sabato 10 maggio 2014

GLI SDRAIATI

Michele Serra, Gli sdraiati, laFeltrinelli-I Narratori, Milano 2013, pp.108


 “Ma dove cazzo sei?
 Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai.”

 Così inizia il dialogo-monologo che l’autore del breve saggio romanzato di 108 pagine intrattiene col figlio poco più che adolescente. E prosegue implacabile nel descrivere le tracce della sua presenza e del suo “passaggio” in casa: il lavello della cucina pieno di piatti sporchi, i posacenere colmi di cicche, gli asciugamani zuppi sparsi sul pavimento del bagno, luci e apparecchi elettronici lasciati accesi. E il giudizio conclusivo e inappellabile su questo primo “contatto” col figlio:

 “Tu sei il consumista perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto scalda, mangi più di quanto lo nutre, illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa.” [p.15, Edizioni Mondolibri].

  È il segno inequivocabile della “Grande Guerra Finale” tra generazioni che si va preparando per la metà del secolo in corso, quando i Vecchi, difesi da “mercenari asiatici e africani giovanissimi”, spareranno sui loro coetanei, gli sdraiati e i tatuati, per i quali il concetto del tempo sembra essersi rovesciato: in posizione orizzontale quando gli adulti sono in piedi, eretti nell’ora in cui chi ha lavorato tutto il giorno finalmente si riposa. Ma c’è anche la tenerezza del ricordare com’è stato più facile amare il proprio figlio quando era piccolo. Non un merito, in fondo – riflette lucido e cinico l’autore – perché “l’amore naturale che si porta ai figli  bambini non è un merito” ma un istinto comune anche agli animali. E sulla guerra in atto tra Vecchi e Giovani deve esserci una responsabilità dei padri almeno pari a quella dei figli. Forse c’entra qualcosa in tutto questo l’aver fatto crescere i figli troppo in fretta, affrancandoli da quella inconscia e “felice marginalità infantile” che una volta teneva i bambini, loro malgrado, a giusta distanza dagli adulti e dai genitori. E da questo interrogativo la coscienza del padre scivola pericolosamente tra il senso di colpa nei confronti del figlio [le fughe, i silenzi, la mancanza di autorevolezza] e le sollecitazioni del “Pensiero Reazionario” [come lo chiama l’autore] che rivendica metodi forti e autoritari nell’azione educativa. Dicotomia insita nel mestiere di padre, mestiere impossibile lo definisce Freud, perché – gli fa eco Sartre – educare non è trasmettere regole ma creare le premesse per l’assunzione del rischio della libertà.

 La rappresentazione del figlio adolescente, nelle pagine che seguono, assume la connotazione di una vera e propria caricatura dell’uso della tecnologia nel nostro tempo, sebbene l’autore dichiari il realismo “scientifico” di ciò che descrive:

 “Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole […]. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini,laddove una volta ritrovai anche un würstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. La televisione era accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una villetta dai ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica.”[p.50].

 Da questo quadretto emerge che il conflitto generazionale si spiega innanzi tutto col diverso humus in cui si trovano a vivere padri e figli. “Nulla di nuovo sotto il sole”, dunque, anche se l’era tecnologica ha contribuito, forse come mai in passato, ad amplificare le differenze, e la prosa serrata di Michele Serra ci fa partecipi [con più comicità o amarezza?] di una percezione radicale del contrasto. In realtà è stato sempre così e letteratura e cinema ne hanno reso ampia testimonianza: più di mezzo secolo fa Marcello Rubini [Marcello Mastroianni], il giornalista di La dolce vita, tenta inutilmente di “recuperare” un rapporto con suo padre proprio nel momento in cui ne coglie tutta la debolezza, ma il padre [Annibale Ninchi] fugge in taxi davanti ai suoi occhi e sordo al suo richiamo, come vergognoso di essersi lasciato andare e per la vecchiaia incombente.

 Anche all’autore del libro viene il sospetto, nonostante le analisi in cui sembra sostenere il contrario, che la maggiore responsabilità del conflitto dipenda dai padri, almeno a giudicare dall’esito della sua cosiddetta “Grande guerra finale” e a chi avesse qualche dubbio in proposito giova ricordargli il mito di Kronos [Saturno – Tempo] che divora i suoi figli…



 




          
  

 Ma la diversità non può essere la giustificazione dell’estraneità e/o della conflittualità e la cosa che emoziona di più in queste pagine è il ricorrente invito che il padre rivolge al figlio di salire con lui al Colle della Nasca [pp. 25, 33, 41, 49, 57, 69, 83, 91, e 95 ], perché è “il luogo più bello del mondo”, perché a sua volta vi andò con suo padre quando aveva solo 11 anni, perché permetterà a padre e figlio di ritrovarsi in una dimensione che da quell’istante apparterrà soltanto a loro.

sergio magaldi                                                                                       







 













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