venerdì 28 giugno 2013

NEL BRASILE IN RIVOLTA, INUTILE "RESISTENZA" DELL'ITALIA DEL CALCIO...



 Nella semifinale della Confederations Cup, disputata ieri notte a Fortaleza [Brasile], antipasto dei campionati del mondo dell’anno prossimo, l’Italia calcistica costringe i campioni d’Europa e del Mondo della Spagna alla parità, dopo circa 150 minuti di gioco tra tempi regolamentari, supplementari e 6 calci di rigore messi a segno da entrambe le squadre. Poi il rigore calciato da Bonucci alle stelle e la nazionale iberica è finalista contro il Brasile. 

 Una Terra che per la prima volta nella sua storia contesta persino il calcio in casa sua o almeno così i media tentano di far credere, raccontando che i motivi delle sommosse sarebbero causati dalle ingenti spese sostenute dal governo per allestire manifestazioni sportive internazionali o per il rincaro generalizzato degli autobus, il mezzo di trasporto più utilizzato e più popolare in Brasile. 

 La verità è che la grande crescita economica del Paese, che l’ha portato al sesto posto tra le grandi economie del mondo [Dopo USA, Cina, Giappone, Germania e Francia, e prima di Inghilterra, Italia, Russia e India], è stata accompagnata da una pessima distribuzione della ricchezza, dal sovraffollamento delle città e dall’aumento della povertà dei ceti tradizionalmente già poveri. Senza contare un fenomeno che in Italia conosciamo assai bene, quello della corruzione e delle ruberie della politica. Tutte le partite della Confederations Cup si sono svolte all’insegna degli scontri con le forze dell’ordine, fuori degli stadi e nei centri cittadini, e con l’assalto dei parlamenti regionali.




 Tornando al calcio, Prandelli, il sempre ineffabile commissario tecnico della nazionale, questa volta, non si fa infilare per 4 volte dagli spagnoli, come accadde nella finale europea della scorsa estate. A ridosso dei tre centrali di difesa, gli juventini Barzagli, Bonucci e Chiellini, crea una cerniera di centrocampo con sei giocatori, lasciando un uomo solo all’attacco. È l’inizio di una “resistenza” che imbriglia subito i giocolieri spagnoli e interrompe il loro tradizionale e prolungato possesso palla. E, nelle rare ripartenze, rischieremmo addirittura di segnare, se disponessimo di attaccanti dal piede giusto. Ma né Gilardino, prima, né Giovinco, dopo, sembrano all’altezza, così dobbiamo tentare il goal con i tiri sbilenchi dei centrocampisti. 

 Pure, l’Italia fa la sua onesta partita e, a tratti, nel secondo tempo imita addirittura gli avversari nel tenere palla, anche se tra la propria area e la linea mediana del campo. È un fatto che la Spagna vista ieri sera non è sembrata all’altezza della sua fama [credo sia imbattuta da 28-29 partite] e che forse abbiamo perso un’occasione che alla vigilia sembrava impossibile. Ma Prandelli si conferma ancora una volta fortunato a metà e “perdente di lusso”: indovina la mossa di creare densità al centro del campo, può contare inaspettatamente sulle ottime prestazioni di De Rossi, Maggio, Candreva e Giaccherini e sulla fortuna che induce a sbagliare ripetutamente gli attaccanti iberici lanciati a rete [nulla di paragonabile, tuttavia, alla fortuna incredibile messa in mostra dall’Italia contro il Giappone], sbaglia il calcolo di poter vincere ai rigori, contando sulla statura internazionale di Buffon, che anche nei tempi migliori ha raramente parato un calcio dal dischetto, sconta l’errore di aver utilizzato Balotelli nell’inutile – ai fini della qualificazione alle semifinali –  partita contro Brasile, sapendolo ammonito e non in buonissime condizioni fisiche e se lo ritrova infortunato al termine della sfida persa contro i carioca.

 L’assetto dell’Italia schierata contro i campioni del mondo si è dimostrato giusto, a prescindere dal momentaneo calo di forma degli spagnoli, ma per vincere avremmo avuto bisogno di un attaccante che fa reparto, come ha dimostrato di saper fare Balotelli nelle precedenti partite della nazionale. A dire la verità, forse sarebbero bastati anche Osvaldo [non convocato in nome di un’etica incomprensibile] o magari anche un Matri o un Quagliarella [lasciati in Italia perché Conte li fa giocare poco nella Juventus ma che come attaccanti-reparto, fiuto del goal ed esperienza internazionale sono attualmente di gran lunga preferibili a Gilardino e Giovinco], senza contare l’errore di aver portato in Brasile un attaccante fuori forma come El Shaarawy, che infatti ha giocato raramente.

 In conclusione, a prescindere da quale sarà l’esito della partita di Domenica prossima contro l’Uruguay per l’assegnazione del 3° posto [per il quale vedo nettamente favorita la squadra di Cavani], la nazionale italiana di calcio ribadisce in Brasile il suo volto più recente: mancanza di un’organizzazione stabile e definita di gioco che talora finisce col danneggiare anche il reparto difensivo [8 goal subiti in 3 partite], scarse capacità offensive, se si prescinde da Balotelli e dagli altri lasciati a casa, e assenza di autentici interditori di centrocampo. Difetti non del tutto compensati dai pochi campioni, dalla tanta volontà mostrata nelle partite decisive e da una discreta dose di fortuna.

 sergio magaldi






giovedì 27 giugno 2013

IL GOVERNO DELLE LARGHE INTESE AUMENTA LE TASSE

IL GIOCO DELLE TRE CARTE



 Il decreto ministeriale di ieri è un vero e proprio gioiello e mostra agli elettori di quale pasta sia fatto il cosiddetto governo delle larghe intese. Il PD rientra nel suo tradizionale modello di partito votato per natura a risolvere le crisi aumentando le tasse, il PDL ribadisce in un sol colpo la sua ineffabile politica basata sulla naturale vocazione all’ipocrisia e alla presa in giro degli italiani. Le misure economiche introdotte ieri hanno dell’incredibile. Per rinviare di tre mesi l’aumento dell’IVA e il pagamento dell’IMU sulla prima casa, si escogita, oltre all’aumento delle tasse sulle sigarette elettroniche,  il versamento del 100% dell’acconto fiscale. Lo si porta dal 96% al 100% e viene persino voglia di dire “Aridatece Monti” che aveva ridotto l’acconto dal 99 al 96%. Insomma ciò che non si è pagato per la rata  di Giugno dell’IMU prima casa, e non si pagherà di aumento IVA per tre mesi, sarà sostituito dal 4% in più nel pagamento del cosiddetto acconto fiscale di Novembre. Ma, attenzione, IVA e IMU rimangono sempre sul tavolo. Se questo non è il gioco delle tre carte tra IVA, IMU e FISCO, dicano gli elettori cos’è.

 Invece di tagliare le spese improduttive, gli enti inutili, le retribuzioni  di genere vario delle caste, a cominciare da quella della politica, invece di mettere mano ad una riforma del Fisco per una sia pure modesta ridistribuzione del reddito, invece di fare pressione sui Signori di Bruxelles e di Francoforte, si procede di fatto con un aumento delle tasse prima ancora della fine dell’anno. E i partiti di governo sono tutti contenti. Il PD avrà la sua tassa per compensare quella sempre rivendicata e momentaneamente slittata dell’IMU, il PDL potrà sbandierare per l’ennesima volta il merito di averla fatta slittare, entrambi giustificheranno trionfalmente il “piccolo” sacrificio fiscale degli italiani con la trovata di promuovere il lavoro giovanile mediante un incentivo economico per i datori di lavoro… per un lavoro che forse non c’è più. Ma anche su questo piano si continua il gioco delle tre carte, perché l’acconto sull’imposta dei redditi delle società viene portato dal 100 al 101%, vanificando di fatto i cosiddetti incentivi! Insomma c’è da giurare che con questi provvedimenti diminueranno ulteriormente i consumi e aumenterà la recessione.

 Tutto bene ma non basta. Dando prova di lungimiranza politica, il governo procede con altrettanta perizia in materia giudiziaria. Invece di avviare una riforma della Giustizia e del sistema carcerario, per esempio con la depenalizzazione dei reati di opinione che attengono alla sfera civile, sforna tutta una serie di misure al fine di snellire il sovraffollamento delle carceri, con circa seimila detenuti che dovrebbero uscire nei prossimi due anni. Le solite “pezze calde” che si contraddicono tra loro, le solite menate sul trattamento rieducativo dei carcerati, con una sola sostanziale novità, che modificando l’articolo 656 del c.p.p., stabilisce l’immediata carcerazione solo a condanna in via definitiva. Misura in gran parte applicata già oggi.

 Complimenti dunque a PD-PDL per la sensibilità politica che continuano a dimostrare adottando misure sempre più efficaci. Se ne ricorderanno gli elettori la prossima volta, al momento di votare.

sergio magaldi 

lunedì 17 giugno 2013

LA RIVOLUZIONE DI BEPPE GRILLO E LA REAZIONE POLITICO-MEDIATICA




 Dalle elezioni politiche di Febbraio non si è fatto che parlare di Beppe Grillo e del Movimento Cinque Stelle. Timore e stupore per l’incredibile risultato elettorale. Tentativo di esorcizzare il fenomeno, convincendo i grillini ad appoggiare il governo. Bersani, lo stratega designato per la difficile missione. Più tardi, Grillo è stato attaccato per essersi “chiamato fuori” da ogni alleanza con il PD. Ma di quale alleanza si trattava?

  Sin dal giorno successivo alle elezioni, il segretario del Partito Democratico dichiarò di non voler “aprire tavoli” con altri partiti, grillini compresi. Chiese solo con estremo candore che il suo governo di minoranza, col famoso e fumoso programma degli 8 punti, passasse in Senato grazie ai voti di M5S. Strategia ribadita anche di recente dall’ex segretario a Ballarò: mai e poi mai c’era stata in lui l’idea di aprire trattative dirette con il Movimento per un governo di coalizione né, meno che mai, in quei giorni, gli era venuto in mente di offrire posti di governo a Beppe Grillo.

 Pure, sia a sinistra, sia tra i simpatizzanti del Movimento, si era già scatenata la platea delle recriminazioni contro Beppe Grillo, reo di aver perso l’opportunità di emarginare il centro-destra, decretando la fine politica di Berlusconi. Anch’io in quei giorni parlai di “occasione storica”, forse irripetibile nell’immediato futuro [vedi il post: La grande opportunità all’indomani del voto], con ciò intendendo la formazione di un governo di coalizione PD-SEL-M5S per risolvere i gravi problemi del Paese, non certo un appoggio esterno di M5S al governo degli 8 Punti e/o un governo contro qualcuno.

 C’è tuttavia, da sinistra, chi continua a sostenere che, anche in quelle condizioni, un sostegno dei grillini al governo avrebbe quantomeno determinato la definitiva sconfitta del “nemico pubblico numero 1”, il cavalier Berlusconi. E sussiste ancora, persino all’interno del Movimento, nella Rete e tra gli elettori M5S di Febbraio, l’idea che se la cosiddetta proposta del Partito Democratico fosse stata accolta, molte cose sarebbero cambiate. Equivoco che non è mai stato chiarito abbastanza e che cecità politica da una parte e opportunismo politico dall’altra, continuano ad alimentare.

 Cosa avrebbe ottenuto il movimento di Beppe Grillo permettendo al governo Bersani di nascere? Meno di niente. Nel programma mancavano persino la soppressione dell’IMU sulla prima casa – considerata a sinistra alla stregua di una misura a favore dei ricchi – la fine del finanziamento pubblico dei partiti, l’assunzione di una presa di posizione risoluta contro l’attuale politica europea. E il Movimento avrebbe dovuto sostenerlo?! Preparando di fatto la futura vittoria elettorale del centro-destra?

 Il governo Bersani sarebbe stato un governo non diverso da quello attuale del neodemocristiano Enrico Letta: un esecutivo servile con l’Europa e con i poteri forti, rispettoso delle corporazioni e dei privilegi, esattore delle tasse e vigile notaio del rigore e della recessione economica. Un governo simile, e diretto persino con minore abilità di chi, se non altro, ha nel DNA la tradizione di un partito che ha dominato la scena politica italiana per cinquant’anni. Perché del dire e non dire, del fare e non fare, del semplificare per complicare, dell’inerzia “operosa”, i democristiani di sempre sono maestri insuperabili. Come dimostra anche il cosiddetto “decreto del fare”, varato in gran fretta nel fine settimana dal governo Letta. Un palliativo: l’equivalente del somministrare aspirine a un moribondo.

 Quali fin qui i provvedimenti significativi del governo? L’unico, forse, il rinvio [non l’abolizione!] della famigerata tassa sulla prima casa, voluto fortemente dal PDL, nel pianto accorato della sinistra che avrebbe preferito impiegare quei soldi per il mondo del lavoro! Per fare che? L’istituzione degli ateliers  nationaux di ottocentesca memoria?! Si fa finta di non capire che, per rilanciare l’economia e creare nuovi posti di lavoro, occorre rendere le imprese, sin qui sopravvissute, capaci di competere nel mercato globalizzato. Perché questo sia possibile è necessario un cambiamento radicale della politica europea, con la fine di un regime che ha fatto in breve tempo di Eurogermania un paese ricco a spese del resto o di quasi tutto il resto del continente. E si fa finta di non capire che il rigore va applicato, ma solo nell’amputare una volta per tutte le mostruose articolazioni di questo infelice Paese: nel combattere davvero e non a parole gli sprechi, le spese improduttive, gli enti inutili, i tanti privilegi corporativi e la corruzione, nel riformare seriamente l’ordine giudiziario, nell’abbattere stipendi, liquidazioni e pensioni di politici e dirigenti pubblici e privati, nel gettare le basi di una riforma fiscale per ridistribuire le risorse e far aumentare i consumi.

 Per la verità, in questo senso, il governo Letta s’è mosso: la parziale abolizione del finanziamento dei partiti a regime nel 2017! In perfetto stile democristiano, l’annuncio “rivoluzionario” è stato dato alla vigilia delle elezioni amministrative. Nessuna nuova invece sul fronte della lotta all’evasione fiscale, che pure qualche anno fa lo stesso Letta vagheggiava: incrocio delle fatture e detrazioni fiscali per i cittadini sulla maggior parte di beni e servizi. Una vera e propria riforma del fisco sul modello tedesco e americano. Parole in libertà che l’attuale Presidente del Consiglio usò allora a beneficio di “Porta a Porta”.

 Il secondo attacco a Beppe Grillo – nel quale si sono esercitati i sacerdoti della democrazia, i maghi della politica e una buona fetta di opinione pubblica che esigeva di portare immediatamente all’incasso il voto dato al M5S – occupa il periodo di transizione che va dalle elezioni politiche di Febbraio alle elezioni amministrative di Maggio e di Giugno. Si è rimproverato il Movimento di occuparsi di questioni futili, come la discussione sugli scontrini delle spese sostenute dai parlamentari e la riduzione degli stipendi, e di non conoscere al proprio interno un’autentica vita democratica, come quella praticata [!] negli altri partiti.

 Sacerdoti, maghi, stampa e opinione pubblica sembravano essersi dimenticati che Beppe Grillo stava combattendo una battaglia di sostanza e una di principio. Di sostanza, perché proprio dalla mancata presentazione di scontrini giustificativi nasce la vergognosa appropriazione di risorse comuni a vantaggio della partitocrazia, con la punta di diamante di alcuni tesorieri di partito che hanno arraffato in proprio decine e decine di milioni di euro. Di principio, perché con quelle discussioni si voleva dare un esempio di alterità rispetto a quanto avviene di solito in Italia quando si maneggia denaro pubblico. Quanto alla democrazia interna, occorre riconoscere un certo accentramento decisionale di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio. Che questo sia motivo di scandalo è pane per gli ingenui e per i demagoghi che non capiscono o fanno finta di non capire la portata della sfida lanciata da Grillo e Casaleggio.

 Un’autentica rivoluzione che cambia il tradizionale modo di fare politica e di reclutare i quadri dirigenti. L’idea di creare le premesse di una gestione del potere da parte dei cittadini, contro una casta rapace e capace solo di riprodurre se stessa all’infinito, senza curarsi minimamente del bene comune. Non tanto un esercizio di democrazia diretta, come impropriamente è stato detto, quanto la nascita di un sistema alternativo di proporre il consenso e di governare. La Rete non è rivoluzionaria in sé e tuttavia rende possibile “l’immaginazione al potere”, perché moltiplica le occasioni d’incontro, di scontro e di confronto tra i cittadini. Insomma, la Rete è solo uno strumento, ma senza uno strumento come la Rete, la rivoluzione della politica sarebbe ancora confinata nel mondo platonico delle idee. Questa rivoluzione è ormai in marcia, né sarà più possibile ricacciarla indietro.

 In tale prospettiva, è facile comprendere che i cittadini eletti in Parlamento e reclutati tramite la Rete rappresentino ad un tempo il nuovo che avanza e il vecchio che tarda a morire. In questo senso, dice giustamente Grillo, il Movimento non è né di destra né di sinistra, perché si viene formando con una logica altra e diversa da quella che indirizzava il consenso secondo le ideologie politiche. Cos’è di destra? Cos’è di sinistra? Oggi stentiamo a rispondere e se proprio dobbiamo farlo, ci tocca utilizzare gli argomenti sacrosanti del passato o quelli di un presente che non ha ancora compreso l’unico messaggio veramente rivoluzionario di Karl Marx: la storia non conosce la cristallizzazione delle strutture e delle sovrastrutture dominanti, è bensì la rivoluzione permanente delle forme che la società crea e continuamente distrugge.

 Grillo e Casaleggio hanno avuto il merito di capire che la Rete era lo strumento sociale che serviva al cittadino per appropiarsi finalmente della polis, contro il vecchio modo di far politica. Contro radio e televisione, utilizzate ancora oggi come fabbriche del consenso o del dissenso teleguidato da solerti conduttori di talk-show, superpagati con denaro pubblico. Gli eletti cittadini di Cinque Stelle non sono migliori degli altri perché nascono dalla Rete. A differenza degli altri, tuttavia, e con le contraddizioni che sono proprie di tutti gli individui, secondo formazione e capacità acquisite, devono almeno capire di essere i pioneri di una rivoluzione annunciata che li rende diversi e al tempo stesso intercambiabili rispetto agli eletti cresciuti nelle scuole di partito e dei nati all’ombra del corporativismo e del nepotismo della politica. Ciò non significa, naturalmente, che non debbano avere idee e/o che il loro ruolo debba essere quello di marionette addestrate. Significa però che le idee, se ne hanno, debbono manifestarle nel confronto con gli altri e anche nello scontro con i capi storici del Movimento, alla condizione, com’è lecito in ogni democrazia, di rimettersi alle decisioni della maggioranza o di andarsene.

 Il terzo e complessivo attacco politico-mediatico contro Beppe Grillo è attualmente in corso, dopo i risultati deludenti di M5S nelle elezioni amministrative. Come avviene di solito, i tanti che erano saliti sul carro o che in buona fede erano stati invitati a salire, scendono in gran fretta, chi era in procinto di salire ci ripensa e parla, rattristato, dell’inconveniente rappresentato dai “partiti personali”. Pippo Baudo annuncia di conoscere bene Beppe Grillo, e di sapere che l’attore comico si è già stancato di un impegno che non lo ripaga più. Nell’opinione pubblica si rilancia la parabola dell’Uomo qualunque, creato da Guglielmo Giannini nel dopoguerra, aduso alla satira contro gli avversari politici. Ferruccio Parri venne ribattezzato “Fessuccio”, Calamandrei fu chiamato “Caccamandrei”, Salvatorelli, “Servitorelli” e così via. Accusato di filofascismo, in realtà l’Uomo Qualunque di Giannini fu un movimento anti-partito che si batteva per uno Stato più “leggero”, facendo leva sul malcontento e sulle miserie di un popolo appena uscito da una guerra disastrosa. Nel 1946, appena costituito, UQ raccolse, nella sorpresa generale, circa un milione e duecentomila voti, con una percentuale pari al 5,27% di consensi e 30 seggi All’Assemlea Costituente. Un anno dopo, 14 deputati si scissero dal gruppo per dar vita ad un altro raggruppamento. Nelle elezioni del 1948 L’ Uomo Qualunque ottenne solo 19 deputati e 10 senatori, qualche mese dopo si sciolse. Le similitudini col Movimento Cinque Stelle sembrano tante, ma tali sono solo per i più sprovveduti. Anche numericamente i fenomeni non sono confrontabili. Pure, escono da Cinque Stelle due parlamentari tarantini, mentre un terzo accusa Grillo di aver fatto perdere voti al Movimento con i suoi post. E c’è sempre la questione dei grillini che non vogliono rinunciare neppure ad un euro dei soldi guadagnati tanto faticosamente, prima, lavorando duramente al Pc, poi sedendo sulle scomode poltrone del Parlamento. E si evoca la “democrazia interna”, l’elaborazione di uno statuto per non dover rinunciare al finanziamento pubblico, la costituzione di un gruppo autonomo per rinverdire le speranze di Bersani ad un governo alternativo a quello delle “larghe intese” o, come dice Renzi, delle “lunghe attese”.

 Usciranno gli ex-grillini? In venti, in trenta? Il Movimento Cinque Stelle non avrà che da trarne profitto. Il reclutamento tramite la Rete, dicevo sopra, “pesca” insieme il nuovo che avanza e il vecchio che tarda a morire. E allora, il vecchio, se c’è, che se ne vada e che muoia, metaforicamente s’intende! La reazione politico-mediatica a Beppe Grillo gioisce, mentre il Partito Democratico si sente forte della recente vittoria nelle elezioni amministrative. Ma il PD, per quanto voglia essere simile alla DC, non è la DC. Ha vinto dove gli antichi insediamenti catto-comunisti resistono tenaci, ha vinto in un’elezione dove è sempre bene votare per l’amico o per l’amico di un amico. Ha vinto per mancanza di avversari. Ha vinto in circostanze in cui meno della metà della popolazione s’è recata alle urne.

 Che il PD “condivida” il potere esecutivo con l’odiato Berlusconi o promuova finalmente il cosiddetto governo del cambiamento, grazie ai fuoriusciti di Cinque Stelle, la politica italiana non cambierà di una virgola, perché non la si decide a Roma ma a Francoforte nell’Eurogermania. Le ragioni che hanno permesso al Movimento Cinque Stelle di raccogliere oltre il 25% del consenso degli italiani saranno le stesse quando si voterà di nuovo, c’è solo da augurarsi, per il bene di tutti, che le condizioni del nostro Paese non siano nel frattempo ulteriolmente peggiorate.

sergio magaldi


















mercoledì 5 giugno 2013

TRENO DI NOTTE PER LISBONA

Treno di notte per Lisbona, film di Bille August, Svizzera, Portogallo, Germania, 2013, 111 minuti

  Un anziano professore di Berna sottrae al suicidio una giovane donna, mentre sta per gettarsi da un ponte. La conduce con sé a lezione, ma la ragazza fugge via, dimenticando un giubbetto rosso e un libretto nel cui interno è custodito un biglietto del treno per Lisbona. Il professore si precipita in stazione, ma della ragazza nessuna traccia, mentre il treno per la città lusitana è in procinto di partire. All’ultimo momento, il professore balza sul treno e, manco a dirlo, si mette a leggere “Un orafo delle parole” di tale Amadeu de Almeida Prado, il libretto in portoghese dimenticato dalla ragazza.

 Questo più o meno il “prologo” del film che il regista danese Bille August trae dal romanzo di Pascal Mercier [pseudonimo dello scrittore svizzero Peter Bieri]. Raimund Gregorius è il nome del professore interpretato da Jeremy Irons, l’anziano attore dotato di “fascino polveroso”, come sottolinea Natalia Aspesi su Repubblica. Lui è il protagonista del film ed è sempre lui che si lascia incantare dalle riflessioni contenute nel libretto, anche perché lo spettatore ci riesce meno. Così, il professore, giunto nella bellissima Lisbona, quasi dimentico di cercare la misteriosa ragazza alla quale ha salvato la vita – nell’eco delle parole “preziose” contenute nel famoso libretto – si mette sulle tracce di Amadeu de Almeida Prado, sino a portare alla luce un episodio della resistenza portoghese contro il fascismo.




  Siamo negli anni che precedono La rivoluzione dei garofani, sotto la dittatura di Salazar e l’azione della famigerata PIDE [Pólicia Internacional e de Defesa do Estato], il regime che proseguirà anche dopo la morte del dittatore, con il governo di Marcelo Caetano, sino al 25 Aprile del 1974, quando l’ala progressista dei militari proclamerà la liberazione senza spargimento di sangue e la radio portoghese, alla mezzanotte dello stesso giorno, farà risuonare le note di Grândola vila morena del cantore antifascista Josè “Zeca” Alfonso. Ripropongo il brano di seguito ma, per voluto paradosso, nella versione di Amália Rodrigues, regina incontrastata del fado portoghese durante la dittatura, costretta all’esilio dopo “La rivoluzione dei garofani” perché ritenuta simbolo [incolpevole] del regime di Salazar, più tardi riabilitata sino alla proclamazione di tre giorni di lutto nazionale in occasione della morte, avvenuta nel 1999. Artista di inimitabile bravura, Amália Rodrigues, sia quando canta Uma casa portuguesa, in pieno regime fascista, sia quando ripropone Grândola vila morena, simbolo canoro dell’unica rivoluzione della storia avvenuta senza violenza.

 Nell’affannosa ricerca di Amadeu [Jack Huston],il professore scopre ben presto che l’autore del libretto faceva parte di una cellula antifascista, insieme ad altri intellettuali, tra i quali erano anche il suo grande amico Jorge [August Diehl] e la bella Estefania [Mélanie Laurent]. Ma proprio quando l’azione sembra farsi più interessante, viene da chiedersi se il film, così come del resto il libro, si proponga di narrare la resistenza portoghese al fascismo o se questa sia solo un pretesto per raccontare una storia d’amore. La seconda ipotesi sembra la più convincente, perché, ad un certo punto, nel film non si parla più di lotta antifascista, ma di un amore “proibito” che si consuma rapidamente, senza che il pubblico ne risulti coinvolto emotivamente.

 La “grande” passione per l’uomo che Estefania ha voluto con tutta se stessa, si spegnerà incredibilmente nelle parole pronunciate da lei per liberarsene: Non posso darti quello che vuoi perché il tuo è un viaggio dell’anima che non è la mia… e altre sublimi banalità dette naturalmente proprio nel momento in cui l’uomo è più innamorato di lei. Affermazioni solenni che significano soltanto che la donna che lo ha tanto cercato e infine ha vinto le comprensibili resistenze di lui, non lo ama più o non l’ha mai amato veramente e che lui è stato solo un capriccio nella sua vita.

 “Polpettonissimo” come lo giudica Natalia Aspesi o film che parte bene, ma che poi “si trasforma in una fiction anacronistica infarcita di fastidiose riflessioni ad alta voce”, come scrive Maurizio Acerbi su Il Giornale? Forse né l’uno né l’altro. Il vero problema è che una storia che appare intrigante e che avrebbe tutti gli ingredienti per esserlo, finisce col restare incompiuta come momento di civile passione e ancor più come racconto di un amore impossibile. Entrambe le vicende sono servite “fredde” ad uno spettatore che, date le premesse, si sarebbe aspettato molto di più. 

sergio magaldi