sabato 26 aprile 2014

IL RITORNO DI BERLUSCONI




 Dopo lunga astinenza, nell'imminenza delle elezioni europee, Berlusconi torna a parlare agli italiani e non poteva farlo che dal teatrino di Bruno Vespa, dove trova ad accoglierlo, al di là dell’iniziale scambio di battute con il direttore di Porta a Porta, tre rappresentanti della carta stampata che lo incalzano garbatamente con domande prevedibili. E, quando il direttore dell’Unità prova a portare la discussione sulla condanna per reato fiscale e il leader di Forza Italia comincia a parlare di magistratura e di sentenza iniqua, ecco Vespa intervenire ad evitargli inutili rischi cambiando bruscamente argomento. Com’è noto uno dei 12 punti del protocollo per il mantenimento del condannato ai servizi sociali, e non ai domiciliari o in carcere, prevede che Berlusconi si astenga dal rivolgere critiche ai magistrati.

 Ugo Magri, in un articolo sulla Stampa di ieri, osservava giustamente che la prima ora di Berlusconi in TV è trascorsa sonnolenta e che solo nell’ultima mezz’ora si è rivisto il personaggio carismatico di sempre. È quando dice e non dice fino a che punto gli piaccia Renzi, quando stronca beffardo le analisi politiche di Bondi, definendolo un poeta e un sognatore cui vuole bene e dal quale sa di essere ricambiato, quando snocciola uno dopo l’altro giudizi inappellabili sulle vicende politiche del passato: Fini che nel 2010 lo tradisce, allettato dalla promessa istituzionale di ottenere l’investitura a presidente del consiglio, la caduta del suo governo nell’Ottobre del 2011, preparata sin dalla Primavera dall’azione congiunta del capo dello stato e di Eurogermania, in tutto e per tutto ripetendo le analisi contenute nel libro di Alan Friedman [leggi il post cliccando sul titolo: Basterà ammazzare il Gattopardo?].

 È il Berlusconi di sempre quando definisce Travaglio, un genio del male, ma sicuramente il miglior giornalista italiano in circolazione, quando afferma che Renzi, il “simpatico rottamatore” si va trasformando progressivamente in “tassatore” e che sino ad ora, nonostante le tante promesse, "non ha portato a casa niente". Forse solo gli arcinoti 80 euro di detrazione fiscale per i redditi bassi, provvedimento che a lui, come presidente del consiglio, non sarebbe stato consentito senza adeguata copertura finanziaria, una mancia elettorale che non attiverà i consumi ma il risparmio e che sarà pagata con l’aumento delle tasse nei confronti di tutti i cittadini, compresi quelli che beneficeranno del modesto taglio fiscale. L’unica misura in grado di stimolare realmente il consumo da parte degli italiani – sostiene Berlusconi – sarebbe l’abbattimento della pressione fiscale. E qui il leader di Forza Italia sfonda una porta aperta.

 Si è ripetuto più volte che Renzi aveva due possibilità di utilizzo dei dieci miliardi racimolati tra tagli della spesa pubblica, tassazione della rendita finanziaria e delle banche. L’una è quella prescelta, cioè la riduzione di 80 euro del prelievo fiscale nelle busta paga dei lavoratori con reddito compreso tra gli 8000 e i 25.000 euro annui, l’altra era quella di ridurre i costi delle imprese. Non c’è dubbio che tra le due convenisse a Renzi scegliere la prima: più popolare e più gradita ai sindacati e alla minoranza cosiddetta di sinistra del suo partito e soprattutto più idonea a generare voti nelle prossime elezioni europee. Nessuno ha parlato di una terza possibilità di utilizzo di questo improvvisato tesoretto: quella di avviare una riforma fiscale in grado di ridistribuire in modo più equo la ricchezza fra gli italiani, diminuendo la tassazione IRPEF per il ceto medio [che non è certo rappresentato dai redditi di lavoro sino a 1300-1400 euro mensili, i cui titolari difficilmente destineranno gli 80 euro ai consumi, ma che, più probabilmente, del modesto importo si serviranno per saldare qualche bolletta arretrata] e aumentandola per i redditi medio-alti, quelli cioè superiori ai 4000-5000 euro netti mensili. Solo in tal caso si sarebbe potuto parlare con una certa credibilità di un incremento dei consumi. Aumentare di una manciata di euro redditi di sopravvivenza non genera consumo ma al massimo produce una lieve, maggiore solvibilità debitoria nei confronti di uno stato supertassatore e/o dei carrozzoni pubblici e privati che dispensano, a costi sempre crescenti, servizi di prima necessità, come luce, gas, acqua ecc… Molte le ragioni che giustificano Renzi nel non aver preso in considerazione questa terza possibilità. Innanzi tutto l’elevata evasione fiscale, che riduce di molto la piattaforma sulla quale fare gettito per le casse dello stato. Evasione sempre più imponente nel nostro Paese sinché, sul modello statunitense e tedesco, non si avrà la volontà politica di istituire veri controlli incrociati, con la possibilità di detrazioni fiscali da parte dei cittadini, l’unico mezzo concreto ed efficace per rintracciare la fonte di servizi resi in nero o in… grigio. In subordine, il coraggio di fissare un tetto di 5000 euro netti mensili per pensioni, stipendi e prestazioni varie di politici, dirigenti, collaboratori TV, magistrati, rappresentanti delle massime cariche istituzionali e via dicendo. In terzo luogo avere la forza per imporre ad Eurogermania lo sforamento del 3% del rapporto debito-PIL, sull’esempio di Francia e Spagna. Tutte misure che avrebbero determinato la caduta del governo dell’ex sindaco di Firenze e che, in ogni caso, non gli avrebbero consentito di contare su quel bonus elettorale che egli si ripromette di ottenere con le misure sin qui adottate.

 In conclusione, dunque, a Renzi, almeno per il momento e su questo terreno, non si può rimproverare nulla e Berlusconi fa solo demagogia elettorale. Stupisce invece che nessuno dei giornalisti presenti a Porta a Porta abbia fatto osservare al leader del centro-destra, perché non ha fatto lui la riforma fiscale, perché in tanti anni di governo a maggioranza bulgara non ha ridotto le tasse, come pure aveva promesso. Perché ha finito col sottoscrivere il pareggio di bilancio e il Fiscal Compact, soprattutto quando è venuto a sapere che la riduzione del nostro debito pubblico non sarebbe stata di 13 miliardi l’anno – come lui reputava equo – ma di 50, come hanno sempre ritenuto Merkel e compagni di merenda.

 Il vero affondo alla sua maniera, Berlusconi l’ha sferrato quando, in perfetta sintonia con il Movimento Cinque Stelle e in parziale convergenza con la minoranza del PD, ha ridicolizzato la riforma delle Province e il Jobs Act, ha preso le distanze dalla riforma del Senato vagheggiata da Renzi e soprattutto ha fatto persino marcia indietro sulla legge elettorale, dichiarando, ineffabile come sempre, di aver appreso, solo nelle ultime ore e da autorevoli costituzionalisti, che l’Italicum, così come si viene delineando, sarebbe anticostituzionale…

 Renzi commenta serenamente trattarsi di “fibrillazioni elettorali” dell’alleato del Nazareno, ma il direttore di Libero, presente a Porta a Porta, giura che questa volta Berlusconi fa sul serio. Staremo a vedere. Resta il fatto che con elezioni politiche anticipate il segretario del PD avrebbe poco da perdere, molto invece il leader di Forza Italia.

sergio magaldi  






martedì 15 aprile 2014

IL PRIMO E L'ULTIMO LIBRO DI SARAMAGO

José Saramago, Lucernario, trad.it. di Rita Desti, UEF, Milano, Novembre 2013, pp.325




    Nel Novembre dello scorso anno, la Feltrinelli ha pubblicato nell’Universale Economica il libro che può a buon diritto considerarsi il primo e l’ultimo di José Saramago [1922-2010], premio Nobel per la letteratura.

 Nel 1953 lo scrittore inviò ad una casa editrice il manoscritto di CLARABÓIA [Lucernario] per proporne la stampa, senza ricevere in cambio alcuna risposta. Solo 41 anni più tardi [1994], gli giunse dalla stessa casa editrice la proposta di pubblicazione. Saramago dichiarò di non volerlo dare alle stampe, lui vivente, con la motivazione che ciò che aveva narrato in quel romanzo giovanile poteva ormai essere raccontato in altro modo. In realtà, la delusione provata allora [non aver ricevuto neppure una risposta qualsiasi dall’editore] ebbe la sua parte nella decisione dello scrittore, tant’è che dal silenzio della casa editrice passarono vent’anni prima che Saramago tornasse a scrivere un romanzo.

 Il libro esce dunque postumo, e il lettore avrà una sorpresa duplice. Da una parte, gli sembrerà che il romanzo non appartenga a Saramago, tanta è la diversità dello stile che caratterizza  la narrazione dello scrittore più maturo [Vedi in questo blog i post dedicati ad alcuni suoi romanzi, clicca sui titoli per leggere: Votare scheda bianca in democrazia è reato? del 3 Maggio 2012, L'impermanenza alla maniera di Saramago del 20 Luglio 2012 e La morte è una donna che non risponde alle lettere del 31 Luglio 2012]. Dall’altra, il medesimo lettore troverà nel racconto e nello stile narrativo un’incredibile contemporaneità. Insomma, se da una parte gli mancherà quella prosa complessa e originale che tra ironia, sarcasmo e riflessione, descrive uomini, donne e situazioni reali, proiettandole in una dimensione che sa di surreale distacco e quasi di trascendenza, dall’altra sarà gratificato da una prosa semplice e lineare che coglie i personaggi  nel loro ambiente quotidiano e alla luce di una immanenza che rende prevedibili i loro comportamenti. Senza che tutto ciò rappresenti una rottura di continuità tra il primo e il secondo Saramago, perché l’apparente fattualità narrativa dell’uno finirà con l’affluire nell’eloquente, lucida, ironica e talora paradossale espressione metafisica del secondo.



Lisbona, piazza del Rossio


  Il romanzo postumo prende il nome dal lucernario di un tetto che, illuminando le scale di un palazzo di un quartiere popolare di Lisbona, mette a nudo la vita degli inquilini che quelle scale scendono e salgono ogni giorno. L’ambiente squallido riflette quello della città lusitana alla fine degli anni Quaranta, quando Salazar e la spietata polizia politica [PIDE] controllano un Paese che, pur nella fortunosa mancata partecipazione alla seconda guerra mondiale, sconta con la miseria delle classi popolari, i privilegi della borghesia di regime.







  


















 Sei famiglie raccolte nell’edificio illuminato dal lucernario, ciascuna con una storia diversa, tutte accomunate dall’esigenza di sopravvivere in una dimensione in cui l’indigenza e l’incomprensione  amplificano il malessere fisico ed esistenziale. C’è Justina, una donna dalla “figura lunga e macilenta” che vive nel ricordo della piccola figlia morta, e suo marito Caetano “che aveva fama di essere un uomo rozzo, con quel corpaccione gonfio e i modi grossolani. Non aveva ancora quarant’anni e pareva più vecchio, con quel volto flaccido, gli occhi sporgenti e il labbro umido sempre penzolante. Nessuno capiva come e perché due esseri tanto diversi si fossero sposati. È pur vero che nessuno ricordava di averli mai visti insieme per la strada. E, altrettanto, nessuno comprendeva come da due esseri nient’affatto buoni (gli occhi di Justina erano belli e non buoni) fosse potuta nascere una figlia aggraziata quanto lo era la piccola Matilde. Si sarebbe detto che la Natura si era sbagliata e che, poi, scoprendo l’errore, lo aveva corretto facendo sparire la bambina.” [p.28].

   Ed ecco altre famiglie testimoniare, agli occhi del giovane Saramago, lo squallore del legame coniugale: Anselmo e Rosalía che vivono nella reciproca indifferenza, unicamente in funzione della loro figlia, la bella Claudinha. La quale, cercando una scorciatoia per togliersi dall’indigenza, farà tacere gli scrupoli morali e i tabù familiari, sull’esempio di un’altra inquilina dello stabile, Lídia, la mantenuta di un funzionario, vittima a sua volta di una madre cinica e poco affettuosa. E ci sono i coniugi Carmen ed Emilio, con il figlio Henriquinho, che si odiano apertamente e meditano reciprocamente la fuga per sottrarsi ad una convivenza divenuta insostenibile. Pure, in questa cruda rappresentazione del matrimonio, c’è la speranza rappresentata dal calzolaio-filosofo Silvestre e da sua moglie Mariana, una coppia che, nella consapevolezza degli strali del tempo, sembra aver trovato le ragioni di un’esistenza degna ancora di essere vissuta insieme: “Silvestre era tanto orgoglioso del proprio corpo quanto Mariana distaccata da ciò che la Natura le aveva dato. Nessuno dei due si faceva illusioni sull’altro e sapevano bene che il fuoco della gioventù era spento per sempre, ma si amavano teneramente, proprio come trent’anni prima, quando si erano sposati. Oggi il loro amore era forse più grande, perché non si nutriva più di perfezioni reali o immaginate.” [p.18].

 Nella sesta famiglia che occupa l’edificio, convivono quattro donne: le giovani sorelle Adriana e Isaura e le anziane  sorelle Cândida e Amelia, entrambe vedove, rispettivamente madre e zia delle due ragazze. Anche qui l’indigenza è di casa e l’unico passatempo è l’ascolto della musica sinfonica dalla radio. Tra le mura dell’abitazione è forse custodito un segreto che riguarda le più giovani e la zia Amelia cercherà di scoprirlo tradendo la fiducia e violando la vita privata delle nipoti.

 E infine nel caseggiato c’è Abel, l’irrequieto impiegato che ha preso in affitto una stanza nell’appartamento di Sivestre e Mariana. Ritratto autobiografico del giovane Saramago, Abel rappresenta l’incertezza e insieme la speranza dell’avvenire. Il suo dialogo costante con il calzolaio-filosofo ci fa partecipi dei sentimenti che agitavano l’animo dello scrittore, allora trentenne e futuro militante del Partito Comunista clandestino, nell’era di Salazar.

 “- Ascolti, Abel! Quando sentirà parlare dell’uomo, si ricordi degli uomini. L’Uomo con la  U maiuscola, come a volte leggo sui giornali, è una menzogna, una menzogna che serve a coprire tutte le bassezze. Tutti vogliono salvare l’Uomo, nessuno vuole saperne degli  uomini.
 Abel  si strinse nelle spalle, con un gesto di scoraggiamento. Riconosceva la verità delle ultime parole di Silvestre, tante volte lo aveva pensato anche lui, ma non aveva quella fede. Gli domandò:
-      E che possiamo fare, noi? Io? Lei?
-     Vivere tra gli uomini, aiutare gli uomini.
-      E lei che fa per questo?
-  Riparo loro le scarpe, giacché ora non posso fare nient’altro. Lei, Abel, è giovane, è intelligente, ha la testa sulle spalle… Apra gli occhi e veda, e se dopo non avrà ancora capito si chiuda in casa e non esca, finché il mondo le crollerà addosso!
 Silvestre aveva alzato la voce. Le labbra gli tremavano di una commozione a stento contenuta. I due uomini rimasero uno davanti all’altro, occhi negli occhi. C’era tra loro una corrente di comprensione, uno scambio silenzioso di pensieri più eloquenti di ogni parola. Abel mormorò con un sorriso forzato:
-   Dovrà ammettere che quello che sta dicendo è un tantino sovversivo…
Lei crede? Non mi pare. Se questo è sovversivo, tutto è sovversivo […]. Se gli uomini si odieranno, non si potrà fare nulla. Saremo tutti vittime degli odi. Ci uccideremo tutti nelle guerre che non desideriamo e di cui non siamo responsabili. Ci agiteranno davanti agli occhi una bandiera, ci riempiranno le orecchie di parole […]. È per questo che viviamo? Per fare figli e lanciarli nella fornace? Per costruire città e raderle al suolo? Per desderare la pace e avere la guerra?
E l’amore sarà la soluzione di tutto questo? – domandò Abel, sorridendo con una tristezza in cui c’era una punta di ironia.
-   Non lo so. È l’unica cosa che ancora non si è sperimentata…” [pp.320-321]

 Insomma, leggendo Lucernario, si ha come l’impressione che l’avventura letteraria e umana di José Saramago stia per ricominciare… 


sergio magaldi

sabato 5 aprile 2014

LEI... la donna che non ti aspetti...

Lei [Her], regia e sceneggiatura di Spike Jonze, USA, Dicembre 2013, 126 minuti



  Lei [Her] è un film intrigante e bellissimo, con il quale Spike Jonze, che l’ha scritto e diretto, ha vinto di recente l’Oscar per la migliore sceneggiatura. 

 Il lavoro, già candidato ad altri quattro Oscar, per tutti i 126 minuti della sua durata, nonostante sia quasi privo di azione e di una trama vera e propria, mantiene un ritmo elevato che non annoia se non lo spettatore prevenuto, quello che probabilmente non andrà mai a vederlo, perché dichiara di non comprendere come ci si possa innamorare di una voce. Frutto, questo pregiudizio, di un messaggio errato, avvalorato dai media, anche in virtù dei suoni che provengono dalle labbra di Scarlett Johansson, chiamata a interpretare Samantha, il sistema operativo informatico OS.1 che allieterà le giornate di Theodore [un grande Joaquin Phoenix, sul set per lunghi tratti praticamente da solo]. 

 La verità è che la versione italiana, anche dopo aver visto e ascoltato l’originale, si mostra ugualmente efficace e la voce di Micaela Ramazzotti, che doppia Samantha-Scarlett, persino più adatta a trasmettere il messaggio contenuto nel film. La voce di Micaela è meno sexy di quella di Scarlett, ma di sicuro più calda e comunicativa.








 Theodore lavora in un’agenzia di Los Angeles, dove i dipendenti si dedicano alla scrittura di lettere personali, che per lo più parlano d’amore. Nello scrivere, l’uomo mostra, peraltro riconosciuta dai colleghi e dal vasto pubblico dei fruitori dei messaggi, un’abilità non comune e una fervida fantasia. La realtà è però un’altra. Egli soffre disperatamente per essere stato lasciato da Catherine [Patricia Rooney Mara], la moglie di cui spesso rievoca i momenti felici vissuti insieme e il coinvolgimento erotico.

 Theodore si muove in uno spazio denso di grattacieli, su cui la regia indugia con efficacia e con l’aiuto di una musica gradevole [ottime la fotografia e la colonna sonora del film]. La macchina da presa riguarda i colossi di vetro, ferro e cemento da gigantesche vetrate e li coglie tagliare il cielo nella luce naturale del giorno o spezzare l’oscurità, nel bagliore artificiale e suggestivo della notte. Thedore cammina tra gente anonima, in un paesaggio rarefatto  che è il presente e già il futuro dell’umanità, ma la sua non è la solitudine che piomba addosso senza che uno se ne avveda, bensì una scelta esistenziale, la consapevole insignificanza di tutto ciò che lo circonda.









 Da quando Catherine l’ha lasciato, Theodore non crede più nell’amore e senza essere amato sembra non sentirsi più giustificato ad esistere, come direbbe Jean Paul Sartre. L’unico rapporto significativo è quello che intrattiene con Amy [Amy Adams], una carissima amica anche lei in crisi nel matrimonio. Il bisogno di assoluto di Theodore sopravvive nelle parole che egli scrive per gli altri, nella gioia degli amanti che aiuta a ritrovarsi, nelle emozioni che presta volentieri al suo pubblico. Sinché non decide a sua volta di darsi ancora un’ illusione, con l’acquisto di una intelligenza artificiale, per la quale dichiara al programmatore di voler scegliere una voce di donna.








 Samantha entra così nella sua vita. È un computer che non solo parla ma che è informato su tutto, che è in grado di dare consigli e di mettere ordine nella sua esistenza. Non è un robot e neanche un automa, perché è capace di accumulare esperienza e di evolvere proprio come un essere umano. Presto si innamorerà di Theodore e lui di lei, ma sarà proprio questo a complicare le cose, perché Samantha diventa gelosa di Catherine e soprattutto perché soffre di non avere carne con cui dare piacere al suo amante. La donna virtuale però non si perde d’animo ed escogita l’idea di trovare un corpo femminile che, tramite un sofisticato sistema di video e ricettori, sia in grado, mantenendo la voce di Samantha, di dare a Theodore la simulazione di un amplesso con lei. Molte ragazze si propongono per l’esperimento, finché la scelta di Samantha ricade su Isabella [Portia Doubleday]. Sarà un flop, perché mentre la ragazza offre all’uomo, già nuda e con la voce di Samantha le sue splendide forme, sarà proprio Theodore a tirarsi indietro.

 Ecco smentita l’idea che il film tratti di come ci si possa innamorare di una voce e/o che l’amore virtuale sia il segno del nostro tempo, rappresentando una sorta di scorciatoia per uscire dal deserto della solitudine. Il bisogno di assoluto di Theodore chiede verità, non finzione. Il possesso di un corpo, del resto, se non è legato alla totalità della persona amata, diventa un espediente che manda in frantumi l’autenticità del sentimento. Tra le perplessità e la delusione di Samantha, Theodore sa che il suo sogno di assoluto è più facilmente raggiungibile mediante la complicità e la comunicazione spontanea, piuttosto che attraverso un simulacro. Non a caso, da quando si è innamorato di Samantha, egli ha smesso di amare Catherine. Il rapporto con la donna virtuale gli è divenuto essenziale e non vuole rischiare di perderlo per soddisfare un’esigenza ancora troppo umana.

 Quella di Theodore è la ricerca dell’assoluto e del superamento dell’umano, ma chi può garantirgli che un’intelligenza artificiale in continua evoluzione, si comporti meglio di una creatura di carne e sangue e che, magari, proprio quando il rapporto raggiungerà per lui il massimo dell’intensità, lei, non scomparirà improvvisamente come Catherine, come una qualsiasi donna reale?

sergio magaldi  



giovedì 3 aprile 2014

UNA LADRA DI LIBRI AI TEMPI DI HITLER

Storia di una ladra di libri [The book thief], regia di Brian Percival, USA, 2013, 131 minuti




  C’era una volta un grande paese europeo governato da un dittatore che perseguitava comunisti ed ebrei e che scatenò una guerra mondiale, provocando milioni di morti…

 Il film Storia di una ladra di libri che il regista inglese Brian Percival trae dal romanzo The Book Thief  [“La ladra di libri”, reso in italiano con il titolo La bambina che salvava i libri] dello scrittore australiano Markus Zusak, potrebbe sembrare una favola se non fosse che a raccontarla è la Morte [una voce maschile fuori campo, che parla di sé al femminile, un gentlemen dai modi garbati, di cui a tratti s’intravede la sagoma e che non reca in mano la consueta falce], che il grande Paese è la Germania e che il dittatore risponde al nome tristemente noto di Hitler.



Markus Zusak, La bambina che salvava i libri, Frassinelli, 2007, pp.563



  Protagonista della storia è l’adolescente Liesel [nella stupenda interpretazione della quattordicenne canadese Sophie Nélisse], data in adozione dalla sua vera madre - perseguitata dal regime nazista per le idee politiche - alla famiglia Huberman che abita in un paesino della Germania. Hans [Geoffrey Rush], il padre adottivo, è il simbolo dell’innocenza tedesca, asservita con la forza  ma non corrotta dalla propaganda, mentre sua moglie Rosa [Emily Watson], la madre adottiva di Liesel, rappresenta il lato rude dell’anima tedesca, in apparenza forte e autoritario, ma sostanzialmente generoso e avverso alla dittatura. Così come si vede quando i coniugi e la loro figlia adottiva, di comune accordo e al rischio della vita, nascondono in cantina il giovane ebreo Max Vandenburg [Ben Schnetzer], anche se in un primo tempo Rosa, per proteggere la famiglia, propone di denunciare l’ebreo…

 Naturalmente, la complessa anima teutonica è resa con molte sfaccettature: l’adolescente Rudy [Nico Liersch] dai capelli di limone che diventerà l’amico fidato di Liesel, e l’altro adolescente prepotente e manesco, incarnazione perfetta delle giovani generazioni plasmate dal nazismo. Il primo, simbolo di un possibile e futuro ritorno alla ragione. Il secondo, a rappresentare il destino europeo se russi e angloamericani non avessero sconfitto la Germania di Hitler. C’è poi il borgomastro del paese, signorotto locale che l’uniforme nazista ha messo su un piedistallo, e sua moglie, una donna provata dal dolore della morte del figlio e che avrà un ruolo importante nel futuro di Liesel. Sarà lei a vedere la ragazzina sottrarre un libro fumante dal falò dei libri organizzato dai nazisti sulla piazza del paese. Non la denuncerà. Al contrario, le spalancherà la porta della sua biblioteca e quando il marito le proibirà di riceverla, Liesel avrà ormai imparato la strada per rubare i libri che le interessano.





 Quando è adottata, Liesel non sa né scrivere né leggere. Possiede un solo libro che conserva gelosamente. Caduto dalle mani del prete che ha ufficiato il funerale del fratellino, lo ha raccolto da terra, ignorando che si tratti di un manuale ad uso dei becchini. Riuscirà a leggerlo grazie all’aiuto del padre adottivo e sarà l’inizio della sua storia di “ladra di libri”.

 La storia della bambina Liesel ha un certo fascino, anche se talora il film manca di ritmo e si lascia andare a ricostruzioni dettate dalla solita anglofilia dei registi anglosassoni, con la macchina da presa che indugia a lungo sulle pagine dei libri, scritte in inglese e dalle quali Liesel apprende a leggere il tedesco… Ma, si sa, l’inglese è la lingua universale e per il pubblico angloamericano è come se le altre lingue non esistessero… Un po’ quello che dicevo nel recensire qualche anno fa un film bellissimo come The Reader. Annotavo allora in proposito: “Peccato solo che lo spettatore europeo sia portato a concludere che i libri che circolavano allora in Germania, Odissea di Omero compresa, fossero tutti scritti in lingua inglese. Sbavatura stilistica del film questa, certamente dovuta alle esigenze del pubblico americano…” [Clicca sul titolo del film per leggere tutto il post: The Reader].

 Con la sua narrazione in stile di favola, il film finisce con l’avere un intento didascalico e fatalistico che ci rammenta la stupidità della guerra, ma anche col sottrarre forza allo sdegno con il quale è lecito e sensato riguardare il fenomeno di Hitler e del nazismo. Prima o poi si deve morire, ricorda l’interessata voce narrante, e persino una fine dolce o amara, da giovani o in tarda età, dipende unicamente dal fascino che la nostra persona riesce a trasmettere al signore della morte. Il quale si dichiara disposto ad attendere anche a lungo, quando riusciamo davvero ad interessarlo. Esattamente quello che avviene con la piccola Liesel…


sergio magaldi 

martedì 1 aprile 2014

BICAMERALISMO PERFETTO E' BELLO!



 Il bicameralismo perfetto è bello perché rende l’Italia l’unico Paese al mondo capace di esercitare l’autentica democrazia. Già, perché si sostiene che l’abolizione del Senato elettivo e legislativo, sostituito dalla Camera delle autonomie, con rappresentanti non retribuiti ed eletti indirettamente dai cittadini attraverso le consultazioni regionali e comunali, rappresenterebbe una svolta autoritaria in senso illiberale. In altre parole, il vero esercizio della democrazia consisterebbe nella quasi totale paralisi e/o nel sistematico insabbiamento delle leggi, costrette a rimbalzare per anni tra una Camera e l’altra del Parlamento.

 “La mente umana – diceva Erasmo da Rotterdam – è fatta in modo tale che è molto più suscettibile alle menzogne che alla verità. Il Senato, dopo circa trent’anni che si discute sulla sua trasformazione e sull’abolizione del bicameralismo perfetto, diviene ora una nobile istituzione a presidio della libertà, una garanzia a salvaguardia di leggi frettolosamente approvate. A sostenerlo è il solito FASCIO che in Italia si forma spontaneamente, quando si avverte odore di cambiamento: dalla seconda carica dello Stato, l’attuale presidente del Senato, appunto, agli illustri giuristi e costituzionalisti firmatari di un appello per la libertà e contro la deriva autoritaria. Da Marco Travaglio al Movimento Cinque Stelle [il cittadino Di Maio dal canto suo definisce il bicameralismo perfetto un “virtuoso meccanismo della nostra Costituzione”], dalla nuova offerta elettorale della sinistra dura e pura di Tsipras [che prende il nome per nulla personalistico da Alexis Tsipras, leader di SYRIZA, partito greco di opposizione], sino ai Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, che recano nel simbolo la fiamma del Movimento Sociale Italiano e che, nei sondaggi, grazie anche alla proposta di uscita dall’euro [come la Lega di Salvini che sostitisce nel simbolo la dicitura “Padania” con “Basta Euro”], si avvia a raggiungere quel  4%  utile per avere rappresentanti nel Parlamento Europeo.

 Ecco di seguito l’appello chiaro e risoluto firmato dagli illuminati giuristi e costituzionalisti che, come sempre,  hanno capito tutto. Pubblicato da Il fatto quotidiano in data 28 Marzo u.s.

  Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali. Con la prospettiva  di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del PD  è enorme  poiché sta  consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.

 Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del PD a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone.

 Dall’appello apprendiamo subito che “la semplificazione dell’ordine amministrativo”, in terra di burocrati, è un male in sé. Resta poi da chiedersi che c’entra “la democrazia plebiscitaria” con l’abolizione del bicameralismo perfetto. Si percepisce infine che i veri strali di questi preziosi cervelli sono diretti soprattutto contro il patto del Nazareno [leggi il post del 18 Gennaio u.s., L’incontro del Nazareno], contro l’idea che a scrivere le regole, in una democrazia rappresentativa, siano la maggioranza e le opposizioni, strada non più percorsa nel nostro Paese dopo il varo della Costituzione, di cui  peraltro si esalta la sacralità, senza considerare che il patto sociale stipulato nel 1948 prevede la possibilità di modifiche, proprio con procedure che richiedono di necessità il coinvolgimento delle opposizioni o della loro maggior parte.

 Ma il peccato più grande di Renzi e del PD consiste nel non aver tenuto conto dell’inossidabile antiberlusconismo che anima i proponenti di Libertà e Giustizia. Ossessione che perdura anche dopo l’eliminazione per via giudiziaria del leader di Forza Italia. Unico fiore all’occhiello che in tanti anni possa essere esibito dai primi firmatari dell’appello. Il male è aver chiamato in causa il leader del più importante partito di opposizione [dopo aver rivolto inutilmente analoga richiesta al Movimento Cinque Stelle di trovare un accordo per rimuovere l’immobilismo del Paese], senza neppure preoccuparsi che Zagrebelsky e  Guido Crosetto, voce autorevole di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale, si trovino oggi sulla stessa lunghezza d’onda nel parlare di svolta autoritaria. E non è solo una presunzione o un modo di dire. Ieri sera a Piazza Pulita, Crosetto – cui va riconosciuto peraltro garbo dialettico ed estrema lucidità – ha usato parole di apprezzamento nei confronti di Zagrebelsky, condividendo sostanzialmente l’assunto che i pericoli per la nostra democrazia non derivano tanto dall’abolizione del bicameralismo perfetto, ma dalla soppressione di corpi istituzionali elettivi, quali Senato e Province, in concomitanza con l’approvazione di una legge elettorale come l’Italicum, antidemocratica perché non consente la rappresentanza dei partiti minori e non prevede le preferenze per la scelta degli eletti alla Camera dei deputati.

 Insomma, la solita solfa che ha consentito da sempre in Italia la proliferazione di partitini che non raggiungono neppure la soglia del 4 o del 4,5 %, ma che si affacciano alla politica per lucrare i rimborsi elettorali e per ricattare i grandi partiti che rappresentano fette ben più consistenti di cittadini. Quanto alla nuova introduzione delle preferenze, già bocciate per via referendaria dalla maggior parte degli italiani, è facile suggerire che c’è un mezzo semplice per evitare che i deputati siano dei nominati dalle segreterie di partito.  È quello di ricorrere alle primarie per la scelta dei candidati. Come fa il PD,  come fa Il Movimento Cinque Stelle, attraverso la rete, e come si accingono a fare altri partiti, tra cui, mi sembra, proprio Fratelli d’Italia di Crosetto.

 In conclusione, dunque, la musica è sempre la stessa: dietro i tanti “distinguo”, e al di là dei paventati rischi di “tenuta democratica” e di “deriva autoritaria”, si nasconde il solito esercito di gattopardi [leggi il post del 21 Marzo u.s., Basterà ammazzare il Gattopardo?] pronti a saltare alla gola di chiunque provi realmente a cambiare qualcosa in questo Paese. Nel quale, peraltro, si continua a dire dai più che non funziona quasi niente.

sergio magaldi