà con te. Cosa fece quel guardiano? Mise altri guardiani a custodirli, giacché si disse: Se sarò solo in quei sentieri, mi sarà forse possibile, unico custode, mantenerli tutti? Inoltre la gente dirà: quel re è un avaro! Per tale motivo questo custode pose altri custodi a guardia di ogni sentiero: questi sono i 32 sentieri (92). Il guardiano disse: Che questi custodi non dicano che il giardino è mio!…Al re appartiene il giardino. Egli ha stabilito questi sentieri… A che si può paragonare? A un re e alla sua figliola che avevano alcuni servitori: questi volevano recarsi lontano, ma temevano l’ira del re. Il re diede loro il proprio segno: ebbero allora timore della figliola, finché anch’essa diede loro il proprio segno. Questi si dissero: adesso con questi 2 segni, il Signore ti guarderà da ogni male, guarderà la tua anima (Sal.121.7) (93) 36 in tutto…Tutti e 36 si trovano nel primo, il drago. Il Santo, sia Egli benedetto, possiede un albero che racchiude le frontiere delle 12 diagonali… che s’ampliano e procedono all’infinito: sono le braccia del mondo (Deuter.33.27)e al loro interno vi è l’albero. A tutti questi raggi corrispondono i preposti, in numero di 12. Anche all’interno della ruota celeste vi sono 12 preposti: sono in tutto 36 preposti…Sono dunque 12, 12 e 12, i preposti nel drago (Teli), nella ruota celeste (Galgal) e nel cuore (Lev) (95).

 

Nel Corpus Hermeticum i 36 preposti sono definiti ‘vigili custodi, ispettori dell’Universo’ e sono i 36 decani equatoriali degli Egizi o decani zodiacali dei Greci secondo la seguente attribuzione: Ariete (1°Marte 2°Sole 3°Venere) Toro (1°Mercurio 2°Luna 3°Saturno) Gemelli(1°Giove 2°Marte 3°Sole) Cancro (1°Venere-2°Mercurio-3°Luna) Leone (1°Saturno-2°Giove-3°Marte)  Vergine (1°Sole-2°Venere-3°Mercurio) Bilancia (1°Luna-2°Saturno-3°Giove) Scorpione (1°Marte-2°Sole-3°Venere) Sagittario (1°Mercurio-2°Luna-3°Saturno) Capricorno (1°Giove-2°Marte-3°Sole) Acquario (1°Venere-2°Mercurio-3°Luna) Pesci (1°Saturno-2°Giove-3°Marte).


‘…E la Shin che cos’è? Disse loro: è la radice dell’Albero perché la sua stessa forma è simile alla radice dell’albero’(118) Ma che cos’è l’albero di cui parli? Gli rispose: Le forze (Sephiroth) del Santo, sia Egli benedetto, sono poste una dentro l’altra e assomigliano a un Albero. Come l’albero dà frutti grazie all’acqua, così il Santo, sia Egli benedetto, accresce le forze dell’albero per mezzo dell’acqua. E che cos’è l’acqua del Santo…? E’ la Sapienza (Hockmah)…’(119) ‘…Erano tutte palme. Si disse: poiché sono tutte del medesimo tipo, non potranno sopravvivere. Che cosa fece? Piantò tra di esse un cedro… Che significa cedro? E’ la femmina…(è l’albero dello splendore) Che cosa significa frutto dell’albero dello splendore? Frutto dell’albero, cedri e rami di palma.’(172) Che significa splendore? E’ lo splendore di cui si parla nel Cantico dei cantici: chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, splendente come il sole, temibile come un esercito schierato?(Cant. 6.10.). Ecco, questo è detto per la femmina, e per essa è stata tratta la femmina da Adamo, giacché il mondo inferiore non può esistere senza la femmina…(173) A che corrisponde il ramo (lulav)? Al midollo spinale… Bisogna che la sua frasca lo copra per la maggior parte: se non lo copre è inservibile. A che cosa si può paragonare? A un uomo che si protegge la testa con le proprie braccia. Le sue braccia sono due e con la testa fa tre. Vi sono dunque: la frasca a sinistra, le fronde a destra e la pianta al centro. Perché è chiamata pianta? Perché è la radice dell’albero.(176) per quale motivo si chiama Tamar ‘palma’ e non con un altro nome? Perché è femmina. Pensi davvero che sia femmina? Piuttosto, comprende il maschio e la femmina, giacché tutte le palme comprendono sia il maschio che la femmina. In che modo? Il ramo di palma, il lulav, è maschile, mentre il frutto è maschile all’esterno e femminile all’interno. In che modo? Mediante il nocciolo della palma, che reca una fenditura, come la donna: a esso corrisponde in cielo la forza della luna…’(198)Sama’el…trovò il serpente in sembianza di cammello e lo montò. Se ne andò dalla donna e le disse: Davvero Dio vi ha detto: Non mangiate di alcun albero del giardino? (Gen.3.1) Ella rispose: ci ha vietato solo di mangiare il frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino… e aggiunse: anzi neppure toccatelo, altrimenti morrete. Sama’el andò a toccare l’albero. Egli… disse: ‘ho toccato l’albero e non sono morto. Toccalo anche tu e non morrai. La donna andò a toccare l’albero ma vide l’angelo della morte che le veniva incontro. Si disse: Ohimè, adesso morirò e il Santo farà un’altra donna e la darà ad Adamo. Farò invece in modo che ne mangi con me: se moriremo, moriremo entrambi… Prese i frutti dell’albero e ne mangiò e li diede anche al suo sposo. Gli occhi di questi si aprirono e i suoi denti rimasero allegati.(200)

 Trentadue Sentieri: i 32 Sentieri che convergono verso la Sephirah centrale e cuore dell’Albero (Lev =Lamed 30+Beth 2 = 32) sono nell’ordine, discendendo: le dieci Sephiroth: 1°Kether-Corona, 2°Hockmah-Sapienza o Origine dell’esistenza, 3°Binah-Intelligenza o Ritorno, 4°Hesed-Grazia o Misericordia, 5°Ghebourah-Giudizio o Rigore, 6°Thiphereth-Armonia o Bellezza o Equilibrio, 7°Netzach-Eternità o Vittoria, 8°Hod-Splendore o Maestà o Potenza, 9°Yesod-Fondamento o Alleanza, 10°Malkouth-Regno o Pelle, poi 11°Kether-Hockmah, 12°Kether-Binah, 13°Kether-Thiphereth, 14°Hockmah-Binah, 15°Hockmah-Thiphereth, 16°Hockmah-Hesed, 17°Binah-Tiphereth, 18°Binah-Ghebourah, 19°Ghebourah-Hesed, 20°Hesed-Thiphereth, 21°Hesed-Netzach, 22°Ghebourah-Tiphereth, 23°Ghebourah-Hod, 24°Thiphereth-Netzach, 25°Thiphereth-Yesod, 26°Thiphereth-Hod, 27°Netzach-Hod, 28°Netzach-Yesod, 29°Netzach-Malkuth, 30°Hod-Yesod, 31°Hod-Malkuth, 32°Yesod-Malkuth.

  Menorah o candelabro a sette bracci: ‘Mi farai –dice il Signore a Mosé (Esodo, 25:31-40)- un candelabro d’oro puro fatto tutto d’un pezzo: il piedistallo e il fusto, i suoi calici, i suoi bocciòli e i suoi fiori formeranno un solo corpo con esso. Sei rami usciranno dai suoi lati, tre rami del candelabro da una parte e altri tre dall’altra…’


 La Menorah è citata in numerosi passi biblici:  in Esodo 37:17-24 per dire che Betzalel, l’artista designato da Dio in persona, ha costruito il candelabro esattamente come l’aveva progettato il Signore. Sempre in Esodo, 30:27 per raccomandare che il candelabro, insieme ad altri oggetti del Tabernacolo, sia unto con olio sacro. Ancora in Esodo il candelabro è citato tre volte: quando il lavoro è ultimato e portato a Mosé (39:37), allorché il Signore ne ordina a Mosé la collocazione nell’Abitazione o ‘Tenda dell’incontro’ a lui consacrata(40:4) e Mosé esegue (40:24). In Levitico (24:3) per precisare a chi è concesso accenderlo. In Numeri è citato due volte: (3:31) per ribadire che l’accensione del candelabro è riservata ai leviti e (8:24) per la raccomandazione del Signore a Mosé che le sette lampade illuminino la parte anteriore del candelabro. Nel Libro di Daniele, il candelabro è citato (5:5) per ricordare il banchetto del re Baldassar, figlio di Nabucodonosor, durante il quale, apparve una mano di fronte al candelabro e scrisse parole che solo Daniele riuscì a interpretare. Nel I Libro dei Re (7:49) e nel II Libro delle Cronache (4:7) per predisporre 10 candelabri all’interno del Tempio: 5 a destra e 5 a sinistra del santuario. Ancora nel II Libro delle Cronache (13:11) si ricorda che l’accensione delle lampade è un obbligo verso il Signore. Nel I Libro dei Maccabei (4:49-50) il candelabro è utilizzato per la riconsacrazione del Tempio, mentre in Siracide (26:17) ha la funzione di metafora poetica: la lampada che brilla sul candelabro è paragonata a un bel volto di donna sopra un corpo grazioso. Infine, in Zaccaria (4:1-12), il candelabro fa parte della quinta visione del profeta:

  “L’angelo incaricato di parlarmi venne a scuotermi come si fa con uno che dorme.
Mi domandò: ‘che cosa vedi?’ Io risposi: ‘vedo un candelabro d’oro, con in cima un recipiente per l’olio. Il candelabro a sette lucerne e sette beccucci per dare olio a ogni lucerna.
Vicino al recipiente ci sono due ulivi, uno a destra e l’altro a sinistra.’
E domandai all’angelo: ‘Che significa tutto questo,  mio signore?’
Allora l’angelo mi spiegò: ‘Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che osservano tutta la terra…”

  Si può osservare che   Betzalel, [Bet-tzadè-lamed-alef-lamed], il nome dell’artista prescelto dal Signore per la costruzione della Menorah e di parte del Tabernacolo, ha valore numerico 153 (leggendo le lettere da destra a sinistra: 2+90+30+1+30 = 153), ossia il triangolo di 17.

  “Il 17 - osserva Nadav Eliahu -  è un numero importantissimo in Cabalà poiché è il numero indicante il bene (Tov). Non a caso è la Ghematria di due dei 72 Nomi di Dio, il 1° e il 49°. Anche questi numeri non sono casuali, in quanto si riferiscono alle Cinquanta Porte dell’Intelligenza, le più importanti delle quali sono la prima dall’alto e la quarantanovesima dal basso. Ed ecco che 17 è anche il valore di EGOZ (noce), un frutto esoterico, studiando il quale il re Salomone ricavò importanti considerazioni sulla struttura degli universi paralleli (vedi il Cantico dei Cantici, al versetto ‘Sono sceso al giardino delle noci’)” .

  Il 17, inoltre, è anche il valore di Hagadah e osserva ancora Nadav Eliahu , (Misparei Ha-Sod. I numeri del segreto, Milano, 1990, pp. 29-30): “Il nome HAGADAH (leggenda) si riferisce a tutta quella parte della tradizione orale dell’Ebraismo che contiene racconti e descrizioni basate soprattutto sul funzionamento tipico dell’emisfero cerebrale destro. Il valore 17 allude all’intrinseca bontà di questa parte, a volte ingiustamente trascurata o minimizzata dagli ebrei razionalisti.”

Lettere dell’alfabeto: Tre delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico [si ricordi che ogni lettera ha valore numerico]: Alef [1]Mem [40]  [ in fine parola con diversa grafia come le lettere kaf-nun-phe e tzadè] Shin [300]sono dette madri e rappresentano gli elementi della tradizione empedoclea: aria - acqua - fuoco (la terra o quarto elemento è considerata una condensazione dell’acqua), altre sette di queste lettere sono dette doppie e rappresentano i sette pianeti (considerando i due luminari e i cinque pianeti della tradizione): Bet  (2)– Dalet (4) – Ghimel (3) – Kaf (20)– Phe  (80) – Resh  (200) – Taw  (400) mentre le restanti dodici lettere, dette semplici,  rappresentano i 12 segni zodiacali: He  (5) – Waw  (6) – Zain (7) – Chet (8)– Teth (9)– Yud  (10) – Lamed (30)– Nun  (50) – Samech  (60) – Ayin  (70)– Tzadè  (80) – Qoph (100)



sergio magaldi