sabato 30 novembre 2013

I L P A S S A T O

Asghar Farhadi, Il Passato, Francia 2013, 130 minuti


Con Una Separazione, premiato con quattro riconoscimenti [miglior film e montaggio, migliore regia e sceneggiatura] alla sesta edizione degli Asian Film Awards e candidato all’Oscar 2012 per il miglior film straniero [vedi il post TABU’RELIGIOSI MASCHILISMO E POTERE], il regista iraniano Asghar Farhadi poneva la questione della crisi della famiglia, all’interno di una società piena di contraddizioni e governata da un regime che soffoca la libertà di pensiero, non lascia intravedere un futuro per le giovani generazioni e impone ai coniugi la separazione consensuale come unica soluzione allo scioglimento del matrimonio. La critica politica, per comprensibili ragioni di censura, era solo abbozzata ma non per questo meno evidente in diverse sequenze del film: dalle scene che mostrano i paradossi della fede, al colloquio in tribunale tra Simin [Leila Hatami] e un giudice nascosto dalla macchina da presa ma determinato a ribadire gli angusti valori della società iraniana. E persino nelle menzogne, nei compromessi, nei pregiudizi e nella violenza dei protagonisti della vicenda, soprattutto se maschi, Asghar Farhadi adombra le contraddizioni sociali  di cui il regime si rende responsabile.








 Con Il Passato [Le Passé], film premiato di recente a Cannes per la migliore interpretazione femminile, Asghar Farhadi torna sul tema della separazione familiare ma in una prospettiva completamente diversa, se non addirittura opposta. Una Separazione si svolge in una cornice medio-orientale piena di tabù e nella prospettiva di una “liberazione” che sembra poter avvenire solo con la “fuga” in Occidente. Il Passato è girato tutto alla periferia di Parigi e mostra che i valori del cosiddetto mondo libero non sono meno contraddittori di quelli iraniani, forse persino più spietati, se è vero che, per sfuggire alla crisi e alla depressione, dall’Occidente bisogna andarsene!

 L’inizio del film è di grande effetto: Marie [Bérénice Bejo] e Ahmad [Ali Mosaffa], coniugi separati, si parlano e si sorridono nel rivedersi, divisi da una vetrata che impedisce loro di sentire ciò che stanno dicendo. Ahmad è giunto all’aeroporto direttamente da Teheran e sua moglie è andata a prenderlo con un’auto che si scoprirà presto essere quella del suo nuovo compagno. Ahmad torna a Parigi dopo quattro anni, da quando ha lasciato la famiglia, a seguito di una depressione causata dal vivere in una società non adatta a lui, come più tardi gli ricorda un connazionale che gestisce un ristorante a Parigi. È tornato per apporre la sua firma sull’atto di scioglimento del matrimonio ma anche nel desiderio di rivedere Lucie [Pauline Burlet] e Léa [Jeanne Jestin],  le figlie, l’una adolescente, l’altra bambina, che Marie ha avuto da precedenti nozze e alle quali si sente particolarmente legato. Per la sola firma, infatti, avrebbe potuto benissimo farsi rappresentare.

 Lo spettatore ha come l’impressione che, nonostante le premesse, forse qualcosa può ancora accadere tra Marie e Ahmad, se i due riuscissero a rompere il velo dell’incomprensione. L’illusione sembra cadere  quando entra in scena Samir [Tahar Rahim], il magrebino titolare di una tintoria, dal quale Marie aspetta un figlio e che sposerà non appena egli resterà vedovo della moglie che è all’ospedale in coma profondo. Sospettiamo inoltre, ma il regista volutamente non approfondisce il discorso, che forse alla base della “fuga” di Ahmad  ci sia anche una delusione provocata da sua moglie. Per amore? Sembra piuttosto per l’incapacità di comprendere la sua crisi. Una donna molto determinata, Marie, consapevole dei propri diritti, ma anche con molti “appetiti” e un robusto egoismo, come ce la presenta la figlia Lucie, rimasta molto legata ad Ahmad e sempre in crisi con la madre di cui non condivide le scelte amorose e soprattutto il progetto di sposare Samir che a sua volta ha un figlio.

 E Lucie e Fouad [Elyes Aguis], il figlio piccolo di Samir, rappresentano agli occhi del regista iraniano, il riscontro della crisi di valori della società occidentale. Il disagio, l’aggressività, la reazione talora crudele, il pentimento e il rimorso di un bambino e di un’adolescente ormai quasi donna, rappresentano il costo che le giovani generazioni di entrambi i sessi sono destinate a pagare nell’illusione – sembra voler dire Asghar Farhadi – della libertà.

 Sia che si tratti di una società oppressa come quella iraniana, sia che si tratti di una società in cui le libertà individuali siano garantite, il risultato non cambia. Anzi – e qui non si può non risconoscere un’involuzione nel messaggio di Farhadi che farà piacere ai governanti del suo Paese –  nella gestione dell’universo familiare, l’Europa è addirittura peggiore del Medio Oriente. Ahmad, a Teheran si è ripreso dalla depressione, e nel tornare a Parigi si comporta saggiamente. L’unico a saper ancora parlare a Lucie, Léa e Fouad, il solo capace di comprenderne le esigenze vitali e affettive.








 Insomma, sembra voler concludere Asghar Farhadi, la società in cui viviamo sarà pure responsabile delle nostre azioni, ma solo perché non siamo capaci di lavorare a fondo su noi stessi, affrancandoci dai tabù che sono propri della natura umana [i ben noti idola tribus, specus, fori e theatri di Francesco Bacone]. Discorso elitario finché si vuole, ma non privo di qualche fondamento. È sintomatico che, in entrambi i film, a commettere, sia pure senza volerlo, i danni più gravi e spesso fatali, siano donne in cui la semplicità della condizione esalta la forza del pregiudizio: Razieh [Sareh Bayat], la badante del padre di Nader [Peyman Moadi] in Una Separazione, Naïma [Sabrina Quazani], la lavorante di Samir, in Il Passato.

sergio magaldi 



  


sabato 23 novembre 2013

PUBBLICO E PRIVATO



   In base a quali criteri si può decidere se un servizio di interesse pubblico debba essere gestito dai privati o dagli enti pubblici? Se il criterio fosse soltanto politico si arriverebbe addirittura a teorizzare, come fanno alcuni, che le perdite di gestione sono più che compatibili con la natura del servizio reso e che lo Stato deve farsene garante. Se il criterio fosse soltanto economico, si dovrebbe concludere che la maggior parte delle aziende pubbliche italiane, in deficit di milioni di euro, dovrebbero essere privatizzate.

 Resta la domanda di quale sia l’interesse del privato nel gestire attività che non solo non danno profitto, ma che risultano in grave perdita. La risposta che viene da una certa parte politica è molto chiara: per rendere remunerativi gli investimenti, il privato razionalizzerà il servizio, tagliando i rami secchi e licenziando il personale, con grave danno non solo per l’occupazione ma anche per le utenze. Tanto per fare qualche esempio si pensi a cosa avverrebbe se la distribuzione dell’acqua o la gestione dei trasporti fosse affidata ai privati: le periferie comunali sarebbero tagliate fuori dai rispettivi servizi con il crescente disagio degli strati sociali più emarginati. Senza contare il pessimo esempio che viene da Telecom e Alitalia e dalla tendenza dell’imprenditoria italiana a “spolpare” le aziende d’interesse pubblico, dopo averle acquistate, salvo a rivenderne il guscio vuoto allo Stato e agli enti pubblici, i quali dal canto loro saranno costretti a ricomprare aziende più decotte di quando le avevano vendute. [Vedi il post: Il Belpaese dismesso]. Ve le immaginate le città, i cui mezzi trasporto pubblico cessino di funzionare o dove l’acqua smetta di essere erogata?

 Il ragionamento non fa una piega, ma potrebbe trovare la sua pietra d’inciampo nella realtà, sottoforma di impossibilità a reperire nuove risorse per continuare a gestire in perdita, da parte delle aziende municipalizzate, servizi di preminente interesse pubblico. È un po’ quello che sta avvenendo in questi giorni in Italia, con il caso del trasporto pubblico genovese in prima fila. Fassino, il sindaco di Torino, dichiara che non bisogna temere che i privati abbiano interesse a danneggiare i cittadini e che basterebbe accompagnare le privatizzazioni con clausole a salvaguardia dei servizi e dell’occupazione. Dopo di che resterebbe da chiedersi perché i privati dovrebbero accettare simili condizioni. Per investire sulla perdita?




 A meno di non ammettere che il deficit di tante aziende pubbliche sia unicamente dipeso dagli sprechi dei dirigenti pubblici e dalle ruberie dei politici. Basti pensare a quanto è successo a Roma, dove venivano stampati biglietti falsi di mezzi pubblici, pare, per finanziare la politica e dove appena un cittadino su dieci timbra il biglietto in autobus o sul tram, perché a differenza di quello che avviene in tutte le capitali europee, non è costretto a pagare o a mostrare il biglietto al conducente, al momento di salire sul mezzo di trasporto. Se le cose stanno così, allora ha ragione Fassino e resta solo da valutare quali misure siano più idonee a salvaguardare utenze e lavoratori.

 Le considerazioni di cui sopra inducono ad ulteriori analisi. Non è difficile distinguere tra enti pubblici che erogano servizi di rilevante interesse pubblico ed enti che, pur svolgendo un servizio pubblico, non risultano di vitale importanza per i cittadini, in grado di usufruire dei medesimi servizi grazie all’offerta privata e magari con maggiore risparmio. È chiaro che se i bilanci di tali aziende sono in attivo o almeno in parità, non vanno toccati, ma se così non è [e purtroppo così non è per la maggior parte] e hanno bisogno di continuo di essere foraggiati con denaro pubblico, non si vede quali ragioni ostino alla loro privatizzazione. A meno che tali aziende decotte, non rappresentino la chiave di volta del regime. 

sergio magaldi                                                        



mercoledì 20 novembre 2013

QUESTIONE DI TEMPO

Richard Curtis, Questione di Tempo, 123 minuti, USA, 2013




   Persino ovvio ricordare che il tempo è il metronomo della realtà e che il tentativo di isolarlo, per poterlo manipolare anche per un istante infinitesimale, è fantasia di poeti, la magia impossibile del Faust di Ghoete [… Fermati, attimo, sei bello!...]. Eppure, come già osservava Jean Paul Sartre in L’imaginaire, si danno almeno due modalità in cui il tempo non si identifica necessariamente con il reale: il tempo della dimensione onirica e quello dell’immaginazione.








 Lo spazio e il tempo del sogno e dell’immagine, infatti, ubbidiscono a leggi che nulla hanno a che vedere con quelle della comune percezione. Direi non a caso, perché Immanuel Kant sta lì a ricordarci che spazio e tempo non sono entità metafisiche ma forme pure a priori della nostra esperienza e della nostra sensibilità. Se, tuttavia, nulla o poco possiamo fare per influire sul tempo di un sogno [benché ci sia chi conceda al sognatore esperto questa possibilità], nell’immaginazione possiamo intervenire, viaggiando a piacimento tra le ekstasi temporali di passato, presente e futuro, e provando ad immaginare per noi stessi un destino diverso da quello posto in essere dalle scelte passate.

 Sören Kierkegaard, il padre dell’esistenzialismo, ha parlato di angoscia legata alla scelta. Perché, nel momento in cui scegliamo, escludiamo per ciò stesso ogni altra possibile realtà, ma ciò a cui deliberatamente voltiamo le spalle [un’opportunità mancata, un amore sacrificato, la buona azione non fatta ecc…], può reclamare il proprio diritto di esistere come possibilità non realizzata e rimpianta.






 Il cinema, che per definizione è arte dell’immagine, ha più volte tentato questa strada, mostrando come il tempo sia la via maestra per comprendere il nostro destino. Non si vuole dire, con ciò, che About Time [proposto in questi giorni sugli schermi italiani con il titolo poco appropriato di Questione di tempo], il film del regista e sceneggiatore inglese Richard Curtis, si proponga come un déjà vu o manchi di originalità. Innanzi tutto perché qui, più che “manipolare” il tempo, si tratta di “emendarlo” delle scelte precipitose o poco consapevoli che hanno generato gli eventi negativi. Poi, perché questo “aggiustamento” si limita al passato individuale più o meno recente, non riguarda il futuro - proprio perché il futuro è il frutto delle scelte passate - e non è ottenuto, per così dire, grazie all’azione di una bacchetta magica ma con le regole della prudenza, intesa come la virtù dianoetica del discernimento, e della bontà, vista come Pietas dei Romani o Yetzer tov [inclinazione buona] degli Ebrei.

 Questione di tempo è una piacevole commedia montata su tre registri: c’è l’amore che naturalmente per essere tale deve essere romantico, esattamente come nel film di Curtis di dieci anni fa: Love actually [“L’amore davvero”]: dieci storie d’amore di cui la più romantica e originale è quella che unisce uno scrittore ad un’umile ragazza portoghese molto più giovane di lui.

 La storia d’amore tra Tim [Domhnall Gleeson] e Mary [Rachel McAdams] introduce al secondo registro della narrazione che è appunto la questione del tempo: Tim viene messo a parte da suo padre [un inappuntabile Bill Nighy] di un segreto: il dono che i maschi della famiglia hanno, attraverso un rituale peraltro molto sbrigativo, di tornare su un evento del proprio passato per poterlo modificare. D'altra parte, se il dono fosse appartenuto anche alle femmine, Curtis avrebbe dovuto cancellare un pezzo non poco significativo della sua storia!

 Il generoso intervento di Tim a favore di Harry - il commediografo amico dei suoi genitori [Tom Hollander] - per evitargli il flop di una pièce causato dal blocco mentale di un attore, fa svanire la conoscenza della ragazza che Tim ritiene essere l’amore della sua vita: il giovane, infatti, non può trovarsi contemporaneamente a teatro, dove s’è prodotto il “guasto da emendare”, e nel luogo [peraltro alquanto particolare e sul cui significato molto ci sarebbe da dire] in cui ha conosciuto Mary.

 L’ironia, spesso presente nei film di Richard Curtis [inventore del personaggio di Mister Bean o regista di film come Quattro matrimoni e un funerale], si avverte meno in Questione di tempo, allorché per esempio si sente risuonare la celebre canzone di Jimmy Fontana: Il mondo. Non solo perché il cantante è scomparso di recente, ma soprattutto perché lo spettatore si è forse già avventurato nei ricordi personali e per un istante si è illuso di poter tornare sul proprio passato, magari per modificare le vicende di un amore sfortunato e ancora rimpianto. Le parole della canzone di Jimmy Fontana: “ …Nel tuo silenzio io mi perdo e sono niente accanto a te. Il mondo non si è fermato mai un momento…” , gli lasciano poche speranze e non certo la voglia di sorridere.







 Il terzo registro è utilizzato da Richard Curtis per l’ultima parte del film che è anche la più debole e la meno interessante. Il tempo e l’amore non sono più visti nella prospettiva di una vita vissuta all’insegna della bellezza, della fantasia e della continua scoperta di se stessi, ma nella consolatoria accettazione della normalità borghese, in cui diventa facile rinunciare ad un amore o sacrificare il dono ricevuto di intervenire sul tempo, in cambio della facoltà concessa a tutti di poter riguardare ogni giorno, anche quello più triste o pesante, con l’occhio dell’innamorato della vita in quanto tale.

 Nell’insieme, una commedia ben riuscita e un film da non perdere.


sergio magaldi





mercoledì 6 novembre 2013

LE INTERCETTAZIONI UTILI...




   Per diversi giorni la “questione Cancellieri” ha tenuto le prime pagine dei giornali e il palcoscenico dei talk-show, ed è stato il servizio di apertura nei telegiornali. Se n’è avvantaggiata di sicuro la legge di stabilità, della quale per la verità si è continuato a parlare ma sulla quale ognuno è sembrato libero di dire la sua, con affermazioni di segno nettamente contrario, che vanno dal miliardo in meno di tasse del presidente Letta e del suo compagno di governo al Tesoro, sino al 600% di tasse in più denunciato da Confcommercio per effetto di una manovra [vedi il post Bugie di regime] che ha il solo scopo di TASSARE GLI ITALIANI GRAZIE ALLA LARGA INTESA TRA PD E PDL, cioè dei partiti che rappresentano la maggioranza degli elettori. I quali elettori – dicono i sondaggi –  nel frattempo continuerebbero imperterriti a far aumentare il consenso nei confronti del PARTITO DELLE TASSE. Masochisti gli italiani? Non direi, forse preoccupati, se i sondaggi sono veri e non di regime, dal fantasma dello spread - continuamente agitato sotto i loro occhi da un’informazione sempre più asservita al sistema - e dal rigore tedesco di cui serbano ancora intatta la memoria storica. Quando ci si renderà conto della vera entità della manovra di governo, quando cioè gli italiani cominceranno a pagare, è probabile che i sondaggi elettorali muteranno in gran fretta.

  Dopo la “questione Cancellieri”, spunta ora un nuovo argomento utile a far decantare il dibattito sulla legge di stabilità: il pagamento della rata di Dicembre sull’IMU della prima casa che, contrariamente a quello che si potrebbe credere, non è stata ancora abolita e che necessita, secondo il sagace ministro del Tesoro, del reperimento di due miliardi e mezzo di euro per essere definitivamente archiviata. Insomma, se saremo sollevati da questo balzello di fine anno, che credevamo sconfitto per sempre grazie alla presenza e alla determinazione di ministri PDL nel governo, pagheremo tutti più volentieri la TRISE che dal prossimo Gennaio includerà di nuovo il pagamento dell’IMU sulla prima casa, maggiorando il tributo e sensibilmente recuperando con gli interessi le rate non incassate di Giugno e Dicembre 2013. Un bel giochetto, degno dei migliori prestigiatori e che gli italiani accoglieranno con un sospiro di sollievo, ringraziando PD e PDL.

 Alla luce di queste considerazioni, la nota vicenda dell’intercettazione della telefonata tra il ministro della Giustizia e la compagna di Ligresti, non è venuta per nuocere al governo, come pure è stato detto da autorevoli opinionisti, ma al contrario sembra essere caduta dal cielo in suo soccorso, spostando l’attenzione del pubblico da una manovra che fa impallidire persino quelle del governo Monti a questioni di lana caprina su cui dibattere a lungo e dividersi in tifoserie ben organizzate dai media. Vecchie banalità riproposte e spacciate per sublimi massime di filosofia, con la scoperta dell’acqua calda che “la giustizia non è uguale per tutti” e che esiste una “razza padrona” [Se almeno si fosse letto Sartre, si sarebbe parlato in modo meno generico di Salauds]. E poi discussioni a non finire: dimissioni, non dimissioni, reato, non reato ma comportamento immorale, cristiana pietà, atteggiamento umanitario, confronto con la telefonata di Berlusconi in soccorso di Ruby, con l’ennesima prova dell’accanimento giudiziario contro il leader del PDL, in circostanze simili condannato a 7 anni di reclusione [concussione per costrizione], ed altre amenità del genere.

  Insomma, l’unico argomento serio che la vicenda pareva ispirare è passato sotto silenzio o è stato appena sfiorato. Dal film denuncia di Nanni Loy, magistralmente interpretato da Alberto Sordi, sono passati 42 anni, ma la questione del carcere preventivo per gli imputati in attesa di giudizio è rimasta invariata e, aggiungerei, non per colpa della Magistratura ma della Politica che ha evitato di legiferare in merito. Sembra che più del 30% della popolazione carceraria si trovi nelle condizioni in cui si trovava la figlia di Ligresti: in cella senza neppure una sentenza di condanna di primo grado! La detenzione in attesa di giudizio, in un Paese civile, dovrebbe essere un fatto eccezionale, limitato alla delinquenza abituale e all’imputazione per crimini particolarmente efferati. Non può essere in ogni caso una misura che riguardi gli incensurati, con la motivazione che trattasi di una disposizione giustificata dall’opinione giudiziale che l’imputato possa alterare le prove. In quest’ultimo caso basterebbe l’arresto domiciliare, magari con sorveglianza speciale e con modalità più restrittive di quelle comunemente adottate.


sergio magaldi