domenica 28 dicembre 2014

La filosofia di Woody Allen in MAGIC IN THE MOONLIGHT

Woody Allen, Magic in the Moonlight  [Magia al chiaro di luna], USA, 2014, 97 minuti



 Può la magia rappresentare l’alfabeto del soprannaturale? Lo spiraglio attraverso il quale l’assoluto si lascia intravedere? Sì, se il mago fosse in grado davvero di conoscere passato, presente e futuro di ognuno. Sì, se egli fosse capace di stabilire una reale comunicazione tra vivi e morti.

 Partendo da tale presupposto, Woody Allen costruisce con la consueta abilità ed eleganza una commedia “minore”, secondo il giudizio che, quasi all’unanimità, e secondo me a torto, ne dà la critica più autorevole, italiana e internazionale.

 Almeno di non voler credere nella fede e nei miracoli come testimonianza dell’assoluto, la magia resta l’unica possibilità di dare senso a un universo che sembra non averne. Ma la magia non è altro che mistificazione e un abile prestigiatore può smascherarla meglio di un qualsiasi scienziato, perché conosce più di ogni altro i trucchi dell’illusione.

 L’assunto di Woody Allen prende corpo nelle sembianze del gentiluomo inglese Stanley Crawford [Colin Firth], alias celebre prestigiatore cinese col nome di Wei Ling Soo che, nella Berlino della fine degli anni Venti del secolo scorso, compie prodigi davanti agli occhi esterrefatti di un pubblico sempre più in delirio per i suoi giochi di prestigio che sembrano inimitabili.

 Chi meglio di lui, lo sollecita l’amico e collega Howard Burkan [Simon Mc Burney], sarà in grado di smascherare Sophie Baker [Emma Stone] una sedicente e seducente medium che introdottasi in casa dei Catledge – una ricchissima famiglia americana che dimora sulla Costa Azzurra – li ha praticamente irretiti con le sue pratiche di magia?

 Stanley accetta volentieri la proposta di Howard e parte per il sud della Francia dove avrà anche modo di riabbracciare zia Vanessa [Eileen Atkins], un’anziana signora che la sa lunga sul mondo e che non solo condivide “la filosofia” del nipote, ma che addirittura sembra aver contribuito a trasmettergliela. Zia Vanessa, tuttavia, ha in più del nipote la conoscenza di una forma particolare di magia: la magia dell’amore.

  Il celebre prestigiatore è presentato ai Catledge dal suo amico Howard sotto falsa identità. In una cornice suggestiva, quale ci appare la  Costa Azzurra degli anni Venti, nella splendida fotografia di Darius Khondji, Stanley è sicuro del fatto suo: in breve tempo saprà smascherare la presunta chiaroveggenza di Sophie perché, come dichiara al suo amico, in una battuta in cui si coglie in pieno la grande ironia di Woody Allen: “Non c'è niente di vero, dal tavolino a tre zampe al Vaticano”.

 Stanley è più che mai convinto che il cosmo e la vita non abbiano senso né finalità e che l’esistenza umana sulla terra ubbidisca unicamente alla legge che Hobbes enunciò con una formula fortunata, ripresa dall’Asinaria di Plauto [II,4,88: lupus est homo homini…]: homo homini lupus, ogni uomo è lupo all’altro uomo. Il gentleman inglese e prestigiatore cinese non ha dubbi: Dio è morto, secondo la celebre sentenza che Nietzsche annotò nell’opera del 1882, La Gaia Scienza, e ribadì più tardi in Così parlò Zarathustra :

 “[…]Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!”
[La Gaia Scienza,125,vol.V,tomo II,“Opere di F. Nietzsche”, Adelphi, Milano, 1965,pp.129-30]







  Non andare tra gli uomini e rimani nella selva! Va piuttosto tra gli animali! Perché non vuoi tu essere come me – un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?»
«E che cosa fa il santo nella selva?» domandò Zara-thustra.
Rispose il santo: «Io compongo canzoni e le canto; e quando le compongo, rido, piango e mormoro: così lodo Iddio. Col cantare, col piangere, col ridere e col mormorare,io lodo Iddio che è il mio nume. Ma che cosa ci porti tu in dono?».
Quando Zarathustra ebbe udito queste parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei io da darvi? Ma lasciatemi partir presto, perché non vi tolga nulla!». E così si separarono, l'un dall'altro, il vecchio e l'uomo, ridendo come ridono due fanciulli.
Ma quando Zarathustra fu solo, parlò così al suo cuore: «Sarebbe dunque possibile! Questo vecchio santo non ha ancora sentito dire, nella sua foresta, che Dio è morto!».[Monanni,Milano,tr.D.Ciampoli,Prologo di Zarathustra 2, p.34]






 Del resto, il riferimento alla morte di Dio ricorre spesso nei film di Woody Allen, e molti ricorderanno la sua massima più divertente sull’argomento: «Dio è morto, Marx è morto e anch'io oggi non mi sento tanto bene!».

 Forte della sua fede nella ragione e interprete del silenzio di Dio, Stanley, a contatto con Sophie, è sempre più combattuto tra il desiderio di falsificare le verità della magia e la speranza che ci sia davvero qualcuno dotato di super poteri, per arrivare infine amaramente a concludere che “l’unico super potere certo brandisce una falce”. Quando però si accorge che gli è impossibile smascherare la ragazza e che addirittura è lei a scoprire la sua vera identità, entra in una condizione di ebbrezza che gli fa credere reali i poteri di Sophie.

 La magia, però, spesso non è dove si crede che sia e non è certo che rappresenti la scorciatoia verso l’assoluto, perché – è detto nel film – “il mondo può anche essere del tutto privo di scopo, ma non del tutto privo di magia”. Che c’è di più magico di un cielo stellato al chiaro di luna, agli occhi di due innamorati?
  







 Per altri film di Woody Allen presentati in questo blog, vedi GIGOLO' PER CASO, cliccando sul titolo.


 sergio magaldi




mercoledì 24 dicembre 2014

STORIE PAZZESCHE e vizi capitali

Damian Szifron, Storie Pazzesche [Relatos Salvajes], Argentina, Spagna, 2014, 122 minuti



  Sei episodi in STORIE PAZZESCHE [Relatos Salvajes] – il film del regista argentino Damian Szifron, prodotto da Pedro Almodovar [del grande regista spagnolo si vedano in questo blog, cliccando su ciascun titolo per leggere: VOLVER  -  LA PELLE CHE ABITO  - PEDRO ALMODOVAR,GLI ABBRACCI SPEZZATI] – per rappresentare l’ IRA,  il terzo per importanza tra i cosiddetti Sette Vizi Capitali, secondo una gerarchia a suo tempo stabilita dalla Chiesa, in relazione al maggiore o minore allontanamento da Dio da parte del peccatore.

 Com’è noto, in questa graduatoria, c’è al primo posto la SUPERBIA, seguita da INVIDIA-IRA-ACCIDIA-AVARIZIA-GOLA e LUSSURIA [SIIAAGL]. In origine, sembra che di questa speciale classifica facessero parte anche la DEPRESSIONE, intesa come supremo disprezzo della creazione divina e la VANITA’, confluite poi rispettivamente nell’ACCIDIA e nella SUPERBIA.

 In la palude va c'ha nome Stige
 questo tristo ruscel, quand'è disceso
 al piè de le maligne piagge grige.
 
 E io, che di mirare stava inteso,
 vidi genti fangose in quel pantano,
 ignude tutte, con sembiante offeso.

 Queste si percotean non pur con mano,
 ma con la testa e col petto e coi piedi,
 troncandosi co' denti a brano a brano.
 
 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
 l'anime di color cui vinse l'ira; […]

[Dante Alighieri, Inferno, canto VII, vv. 106-116]




Gli iracondi di Dante, nell'illustrazione di Gustavo Doré



  L’IRA è in realtà raffigurata nel film attraverso il suo corollario più importante: la vendetta, né mancano i minori corollari della corruzione e della gelosia, sino allo sconfinamento nei territori della SUPERBIA e della LUSSURIA. E, tanto per restare al riferimento religioso, nel primo dei sei episodi, forse il più originale, Pasternak, con Dario Grandinetti [Salgado] e Maria Marull [Isabel], c’è anche la violazione del IV comandamento biblico.

 Naturalmente, il richiamo ai vizi capitali nulla ha a che vedere con la fede e si spiega piuttosto con una concezione laica che pone l’accento sulle difficoltà della convivenza umana in una società caratterizzata da un rapporto kafkiano tra potere e cittadini, divenuti sempre di più sudditi inermi, nevrotici e oppressi. La stessa profanazione dell’imperativo divino di “onorare il padre e la madre” si iscrive, con buona dose di sarcasmo che induce lo spettatore al riso, nell’ambito di rapporti parentali che necessitano del lettino dello psicoanalista.

  Il secondo episodio, Las ratas [“I topi”], pone una interessante distinzione tra il desiderio di vendetta di una cameriera [Julieta Zylberberg], frenato da comprensibili motivazioni umane e razionali, e l’esercizio della violenza inteso come il riscatto sociale di una donna emarginata [con Rita Cortese nella parte della cuoca ex carcerata].

 Il terzo episodio, El mas fuerte [“Il più forte”], è la rappresentazione dell’IRA nella sua espressione più pura e ci ricorda  da vicino la pena riservata agli iracondi che, nell’Inferno dantesco, si rotolano nel fango, lottando sino al reciproco annientamento [con Leonardo Sbaraglia nella parte di Diego Iturralde e Walter Donado in quella di Mario].

 Il quarto episodio, Bombita [“Bombetta”], con Riccardo Darin nella parte di Simon Fisher, narra di un ingegnere che maneggia abilmente esplosivi utili ad abbattere edifici obsoleti e/o pericolanti. L’innata aggressività di Simon, che ritiene di aver subito una serie di torti, esplode infine in un gesto terroristico che sa di vendetta privata, ma che subito si trasforma, non senza l’ironia della sceneggiatura, nel riconoscimento collettivo del gesto eroico compiuto da Simon, anche da parte della moglie che lo aveva abbandonato.

 Il quinto episodio, La propuesta [“La proposta”], introduce il corollario minore dell’IRA, la corruzione, in una vicenda generata da una violenza non voluta, ma determinata dalla condizione esistenziale del giovane Santiago, rampollo nevrotico di una ricca famiglia [Alan Daicz]. Il tentativo di salvare il ragazzo da parte di suo padre Mauricio [Oscar Martinez] e di sua madre Helena [Maria Onetto], con la complicità di veri e propri avvoltoi, quali un avvocato [Osmar Nuñez], un funzionario [Diego Velazquez] e un servitore [German de Silva], avrà come conseguenza il trionfo dell’ingiustizia e la punizione del più debole, in un corto circuito esplosivo tra violenza-corruzione-ira e vendetta.

 L’ultimo episodio, infine, Hasta que la muerte nos separe [“Fino a che la morte non ci separi”] narra la storia di una coppia durante la la festa nuziale in un hotel [Erica Rivas e Diego Gentile, rispettivamente interpreti di Romina e Ariel]. Nel corso della cerimonia,  Romina scopre per caso il tradimento del marito con una compagna di lavoro e in preda all’ira e alla disperazione, più per gelosia che per amore, si vendica accoppiandosi con il primo cameriere che le capita a tiro. A questo punto, la violenza generata dall’ira, dalla gelosia e dalla vendetta esplode nelle sale del banchetto e sarà solo grazie alla lussuria se l’ira sarà messa in fuga, assieme ai convitati, esterrefatti da tanta oscenità.    

 Un film, quello del regista argentino [ben visibile la mano di Pedro Almodovar], condotto con maestria pittorica, capacità di divertire, ritmo e immancabile porzione di violenza, e che in alcuni momenti strizza volentieri l’occhio al genere Noir. Insomma, una serie ben congegnata di racconti che ci trascina nell’arena dei nostri vizi più praticati.


Sergio Magaldi 

sabato 20 dicembre 2014

LA NOTTE IN CUI TUTTE LE VACCHE SONO NERE




  
 “Le cittadine e i cittadini di Democrazia Radical Popolare” [www.democraziaradicalpopolare.it] così di recente chiosavano i post pubblicati su questo blog: IL CITTADINO MEDIO del 16 Dicembre e IL BILANCIO DEL PRESIDENTE del giorno successivo (clicca sui titoli per leggere):

 Come al solito, lo stile concettuale di Sergio Magaldi è pregevolissimo, raffinato ed elegante.

 Ma risulta più che mai sterile il senso complessivo del ragionamento (il lettore si chiede, smarrito, che cosa voglia concludere Magaldi Senior, con i suoi arzigogolati paralogismi interpretativi - fuorvianti e fuori bersaglio - a proposito dei moventi e dei fini primi ed ultimi tanto di Giorgio Napolitano che di Matteo Renzi) e, come spiegheremo minuziosamente in un contributo di prossima pubblicazione, le stesse analisi e sintesi provvisorie proposte su Italia, Germania ed Europa in relazione a coloro che contingentemente guidano le massime istituzioni repubblicane del Bel Paese (appunto Napolitano e Renzi) appaiono a nostro parere inconsistenti sul piano storico ed ermeneutico.

 Come che sia, viva la pluralità del pensiero e delle sue espressioni.

 Dunque, per i palati a cui sia di gradimento, ecco di nuovo il mondo politico italiano letto attraverso le lenti di Sergio Magaldi. Lenti a nostro parere molto deformanti, specie in virtù di un acritico, irrazionale e storicamente ingiustificabile moto di pervicace empatia nei confronti sia di Napolitano che di Renzi, nonostante il primo sia uno dei massimi responsabili dell’implementazione in Italia della fallace esperienza dell’ “austerità espansiva” e il secondo si dimostri ogni giorno più imbelle e inadeguato a guidare una grande nazione occidentale come la nostra patria, forgiata dal sacrificio degli eroi del Risorgimento e ricostruita- dopo le macerie provocate dalla barbarie fascista- dalla classe politica della Prima Repubblica.

 Evidentemente, il cittadino medio cui mi riferivo – ancorché in virtù del principio di democrazia gli sia riconosciuta la possibilità di esprimersi –  è per i cittadini di DPR un cittadino di serie B, perché ha il torto di non pensarla come loro. Però, la questione è un’altra. Perché, il sospetto balenato all’improvviso nella mente del cittadino medio non è un “arzigogolato paralogismo interpretativo”, bensì l’elementare constatazione che probabilmente [il cittadino medio non è un politologo, ma un sincero democratico che si esprime sempre in maniera dubitativa] c’è una discordanza tra quanto riferito dai media in merito alle presunte dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica e le reali motivazioni circa l’abbandono frettoloso del Quirinale, almeno a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate nell’ultima settimana e in più occasioni da Giorgio Napolitano.

 Se non capisco male, dunque, quelli di DPR condividono in tutto e per tutto le motivazioni ufficiali e cioè che il Presidente lascia il suo secondo settennato con tanto anticipo unicamente per ragioni di salute e/o di stanchezza. Bene. Padroni di pensarla così. Né la cosa sorprende più di tanto, dal momento che DPR ha sempre considerato l’azione di Napolitano e di Renzi mossa dagli stessi intenti e unita dalle medesime finalità. Insomma, li ha sempre visti come  le figure animate di una sorta di “Notte in cui tutte le vacche sono nere”, secondo la celebre espressione contenuta nella Filosofia dello Spirito di Hegel.

 Intendiamoci, può darsi benissimo che “I cittadini e le cittadine di DPR” abbiano ragione, considerando l’acutezza di altre analisi sulla politica italiana, europea e mondiale e in attesa del “contributo di prossima pubblicazione” dove sarà resa evidente tutta la verità di contro a interpretazioni “fuorvianti e fuori bersaglio”. In trepida attesa di quanto annunciato, il cittadino medio sempre pronto a ricredersi, ma che ha il vizio innato della distinzione, si limita a confrontare tra loro le dichiarazioni e gli atteggiamenti diversi di Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio nei confronti di Eurogermania, ammettendo sin d’ora di potersi illudere nel ritenere le differenze non un semplice “gioco delle parti”. 

 Il senso dei due post sopra richiamati era proprio questo: confrontare nelle parole e nei fatti una diversità che, almeno al momento, non appare solo formale o, peggio ancora, falsata dallo stesso proposito e che, se reale, aiuta a capire meglio il senso del ventilato abbandono del Quirinale da parte di un uomo che solo un anno e mezzo fa si era mostrato disponibile a “servire” il Paese almeno sino al varo delle riforme costituzionali.

 Quanto alle “lenti deformate […] in virtù di un acritico, irrazionale e storicamente ingiustificabile moto di pervicace empatia nei confronti sia di Napolitano che di Renzi”, non mi sembra che DPR abbia penetrato a fondo lo spirito che animava il cittadino medio o forse non aveva un reale interesse a farlo. Il dato è che questo stesso cittadino ha visto spesso in Napolitano, anche senza condividerne le idee o addirittura criticandolo, un punto di riferimento nel caos della politica italiana degli ultimi tempi e in Renzi la speranza di un reale cambiamento, alla luce della inconsistenza politica e umana di altri leader, sia di quelli che si sono già cimentati sulla scena politica italiana, sia di quelli che attendono pazientemente il loro turno.


 Sergio Magaldi

mercoledì 17 dicembre 2014

IL BILANCIO DEL PRESIDENTE




  Il cittadino medio che ieri aveva finito col ritenere che le ventilate, prossime dimissioni di Napolitano non dipendessero da stanchezza o malattia [post del 15 Dicembre: IL CITTADINO MEDIO, clicca sopra per leggere], vedendo i telegiornali della sera è stato sul punto di ricredersi. I commenti televisivi del discorso che il Presidente della Repubblica ha rivolto, in occasione degli auguri di Natale, ai rappresentanti di istituzioni, forze politiche e società civile, sottolineavano tutti la scesa in campo di Napolitano in favore di Matteo Renzi e del suo governo. Pronto a ricredersi di ciò che aveva concepito il mattino, il solerte cittadino medio è andato a leggersi per intero il discorso sul sito istituzionale della Presidenza della Repubblica.

 È vero che vi si trovano diversi passaggi che sottolineano l’azione positiva del Presidente del Consiglio e dei suoi ministri:

 “[…]  Il forte consenso espressosi nelle elezioni del 25 maggio per il partito che guida il governo italiano ha oggettivamente garantito accresciuto ascolto e autorità all'Italia nel concerto europeo, come si è visto nel peso esercitato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi nel concorrere a soluzioni unitarie e significative nella definizione dei nuovi vertici dell'Unione, e innanzitutto nella composizione e nella guida della nuova Commissione”.

 “ […] E in questo senso bisogna considerare il programma di riforme messo a fuoco dal Presidente Renzi e dal suo governo. Riforme su cui ogni forza politica potesse misurarsi, senza pregiudiziali e in termini di confronto tra visioni e approcci seriamente sostenibili. Si tratta di un programma vasto, da scaglionare nel tempo complessivo che lo stesso governo ha voluto assegnarsi: ma che ha dato il senso di quale cambiamento fosse divenuto indispensabile, e non più eludibile o rinviabile”


 Come pure la rivendicazione dell’importanza delle riforme istituzionali volute da Renzi e da lui sempre auspicate:

 “ […] Ma non posso ritenere convincente l'argomento, che pure circola, di una non importanza (né di possibile ricaduta benefica), invece, dal punto di vista della crisi economica e sociale, delle riforme istituzionali. Sembra quasi, a taluni, che il superamento del bicameralismo paritario sia un tic da irrefrenabili "rottamatori" o da vecchi cultori di controversie costituzionali”.

 Insomma, nella probabile imminenza di lasciare il Quirinale, il Presidente fa una sorta di bilancio di ciò che ha condiviso col governo, perché era anche il suo programma, tant’è che i meriti non sono tutti del “rottamatore”, ma anche e soprattutto di chi lo ha preceduto al governo e godeva della sua fiducia [leggi: Letta]:

“ […] Nello stesso tempo, durante il semestre della sua presidenza, il governo italiano, partendo dall'accurato lavoro preparatorio svolto dal precedente esecutivo, ha potuto operare validamente, e con senso di maggior sicurezza, in un clima nuovo di attenzione, per porre al centro dello sforzo comune esigenze, elaborazioni, proposte per un nuovo corso delle politiche finanziarie e di bilancio dei Ventotto”.

 D’altra parte, osserva ancora il Presidente, tutte le scelte sono avvenute “entro i limiti della Legge di stabilità” e sarebbe esiziale per il Paese il ricorso ad elezioni anticipate o addirittura l’ipotesi di scissioni all’interno del partito di maggioranza [Leggi: PD]. Un avvertimento per chi? Per Matteo Renzi? Per il prossimo Presidente della Repubblica? Forse per tutti e due:

 “ […] Non possiamo essere ancora - è vizio antico - il Paese attraversato da discussioni che chiamerei ipotetiche: se, quando e come si possa o si voglia puntare su elezioni anticipate, da parte di chi e con quali intenti; o se soffino venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa”.

  Da ultimo, non manca, quasi a ricucire gli strappi recenti di Renzi contro Berlino, il richiamo all'incontro di amicizia, tra Italia e Germania:

 “ […]E tutto richiede continuità istituzionale. A rappresentarla e garantirla mi ero personalmente impegnato ancora una volta, per tutto lo speciale periodo del semestre italiano di presidenza europea. E qualche giorno fa, in occasione dell'incontro italo-tedesco di alto livello a Torino da me aperto insieme con il Presidente Joachim Gauck, ho sentito come i nostri amici in Europa e nel mondo si attendano da noi precisamente questo: nuove, serie prove di continuità nel cambiamento. Non deludiamoli e non veniamo meno ai doveri che abbiamo verso il nostro Paese e il nostro popolo in frangenti tra i più complessi, e aperti nell'esito, che abbiamo vissuto”.

 Dopo aver letto e a lungo meditato sulle nobili parole del Presidente che, con quel riferimento personale al semestre europeo dell’Italia, ormai prossimo a scadenza, sembra già aver preso  commiato dal Quirinale, il nostro cittadino medio è rimasto più che mai fermo nelle convinzioni di ieri.


Sergio Magaldi  

martedì 16 dicembre 2014

IL CITTADINO MEDIO




  Le  ventilate dimissioni del Presidente della Repubblica, ormai date addirittura per imminenti, pongono non da oggi diversi interrogativi nell’opinione pubblica. Com’è possibile – si chiede il cittadino medio – che Napolitano, dopo aver accettato con indubbio spirito di sacrificio la permanenza al Quirinale, con l’obiettivo di garantire almeno l’approvazione delle riforme costituzionali  e il varo di una nuova legge elettorale, decida di andarsene proprio ora? È vero che il Presidente annunciò sin dal momento della rielezione la volontà di non completare il nuovo settennato, ma di qui a lasciare dopo un anno e mezzo… ce ne corre! Soprattutto considerando che l’abolizione del bicameralismo perfetto, cui Napolitano sembrava tenere particolarmente, è ancora in cantiere?

 Le risposte che il suddetto cittadino ha saputo trovare, confortato dal buon senso dei media, sono state per diversi giorni quelle legate allo stato di salute e/o alla condizione esistenziale del Presidente: “Forse è disgustato delle continue e inconcludenti manovre dei partiti, forse è gravemente ammalato o forse, giunto ormai alla soglia dei novanta anni, è semplicemente stanco della ribalta”. Con l’auspicio che non fosse la malattia la ragione dell’improvviso abbandono, il medesimo cittadino non sapeva nascondere un senso di frustrazione, una sostanziale disillusione e una profonda inquietudine per il futuro.

 Gli avvenimenti dell’ultima settimana hanno tuttavia fatto sorgere nuovi interrogativi nella mente del cittadino medio.

 Il Presidente del Consiglio sembra essersi alienato molte delle simpatie di cui godeva: in Europa, con la critica di Juncker, della Merkel e della Germania, nonché di coloro che continua a definire i “tecnocrati europei”, con il lancio del principio di flessibilità di contro a quello di stabilità –  concetto ribadito anche questa mattina in Parlamento con l’affermazione che gli investimenti dovrebbero essere esclusi dal patto di stabilità perché non vanno considerati come spesa ma come interventi produttivi con l’obiettivo dello sviluppo, della crescita e dell’occupazione – e infine con la presentazione di una manovra che la commissione europea giudica carente e bisognosa di misure correttive. In Italia, con l’approvazione del Jobs Act e l’abolizione del “famoso” articolo 18 che gli è valsa la guerra della minoranza del suo partito e quella del sindacato, con lo sciopero generale del 12 Dicembre e rompendo con Maurizio Landini, al vertice della FIOM e sino a qualche tempo fa suo interlocutore privilegiato.

 Il cittadino medio ha intanto potuto riflettere sugli ultimi interventi del presidente Napolitano. Il 10 Dicembre  all’Accademia dei Lincei:

 “ […] Indicò infine, con grande sapienza storica, la strada maestra delle "ragionevoli speranze", da coltivare "con perseveranza" e con "ogni sobrietà, giorno per giorno". Mi auguro siano risultate tali quelle ricavabili dalle mie considerazioni sulla politica, tenendoci ben lontani sia dai "senza speranze" sia dai banditori di "smisurate speranze" […] In questo inaspettato prolungamento del mio mandato istituzionale ho avuto la fortuna di incontrare molti giovani all'inizio della loro esperienza parlamentare e di governo, cui sono giunti spesso senza alcun ben determinato retroterra. A ciascuno di loro ho cercato di ricordare quanto sia importante impegnarsi a fondo e con umiltà nell'attività politica, con spirito di servizio e scrupolo nell'approfondimento di merito delle principali questioni che coinvolgono la nostra comunità. Sono convinto che questa sia la strada migliore per porre i loro talenti al servizio del Parlamento e del paese, impedendo l'avvitarsi di cieche spirali di contrapposizione faziosa e talora persino violenta, e invece alimentando, appunto, "ragionevoli speranze" per il futuro dell'Italia e dell'Europa.

Il giorno successivo [11 Dicembre] al Teatro Regio di Torino, nel primo dei due giorni dedicati all’incontro di amicizia tra Italia e Germania, alla presenza di Joachim Gauck, Presidente della Repubblica Federale Tedesca:

“ […]in occasione - ad esempio - delle elezioni per il Parlamento europeo.  Alla vigilia di quelle elezioni, io e lei, Presidente [Germania] Gauck, lanciammo un "appello" insieme al Presidente polacco Komorowski, per mettere i cittadini dell'Unione in guardia contro le derive del populismo e di un antieuropeismo che ha trovato fertile humus in una crisi economica difficilissima da gestire. Abbiamo chiamato gli elettori a riacquisire e diffondere la consapevolezza che all'integrazione dobbiamo settant'anni di crescita e progresso sociale e civile e innanzitutto - premessa essenziale - di pace in Europa. Come sottovalutare questa conquista preziosa, culminata a fine secolo nell'unificazione dell'Europa dell'Ovest, del Centro e dell'Est entro le istituzioni e le regole dei Trattati, a partire da quelli di Roma?”

 Dove, pure, il Presidente Napolitano non ha mancato di sottolineare la “complessiva inadeguatezza a padroneggiare le implicazioni della creazione dell'Euro e di una politica monetaria sovranazionale”, dicendosi al tempo stesso sostanzialmente fiducioso nell’impegno dell’Unione a sconfiggere la recessione e a rilanciare la crescita:

 “ […] C'è stata - questa è la verità - una complessiva inadeguatezza a padroneggiare le implicazioni della creazione dell'Euro e di una politica monetaria sovranazionale, a darvi tutte le proiezioni e gli sviluppi necessari sul piano delle politiche fiscali ed economiche e ad avanzare sul terreno di una Unione Politica. Uscire da quei limiti fatali e sciogliere in questa ottica i nodi di una crisi nata fuori d'Europa ma degenerata in Europa nella più profonda e ostinata recessione, questa è la nostra responsabilità. Di Italia e Germania in modo particolare, per il peso che abbiamo avuto nei decenni più fecondi della costruzione europea […] Di qui l'impegno che in termini generali non ha potuto non essere condiviso, sia pure con accentuazioni diverse, dalle istituzioni dell'Unione: l'impegno a sconfiggere la recessione, scongiurare la deflazione, adottare misure idonee a rilanciare la crescita ponendola su basi di maggiore produttività e competitività delle nostre economie. E ciò senza trascurare - come egualmente sembra da tutti riconoscersi - la prospettiva del riequilibrio e risanamento delle nostre finanze pubbliche, dei nostri bilanci”.

 Parole nobili quelle del Presidente e certamente condivisibili, nel loro stile vagamente notarile, dal partner tedesco. Affermazioni che nella loro sagacia sembrano tese a ristabilire quel clima idilliaco tra Italia e Germania che le politiche dell’Ulivo e del Centro-Destra berlusconiano hanno coltivato per più di vent’anni [con il risultato che abbiamo sotto gli occhi] e che Renzi, il giovane ribelle, ha rischiato di mettere in questione.

 Il 12 Dicembre, nel secondo e ultimo giorno dell’incontro Italia-Germania, coincidente con lo sciopero generale proclamato dai maggiori sindacati italiani:

 “[…] Poi è la giornata numero due del Forum di Dialogo italo-tedesco ed è anche la giornata - ma le due cose sono indipendenti l'una dall'altra - dello sciopero generale proclamato proprio per oggi che è il segno senza dubbio di una notevole tensione nei rapporti tra sindacati e governo. Io non entro ovviamente nel merito delle ragioni degli uni o degli altri, mi auguro che si discutano anche sia le decisioni già prese, come quella della legge di riforma del mercato del lavoro, sia quelle da prendere soprattutto per il rilancio dell'economia e dell'occupazione in un contesto europeo, e che si trovi la via di una discussione pacata. Naturalmente poi il governo ha le sue prerogative e le ha anche il Parlamento, e ha il suo ruolo da svolgere il sindacato. Sarebbe bene che ci fosse rispetto reciproco di queste prerogative e che non si andasse ad una esasperazione come quella di cui oggi abbiamo il segno e che non fa bene al Paese".

 Parole anche queste ispirate da prudenza, senso delle istituzioni e consapevolezza della distinzione dei poteri in uno stato democratico, dalle quali, nondimeno, il cittadino mediamente informato, anche se ignaro dei giochi della politica, può farsi l’idea, magari erroneamente, che il Presidente abbia voluto tirare nuovamente le orecchie al “giovane ribelle” di Palazzo Chigi.

  Ecco allora che il suddetto cittadino – rallegrandosi che le dimissioni del Presidente forse non sono dettate dalle condizioni di salute – comincia a pensare, forse a torto, che altre siano le ragioni dell’abbandono anticipato del Quirinale. Anche se Renzi gode ancora del favore della maggioranza di quelli che vanno a votare, non piace più a quelli che contano. Non ha portato a compimento le riforme costituzionali, né la legge elettorale, né altre leggi significative [A rimproverarlo in tal senso, in Italia, sono proprio quelli che difendono ancora il bicameralismo perfetto e le lobby del privilegio], e per fare approvare l’unica vera riforma interessante per Eurogermania, il Jobs Act, ha spaccato il partito e rotto con i sindacati, dimostrando una scarsissima capacità di mediazione politica in un Paese che del compromesso ha sempre fatto la propria bandiera, ma soprattutto ha lanciato una insostenibile sfida all’Europa, per di più cercando un alleato nella Francia di Hollande.

 Con la questione dell’elezione del nuovo Presidente, con la maggioranza dei parlamentari del suo partito a lui sfavorevole, Renzi non potrà fare eleggere il “suo” candidato al Quirinale, né potrà minacciare lo scioglimento delle Camere, ritarderà le riforme, dovrà giungere a compromessi, prima di tutto con l’Europa, insomma sarà solo contro tutti e rischierà di alienarsi in breve tempo anche il favore popolare.


Sergio Magaldi

mercoledì 3 dicembre 2014

MY OLD LADY

My Old Lady, regia di Israel Horovitz, USA-Inghilterra-Francia, Novembre 2014, 107 minuti



 Un film elegante, garbato… francese. Eppure non sono francesi né il regista Israel Horovitz, né i protagonisti: dall’americano Kevin Kline nella parte dello spiantato newyorchese Mathias Gold, giunto a Parigi per prendere possesso dell’eredità paterna, né le inglesi Maggie Smith e Kristin Scott Thomas, efficaci interpreti, rispettivamente, della novantenne Mathilde Girard e di sua figlia Chloé.

 È l’amore che ha sempre nutrito per la ville lumière, a consentire a Israel Horovitz la trasposizione cinematografica di una pièce rappresentata con grande successo al Promenade Theater di New York circa 12 anni fa. È il “salto” da una città virtuale che vive sul palcoscenico ad una città reale, per un’ambientazione niente affatto “da cartolina”, con personaggi per nulla “superficiali e stucchevoli”, come pretende Paolo D’Agostini su la Repubblica.






  Al contrario, la psicologia dei tre protagonisti è a lungo scavata e non ci sono i monumenti celebri dei film più famosi su Parigi, ma solo strade e “lungosenna” [quais] dove passeggiano gli innamorati.  Perché, nonostante l’intreccio si basi sull’eredità “viager” di un grande appartamento nel centro di Parigi – un bene che l’erede potrà acquisire solo con la morte del vecchio proprietario, al quale deve intanto corrispondere un vitalizio mensile –, My Old Lady è innanzi tutto un film d’amore: amore verso una città, amore per chi se ne è sentito privato nell’infanzia e nell’adolescenza, amore romantico tra due spiriti che si riconoscono, anche quando per loro è già iniziato l’autunno della vita e tutto attorno sembra precipitare nel melodramma.

 E su tutta la vicenda, aleggia l’ironia garbata di una signora novantenne [nella splendida interpretazione di Maggie Smith] e la sua, cinica solo in apparenza, filosofia di vita: l’amore, quello vero, quali che siano le sue forme, non è mai sacrificio o rinuncia ma arricchimento e accettazione. Solo un malinteso, solo un’educazione sbagliata può fare apparire come tabù ed egoismo un sentimento autentico tra due persone.

 Un film che tratta la vita per quello che è: una fugace visione della bellezza, un’opportunità altrettanto fugace di amare veramente, senza illusioni e senza precetti. Peccato solo che la critica nostrana non l’abbia saputo apprezzare.

sergio magaldi

      

domenica 23 novembre 2014

SEI MILIONI DI ITALIANI OGGI AL VOTO









  Sorprende non poco che, alla vigilia delle elezioni regionali in Emilia Romagna e in Calabria, il governo lasci passare le indiscrezioni sulla riforma della RAI, con misure che dovrebbero svincolare l’ente pubblico radiotelevisivo dalle ingerenze dei partiti [Come se questo fosse possibile, semplicemente sottraendo alle segreterie di partito le nomine dei dirigenti e dei consiglieri di amministrazione!], diminuire il canone per i cittadini, ma al tempo stesso introducendolo anche per le seconde case come balzello obbligatorio da inserire nella bolletta dell’elettricità o, come sembra più probabile, come prelievo fiscale, a prescindere dal fatto che si possieda o no un apparecchio televisivo. Insomma, un po’ quello che è avvenuto, con i precedenti governi, per i cosiddetti servizi aggiuntivi, introdotti per aumentare vistosamente l’IMU e la tassa sui rifiuti. Un provvedimento demagogico che mentre strizza l’occhio all’antipolitica, dichiarando di voler sottrarre finalmente il servizio pubblico radiotelevisivo alle spartizioni partitocratiche, finisce per ridurre ulteriormente i consumi degli italiani. Annuncio che va di pari passo con la riforma del catasto, ormai prossima, e che vedrà aumentare  per molti cittadini la rendita catastale già lievitata di recente a seguito della revisione della classe e della categoria degli immobili di diverse microzone dei centri urbani, in applicazione dell’art.1, comma 335, della legge 311/2004.

 Bene, anzi male, perché viene da pensare che il governo Renzi, sul quale si erano appuntate tante speranze da parte degli italiani, continui esattamente nella politica dei precedenti governi, per di più trattando i cittadini nemmeno da sudditi, ma da bambini ai quali si può far credere tutto, anche che questa preannunciata riforma della Rai si faccia nel loro interesse! C’è un solo modo per riformare davvero il servizio pubblico radiotelevisivo ed è quello di abolire il canone, lasciando la Rai libera di competere sul mercato, con le altre televisioni private, introducendo accanto ad una o due reti in chiaro, pubbliche e gratuite, servizi a pagamento su determinati programmi particolarmente pregevoli e appetibili.

 Più in generale, si ha l’impressione che il governo Renzi, non potendo far cassa a spese delle tante lobby, dopo averci timidamente provato, finisca per ricorrere al solito aumento delle tasse che avrà come effetto di deprimere ulteriormente i consumi degli italiani, innescando una crisi sociale ed economica di proporzioni sempre più vaste e senza soluzione di continuità.

 Cosa sta accadendo al “Rottamatore”? Dopo essere stato costretto da Eurogermania a rompere un equilibrio che pareva finalizzato all’approvazione della riforma della legge elettorale e all’abolizione del bicameralismo perfetto, i soli strumenti che potrebbero consentire di cominciare a governare sul serio l’Italia [si vedano in proposito i post: Matteo Renzi e l’equilibrio della bilancia e Matteo Renzi e lo sbilanciamento, cliccando sopra per leggere], Renzi appare sempre più nervoso, e solo in apparenza sempre più sicuro di sé. Forse ha capito che né la governance europea né le tante lobby del suo paese gli consentiranno di cambiare realmente l’Italia, come pure credeva e pareva risoluto a fare. Cosa fa allora? Si volge a cambiare lì dove gli è consentito e/o dove pensa di non trovare ostacoli o addirittura, trovandoli, di servirsene per allargare la propria base elettorale. Per fare cassa, tuttavia, deve ricorrere a misure che, se non ora, presto si riveleranno impopolari. Le circonda con l’aura dell’antipolitica, facendo credere quello che non è. Di qui il suo nervosismo. Sa di avere le mani legate. Cerca nuovi bilanciamenti, lasciando intendere che il patto del Nazareno non è poi così saldo e per farlo credere getta sul tavolo una carta non prevista, quella che Di Maio di Cinque Stelle gli aveva fatto intravedere nell’incontro di Luglio, di cui tutti sembrano essersi dimenticati. Scrivevo allora nel post L’incontro tra PD e M5S sulla riforma elettorale [clicca sopra per leggere tutto]:

 “ […] E, in questo senso, una mano a Renzi sembra darla proprio Di Maio. L’esponente di Cinque Stelle, infatti, se per un verso dichiara di aver voluto incontrare il PD per tentare di arginare “la deriva” democratica che si va configurando nel Paese, dall’altra sembra incline ad accettare l’Italicum nelle sue linee generali, purché venga introdotto, il voto di preferenza dei candidati, abolita la soglia di sbarramento, sostituito il ballottaggio tra le due coalizioni più forti con il doppio turno di lista. Ho detto sembra, perché in realtà, ove accolte, tali modifiche muterebbero profondamente la natura della legge elettorale già approvata alla Camera.


 Anch’io ritengo che con queste modifiche [con qualche riserva da parte mia sul voto di preferenza, per le ragioni già spiegate in diversi post di questo blog] – che in linea di massima non sarebbero sgradite neppure a Renzi – la legge elettorale migliorerebbe sensibilmente. Resta il fatto che nessuna delle tre proposte dei Cinque Stelle potrà essere accettata da Berlusconi, in particolare il doppio turno di lista che rischierebbe di mettere fuori gioco Forza Italia proprio a vantaggio del M5S. Io credo che Renzi e Di Maio siano i primi a saperlo […]”.

 Nonostante tutto, continuo a credere che Matteo Renzi sia, almeno per il momento, l’unico leader capace di cambiare questo infelice Paese. Si astenga da riforme cervellotiche e furbesche per fare cassa e/o produrre consenso elettorale, così come sembra aver capito facendo marcia indietro sul Bonus bebé per le famiglie con redditi di 7000-8000 Euro mensili! Metta ogni energia nel fare approvare più in fretta che può la riforma del senato e la legge elettorale, aspetti poi fiducioso il responso delle urne e infine, quando avrà ottenuto la legittimazione popolare, si volga in direzione dell’Europa per tentare di cambiarne la governance oligarchica.

sergio magaldi


mercoledì 19 novembre 2014

IL NON-CALCIO DELLA NAZIONALE ITALIANA






 Con la striminzita vittoria di ieri contro l’Albania, in una notte dedicata a Genova e ai disastri provocati dalla “inondazione responsabile” della città, si conclude il primo ciclo della nuova gestione di Antonio Conte. Bilancio positivo se si guarda ai risultati: su sei partite disputate, due vittorie nelle amichevoli contro l’Olanda e l’Albania, tre vittorie nelle qualificazioni europee 2016 e un pareggio casalingo con la Croazia. Se si prescinde dalla quantità, tuttavia, e si guarda alla qualità, solo nelle prime due partite l’Italia calcistica ha giocato a pallone [contro Olanda e Norvegia].

 Nelle ultime quattro partite, infatti, le vittorie sono arrivate all’insegna del non-calcio e per di più contro nazionali come Azerbaijan, Malta e Albania. Non certo per colpa di Conte che, al contrario, ha tutto il merito di aver ottenuto il massimo con i giocatori a disposizione, anche considerando le molte assenze e la non buona condizione di forma che di volta in volta gli hanno impedito di schierare in campo i calciatori migliori o almeno più noti. In più con il merito di aver dato spazio a giocatori mai utilizzati o scarsamente utilizzati in passato. Pur nel non-gioco complessivo di ieri sera, per esempio, vanno sottolineate le prove positive di Cerci e di Okaka.

 Ciò premesso, più che comprensibili “le lamentazioni” di Antonio Conte prima e dopo la partita. La nazionale tornerà a scendere in campo solo a Marzo 2015 e al momento non sono previste pause di campionato per consentire al commissario tecnico di allenare i suoi giocatori. Inoltre, la FIGC [La Federazione Italiana Gioco Calcio, nuova nei suoi dirigenti e con un presidente che appena insediato si è subito segnalato per dichiarazioni improvvide che gli sono valse sei mesi di squalifica internazionale], che pure ha il merito di aver affidato ad Antonio Conte la conduzione della nazionale, sembra intenzionata a non cambiare nulla, perseguendo in tutto e per tutto nella politica che sta uccidendo lo sport nazionale per eccellenza, secondo una vocazione che ormai caratterizza il Paese del Gattopardo, non solo nel gioco del calcio, ma purtroppo in ogni ambito della vita civile.

 Già nel mese di Giugno, all’indomani della disfatta italiana nel mondiale brasiliano, scrivevo [per leggere tutto il post clicca su I doni del cielo e quelli di Cesare Prandelli]:

 “Ma le responsabilità di Prandelli non escludono le responsabilità, addirittura maggiori di altri. A cominciare dalla FIGC [Federazione Italiana Gioco Calcio] che non fa nulla per promuovere i vivai giovanili e che consente alle squadre italiane del massimo campionato di schierarsi in campo senza calciatori italiani, come è avvenuto in passato per l’Inter, o con un solo italiano, come per il Napoli [Insigne] o per la stessa Inter [Ranocchia] di quest’anno, o con due o tre italiani, come avviene di regola per la maggior parte delle squadre, se si escludono  Juventus e Roma, destinate prima o poi anch’esse ad uniformarsi alla moda che favorisce l’importazione dei giocatori e l’arricchimento dei procuratori, con la giustificazione politica della libera circolazione dei “lavoratori” del pallone. Se non si avrà il coraggio di introdurre la regola – già inutilmente ventilata in passato – che il tesseramento libero e semilibero di calciatori comunitari ed extracomunitari debba essere affiancato dall’obbligo che almeno sei giocatori degli undici schierati sul rettangolo di gioco  siano italiani [intendendo per italiani anche gli oriundi e i naturalizzati], presto sarà persino impossibile allestire la nazionale di calcio”.

 Da allora, e sono già passati circa sei mesi, nulla è cambiato, né si prevedono cambiamenti nell’immediato futuro. In questa situazione, come dar torto ad Antonio Conte? Il commissario tecnico della nazionale italiana di calcio ha tutte le ragioni di lamentarsi, tanto più se – come sembra – gli era stata promesso, al momento in cui ha accettato l’incarico, un sostanziale mutamento di rotta della politica calcistica.

sergio magaldi

lunedì 17 novembre 2014

THE JUDGE

The Judge, [Il Giudice], regia di David Dobkin, USA, 2014, 142 minuti



 The Judge [Il Giudice] non potrebbe essere film più “americano”, nel migliore e nel peggiore dei sensi. Nel migliore: innanzi tutto perché per l’intera durata, due ore e venti minuti, mantiene sempre elevato il ritmo, ciò che ne fa appunto un film, poi perché si avvale della recitazione di due grandi attori: Robert Downey Jr, nel ruolo di Hank Palmer, l’avvocato di successo e privo di scrupoli che vive a Chicago e Robert Duval, suo padre, il giudice di una immaginaria cittadina dell’Indiana, Joseph Palmer, noto per la sua severità come tutore della legge e come genitore. Nel peggiore, perché ripropone i tradizionali clichés della società americana: una cittadina di provincia del Midwest con i suoi drammi e i suoi segreti e dove prevale una mentalità reazionaria, e ancora: l’alcolismo e l’eterno conflitto generazionale che rende i figli ottusi o li trasforma in ribelli di successo. Se non fosse per una lapide dove si vede scolpita una data di morte [Gennaio 2014], penseremmo di trovarci in un film americano ambientato negli anni Sessanta del secolo scorso.








  Come non bastasse, l’idea di fondere insieme, nel film, il dramma giudiziario [courtroom movie] con quello familiare ha il potere di ridurre di molto l’efficacia della rappresentazione dell’uno e dell’altro. Perché il processo che ha per imputato l’integerrimo giudice di Carlinville, con il figlio accettato dal padre come difensore solo all’ultimo momento, presenta molte lacune sotto il profilo della difesa come dell’accusa e lascia sgomento lo spettatore nel vedere, prima il figlio interrogare il padre come testimone, poi nell’ascoltare la deposizione del padre al limite del patetico e infine nell’apprendere qual è l’asso nella manica del tanto celebrato avvocato di Chicago.

 Quanto al dramma familiare, nulla di nuovo sotto il sole: un padre burbero e autoritario che, insieme al male che lo affligge, nasconde i veri sentimenti che nutre verso il figlio “scapestrato”, più che altro nel ricordo di quando era piccolo e gli ubbidiva ciecamente o quasi. Tutto il resto è contorno che sa di déjà vu: dalle vicende sentimentali dei protagonisti alle soluzioni trovate per “uscire” dal film dopo circa due ore e mezzo di proiezione.

 Solo l’interpretazione di due grandi attori giustifica il costo del biglietto.

sergio magaldi


giovedì 13 novembre 2014

CHI SONO I MASSONI NELL'IMMAGINARIO COLLETTIVO?


lunedì 10 novembre 2014

"UNA SERA A PARIGI" nell'eco di un film di Woody Allen

Nicolas Barreau, Una sera a Parigi, Universale Economica Feltrinelli, ottobre 2014, pp.251


 È abbastanza arduo parlare di un libro di uno “scrittore immaginario”, come Wikipedia definisce Nicolas Barreau, l’autore francese di Una sera a Parigi [titolo originale: “Eines Abends in Paris”] che scrive in tedesco [!] tutti i suoi libri. Osserva in proposito l’enciclopedia libera:

 “Nicolas Barreau è uno scrittore immaginario a cui sono attribuiti quattro romanzi d'amore pubblicati dalla casa editrice tedesca Thiele & Brandstätter. La sua fama è legata in particolare al terzo romanzo, Gli ingredienti segreti dell’amore, che ha venduto oltre 150 mila copie in Germania ed è stato al primo posto delle classifiche italiane per quattro mesi. La falsa identità dell'autore è stata denunciata dal giornalista Elmar Krekeler in un articolo pubblicato su Die Welt in cui viene analizzata la tendenza delle case editrici tedesche a creare autori fittizi per la pubblicazione di nuovi romanzi scritti in base ad analisi di mercato. Secondo lo scrittore Norbert Krüger, il personaggio di Nicolas Barreau è stato creato dalla casa editrice per sfruttare il favore di pubblico ottenuto dagli autori francesi in Germania […] Secondo le note biografiche riportate dall'editore, Barreau sarebbe nato a Parigi nel 1980 da madre tedesca e padre francese. Laureatosi alla Sorbonne in Lingue e letterature romanze, avrebbe lavorato in una libreria sulla Rive Gauche prima di dedicarsi alla scrittura”.

 Ciò premesso, e senza entrare nel merito di come funziona il mercato editoriale, vale la pena esaminare con quali ingredienti sia stato costruito il romanzo, a prescindere dal fatto che sia opera del vero o falso Nicolas Barreau.

  Una sera a Parigi racconta una vicenda romantica, percorrendo strade e luoghi suggestivi della Ville Lumière ad uso e consumo del turista tedesco e non solo. Alain Bonnard è il giovane proprietario di un cinema d’essai ereditato dallo zio, il Cinéma Paradis, così chiamato in omaggio al film Nuovo Cinema Paradiso [1988] di Giuseppe Tornatore.  





 Tra i pochi frequentatori del suo locale, seduta sempre nello stesso posto della fila 17, Alain vede una ragazza dal cappotto rosso [siamo in inverno] di cui finisce con l’innamorarsi. Solo dopo quattro mesi trova il coraggio di rivolgerle la parola e di invitarla a cena. L’incontro con Mélanie [questo il nome della ragazza] avviene di Mercoledì e si rivela subito come una “promessa d’amore” tra i due giovani, ma Alain non potrà rivedere la ragazza sino al Mercoledì successivo, quando Mélanie sarà di ritorno da un piccolo paese della Bretagna, dopo aver fatto visita alla zia inferma. Al momento dei saluti – a tarda notte, sotto l’albero di castagno che si trova all’interno di un caseggiato di rue de Bourgogne, dove la ragazza abita – un bacio appassionato suggella data luogo e ora del prossimo incontro: sarà al Cinéma Paradis, il Mercoledì successivo, nell’orario della proiezione serale del film.

 Alain trascorre una settimana straordinaria. La ragazza dal cappotto rosso, prima di partire, gli ha fatto avere un biglietto che porta sempre con sé e che rilegge di tanto in tanto:

Caro Alain,
 tutto bene il rientro a casa ieri? Mi sarebbe piaciuto accompagnarti in rue de l’Université, ma così avremmo passato tutta la notte a fare la spola e stamani dovevo alzarmi presto. Però non ho dormito. Sono entrata in casa e mi mancavi già. E quando questa mattina ho aperto la finestra e ho visto il vecchio castagno mi sono sentita felice […] non vedo l’ora che sia mercoledì prossimo, non vedo l’ora di rivederti  e non vedo l’ora di vivere tutto quello che verrà. Ti bacio,M. [pp.51-52].

 Non sono solo le parole di Mélanie a rendere speciale quella settimana per Alain. Come dal nulla, due figure si sono materializzate, una sera, davanti al Cinéma Paradis: il grande regista americano Allan Wood e una famosa e bellissima attrice francese che vive negli Stati Uniti, entrambi intenzionati a chiedergli di poter girare alcune scene del film Ricordando Parigi all’interno del cinema di sua proprietà. Inutile aggiungere che la pubblicità dell’evento, le foto scattate dai tanti paparazzi, con Alain in compagnia dell’attrice, fanno riempire di spettatori la sala del cinema d’essai nella quale è in programmazione una rassegna del film d’amore.

 Qui, il riferimento al film Midnight in Paris di Woody Allen [clicca sul titolo per leggere] non è casuale, ma espressamente voluto, con quell’assonanza col nome scelto per il regista del romanzo [Allan Wood]. E come non bastasse, con altri particolari che scoprirà il lettore, c’è il ponte Alessandro III – sul quale, nella scena finale del film, gli amanti s’incamminano sotto la pioggia [che c’è di più romantico che amarsi sotto la pioggia?!] – che è anche il ponte prediletto dalla ragazza dal cappotto rosso, una location che avrà la sua funzione nella vicenda di Alain e Mélanie.







 Come si vede, i voluti richiami al film di Woody Allen servono da esca all’inconscio del lettore, per predisporlo ad essere “pescato” e coinvolto nella trama del romanzo. Un libro ben congegnato, ancorché pieno di luoghi comuni e soluzioni scontate e paradossali. Una storia per anime sensibili e romantiche non ancora disilluse dalla realtà dell’amore vissuto.

 Eppure, il romanzo del vero o falso Nicolas Barreau ha il suo fascino nel riuscire a trasmettere l’angoscia di Alain quando Mélanie non si presenta all’appuntamento e inutilmente il giovane la cerca nel palazzo di rue de Bourgogne dove, evidentemente, la ragazza dal cappotto rosso non abita…


sergio magaldi