sabato 31 agosto 2013

LE SEI REINCARNAZIONI DI XIMEN NAO



 Le Sei Reincarnazioni Di Ximen Nao è un grande romanzo. Le edizioni Einaudi lo hanno riproposto nella traduzione di Patrizia Liberati, dopo l’assegnazione dell’ultimo Nobel per la letteratura [2012] al suo autore, lo scrittore e sceneggiatore Guan Moye, più noto come Mo Yan, che in cinese significa “Non voglio parlare”. La scelta di questo pseudonimo l’ha chiarita lo stesso Guan Moye in una recente intervista, fornendo una triplice motivazione. L’una di carattere personale e piuttosto ingenua, ancorché legata alla sua ambizione letteraria: “Ho scelto uno pseudonimo perché molti scrittori famosi sono diventati tali proprio con uno pseudonimo”. L’altra di carattere familiare, legata ai ricordi di quando era ragazzo, alla sua abitudine di parlare molto e ai continui moniti dei genitori: “Ma non puoi evitare di parlare, non puoi far finta di essere muto?”. La terza, infine, forse la più interessante delle tre, di rilevanza politica. Dichiara infatti: “Durante la Rivoluzione culturale se si parlava troppo e si dicevano cose sbagliate le conseguenze non erano piacevoli per sé e per la propria famiglia”.







  E invece, malgrado lo pseudonimo o proprio in forza di questo, Mo Yan non ha fatto che parlare attraverso romanzi e sceneggiature. E questo non gli ha impedito di diventare una sorta di fiore all’occhiello del governo cinese. Mo Yan, però, è tutt’altro che uno “scrittore di regime”. Benché abbia ancora di recente speso parole per difendere la censura nel suo Paese che, come in ogni stato totalitario, grava anche su cinema e letteratura, egli non ha mai smesso di scrivere liberamente né di utilizzare l’ironia e la satira nei confronti del regime che da più di sessant’anni controlla il potere in Cina. Al lettore incredulo basterà leggere qualche pagina di questo stupendo romanzo  per rendersene conto.






 Le Sei Reincarnazioni Di Ximen Nao [il cui titolo originario in cinese è Sheng si pilao, "La fatica di vivere"] è qualcosa di più di un romanzo epico. Narra le vicende di una famiglia contadina, dal 1950 al 2000, in una prospettiva storica capace di render conto dei grandi mutamenti sociali che, quasi senza soluzione di continuità, hanno caratterizzato la Cina nell’arco di oltre mezzo secolo. Eppure, la narrazione si svolge in un villaggio a nordest di Gaomi. E proprio nella provincia dello Shandong, a Gaomi, di fronte al mar Giallo, il 17 Febbraio del 1955 nasce Mo Yan da una famiglia di contadini poveri. Non desta perciò meraviglia la perizia con cui lo scrittore descrive la vita dei campi, il rapporto uomini-animali, i soprusi di un potere locale, specchio di un potere centrale costretto a misurare l’ ideologia con la fame ancestrale e l’analfabetismo di un popolo oppresso per secoli da un feudalesimo bellicoso, corrotto e crudele.






  Il romanzo è pervaso di una sorta di realismo magico che fa da contrappunto ad un linguaggio spesso sin troppo crudo e naturistico, dove tuttavia s’intuisce una densità metafisica che sorregge il tutto e sembra giustificare gli avvenimenti e la sorte degli individui, appartengano questi al regno umano, animale, vegetale o minerale. Non a caso Mo Yan introduce la narrazione con le parole del Buddha: “Dice il Buddha: ‘La fatica di vivere nasce dall’avidità e dal desiderio. La rinuncia e la non-azione pacificano l’anima e il corpo’ ”.





 Così è per Ximen Nao, il latifondista da cui prende il nome il villaggio a nordest di Gaomi, giustiziato per le sue colpe vere o presunte dai comunisti locali. Finché il suo animo non sarà pacificato, liberandosi di ogni risentimento, sarà costretto a reincarnarsi in forme animali e a vivere negli stessi luoghi in cui aveva già vissuto come incontrastato signore e ricco proprietario terriero: asino, toro, maiale, cane, scimmia e solo con la sesta reincarnazione tornerà finalmente uomo. Di nuovo al cospetto di Re Yama, dei suoi demoni e giudici, prima della terza reincarnazione, l’anima di Ximen Nao fa inutilmente le sue rimostranze al Signore della vita e della morte:

 “Abbandonate le spoglie del toro, la mia anima tenace rimase a volteggiare nel cielo sopra il campo di Lan Lian. Anche la mia esistenza di toro era stata tragica. Re Yama aveva pubblicamente decretato che, dopo essere stato asino, mi sarei reincarnato in un uomo e invece ero uscito dalla pancia della mucca dalla coda di serpente. Ero ansioso di confrontarmi con lui per accusarlo di essersi preso gioco di me, tuttavia non riuscivo a distaccarmi dalla terra di Lan Lian e a lungo sostai lì sopra. Vidi il cadavere del toro ridotto una poltiglia di carne e sangue; Lan Lian che piangeva di dolore con la testa vicina a quella del toro; mio figlio Jinlong dal fisico imponente con un’espressione ebete sul viso; il “piccolo Lan Lian”, figlio della mia concubina Yingchun […]. Dopo che l’anima si fu distaccata dal corpo, i ricordi della bestia si dileguarono e la memoria di Ximen Nao tornò a farsi viva. Ero stato un brav’uomo che non meritava di morire, invece mi avevano fatto fuori a colpi di fucile; persino Re Yama non poteva fare a meno di riconoscere che ero stato ucciso ingiustamente […]:
- È vero, l’hai detto, c’è stato un errore, e allora che vogliamo fare? Io non ho l’autorità per farti rinascere come Ximen Nao; ti sei reincarnato due volte e dovresti aver capito che l’era di Ximen Nao è finita da tempo […]
- Vostra altezza, - dissi affranto, in ginocchio sul freddo marmo del pavimento del palazzo del re degli inferi. – Sire, anch’io vorrei dimenticare il passato, ma non ci riesco. Quei ricordi amari mi stanno appiccicati addosso, come un ascesso che infetta un osso, come un batterio tenace. Quando ero asino mi ricordavano il risentimento di Ximen Nao e, come toro, mi impedivano di dimenticare l’ingiustizia che avevo subíto. Vostra altezza, i ricordi del passato mi torturano.
- Possibile che il decotto, per dimenticare l’anima, di comare Meng, mille volte più potente di un narcotico, non ti faccia nessun effetto? – chiese perplesso Re Yama” [pp.269-270].

 Già, perché a Ximen Nao capita ciò che, mutatis mutandis, accade ad Er nel famoso mito del X Libro della Repubblica di Platone. Lì, ad Er è impedito di bere l’acqua del fiume Lete che produce nelle anime l’oblio delle vite precedenti, qui è lo stesso Ximen ad evitare con uno stratagemma di bere la pozione di comare Meng che cancella ogni ricordo del passato. Le similitudini con la concezione platonica della metempsicosi non finiscono qui. Stesso il giudizio che attende le anime dopo la morte, con premi e castighi per i giusti e gli iniqui, ciò che si è soliti chiamare karma. C’è tuttavia una differenza sottile, ed è interessante notarla perché riflette la differenza tra la mente occidentale e quella orientale. Ximen non “si sceglie” come asino, né come toro o maiale. La sorte gli viene assegnata dai giudici del mondo infero. In Platone, la responsabilità è di chi sceglie, non della divinità. In definitiva, tuttavia, il risultato non cambia, perché per il grande filosofo greco ognuno fa una scelta conseguente alla sua vita passata, così, per esempio, chi ha avuto motivo di soffrire a causa della propria debolezza, cercherà di reincarnarsi nella pelle di un leone…   




 Come asino e come toro, Ximen Nao è il fedele compagno di Lan Lian che, nella vita precedente, era stato un suo lavorante, ed è accudito da Yingchun, moglie di Lan Lian e sua ex-concubina. Non parlerò delle vicende, talora spassose, di cui egli si rende protagonista nella veste di animale che ricorda il passato di uomo, limitandomi solo ad accennare all’alleanza con il padrone nel respingere tutti i tentativi delle autorità locali del Partito per costringere Lan Lian ad entrare nella Comune. Appellandosi all’autorità del Presidente Mao e al prezzo dell’isolamento e delle canzoncine di derisione dei monelli, l’ex-lavorante di Ximen Nao resiste ad ogni pressione, pur di conservare il suo ruolo di lavoratore autonomo:

 “Il lavoratore in proprio è un ponte a un tronco solo,
  traballa ad ogni passo, tre volte fa su e giù,
  alla fine cade, affoga e non c’è più.
  La Comune Popolare è la strada per il cielo,
  il socialismo un ponte tutto d’oro,
  per sradicare la povertà e seminare prosperità.
  Lan Lian, vecchio cocciuto,
  se rimani in proprio sei in un vicolo cieco.
  Una singola merda di topo può guastare una giara d’aceto […]” [p.140]    

Nell’opporre resistenza a minacce, sberleffi e lusinghe, Lan Lian si fa forte , di fronte ai dirigenti comunisti del villaggio di Ximen, delle parole di Mao e così risponde alle pressioni dei familiari che inutilmente cercano di convincerlo:

-      Ve l’ho già detto: dovrà essere Mao Zedong in persona a ordinarmi di entrare nella Comune. Lui ha detto:“Alle Comuni si accede volontariamente e se ne esce liberamente”: come possono obbligarmi? Sono forse più importanti di Mao Zedong? Io non mi rassegno:voglio proprio vedere se le parole di Mao Zedong contano qualcosa.” [Ibid.]


 E le parole di Mao contano, ma da sole non bastano, a Lan Lian occorrerà anche la protezione di un funzionario provinciale del Partito, che nel frattempo si è “invaghito” del suo asino, e che gli farà rilasciare uno speciale attestato per permettergli di continuare a lavorare in proprio. Ma con l’arrivo della Grande Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao nel 1966, neanche il “pezzo di carta” gli sarà sufficiente per proteggersi dalle guardie rosse. Riceverà la punizione, sottoforma di faccia dipinta di vernice rossa, ma continuerà, più testardo che mai, a rifiutarsi di entrare nella Comune, finché cessato il vento rivoluzionario, riprenderà il lavoro in proprio, raggiungendo risultati persino superiori a quelli della Comune.




Mo Yan descrive con ironia e garbato sarcasmo il periodo della Rivoluzione Culturale, come nell’episodio della vecchia venditrice di polli:

 “Durante la Rivoluzione Culturale nei mercati non c’era grande scambio di merci, e la gente si riuniva lì per godersi lo spettacolo. Era l’inizio dell’inverno, la maggior parte delle persone indossava giacche imbottite, e alcuni giovani portavano abiti sfoderati per seguire la moda. Sul braccio di tutti c’era una fascia rossa […]. Una vecchia venditrice di polli, tenendone uno per le zampe, stava davanti alla porta della cooperativa dei consumi, una fascia rossa al braccio. Qualcuno le chiese: - Zia, siete entrata anche voi nelle guardie rosse? – Lei rispose, facendo boccuccia: - La lotta rossa: come si fa a non partecipare? – Di quale fazione siete? Di quelli del ‘Monte Jinggang’ o della ‘Furia della Scimmia d’oro’? – Vaffanculo, non parlarmi di queste stupidaggini, comprami un pollo, altrimenti fuori dai piedi!” [pp.184-5].

  O nel parlare delle solette ricamate da Baofeng [figlia di Ximen Nao, così come Jinlong, il fratello che diventerà potente segretario del Partito a Ximen, nonché ricco imprenditore] per Chang, il capo del distretto, detto anche Primo somaro, di cui è innamorata:

 “Per le giovani delle nostre parti regalare solette ha il valore di una promessa di nozze. Erano ricamate con una coppia di anatre mandarine che giocavano nell’acqua. Dai fili rossi e verdi, dai mille punti e i diecimila fili del disegno delicato traboccava un affetto profondo. Il Primo somaro prese le solette dicendo: - Ti prego di dire alla compagna Lan Baofeng che anatre mandarine e farfalle rispondevano ai gusti capitalisti dei padroni; l’estetica del proletariato si esprime attraverso il pino, il sole rosso, l’oceano, le montagne, la torcia, la falce e la scure. Se deve ricamare, che ricami queste cose […]” [p.192].

 O ancora nell’illustrare la campagna “allevate suini in abbondanza”, di cui è testimone Ximen Nao, durante la sua terza reincarnazione come maiale:

 “Le foglie degli alberi di albicocche erano di un rosso cinabro, nel cielo non c’era una nuvola per diecimila miglia e presso l’allevamento suino degli albicocchi della Brigata di produzione di Ximen nel distretto di Gaomi si tenne la prima riunione della campagna “allevate suini in abbondanza” […] Per fortuna era una stagione morta per il lavoro agricolo, e nei campi non c’erano messi […] ma fosse anche stato il periodo dei ‘tre grandi compiti’ – arare, seminare, raccogliere – non sarebbe importato nulla, in quegli anni la politica era prioritaria e la produzione veniva dopo; allevare suini era la politica: la politica era tutto e il resto doveva dare la precedenza alla politica […] Hong Taiyue […]Disse: - Compagni membri della Comune […] spinti dal vento rivoluzionario, eleveremo il lavoro di allevamento suino a nuove vette. Ora alleviamo soltanto un migliaio di animali, dovremo allevarne cinque, diecimila, e quando sarete arrivati a ventimila andremo a Pekino a portare la buona notizia al vecchio Presidente Mao! […] Jinlong sul palco blaterava a ruota libera: - Dirigenti e compagni, in tutta onestà possiamo affermare che il mangime saccarificato da noi sperimentato ha riempito un vuoto in ambito internazionale. Per prepararlo utilizziamo foglie di alberi, erbacce e stoppie del raccolto, ossia ricicliamo queste sostanze trasformandole in ottima carne di maiale, per nutrire le masse e scavare la fossa all’imperialismo, al revisionismo, alla controrivoluzione… […] – Ogni maiale è un colpo di cannone lanciato contro la fortezza reazionaria dell’imperialismo, del revisionismo e della controrivoluzione… - urlava il funzionario agitando il pugno nell’aria, con un impeto da trascinatore di folle” [pp.306-308, 328 e 334].

 Nella sua quarta reincarnazione come cane, Ximen Nao diventa testimone di una contrastata storia d’amore tra il suo padrone Lan Jiefang [figlio di Lan Lian] già infelicemente sposato, e Pang Chunmiao, più giovane di lui di vent’anni. In realtà, Quartino è più il cane del figlio del suo padrone ufficiale e di sua moglie, l’ineffabile Huang Huezo che non ha mai amato il marito, ma che non intende concedergli il divorzio, manifestando tutta la sua rabbia con un messaggio pubblico, scritto col proprio sangue. L’antipatia che Quartino-Ximen Nao nutre per Jiefang non è solo dovuta al suo ruolo di guardiano e protettore della casa e della famiglia che la abita, si lega anche a motivazioni di carattere personale…

“Non stavi dormendo affatto, ti eri rintanato nello studio, e sulla scrivania avevi messo a bella posta una copia delle Opere scelte di Lenin. Un individuo dal cervello pieno di corrotte idee capitaliste come te che legge i lavori di Lenin? Puah! Uno dei soliti trucchi per evitare di dormire insieme alla mia padrona […] Memorizzavo il tuo odore, una base di angoscia acre mista a un sentore di fumo; quello di tua moglie, una tristezza acida coperta dall’olio rancido e dalla tintura di iodio; l’odore di tuo figlio, che era un miscuglio aspro e amaro dei vostri due odori, lo conoscevo da tempo. A Ximen, sarei riuscito a tirar fuori le sue scarpe dal mucchio, ad occhi chiusi. E tu osasti cacciarmi di casa, relegandomi nella stanza del carbone. Ma quale cane vorrebbe vivere nella casa degli uomini? Per sentire il tanfo dei vostri piedi, il fetore delle vostre scoregge, l’afrore delle vostre ascelle, il vostro alito puzzolente? Ma all’epoca ero ancora un cucciolo: avresti potuto tenermi in casa per una notte, sarebbe stato un gesto di bontà, però tu…! Tra di noi la faida iniziò allora.” [pp.533-34].  


 L’opposizione dei familiari di entrambi gli amanti, lo scandalo per il Partito, per il quale Lan Jiefang ricopre l’incarico di vicesegretario della cooperativa dei consumi, mostrano i pregiudizi e i tabù ancestrali di questo comunismo contadino, ma al tempo stesso rivelano la forza dirompente dell’amore… quando è vero! Mo Yan ci intrattiene in più di una pagina sulla passione che travolge Jiefang e Chunmiao, anche lasciando trapelare l’inesorabile legge karmica che, in un modo o nell’altro, prima o poi, si abbatterà su tutti i protagonisti della vicenda.

 “Nell’attimo del bacio, i nostri occhi erano aperti, così vicini… Le lacrime, le leccai, salate e rinfrescanti. Mia buona Chunmiao, perché? È un sogno, perché? Lan, fratello mio, sono tua, prendimi… Mi sforzavo di lottare, come l’uomo che mentre affonda cerca di reggersi a una pagliuzza di riso, ma non ci riuscii. Un bacio ci unì di nuovo e ci lasciò in fin di vita, il resto poi fu inevitabile.
 Ci sdraiammo abbracciati sullo stretto lettino da campo che non era troppo piccolo per noi. – Chunmiao, sorellina, ho vent’anni più di te, sono un mostro, ho paura di farti del male, meriterei di morire… - Farfugliavo in modo inarticolato. Lei mi accarezzava il viso, la barba a spuntoni. La sua bocca vicino al mio orecchio mi faceva il solletico; mi disse:
-       Ti amo…
-       Perché?
-       Non lo so…
-       Mi prenderò le mie responsabilità…
-       Tu non sei responsabile, è stata una mia scelta. Sarò tua cento volte, soltanto allora me ne andrò.
Ero un vecchio toro affamato davanti a un tenero filo d’erba.
Ben presto le cento volte furono consumate, ma ormai non potevamo più separarci.
Non volevamo che la centesima finisse mai. Lei mi accarezzava; piangendo disse: - Guardami bene, non dimenticarmi… “ [p.562].

 Non aggiungo altro. La bellezza di questo libro può essere gustata solo immergendosi nella lettura delle 730 pagine che lo compongono e il talento di Mo Yan va ben oltre i fatti che racconta e/o alcune delle motivazioni con cui gli è stato conferito il Premio Nobel: “Con realismo allucinatorio, egli è capace di fondere insieme fiabe popolari, storia e contemporaneità”.

sergio magaldi   

      

lunedì 12 agosto 2013

OGNI ANGELO E' TREMENDO



 Con questa autobiografia che tratta soprattutto dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, Susanna Tamaro torna a parlare dell’argomento che è sempre stato centrale nei suoi racconti: il proprio “io”. Già, perché anche nel suo libro più bello e che comunque nel 1994 le ha dato il successo letterario, Va’ dove ti porta il cuore, la Tamaro, in meno di 190 paginette, racconta se stessa sottoforma di un romanzo epistolare scritto da Elsa, la nonna materna di famiglia ebraica convertita. Ma cosa raccontava allora di sé? Non fatti realmente accaduti ma vicende, anche tragiche, che avrebbero potuto far parte della sua vita ma che ha solo immaginato in virtù di una sorta di autoanalisi che ha portato alla luce  pezzi significativi del suo inconscio.

 A quasi vent’anni di distanza, Susanna Tamaro sembra quasi divertirsi nel ricordo dei fatti narrati allora, ma al tempo stesso dichiara un po’ enfaticamente che “Va’ dove ti porta il cuore – titolo ben scelto per quegli anni in cui i giovani, dopo la lunga e deludente stagione della politica, tornavano a fare i conti con se stessi e con i propri sentimenti – è la storia della ricerca del proprio sé più profondo” [Op.cit.,p.139,ed. Mondolibri].





  Ma raccontare la ricerca del proprio “sé”, riuscendo a farsi ascoltare dagli altri, anche mediante la trasposizione cinematografica della storia narrata [Si veda il film di Cristina Comencini del ‘95], è solo un modo per far parlare un “io” dotato di grande personalità.





  Per di più se questa ricerca si riveste di falsi eventi autobiografici capaci di toccare le corde più sensibili dell’animo di chi legge. Una “mistificazione” letteraria che richiede molto sangue freddo da parte di chi scrive ma anche indubbio talento. È il caso di Susanna Tamaro, della sua scommessa vinta nei confronti di una critica letteraria sempre più convinta che per scrivere del proprio “io” bisogna essere almeno come Marcel Proust e/o che, come annota la scrittrice in Ogni angelo è tremendo, un romanzo debba essere la trascrizione, più o meno fantastica, di fatti realmente accaduti:

 “Il grande abbassamento culturale degli ultimi anni – unito alla carica di giornalisti che hanno invaso il campo con le loro storie vere in forma di romanzo – ha stravolto il ruolo della letteratura, facendo credere a molti che un libro altro non sia che una trascrizione di un fatto realmente avvenuto.
 Quante risate abbiamo fatto con mia madre!
 Capitava spesso infatti, nelle situazioni più impreviste, quando lei svelava di essere mia madre […]che qualcuno esclamasse:”Ma come? Non è morta?” E lei naturalmente faceva scongiuri di ogni tipo. Mia madre, infatti, era figlia di mio nonno e non il frutto di un adulterio, mentre io non sono stata affatto allevata da mia nonna. Quando già vivevo a Roma, passavamo le vacanze estive insieme e non perché era mia nonna, ma perché eravamo anime affini e stare vicine ci rendeva felici. [Ibid.]





 In Ogni angelo è tremendo, titolo preso in prestito dalle Elegie Duinesi del poeta R.M. Rilke, la scrittrice ripropone la propria singolarità, ma questa volta la fa deliberatamente e senza trucchi, parlando in prima persona. Anche così, tuttavia, “mistificazione” e talento hanno modo di emergere, nel prospettare di sé una personalità controcorrente e speciale, tra gli incubi visionari e l’insonnia dell’infanzia, il narcisismo di una precoce sofferenza, “il lungo training ascetico” che dichiara di aver percorso naturalmente dall’infanzia alla giovinezza fino alla consapevolezza di “Non attaccarsi a nulla/Non desiderare nulla/Non attendersi nulla/Sapere di essere nulla” [Op.cit., p.197] e tutto senza bisogno di libri di ascetica e di maestri spirituali! E ancora, l’atarassia come forma di difesa della seconda infanzia e la percezione dell’impermanenza già nella prima adolescenza:

 “Risale a quell’epoca l’affacciarsi, nei miei pensieri, di una nuova categoria mentale, quella del vuoto. Prima una cosa c’era, poi non c’era più.” [p. 43]

 Così, non potendo rispondere alle tante domande metafisiche, ai pensieri rivolti verso l’alto, era quasi inevitabile che finisse per volgere il proprio sguardo in basso. Non certo all’uomo, che sarebbe stato deludente e anche poco originale, ma al regno della natura: sassi, semi, fiori, cristalli e animali. Con la scoperta che la vera bellezza non era quella estetica ma quella segreta delle leggi geometriche, fisiche e chimiche in grado di mettere ordine nel caos apparente dell’universo.

 Nondimeno, in questa ostentata descrizione di sé e della propria originalità, indispensabile per ogni autobiografia che pretenda di farsi leggere, Susanna Tamaro è capace di regalarci pagine di raffinata arguzia, ancorché amara, sui propri familiari, come nel caso della zia Marisa, morta in giovane età – per un male incurabile e misterioso, si diceva in famiglia:

 “Tornando a casa per le vacanze di Natale, Marisa si era fermata un paio di giorni a trovare la sua vecchia amica. Lì […] le era esplosa una brutta influenza, così aveva chiamato il padre chiedendogli di poter rimanere a Venezia fino a quando non si fosse sentita meglio. Ma il padre, uomo inflessibile […] non ne aveva voluto sapere. “Il Natale si passa in famiglia! A questa regola non esistono eccezioni!”
 Così, seppure molto malata, Marisa dovette mettersi in viaggio da Venezia a Trieste con la bora, con il ghiaccio, con i treni del 1936. Arrivata a casa, prese parte al pranzo natalizio – che cosa festeggiassero non è chiaro, visto che erano tutti dei feroci anticlericali – e si mise a letto. Qualche giorno dopo, in quello stesso letto, passò dal sonno alla morte.
 Era sola in casa, il padre era uscito per andare al caffè e la madre a incontrare delle amiche. Rientrati all’ora di pranzo, trovarono il suo corpo ormai freddo. Il morbo misterioso, il fato maligno, alla fine, non fu probabilmente altro che una polmonite.” [p.54].

 Oppure parlando della professione di suo padre, nei ricordi di quando era ancora una bambina, o intuendone le aspettative quando più grande lo raggiunge a Roma:

 “[…]mio padre si mise in affari con un lestofante pseudo armatore e insieme a lui escogitò alcune operazioni truffaldine di sicuro e facile guadagno. Peccato, però, che non fosse affatto furbo, né avesse quell’abilità levantina del lato materno della mia famiglia. Tra il Gatto, la Volpe e Pinocchio, lui sarebbe stato sicuramente Pinocchio. Seppellì gli zecchini dove gli aveva suggerito il socio e rimase in attesa che crescesse l’albero di monete d’oro, per poter passare il resto della vita nel Paese dei balocchi. Ma, al posto dell’albero, crebbero soltanto guai.
 Un giorno si trasferì a Milano. Che lavoro facesse, però, restò un mistero. Ricordo il mio smarrimento davanti al primo terribile tema: Il lavoro di mio papà. Quel pomeriggio, raggiunsi mia madre in cucina con il quaderno in mano e chiesi: “Il papà, che lavoro fa?” Lei guardò a lungo nel vuoto e poi, con un sospiro, mormorò: “Il procuratore”. […] Se un procuratore è stato mai mio padre, è stato un procuratore di guai.” [p.90]

 […] ormai ero grande e non ci sarebbe stato bisogno di occuparsi di me. Anzi, in fondo al suo cuore […] sperava che sarei stata io ad occuparmi di lui […]Lui sperava che, come Biancaneve, mi sarei messa a spazzare cantando, immersa in un mare di bolle e che avrei preparato manicaretti il cui profumo si sarebbe propagato fino all’ingresso del palazzo, io invece speravo di trovare finalmente un padre.
 Ci deludemmo a vicenda.” [p.223]





  Insomma, una narrazione che si legge di un fiato e senza annoiare, con notizie anche interessanti per chi non le conosca ancora, come il fatto che Italo Svevo [il cui vero nome era Ettore Schmitz] – con cui condivide il segno astrologico del Sagittario e il patrimonio genetico di due antenati, Abramo Moravia e Sara Levi – era suo zio e che alcuni personaggi della Coscienza di Zeno si ritrovano in Va’ dove ti porta il cuore. Non mancano gli “effetti speciali”, nel desiderio di stupire il lettore, come nel sogno dei biscotti in forma di lettere ebraiche [strumento didattico per imparare a leggere e scrivere, noto a chiunque abbia una minima informazione sulla cultura ebraica]  o come nell’episodio divertente in cui la Tamaro accenna alla Massoneria e al matrimonio dei suoi genitori, annullato dalla Sacra Rota.

 “[…] Com’era possibile, infatti, mi domandavo, annullare un matrimonio dal quale erano nati ben tre figli?
 Andai così a trovare quello che sapevo essere uno dei testimoni della causa di annullamento […] mi disse, ‘mi ero preparato a dire ciò che pensavo che volesse sentire da me, che peraltro era la verità. Gli avrei detto che era un uomo inaffidabile da tutti i punti di vista, dedito al bere, estremamente promiscuo, insomma un vero disgraziato, ma, appena aprii bocca, monsignor Milioni mi fece cenno di tacere.’
 ‘Non voglio sapere niente. Mi dica una sola cosa: è massone?’
 ‘Sì, lo è, risposi.”
 La Sacra Rota emise così il suo verdetto.” [p. 169].


 In conclusione, un romanzo autobiografico utile a chiunque voglia riflettere su se stesso e/o dare un senso alle tappe e ai ricordi della propria formazione, un monito utile a non considerare la vita come possesso, ma come cammino: le due condizioni dell’esistenza tra le quali siamo costretti a scegliere.

sergio magaldi





martedì 6 agosto 2013

PERICOLOSI I TRENI AD ALTA VELOCITA' ?



  Trovandomi in Spagna, ho avuto modo di seguire più da vicino le notizie relative alla tragedia provocata dal treno ad alta velocità Madrid-Santiago. È per questo, forse, mi sono lasciato maggiormente coinvolgere emotivamente, anche se è lecito attendersi una medesima partecipazione emotiva, in qualunque luogo del mondo ci si trovi, di fronte ad un evento tragico con tanti morti e feriti.  

 Gli spagnoli, mettendo a frutto il denaro comunitario, hanno costruito una rete ferroviaria nazionale ad alta velocità che non ha eguali in Europa, con collegamenti internazionali di notevole interesse economico e turistico, come il nuovo treno super veloce che collega Barcellona con Parigi e viceversa. Peccato solo che dal Gennaio del 2013 sia stato soppresso il Milano-Barcellona-Milano [Di chi la responsabilità?!], l’unico treno, tutto a vagoni-letto che, pur non essendo ad alta velocità, consentiva di spostarsi direttamente tra l’Italia e la Spagna in una nottata e poco più.  

 A qualche giorno di distanza dalla catastrofe è forse lecito chiedersi se, al di là delle cause oggettive che hanno determinato il tragico evento, la questione da porre non sia proprio la realizzazione di treni ad alta velocità.

 Note a tutti sono le proteste che hanno investito il fenomeno TAV, specialmente in Italia. Con manifestazioni spesso degenerate nella violenza e suscitando polemiche a non finire, motivate da vari fattori, come l’eventuale scarsa rilevanza della tratta prescelta, sia per quanto riguarda il trasporto delle merci che quello dei passeggeri, la modifica del territorio e il conseguente disagio della popolazione che lo abita, i costi eccessivi in una stagione in cui da Bruxelles e da Francoforte s’impone la politica del rigore per tutti i governi europei. A tutti questi problemi, talora giusti, talora pretestuosi, si aggiunge ora quello del pericolo rappresentato dai treni ad alta velocità?

 La questione di per sé appare risibile, sarebbe come chiedersi se gli aeroplani debbano volare, le automobili percorrere le autostrade, le navi solcare gli oceani. Il problema semmai è quello segnalato nel “pezzo” che segue in merito al deragliamento del treno ad alta velocità Madrid-Santiago, laddove si afferma che “si potrebbe discutere sulla mancanza di sistemi di sicurezza per l'eccesso di velocità che avrebbero potuto essere installati, strumenti cioè per frenare automaticamente il treno”, salvo poi a considerare irrealistica, per gli altissimi costi di installazione e di relativa manutenzione, la pratica attuazione di un sistema del genere. Giustificazione alquanto sorprendente se la si commisura al prezzo di molte vite umane. Ma, evidentemente, chi mi ha inviato il post dall’Italia ha inteso dire altro. E, infatti, poco dopo, lo scrivente pone un interrogativo, peraltro non meno sconcertante, chiedendosi quali siano le vere ragioni del deragliamento. Già, perché l’autore, pur deprecando il comportamento del macchinista, avanza l’ipotesi interessante – a suo giudizio suffragata dall’esame di un video dell’incidente sia al rallentatore che a ritroso – di uno sganciamento della prima carrozza dalla motrice, quando ancora il treno non ha iniziato a percorrere la curva per la quale si richiedeva al macchinista la decelerazione della vettura. È vero che il progressivo sganciamento della vettura è persino visibile dalle foto,   










tuttavia, la mia impressione è che già la foto n.1 evidenzi un tracciato curvilineo della strada ferrata e che quindi lo sganciamento abbia inizio quando già occorreva azionare la decelerazione del treno. Naturalmente anche la mia è un’ipotesi. Ad ogni modo resta arduo  anche soltanto ipotizzare che la causa dell’incidente sia dovuta ad un precedente e, almeno per ora, inspiegabile guasto tecnico e non già all’alta velocità del treno mantenuta colposamente dal macchinista nell’affrontare la curva. Più che mai, e proprio su questa base di ragionamento, mi sembra improponibile fondare analogie con il caso Concordia e il comportamento del comandante Schettino.

 Il problema vero è però un altro ed è inutile girarci attorno. Il macchinista ha ammesso davanti al giudice che sapeva di dover azionare il meccanismo di decelerazione anche perché, se pure non avesse visto l’ordine apparso sul display del computer di bordo, conosceva bene quel tratto di strada ferrata per averla percorsa in diverse occasioni. Cosa è successo allora? L’uomo ha dichiarato al giudice di non sapersi spiegare cosa l’abbia trattenuto dall’intervenire. Verità? Alibi per coprire un gesto “paranoico di grandezza” e/o di “ipervalutazione” dei propri mezzi, come sembra ritenere l’autore del post che segue? Spetterà alla giustizia l’accertamento dei fatti, a me resta solo da osservare che un problema ulteriore, rispetto a quelli già elencati, si pone per i treni ad alta velocità.

 In altri termini, la tragedia del Madrid-Santiago pone una questione oggettivamente rilevante: o si è in grado di dotare il TAV di decelerazione automatica nei tratti curvilinei e/o comunque pericolosi, prescindendo dalle spese di installazione ed di esercizio di tali strumenti, oppure è meglio fermarsi prima che si verifichino altre catastrofi. Certo, si potrebbe obiettare che, così come la sicurezza di un qualsiasi veicolo dipende innanzi tutto dalla perizia e dalla vigile attenzione di chi lo guida, analogamente non si vede come la sicurezza dei treni ad alta velocità possa o debba prescindere dall’elemento umano. Il problema però è un altro: ogni mezzo di trasporto, si muova sulla terra, sull’acqua o nell’aria, dovrebbe essere dotato di tutti i mezzi tecnici disponibili per ridurre al minimo la responsabilità del conducente. Nessuno può fare miracoli, ma se esiste – come esisteva per il treno spagnolo – la possibilità di utilizzare la tecnologia per la decelerazione automatica del treno, questa andava adottata. 

sergio magaldi



La tragedia del deragliamento a  Santiago di Compostela  pone alcuni importanti punti interrogativi.

di Alberto Zei
Sommario: Esaminando la sequenza del immagini che riprendono il deragliamento si notano delle incongruenze tecniche  che preluderebbero ad altre ragioni, oltre a  quelle imputabili alla  velocità, ovvero, alla assurda  temerarietà del macchinista o alla sua inspiegabile passività.
Stupore ed esecrazione
 Non ci sono parole per esprimere ciò che emotivamente di esecrabile è avvenuto utilizzando il più sicuro mezzo di trasporto a disposizione del genere umano E' infatti, risaputo che il treno è il più tranquillo mezzo di locomozione; in questo senso la tragedia del deragliamento in Spagna del convoglio ferroviario nei pressi di Santiago è ancor meno accettabile.
 Le cause saranno meticolosamente esaminate, anche se è sotto gli occhi di tutti il video che riprende il convoglio durante il rovinoso deragliamento in curva lanciato a 180 km all’ora? Cosa dovrebbe ancora accertarsi di fronte ad una tale evidenza dei fatti?
 D'altra parte la realtà non può essere ristabilita imputando ad altri la responsabilità di chi disponeva delle leve di comando della macchina motrice e che, o deliberatamente, in preda ad un delirio paranoico di grandezza, ha spinto l'acceleratore ben oltre il limite massimo consentito, oppure per una qualche inspiegabile ragione è rimasto completamente passivo benché consapevole del rischio.

 Ma la paranoia non è una patologia che toglie alla persona il senso della volontà, che anzi, esalta. Questo avviene proprio nella fase di ipervalutazione delle proprie facoltà, rispetto agli altri in generale e ai colleghi di lavoro in particolare, in quanto sussiste in tali casi la piena, quanto maliziosa consapevolezza della portata della propria scelta, ovvero, del rischio oggettivo delle azioni che si intendono compiere.
 Non è dunque possibile per questo motivo, invocare alcuna attenuante per una affievolita volontà di intendere di dover ridurre la velocità, almeno della metà, in quel tratto in curva della strada ferrata.
 La ossessiva ripetizione del video ostentato dai media all’opinione pubblica, circa il rapido avvicinarsi del locomotore e del deragliamento dell'intero convoglio in piena curva, è ormai entrato nell'immaginario collettivo, insieme ad una irreversibile condanna nei confronti del macchinista.
 Si tratta di una comprensibile reazione emotiva che, una volta entrata nell’intimo convincimento di ciascuno, si insedia stabilmente nella mente collettiva e finisce col dare la colpa esclusiva della tragedia alla stupidità umana di un unico personaggio, come in Italia è avvenuto nel caso della Concordia e del comandante Schettino.
Non è tutto
 Si potrebbe discutere sulla mancanza di sistemi di sicurezza per l'eccesso di velocità che avrebbero potuto essere installati, strumenti cioè per frenare automaticamente il treno. D’altra parte, una serie di sistemi automatici di controllo sicurezza di questo genere, da installare in tutti i punti nevralgici delle ferrovie, sarebbe praticamente di irrealistica attuazione anche per l'eccessiva onerosità e la progressiva criticità sistemica di dispositivi così capillarmente concepiti.
 Ma per evitare la tragedia forse sarebbero bastati i periodici accertamenti psicosomatici preventivi di qualche turba comportamentale del personale operativo, per impedirgli di assurgere a posizioni di irresponsabilità. Non sarebbe certamente questa una novità.
Altro ancora

 Osservando nel video l’immagine raccapricciante del deragliamento, praticamente di tutti i vagoni del treno, si nota in primo piano la massa della locomotiva che travolge come fuscelli i tralicci ferroviari lungo la strada ferrata. E ci si chiede immediatamente come un evento di questo genere sia potuto accadere.
 Guardando l'avanzare del treno prima ancora che inizi la curva, questo si dispiega sul display in notevole lunghezza prima di voltare a sinistra. Osservando ora, con attenzione lo scorrere dei fotogrammi (inserendo lo stop tra gli uni e gli altri), ad un certo punto si vedrà sopra il tetto della prima vettura dopo la locomotiva, una piccola linea evanescente e biancastra, leggermente sollevata rispetto al piano superiore del treno. Negli ulteriori immagini appare con progressiva evidenza, finché chiaramente si solleva dalla sommità del convoglio. A questo punto la vettura in piena curva si sgancia parzialmente dalla motrice penetrando all'interno della traiettoria curvilinea rappresentata dalla stessa motrice e dai vagoni del treno.
La prima carrozza
 E infatti, il deragliamento inizia dalla prima vettura, dietro la motrice che esce dai binari, provocando la fuoriuscita dei vagoni da questa trainati e poi della stessa motrice che si intraversa sulla strada ferrata.
 Ora, se si procede alla visione a ritroso del deragliamento, si segue meglio la linea biancastra che si va affievolendo fino alla sua iniziale formazione; formazione che avviene in concomitanza del passaggio del primo vagone sotto una traccia minuscola ma abbastanza chiara all'altezza della linea elettrica ferroviaria.
 Le prime sfarfallate  video  sopra il tetto della vettura in questione, sembrano corrispondere per coerenza di immagine al momento in cui il primo vagone ha un comportamento anomalo che, per quanto in seguito accade, fa evincere lo sganciamento del congiuntore di destra dalla motrice. Questo accade, però, quando il treno non ha ancora imboccato la curva sulla quale prosegue in condizioni di seria avaria.
 Ma che cosa può essere avvenuto quando mancavano i presupposti causali della rottura di uno dei ganci di traino?
Le leggi fisiche dell’ evento

 Una volta iniziata la virata in queste condizioni, la forza centrifuga allarga la congiungente destra tra la locomotiva e la prima vettura; quest’ultima senza più questo vincolo anteriore, come detto, sembra progressivamente sprofondare all’ interno della curva.
 Dal distacco che la vettura assume dalla locomotiva si evince chiaramente che  anche  il gancio del respingente sinistro ha ormai ceduto. Il contatto con la motrice è ancora assicurato dal lento cavo di sicurezza al traino che inizialmente si tende senza spezzarsi, mentre i restanti vagoni seguono le sorti del primo.
La motrice prosegue per qualche secondo la sua corsa sui binari finche la vettura nel corso del suo deragliamento tende il cavo di sicurezza al traino che, a sua volta, trascina da dietro la motrice fuori dai binari. Il terribile attrito iniziale con la massicciata che la motrice subisce sulle ruote posteriori destre, prima ancora che su quelle anteriori, suscita un potente moto di rotazione oraria che ribalta la macchina sul lato destro, tra i binari e il muro di recinzione, con detriti e lamiere che si distaccano dal corpo del treno.
 Tutto questo, come detto, appare ad una attenta osservazione del video del deragliamento. Può anche darsi che si tratti solo di apparenza, ma molti fattori fanno propendere per la realtà delle immagini.
Quali le vere ragioni del deragliamento.
Sorgono ora una serie di domande. Una di queste è la seguente: “ Per quale motivo poco prima della curva, quando le sollecitazioni meccaniche centrifughe non sono  neppure iniziate, guarda caso,  avviene la rottura dell’aggancio tra i respingenti sinistri, che poi saranno i più sollecitati dalla forza centrifuga in piena curva?
Un‘altra, riguarda il  generale convincimento sulla causa tecnica del disastro e potrebbe essere: “Secondo i tecnici addetti ai lavori, il deragliamento è attribuibile  esclusivamente alla eccessiva velocità di percorso?”
Sarebbe interessante come ricerca della verità, approfondire le circostanze evidenziate non per scagionare la responsabilità individuale della follia della velocità,  ma per accertare se e quali altre precise cause sottendono una catastrofe del genere.