mercoledì 25 giugno 2014

I DONI DEL CIELO E QUELLI DI CESARE PRANDELLI...

Il cielo di Natal [Brasile], sotto il quale si è disputata la partita tra l'Italia e l'Uruguay



  Alla vigilia della sfida decisiva per l’accesso agli ottavi di finale del campionato del mondo, Tabárez dichiarava di aver ricevuto “un dono del cielo” nel dover incontrare un avversario come l’Italia. E subito gli addetti ai lavori nostrani, nei media e nella carta stampata, lodavano la finezza e la sapienza dell’anziano commissario tecnico dell’Uruguay, prendendola alla lettera come un riconoscimento del grande valore dell’avversario, nella fattispecie, l’Italia del pallone. A nessuno è venuto in mente che il ringraziamento pubblico, per il dono venuto dal cielo, poteva intendersi più velatamente come la consapevolezza di una vittoria annunciata, dopo aver preso visione della modestia della squadra azzurra e della sua insipienza tattica.

 A ognuno il suo, e se Tabárez e gli uruguayani ringraziano il cielo, gli italiani sono invece grati a Prandelli del dono fatto alla nazione, nel dimettersi dall’incarico di commissario tecnico, subito dopo la disfatta che ci butta fuori del mondiale già al primo turno.

  E dire che questa volta Prandelli aveva messo da parte l’abituale e “signorile” testardaggine, dando ascolto ai tanti che lo sollecitavano a schierare contro l’Uruguay la difesa a tre della Juventus, con il miniblocco juventino, Verratti e il tandem d’attacco Balotelli-Immobile. Anch’io l’ho ritenuta la soluzione migliore, pur sottolineando la necessità di sostituire con Parolo – più adatto all’interdizione – un affaticato e spento Marchisio [vedi il post e clicca sul titolo per leggere: MONDIALI DI CALCIO: perde Prandelli…].

 Ebbene, nel primo tempo, l’Italia non ha demeritato, dando anche l’impressione di poter segnare, se solo avesse osato di più. Quale è stato “il colpo di genio” del nostro commissario tecnico nel secondo tempo? Preoccupato che Balotelli potesse essere espulso per via di un cartellino giallo ricevuto nel corso dei primi 45 minuti, Prandelli lo lasciava nello spogliatoio, dando forte il messaggio che la squadra si accontentava del pareggio, risultato comunque utile per passare il turno. Si tornava così all’unico attaccante abbandonato a se stesso delle gare precedenti, insomma più o meno alla stessa disposizione tattica che Prandelli ha sempre avuto in mente, sin da quando ha stilato la lista dei 23 per il Brasile. Cadendo inoltre nel tranello pubblicamente annunciato dagli uruguayani prima della sfida: eliminare di scena Balotelli, così sensibile alle provocazioni e che, pur non lasciando intravedere un elevato stato di forma, era pur sempre una mina vagante, tanto da impegnare non meno di due o addirittura tre difendenti.

 La legge karmica è inesorabile: il timore di restare in dieci è stato fatale a Prandelli, perché Immobile s’è infortunato, lasciando l’Italia senza attaccanti, e l’arbitro ha espulso lo stanco e nervoso Marchisio, reo di un calcio allo stinco di un avversario, proprio sotto gli occhi del direttore di gara. Incredibili le contromisure prese dallo stratega della nostra nazionale: l’ingresso di Cassano come unica punta [!] e poi quello di Thiago Motta [il peggiore in campo contro il Costa Rica], allorché s’è fatto male anche Verratti [quanto male? Non è stata affrettata la sua sostituzione?], unica nota positiva del centrocampo azzurro.

 È così iniziato l’assedio dell’Uruguay nella nostra metà campo e si è subito sentito che il goal della “celeste” era nell’aria. E infine è arrivato. Su calcio d’angolo, per un colpo di testa smorzatosi a mezza altezza da terra che, se avesse incontrato un giocatore italiano posizionato sul primo palo [già, perché non c’era? L’organizzazione difensiva di Prandelli non lo prevedeva?], probabilmente non sarebbe entrato in porta.

 La disfatta dell’Italia del pallone dispiace ma non sorprende, come purtroppo ho avuto modo di segnalare in precedenti post sull’argomento. Diamo comunque a Cesare [Prandelli] quel che è di Cesare [Prandelli]. Il che non è poco, perché oltre a tutto il resto, di cui si è detto ampiamente, il c.t. non si è accorto della carente condizione atletica della maggior parte degli azzurri, chiamando in causa, per giustificare la “camminata” dei suoi uomini in campo, il caldo, l’umidità e l’orario delle gare. Come non bastasse, scaricando Balotelli nel momento cruciale dell’incontro, Prandelli non poteva non sapere che, in caso di insuccesso, avrebbe consegnato alla gogna mediatica – cui hanno subito partecipato volentieri alcuni senatori della squadra e i razzisti più o meno mascherati che popolano il mondo del calcio e non solo – il calciatore che due anni fa gli ha consentito di raggiungere la finale europea e che ha segnato il goal della vittoria contro l’Inghilterra, nella partita d’esordio del mondiale. Balotelli, solo in attacco e mai servito dai compagni, un caso più unico che raro, un tributo pagato alla filosofia del calcio di Prandelli. Come se Messi, Cristiano Ronaldo e Ibrahimovic – di cui peraltro occorre prendere atto che l’italiano adottato, per quanto bravo, non ha la statura – fossero lasciati giocare da soli in balia delle difese avversarie.

 Ma le responsabilità di Prandelli non escludono le responsabilità, addirittura maggiori di altri. A cominciare dalla FIGC [Federazione Italiana Gioco Calcio] che non fa nulla per promuovere i vivai giovanili e che consente alle squadre italiane del massimo campionato di schierarsi in campo senza calciatori italiani, come è avvenuto in passato per l’Inter, o con un solo italiano, come per il Napoli [Insigne] o per la stessa Inter [Ranocchia] di quest’anno, o con due o tre italiani, come avviene di regola per la maggior parte delle squadre, se si escludono  Juventus e Roma, destinate prima o poi anch’esse ad uniformarsi alla moda che favorisce l’importazione dei giocatori e l’arricchimento dei procuratori, con la giustificazione politica della libera circolazione dei “lavoratori” del pallone. Se non si avrà il coraggio di introdurre la regola – già inutilmente ventilata in passato – che il tesseramento libero e semilibero di calciatori comunitari ed extracomunitari debba essere affiancato dall’obbligo che almeno sei giocatori degli undici schierati sul rettangolo di gioco  siano italiani [intendendo per italiani anche gli oriundi e i naturalizzati], presto sarà persino impossibile allestire la nazionale di calcio.  


sergio magaldi 

domenica 22 giugno 2014

MONDIALI DI CALCIO: perde Prandelli...



 Come ebbi modo di dire in occasione degli europei del 2012 [clicca per leggere sul titolo: L’Europa di Super-Mario tra vincitori e“perdenti di lusso” ] e di ribadire nel post del 14 Giugno scorso [MONDIALI DI CALCIO: questa notteItalia-Inghilterra…], Prandelli non sa approfittare del credito che la dea del pallone continua a concedergli.

 Dopo la fortunosa vittoria contro la squadra inglese [vedi il post: MONDIALI DI CALCIO: vince Prandelli], con l’enorme vantaggio di ritrovarsi con tre punti di vantaggio sulle principali rivali [Uruguay e Inghilterra] del girone di accesso agli ottavi di finale, che fa Prandelli? Rivoluziona la squadra, sostituendo l’ottimo Sirigu con il convalescente Buffon, sposta da destra a sinistra Darmian, che aveva così bene operato nel suo settore naturale, per far posto ad Abate, riserva di un Milan che nel campionato italiano non ha certo brillato in difesa…, rimette Chiellini [un campione, certo, ma col passare degli anni sempre più falloso], da esterno basso di sinistra al centro della difesa in cui è abituato a giocare, ma come il più avanzato di una difesa a tre… Infine, toglie dal centrocampo Verratti, per lui troppo tecnico e che a malincuore ha portato in Brasile [benché il giovane calciatore sia al centro del mercato internazionale], per sostituirlo con uno statico Thiago Motta e conferma Balotelli come punta d’area di rigore e unico attaccante.

 Un vero e proprio capolavoro tattico, degno coronamento delle precedenti scelte del sempre più ineffabile commissario tecnico della nazionale: 1) Aver lasciato a casa, oltre ad un sostituto [Criscito, per esempio] di De Sciglio - che veniva da una lunga sosta in campionato e che si è di nuovo infortunato alla vigilia del debutto mondiale - Giuseppe Rossi e punte di ruolo come Osvaldo e Destro e probabilmente lo stesso Totti che sicuramente avrebbe fatto meglio di Cassano. 2) Essersi intestardito nell’imitare malamente la Spagna, nella convinzione che un centrocampo affollatissimo, con passaggi orizzontali e al rallentatore, e una sola punta non di ruolo [Balotelli non è mai stato e mai sarà una punta d’area di rigore!] bastassero per aver ragione degli avversari. 3) Credere di essere nel giusto per il semplice motivo di aver battuto l’Inghilterra con questi schemi, dimenticando di non aver vinto neppure una partita delle ultime otto disputate prima del mondiale e di aver stravolto la squadra comunque vincente della partita d’esordio.

 Il risultato di tanta testardaggine e spregiudicatezza è che Buffon mostra ampiamente limiti di forma: esce a vuoto in un paio di occasioni, casca troppo spesso a terra, respinge senza mai trattenere una palla, prende il goal sul proprio palo – anche se non ne è il maggiore responsabile – senza neppure sollevarsi da terra per tentare la parata. Abate è inesistente. Darmian, spostato a sinistra, non ripete la prestazione eccellente mostrata contro gli inglesi, Chiellini, oltre a provocare un quasi-rigore non fischiato dall’arbitro, è tra i maggiori responsabili del goal subito. Per non parlare dei centrocampisti: lenti, prevedibili, privi di fantasia, incapaci di saltare l’uomo, con l’eccezione del solito Pirlo, però marcato a vista. Lanci precisi a Balotelli? Due, forse tre e peccato che la punta azzurra non abbia saputo approfittare di un lancio prezioso di Pirlo con cui l’Italia sarebbe potuta andare in goal quando la partita era ancora sullo 0-0. D’altra parte è da sciocchi e da presuntuosi credere di poter vincere con una sola occasione da goal!

 Quali sono state le contromisure di Prandelli dopo il “disastro” del primo tempo? Passare da cinque centrocampisti a quattro attaccanti: Cassano, Insigne, Cerci e Balotelli. La trasformazione  improvvisa e totale della squadra, nel gioco e nei protagonisti,  ha sortito, per così dire, l’effetto opposto, perché neppure una palla giocabile è arrivata sui piedi di Supermario, neppure un tiro è stato scagliato contro la porta del Costa Rica e le cosiddette punte quasi mai sono entrate nell’area di rigore avversaria, a dimostrazione che non basta sostituire i centrocampisti con gli attaccanti per “recuperare” una partita, se non si possiede un’organizzazione e una visione complessiva di gioco. Ma anche a riprova delle scelte sbagliate nel formulare la lista dei 23 per il Brasile, come già dicevo sopra: Cassano boccheggiava, dopo appena 10 minuti, Insigne correva a vuoto, calciando con forza palloni improbabili, Cerci, l’unico a dar segni di qualche vitalità, è apparso orfano di Immobile [lasciato inspiegabilmente in panchina], il capocannoniere del campionato italiano e suo compagno di reparto nel Torino. Insomma, non solo non abbiamo raggiunto il pareggio, ma abbiamo rischiato più volte di prendere il secondo goal che ci avrebbe costretto a vincere la prossima partita contro l’Uruguay.

 E, invece, basterà pareggiare con “la celeste” per accedere agli ottavi come seconda classificata del girone. Impresa possibile se Prandelli seguirà la strada più semplice, schierando dall’inizio la difesa a tre della Juve [Barzagli, Bonucci e Chiellini], con gli esterni Darmian e De Sciglio [se recuperato, altrimenti in alternativa, se si vuole vincere e non pareggiare rischiando la sconfitta, si potrebbe azzardare Cerci] con Pirlo, Verratti e Parolo a centrocampo, vista l’indisponibilità di De Rossi e l’affaticamento di Marchisio, e infine con Balotelli seconda punta e Immobile punta centrale. C’è però da scommettere che Prandelli opterà per soluzioni più cervellotiche, lasciando magari in panchina Balotelli, per far posto a Insigne in appoggio a Immobile e sperimentando altre amenità del genere.

 Comunque sia, non perdere contro la nazionale che schiera due attaccanti come Cavani e Suarez e gioca ai confini di casa sua, rasenta l’impresa. L’impressione, tuttavia, è che il nostro mondiale sia ormai compromesso: anche passando il turno [che sa già di miracolo!], incontreremmo la Columbia negli ottavi e, in virtù di un nuovo miracolo, il Brasile nei quarti, cioè il Paese organizzatore del contestato mondiale, con in mente un solo obiettivo: quello di vincere il suo sesto titolo anche nel tentativo di placare le rivolte sociali.

 Insomma, troppi miracoli, anche considerando i molti crediti che la dea del pallone ha già concesso a Prandelli. Tutto ciò, naturalmente, non esime dall’obbligo di continuare a sperare…   


sergio magaldi

lunedì 16 giugno 2014

QABBALAH E SIMBOLISMO MASSONICO (Parte seconda)



 [leggi il precedente post  sull’argomento, cliccando su Qabbalah e simbolismo massonico (parte prima) ]

Il principe di Sansevero e la Massoneria

 Nella Lettera Segretissima che Raimondo de Sangro, principe di Sansevero, invia al barone Tschudy [1] si apprende che il dibattito nelle Logge napoletane della metà del ‘700  verte soprattutto sulla tradizione templare, rosacrociana ed ermetica, ma che fondamento di ogni ulteriore scienza e costruzione massonica sono, pur sempre, l’ebraismo e la Qabbalah. 

 Nella Lettera, volendo offrire la chiave universale di ogni successiva speculazione, il Sansevero traccia nell’ordine un punto, un cubo e le seguenti lettere dell’alfabeto ebraico: una Alef  nera, una Alef  bianca, una Bet nera, una Resh nera, una Alef nera, una Bet bianca, una Resh bianca e una Alef  bianca. La Alef e la parola barà, (tracciata, peraltro, dal Sansevero ignorando la scrittura ebraica che procede da destra a sinistra), che significa creò, stanno qui a rappresentare, col punto e col cubo, col bianco e col nero: il momento iniziale della creazione o Bereshit (Genesi 1:1), il primo apparire della luce, lo  I e h ì  Or, il ‘Che la luce sia’ di Genesi 1:3, e ancora: l’unità e la molteplicità della manifestazione. Insomma, per dirla con Raimondo de Sangro, l’Alef bianco del principio presuppone l’Alef nero che dimora in En Soph ‘Infinito’.

  En Soph  ‘Infinito’ è stato spesso confuso con Apeìron ‘Senza limite’ di Anassimandro. In realtà, l’Apeìron del filosofo ionico, dall’alfa privativo greco che indica la negazione, esprime solo il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tutte le cose. L’En Soph dei cabbalisti ebrei, invece, non è privativo di qualità ma di luogo e indica l’impossibilità di cogliere l’origine e il fine e ha solo la funzione di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere ovunque e tutto risolvere in se stesso. E’ scritto in Zohar (1:21a): ‘En Soph, infinito: in lui non c’è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità del pensiero’ (la traduzione è mia ). Quando, nelle prime scuole medievali di Qabbalah si nomina En Soph è più che altro per sottolineare l’impossibilità di conoscere l’infinito.  Si osservi che En Soph si scrive in ebraico con le lettere Alef-Yud-Nun-Samek-Waw-Pe e che il suo valore ghematrico è  207 come Raz segreto e Or luce.

  L’analogia di Alef - En Soph è già contenuta nel Sefer ha Bahir o Libro fulgido, cioè nel primo testo di Qabbalah medievale. Testo fondamentale della Qabbalah, il Sefer ha Bahir appare in Provenza tra il 1150 e il 1200 proveniente dalla Germania o direttamente dall’Oriente. Le sue fonti riconducono al Sepher Yetzirah, alle opere dei Chassidìm tedeschi del XII e XIII secolo, al misticismo della Merkavà  e in particolare al libro, andato perduto,  ma ripetutamente citato soprattutto da autori caraiti,  il Razà Rabbà o Il Grande Mistero, composto tra il V secolo e il secolo VIII.

  Il contenuto magico e angelologico del Bahir è attestato da tutti e sarebbe parte di quella Gnosi ebraica che – a giudizio dello Scholem (cfr., Le Grandi Correnti della Mistica Ebraica, trad., ital., ‘Il Saggiatore’, Mondadori, Milano, 1965 e editr.,‘il melangolo’ Genova, 1990) – deriverebbe dall’antico Gnosticismo. Analizzando il libro, tuttavia, si può osservare come il giudizio dello Scholem possa essere addirittura rovesciato e portare alla conclusione di una derivazione dello Gnosticismo dalla tradizione ebraica o piuttosto dalle ‘sette ebree’ (Esseni, Samaritani, Elkesaiti ecc…) che si distaccarono dall’ebraismo con violente polemiche.

   “… la alef – dice il Bahir – determina l’esistenza di tutte le lettere, a somiglianza del cervello. Come per la alef, alla cui menzione apri la bocca, così avviene per il pensiero, quando pensi a ciò che non ha fine né limite. Dalla alef escono tutte le lettere. Non vedi forse che essa è posta al loro inizio?…”[2]
 
   L’analogia di Alef e di En Soph è tanto evidente che il Genesi o Bereshit inizia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico: la  Bet  una lettera aperta solo da un lato a significare che unicamente gli eventi accaduti dopo il Bereshit o Principio sono accessibili all’indagine umana.

   La stessa duplice colorazione, prima nera, poi bianca, che il principe di Sansevero fa delle lettere della parola barà ‘creò’, sta a indicare un’essenza originaria, immutabile e oscura, imperscrutabile, e una manifestazione per noi conoscibile. Analogamente, in Zohar[3] è detto che una fiamma troppo oscura per essere vista, zampilla dall’Infinito: si tratta di En Soph Or, luce infinita che non si lascia vedere. Ma, su questa infinita pagina oscura e velata come notte profonda, un minuscolo punto di luce si inscrive improvviso [4].

   Del resto, la stessa esperienza quotidiana ci mostra che ogni nascita proviene dal buio e così è anche per l’iniziato della Massoneria che entra nel buio del tempio per ricevere la luce, luce che gli è concessa dalla Loggia che pure è immersa nell’oscurità o meglio che ‘brilla’ di una luce troppo oscura per essere vista…

   Quel punto di luce, adombrato dalla luce infinita e per noi oscura, è il primo dei dieci “Dio disse” del Genesi ed è anche il primo istante della creazione. Facendosi altro da sé, l’Infinito si determina ad essere il finito illimitato. Ma il puntino da cui lo yud  è tracciato è per noi invisibile. Dice lo Zohar: ‘Così, l’Infinito penetra la sua stessa aria e scopre un punto, lo yud[5] e ancora: “La luce che il Signore – benedetto il Suo Nome – aveva creato (…) fu subito nascosta, perché gli impuri non potessero gioirne (…) Ella fu riservata per i giusti (…) Ma sino al giorno stabilito (il giorno del ‘mondo a venire’) rimarrà nascosta, custodita in segreto.”[6]

   Da che riconoscere allora la luce che si diffonde da quel primo punto? Come vedere per intero la lettera yud? La risposta è nel successivo versetto del Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre.”[7] La separazione consentì all’uomo, per l’impossibilità di percepire il puntino luminoso o primo istante della creazione, di vedere finalmente la luce attraverso le cose. Ciò che significa vedere la luce nel contrasto con le tenebre.[8]

  E questo è esattamente ciò che il massone vede riprodotto sul pavimento a mosaico della propria Officina: “Tenebre e Luce – scrive Jules Boucher – sono intrecciate sul Pavimento a Mosaico; esse sono tessute insieme, se consideriamo le file delle piastrelle; ma i tratti virtuali che le separano formano un cammino rettilineo, avente il bianco e il nero ora a destra ora a sinistra. Queste linee rappresentano il cammino dell’iniziato, il quale senza rigettare la morale comune sa elevarsi al di sopra di essa (…) Le linee divisorie non appaiono agli occhi dei profani: essi non vedono che le lastre bianche e nere e (…) passano alternativamente dal bianco al nero e dal nero al bianco (…) L’iniziato, al contrario, segue la ‘via esoterica’, la ‘via stretta’, ‘più sottile del filo del rasoio’ e passa tra il bianco e il nero, che non ostacolano il suo cammino…” [9]

 Naturalmente, l’oscurità del quaternario, simboleggiata nella Loggia massonica dalle piastrelle nere del pavimento, non ha nulla a che vedere con l’Oscurità originaria,[10] perché, come sostengono i testi della Qabbalah, l’oscurità ‘di quaggiù’ è solo apparente e l’oscurità ‘di lassù’ non è altro che l’infinita luce che si svela in un punto e subito si nasconde per manifestarsi nel contrasto. La separazione della luce dalle tenebre è dunque solo apparente come è detto in Zohar: “Elohim separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4). Ora non bisogna credere che si tratti di una vera separazione. Infatti il giorno scaturì dal fianco destro della luce, la notte da quello sinistro. Entrambi nacquero insieme e poi furono separati…” [11]

   A fronte di ciò, tuttavia, non va dimenticato che la polarità, sebbene apparente, non può essere eliminata. Non la elimina, né chi segue solo la via delle ‘piastrelle bianche’ né chi segue solo la via delle ‘piastrelle nere’, perché, in entrambi i casi, insorgerebbero presto forze antagoniste e controiniziatiche, quando non bastassero da sole, per chi cammina solo sulle piastrelle nere, le comuni leggi civili e penali. Neppure elimina la dualità lo Zadik, il giusto della tradizione ebraico-cabbalistica. Perché è vero, come dice lo Zohar, che la luce originaria fu riservata per lui, ma gli fu riservata, com’è scritto, per il ‘mondo a venire’…

  Il Principe di Sansevero s’incaricò anche di tradurre, ad uso delle Logge napoletane, Il Discorso cronologico dell’Ordine dei Liberi Muratori, documento diffuso all’epoca delle Costituzioni di Anderson, ma che, in realtà, risale al XV Secolo e alla Massoneria ‘operativa’. Ebbene, nel Catechismo di Compagno si legge, tra l’altro, questo dialogo:

“Domanda: Vi sono dei Genji nel Tempio?
 Risposta: Tre, cioè Salomone re d’Israele, Iram re di Tiro, Iram Abif Grand’Architetto.
 Domanda: Chi sono gli emblemi della Sapienza, Forza e Beltà ?
 Risposta: Salomone è l’Emblema della Sapienza, Iram re di Tiro delle Forza, attese le Somministranze fatte a Salomone per la Costruzione del Tempio ed Iram Abif della Bellezza.” [12]

   Le tre luci della Loggia massonica si identificano, dunque, con le figure bibliche di Salomone e dei due Hiram, e il Tempio di Salomone, i cui punti cardinali coincidono con quelli della Loggia massonica, si può a buon diritto considerare come l’emblema stesso della Massoneria, per ciò che la sua costruzione è destinata a non avere mai termine e ben rappresenta lo slancio ideale e gli ostacoli materiali che i massoni incontrano e ai quali cercano di far fronte con l’equilibrio interiore e il mutuo soccorso.

 
La costruzione del Tempio

[L’argomento di questo paragrafo, come di quello che segue sono stati ampiamente trattati nel post Il maestro e la Massoneria, clicca sopra per leggere].


  Che c’è di unico e peculiare nella leggenda massonica di Hiram che si ispira alla fonte biblica e alla tradizione ebraico-cabbalistica? La costruzione del Tempio, nel senso e con la prospettiva nota a tutti i massoni e per la quale ognuno sa di dover portare la propria pietra sgrossata.

  Un ideale cammino di perfezionamento, dunque, e una pratica di vita necessaria all’acquisizione di innumerevoli virtù, come il silenzio, il segreto, l’obbedienza, la fedeltà, il coraggio, la carità, la santità, la giustizia. Virtù tutte senza le quali il Tempio non può essere costruito. Benché il massone debba sempre conservare la necessaria umiltà, che lo fa consapevole che il Tempio non può essere terminato, senza la quale umiltà egli cadrebbe nel dogma delle Chiese o peggio ancora finirebbe come quel tale – citato da Kafka – che si stupiva della facilità con cui seguiva la via dell’eternità solo perché la stava percorrendo in discesa. [13]

 Com’è noto, la leggenda di Hiram si collega strettamente alla costruzione del Tempio di Salomone. Il Compagno della Loggia azzurra sente parlare di Hiram allorché è elevato al grado di maestro. Egli apprende dal ‘Venerabile’ Maestro della sua Loggia che Hiram è il grande architetto prescelto dal re Salomone per la costruzione del Tempio

 Hiram aveva diviso gli operai in tre categorie: apprendisti, compagni e maestri dando a ciascuna categoria precise parole di passo per farsi riconoscere e riscuotere il salario dovuto. Un giorno, tre compagni invidiosi, ritenendo di meritare il salario di maestro, chiedono minacciosi a Hiram la parola segreta. Il grande architetto, naturalmente, si oppone gridando ai tre compagni parole che dovremmo meditare a lungo e in ogni circostanza: ‘Non così io l’ho ricevuta! Non così si deve chiederla!’. E sul punto di morire, per le violenze inferte, egli così ammonisce i compagni:

   ‘Lavora, persevera, impara. Solo così avrai diritto alla maggior ricompensa!’.

   Il massone che è sul punto di ricevere la maestria è condotto alla scoperta della tomba di Hiram presso un albero di acacia e attraverso una drammatizzazione, che è il cuore stesso della cerimonia iniziatica, prende coscienza dell’eterno ciclo della morte e della rinascita.

    Dove si trova nella Bibbia la vicenda del tradimento degli operai e dell’assassinio di Hiram? Nell’episodio dei tre levìti Core, Dathan e Abiron. In quale contesto s’inserisce la loro ribellione? E’ il momento del passaggio degli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Ed è anche il periodo di un’abitazione, sia pure mobile e rudimentale, elevata al Signore, prima della costruzione del Tempio di Salomone, com’è detto nel II Libro di Samuele, 7, 6-7:

  “Io non ho abitato in una casa dal giorno in cui condussi i figli d’Israele fuori dalla terra d’Egitto e fino a questo giorno, ma ho camminato in un tabernacolo e in una tenda. In tutti i luoghi per i quali sono passato con tutti i figli di Israele, ho forse io detto ad alcuna delle tribù a cui ho ordinato di pascere il mio popolo: perché non mi avete fabbricato una casa di cedro?”
  
   E infatti il legno di questa primordiale ‘casa di Dio’ non è di cedro ma di acacia (dal greco a-kakìa, cioè puro e senza macchia, il simbolo per eccellenza della Massoneria, rappresentato dal ramoscello della pianta) come è attestato nel Libro dell’Esodo. Dio aveva detto a Mosè, (Esodo, 25,8): “Ed essi mi costruiranno un Santuario e Io risiederò in mezzo a loro”. Dio aveva poi indicato nei dettagli i criteri e il materiale per la costruzione. Così, il Tempio mobile degli ebrei sarà fatto con assi di legno di acacia collocati in posizione eretta (Es.,26,15), l’Arca sarà di legno d’acacia, ricoperto d’oro puro sia all’interno che all’esterno (Es.,25,10-11), di acacia sarà la tavola dei pani (Es., 25,23) come pure l’altare del Tempio (Es., 27,1), quello per l’olocausto (Es., 38,1) e quello per bruciare l’incenso e i profumi (Es., 30,1). Di legno d’acacia saranno le quattro colonne della ‘tenda dell’incontro’ (Es., 26, 31-32) e così via continuando.

    L’episodio della ribellione di Core, Dathan e Abiron è contenuto nella Torah e si sostanzia delle parole che Mosè rivolge ai ribelli:
  
   “ Non vi basta il fatto che il Signore, il Dio d’Israele, ha scelto voi fra tutti gli altri israeliti? Vi concede di avvicinarvi a Lui, per prestare servizio nella sua Abitazione e per celebrare il culto in nome di tutta la comunità d’Israele. Il Signore ha permesso a te, Core, e a tutti i fratelli levìti di avvicinarvi a lui e voi ora pretendete anche il sacerdozio? ”.[14]
 
   Analogamente, i tre operai della leggenda massonica che, pure, hanno il privilegio di lavorare alla costruzione del Tempio, pretendono la maestria senza averne diritto e la loro avidità e superbia li spinge al delitto. 

  Che significa ‘Hiram’? Hiram  rappresenta lo ‘spirito dell’uomo’. E, in effetti, il nome è composto dalla radice ebraica ‘Chi’, formata dalle lettere Chet  e Yud  che significa vita, vitale ecc… e da una seconda radice: Ram, formata da una Resh  e una Mem  (lettera che in finale di parola ‘si chiude’ ) e che indica particolari stati di elevazione. “Vita elevata”, dunque è il significato letterale di Hiram, e ciò è per noi comprensibile perché sappiamo che ciò che è elevato appartiene di necessità allo spirito.

  Quanto alla leggenda, diversi autori hanno tentato di ricostruirne la sua prima apparizione nella tradizione massonica. In proposito, c’è chi ricorda la citazione che del nome di Hiram fa Il Manoscritto di Cooke, circa alla metà del Quattrocento e nell’ambito della Massoneria ‘operativa’ del XV secolo, senza peraltro alludere alla sua uccisione ma solo per ricordare che Hiram, ‘il figlio di Tiro era il capo’ degli 80.000 muratori al servizio di Salomone per la Costruzione del Tempio, iniziato da re David. [15] E, nella tradizione orale, vi sarebbero testimonianze dell’introduzione, nel rituale del terzo grado della Gran Loggia di Londra, della figura di un ‘maestro costruttore’ e della sua morte e rinascita iniziatica. [16] Siamo nel 1725 e bisogna attendere sino al 1733 perché la leggenda di Hiram compaia nel rituale del terzo grado delle Logge londinesi e altri cinque anni perché venga inserita nella ristampa delle Costituzioni inglesi del 1723. Tuttavia, la leggenda di Hiram, nelle sue diverse versioni, sarebbe di fatto già presente nella Massoneria ‘operativa’ dell’Europa medievale e in particolare negli archivi dei vari Compagnonnages francesi. Tutti i testi, nel collegarsi al racconto biblico della costruzione del Tempio di Salomone, fanno poi riferimento a vicende che si differenziano poco le une dalle altre, concordi tutte, comunque, nel sottolineare che la morte di Hiram, frutto dell’invidia, dell’avidità e della violenza di alcuni operai, ebbe come effetto di ritardare i lavori di costruzione del Tempio.

  Nella Bibbia, Hiram è citato nel I Libro delle Cronache (14:1) e nel II libro di Samuele (5:11) solo per dire che era re di Tiro. Se ne parla poi soprattutto nel I Libro dei Re, allorché Salomone informa Hiram re di Tiro di voler costruire un tempio – secondo gli accordi che suo padre David aveva preso direttamente con Dio – e perciò gli chiede operai fenici per tagliare gli alberi e legname di cedro necessario alla costruzione del tempio. Hiram acconsente di buon grado allo scambio commerciale e concede, oltre ai cedri e agli operai, oro in abbondanza e pietre preziose in cambio di 6000 tonnellate di grano, 8000 litri di olio purissimo ogni anno e 20 villaggi della Galilea. D’ora in poi Fenici ed Ebrei lavoreranno insieme, cominciando con lo squadrare le pietre necessarie alla fondazione del Tempio.

  L’altro Hiram del racconto biblico è sempre di Tiro, ma è un artigiano, figlio di una vedova, non un architetto. Egli è sommamente esperto nella lavorazione del bronzo: vasche, carrelli, gli oggetti bronzei all’interno del tempio e ogni tipo di arredo e soprattutto le due colonne erette nel portico del Tempio: Jachin e Boaz  [altro chiaro simbolismo massonico]. Di questi stessi fatti si parla anche nei Libri delle Cronache.

   Non sarà inutile soffermarci su qualcuno dei versetti più significativi del racconto biblico. A cominciare da quando Salomone si rivolge ad Hiram re di Tiro:
 “…Ora ho intenzione di costruire un tempio consacrato al Signore, mio Dio…” (I Re, 5:19) e Hiram osserva: “Sia lodato il Signore che ha dato a David un figlio tanto saggio per governare il numeroso popolo di Israele” (5:21). Poco dopo è detto dell’alleanza che da allora intercorse tra Hiram e Salomone: “Come aveva promesso, il Signore diede grande saggezza a Salomone. Così Salomone mantenne sempre buoni rapporti con Hiram: i due fecero anche un’alleanza” (5:26)


Le Tre luci massoniche e l’Albero delle sephiroth


   A guardar bene, l’alleanza di cui si parla nella Bibbia tra i due Hiram e Salomone non è altro che l’alleanza tra Saggezza, Forza e Bellezza di cui troviamo testimonianza nel Catechismo di Compagno prima citato. Nella sua sapienza, infatti, Salomone percepì l’idea di costruire il Tempio e gli Hiram gli dettero la forza per costruirlo, e la bellezza per arredarlo, inviando strumenti, oro, pietre preziose ed operai rigorosamente disciplinati e solidali tra loro. Questa, però, è anche l’alleanza che nella Qabbalah si esprime tra le sephiroth ‘Hokmah Sapienza,  Gheburah  Forza e rigore e Tiphereth, bellezza e armonia.

   In un successivo versetto della Bibbia (I Libro dei Re, 6:1) si precisa che i lavori di costruzione del Tempio ebbero inizio allorché erano trascorsi 400 anni dall’uscita degli Ebrei dall’Egitto.

  Per chi conosca appena la tradizione cabbalistica  ‘uscire dall’Egitto’ e ‘400’ hanno un preciso significato. Uscire dall’Egitto significa abbandonare la via ‘consueta e profana’ per intraprendere un cammino iniziatico. Quanto al 400, lo sappiamo corrispondere al valore numerico dell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico: la Taw.

   Settima lettera doppia e ultima delle 22 lettere dell' alfabeto ebraico, la Taw  è collocata tra le sephiroth  Malchut e Yesod sul trentaduesimo e ultimo sentiero [17] dell’Albero della vita, detto anche sentiero di Saturno.

   Dio pose questo sigillo, la lettera Taw, sulla fronte di Caino a testimoniare la caduta e insieme la possibilità della risalita. Il suo valore numerico, il 400, simboleggia tutto ciò che di bene e di male c'è nel quaternario. Il simbolo si spiega con l’essere, questa, l’ultima delle lettere con cui Dio creò il mondo.

  Ad Esau che gli viene incontro con 400 mercenari che rappresentano le forze del male, Giacobbe dice: Yesh Li Kol  “Ho tutto”, frase il cui valore numerico è ancora 400, ad indicare che Giacobbe, detto  Israele, dispone di tutto ciò di cui ha bisogno per risalire.

   Per lasciare l'Egitto occorrono agli Ebrei 400 anni e soprattutto occorre  la Techinnah che si scrive con la Taw iniziale e che significa amicizia e clemenza. Per qualcuno, la forma della lettera è l' ideogramma di due braccia che stanno aprendosi ad accogliere un amico. Nel Midrash noto come Alfabeto di Rabbi Aqiva si rivela la duplice natura della lettera Taw  allorché è detto di  non leggerla come  Taw  bensì come Taev  desiderio. Desiderio di ogni bene terreno ma anche desiderio dello spirito di risalire in alto.

  Questa è la verità della Taw ed Emet-verità si scrive Alef Mem Taw. In questa parola,   E m (e) t, lettera mediana tra la Alef iniziale e la Taw finale è la  Mem, simbolo di ogni singolo aspetto della manifestazione divina. Ove si dimentichi che il Tutto della manifestazione, rappresentato dalla Taw, si collega all' Uno che è nella  Alef,  Emet si muta in Met Mem-Taw che significa morte. Senza la Alef o principio creativo, la realtà non è altro che vuota forma, apparenza, illusione e morte.

 Ce n’è dunque abbastanza per dimostrare che l’edificazione del Tempio, alla quale si accingono insieme i due Hiram e Salomone, non è soltanto un monumento elevato a gloria del Signore o Grande Architetto dell’Universo. E’ in realtà un tracciato da compiere, una via da seguire. E’ su questa via che gli Hiram e Salomone si trovano insieme.

  Il richiamo della tradizione cabbalistica ci consente ancora qualche piccola scoperta:

  Hiram non solo rappresenta lo spirito, per i significati delle due radici ebraiche ‘Hi e Ram. Formato dalle lettere Chet-Yud-Resh-Mem (40+200+10+8=258), Hiram è la ghematria di Arazim Aleph-Resh-Zain-Yud-Mem (40+10+7+200+1=258) che significa CEDRI. Ricordando che nella tradizione ebraica ogni lettera è numero e ogni numero è lettera, Hiram e Arazim hanno perciò lo stesso valore numerico (258) e dunque si corrispondono.

  E ancora:  Zahav, oro in ebraico, ha valore numerico 14 (2+5+7) come Yad mano  (4+10=14) e come David (la promessa del Tempio)  (4+6+4=14).

 Ciò significa che senza i cedri del Libano, senza gli operai e senza l’oro, in una parola senza Hiram nessuna mano avrebbe innalzato il tempio suggellando il patto che il Signore aveva concluso con David, padre di Salomone (I Re, 9, 1-10).

 Cosa rappresenta il cedro nella tradizione biblico-ebraica? Innanzi tutto il soffitto del Tempio era fatto di travi e assi di cedro, i pavimenti di legno di cedro, l’altare di cedro rivestito d’oro, le colonne tutte di cedro come pure i soffitti della Sala del Giudizio (I Re). Nel II libro di Samuele, 7,7 è Dio stesso a chiamare ‘Casa di cedro’ il Tempio che gli deve essere costruito.

 Il cedro, inoltre, è nella Bibbia di volta in volta simbolo di FORZA (Isaia, 9,9: ‘…Le fragili travi di fico sono state abbattute ma noi useremo robuste travi di cedro…’) di BELLEZZA (Salmo 92,13-14: ‘… Bello come un cedro del Libano piantato nel cortile del Tempio’; Cantico dei cantici 5,15: ‘… Egli ha l’aspetto delle montagne del Libano, è magnifico come gli alberi di cedro’) di SAPIENZA (Siracide 24,13 ‘… Elogio della sapienza’: ‘sono cresciuta ( io, la sapienza) come un cedro del Libano’). Inoltre, nella tradizione ebraica il cedro è simbolo di Dio nella sua veste di gloria, è simbolo di Abramo, del Sinedrio, dell’intero popolo ebraico e del cuore dell’uomo.

  Infine, il frutto del cedro (etrog) è detto il frutto di un albero di bell’aspetto: Perì ’Etz Hadar:

 “Prenderete il primo giorno di Sukkoth un frutto di bell’aspetto, rami di palme e rami dell’albero di mirto e rami di salice e vi rallegrerete davanti al Signore vostro Dio” (Levitico, 33:40).

 Si prende il Lulav (mazzo composto di 1 ramo di palma, 2 di salice, 3 di mirto) con la destra, il cedro con la sinistra, li si agita ai 4 punti cardinali, in alto e in basso, dopo aver detto la relativa benedizione.   

 Così si compie la mitzwah del Lulav durante la festa di Sukkoth o festa delle Capanne. [18] 

  Altri riferimenti biblici ad Hiram si trovano nel I Libro dei Re, dove egli è un valente artigiano figlio di una vedova della tribù di Neftali, dunque un discendente di Giacobbe e di Bila, la schiava che Rachele concesse al marito per avere discendenza.

  Nel II libro delle Cronache, è invece citato l’artigiano che Hiram re di Tiro invia a Salomone. Questa volta però lo si chiama  Hiram-Abi, lo si dice esperto di costruzioni e figlio di un’ebrea della tribù di Dan (2:12-13). [19]
 
  Inoltre, l’intero settimo capitolo del I Libro dei Re è dedicato alla descrizione di tutto l’arredo per l’abbellimento del Tempio che l’artigiano Hiram costruì.
  
 Ed ecco, dunque - come ho già detto - dopo la Sapienza e la Forza, la terza luce che illumina il Tempio massonico: la Bellezza, la cui sephirah corrispondente è Tiphereth, vero e proprio cuore dell’Albero della vita [leggi il post L'albero della vita, cliccando sul titolo] espressione dell’armonia in cui si manifesta l’equilibrio di ogni energia.

 Così intese le due figure dell’Hiram biblico, non stupisce certo che entrino a far parte della leggenda massonica inserita nelle Costituzioni, fuse insieme nell’unica figura di Hiram grande architetto di Salomone. Su questa linea interpretativa concorda uno studioso come il Vaillant, anche se poi egli finisce per ricondurre tutto, simbologia massonica e leggende del popolo ebraico, ad una comune matrice egizia. Scrive in proposito: “La tradizione massonica che si ricava dai rituali adottati da tutti i riti al terzo grado è ebraica (…) Nel secondo libro dei Paralipomeni, il re di Tiro fa dire a Salomone che ‘Hiram è un uomo intelligente, abilissimo; che ha servito suo padre, che sa lavorare l’oro, l’argento, il bronzo, il ferro, le pietre, il legno e perfino la porpora, il giacinto, il fine lino e lo scarlatto; egli sa ancora incidere tutte le immagini e inventare quello che occorre per ogni lavoro’ Ecco, senza dubbio, ciò che gli è valsa la denominazione di architetto nelle tradizioni ebraiche e tra i Liberi Muratori, malgrado le asserzioni rispettabilissime che non vogliono vedere in lui che un fonditore di metalli.”  [20]  [segue].

sergio magaldi


[1] Sul  barone Tschudy,  figura di grande prestigio della Massoneria europea della seconda metà del XVIII secolo, sulla condanna e sulla scomunica della Massoneria in questo stesso periodo, ad opera rispettivamente del re Carlo di Borbone del Regno delle due Sicilie e del papa Benedetto XIV, cfr. C.Miccinelli, E Dio creò l’uomo e la Massoneria, E.C.I.G., Genova, 1985, pp. 25 e ss.
[2] Cfr. Sefer ha-Bahir, prg 70 (48) in   Mistica ebraica, a cura di G. Busi ed E. Loventhal, Einaudi 1995, Ediz. CDE spa, Milano, 1996, pp. 168-169.
[3] Sepher-ha Zohar o ‘Libro dello Splendore’ è un vero e proprio corpo completo di letteratura cabbalistica e si compone di 24 sezioni oltre ad alcuni trattati. Sugli argomenti, la data di composizione, l’autore: cfr. G.G. Scholem, La Cabala, trad.it., Roma 1989, pp.215-244 e G.Busi, La Qabbalah, Laterza, Bari, 1998, pp. 70-75. Per un maggiore approfondimento cfr. i capitoli V e VI di Le grandi correnti della mistica ebraica, cit., di G.G. Scholem. L’edizione dello Zohar più nota è quella della versione francese a cura di C. Mopsik pubblicata dalla casa editrice Verdier.
[4] cfr. Le Zohar, cit., Berescith I, 16 b, pp. 99-100.
[5] Cfr. Le Zohar, cit. 16 b, p.100.
[6]  Cfr. Le Zohar, cit., Berescith II, 31 b-32 a, p.179. 
[7] cfr. Genesi 1:4
[8] ‘Questa luce scaturì dal cuore dell’Oscurità (…) dalla luce nascosta prese forma una segreta via d’accesso grazie all’oscurità del mondo di quaggiù e la luce poté manifestarsi.’ Cfr. Le Zohar, cit., 32 a, p.179. 
[9] cfr. J. Boucher, La Simbologia Massonica, Atanor, Roma, 1997, 5.a Rist., trad.it., Editions Dervy, Parigi, 1948, pp.151-152.
[10] cfr. le Zohar, cit., 32a, p.180
[11] cfr. Le Zohar, cit.,Berescith II, 30 b, t.I, p.175.
[12] citato in C. Miccinelli, Op.cit, p.293
[13] Cfr. F. Kafka, Trentottesima Considerazione, in Confessioni e immagini, trad.it., Mondadori, Milano 1960, p.62
[14] Cfr. Numeri, 16, 9-10
[15] Cfr. Il Manoscritto di Cooke, in Op.cit., p.171
[16] Cit. a proposito di un lavoro di A. Reghini, in  E. Bonvicini, I Gradi della massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato, Bastogi, Foggia, 1996, p.17
[17] Cfr. Sepher Yezirah o Libro della  formazione, la cui data di composizione secondo gli studiosi oscilla tra il II e il VI secolo d.C., nel libro (analizzato da G.G. Scholem in Le Origini della Kabbalah, cit., pp.32-44 e in La Cabala, cit., pp. 14, 30-61, 70-72, 96, 101 e ss.) è detto, all’inizio, che Dio formò il mondo con ‘32  misteriosi sentieri di saggezza’. I 32 Sentieri dell’Albero della Vita collegano tra loro le 10 Sephiroth e sono 32 in tutto perché, alle 10 Sephiroth, si aggiungono le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. 
[18] Il 15 del mese ebraico di Tishrì (settembre-ottobre) ricorre la festa di Sukkoth in memoria delle capanne costruite dagli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Nella Torah è conosciuta anche col nome di Chag Ha-Asif o festa del raccolto, perché con lei terminava la stagione del raccolto. E’ una festa di gioia e di allegria, come comanda la Torah. Dura sette giorni, durante i quali l’ebreo è chiamato a vivere nella Sukkah (capanna), costruita all’aria aperta ad imitazione di quella che gli antenati edificarono nel deserto.
[19] Proprio in riferimento al II Libro delle Cronache ( 2:12 ) che dice Hiram ‘esperto di costruzioni’, sarebbe potuta nascere la leggenda massonica di Hiram, maestro architetto (cfr. in proposito C. Jacq, La Massoneria. Storia e iniziazione, Mursia, Milano, 1998, pp. 240 e ss.)
[20] Cfr. A.Vaillant, I tre gradi della Libera Muratoria, Bastogi, Foggia, 1994, rist. anast., Milano, 1959, pp.163 e 169. Sulla questione della ‘matrice egizia’ comune sia alla Massoneria che alla tradizione ebraica,cfr. Ibid., l’intero cap. V, pp.163-186. 

domenica 15 giugno 2014

MONDIALI DI CALCIO: vince Prandelli...




   Il  “miracolo” che mi auguravo c’è stato, con la dea del pallone che rinnova il suo credito nei confronti del commissario della nazionale. Resto però convinto che giocare con cinque centrocampisti e una sola punta sia un inutile spreco di energie [leggi il post MONDIALI DI CALCIO: questa notte Italia-Inghilterra…]. Buon per noi che il caldo eccessivo e l’elevato tasso di umidità, abbassando i ritmi di gioco, abbiano limitato le incursioni degli inglesi, consentendo al fitto centrocampo italiano di tenere palla e di tessere una ragnatela a protezione di una difesa non impeccabile. Pur con la lieta novità di un ottimo esterno basso come Matteo Darmian e con le conferme di Barzagli – che all’ultimo istante toglie dai piedi degli inglesi la palla del 2-1 in loro favore – e di un Sirigu che non fa rimpiangere Buffon e che, risultando tra i migliori in campo, fa riflettere sui rischi concreti che abbiamo corso nell’arco dei 90 minuti.

 Com’era prevedibile, la squadra azzurra manca di profondità. Il primo goal lo trova Marchisio con un tiro da lontano che, se non è proprio “il tiro della domenica”, considerando il valore del centrocampista juventino, molto gli somiglia. Balotelli ha ricevuto solo tre palle giocabili: con la prima ha sfiorato la porta, con la seconda, calciata in modo spettacolare da posizione angolare s’è visto negare il goal da un intervento altrettanto straordinario del difendente inglese, con la terza ha segnato la rete della vittoria. Cosa potrebbe fare Supermario se gli fosse affiancata una punta di ruolo? Forse non lo sapremo mai. In proposito Mourinho, dopo aver elogiato Darmian e aver detto che questa partita è stata, almeno per ora, la più bella dei mondiali, osserva: "Mario [Balotelli] mi è piaciuto, ma avrebbe bisogno di toccare più palloni”.

 Resta il fatto che l’Italia ha vinto e che Prandelli, nonostante tutto, ha avuto ragione. La speranza è che continui ad averla anche nell’immediato futuro.


sergio magaldi

sabato 14 giugno 2014

MONDIALI DI CALCIO: questa notte ITALIA-INGHILTERRA ovvero la necessità di un primo miracolo...




  Ad un anno di distanza dalla Confederations Cup, si replica in Brasile con il calcio, ma questa volta si fa sul serio perché il campionato mondiale è già iniziato con la prima vittoria dei carioca, pilotata da un arbitro compiacente, e la disfatta della Spagna che dovrebbe insegnare qualcosa a Prandelli: nel calcio di oggi non si vince con una squadra imbottita di centrocampisti e una sola punta, soprattutto se, come per l’Italia di Balotelli, quell’unico attaccante non è da area di rigore. 

 La cornice in cui si svolge l’evento più atteso dagli amanti del pallone è la stessa dello scorso anno, con tutti i rischi che ne conseguono. Scrivevo allora [vedi il post del 28 Giugno 2013: Nel Brasile in rivolta, inutile “resistenza” dell’Italia del calcio…]:

 Una Terra che per la prima volta nella sua storia contesta persino il calcio in casa sua o almeno così i media tentano di far credere, raccontando che i motivi delle sommosse sarebbero causati dalle ingenti spese sostenute dal governo per allestire manifestazioni sportive internazionali o per il rincaro generalizzato degli autobus, il mezzo di trasporto più utilizzato e più popolare in Brasile. 

 La verità è che la grande crescita economica del Paese, che l’ha portato al sesto posto tra le grandi economie del mondo [Dopo USA, Cina, Giappone, Germania e Francia, e prima di Inghilterra, Italia, Russia e India], è stata accompagnata da una pessima distribuzione della ricchezza, dal sovraffollamento delle città e dall’aumento della povertà dei ceti tradizionalmente già poveri. Senza contare un fenomeno che in Italia conosciamo assai bene, quello della corruzione e delle ruberie della politica”.

 Poco o nulla è cambiato anche in Italia a distanza di un anno e, come per tutto il resto [crisi economica, disoccupazione, debito pubblico, gestione dei migranti, lotta alla corruzione e all’evasione fiscale ecc…], anche per il calcio il nostro Paese ha bisogno di miracoli. Di diverso avviso la stampa, che, come sempre, si esalta nel lodare le virtù di Prandelli e pronostica una vittoria facile sull’Inghilterra o, nel caso più sfortunato, un pareggio.

 L’Italia calcistica viene da una sconfitta e sei pareggi nelle ultime sette partite giocate contro altre nazionali, e con una sola vittoria [5-3] – maturata nell’ultimo collaudo ufficiale – contro la squadra brasiliana del Fluminense. Le partite disputate di recente contro l’Irlanda del Nord [0-0] e contro il Lussemburgo [1-1!], al di là del risultato, hanno mostrato la scarsa visione di gioco di una squadra costretta dal tecnico a continue e inutili sperimentazioni.

 Con l’Irlanda, schierando quasi tutte le riserve, per definire la lista dei 23,  dalla quale sono rimasti fuori, oltre a Giuseppe Rossi – forse il più tecnico degli attaccanti italiani, con esperienza internazionale e senso del goal come pochi altri – due punte di area come Osvaldo [neppure incluso nei “32”] e Destro. Ai tre sono stati preferiti Cassano, Cerci e Insigne. Ai prescelti auguro, naturalmente, di disputare un grande mondiale, ma Cassano ormai non tiene i 90 minuti, Cerci non ha mai reso in nazionale e semmai potrebbe essere utile se schierato [come nel Torino, sua squadra di club] accanto ad Immobile che però Prandelli considera la riserva naturale di Balotelli. Insigne, infine, corre spesso a vuoto e nelle 38 giornate del campionato appena concluso ha realizzato un solo goal.

 Contro il modestissimo Lussemburgo [appena l’equivalente di una squadra di serie C del nostro calcio], Prandelli ha schierato la nazionale che ha in mente, con cinque centrocampisti e un solo attaccante [Balotelli] che, come punta centrale, ha già fallito nel Milan. Questo il bilancio della squadra: pochi tiri e sbilenchi nella porta avversaria, inconsistenza del gioco offensivo e vistose incertezze del reparto difensivo dove, nonostante la preponderanza di giocatori juventini, manca una vera e propria organizzazione, almeno come quella che, nel campionato italiano, Conte ha saputo dare alla Juventus e Garcia alla Roma.

 Con il Fluminense, ancora una formazione sperimentale nella prima ora di gioco, con molte riserve e tre attaccanti [Immobile, Cerci e Insigne]. Finalmente si è visto il barlume di un gioco offensivo,  come sempre carente l’organizzazione difensiva: 5 i goal realizzati [ma le difese di Inghilterra e Uruguay, nostre prossime avversarie al mondiale, non saranno come quella piuttosto “allegra” del Fluminense], 2 i goal subiti. Nell’ultima mezz’ora, di nuovo in campo la nazionale che più o meno ha in mente Prandelli, con tanti centrocampisti e Balotelli unica punta con Cassano in appoggio: torna a latitare il gioco offensivo, per di più subiamo un altro goal e altri ne rischiamo.

 Insomma, il Prandelli di sempre, più che mai convinto che Balotelli possa fare reparto da solo in attacco, lui che non è mai stato una punta da area di rigore e che ha bisogno di movimento e di partire da lontano per rendersi pericoloso con tiri e assist per i compagni di reparto, ammesso che ve ne siano in campo. Difficilmente lo vedremo giocare a fianco di Immobile, ma se dovesse accadere l’Italia avrà qualche chance in più. Del resto, la condizione psicofisica di Supermario non sembra quella di due anni fa agli Europei, quando sostenne quasi da solo il peso dell’attacco azzurro.

 L’errore di Prandelli sta nel ripetere l’errore di due anni fa, quando la dea bendata gli consentì – malgrado tutto – di raggiungere la finale europea contro la Spagna, persa poi clamorosamente per 4 a 0. Il sempre ineffabile commissario della nazionale confida ancora nella sorte favorevole, ma questa volta la Fortuna potrebbe presentargli il conto, con l’eliminazione della squadra azzurra sin dal primo turno. Scrivevo allora [vedi il post L’Europa di Super-Mario tra vincitori e “perdenti di lusso”] :

 “A guardar bene, tuttavia, Mario Balotelli esce da vincitore, per aver sostenuto quasi da solo il peso dell’attacco azzurro e per i tre goal, sui complessivi sei, segnati dall’Italia durante l’intera competizione. L’averlo schierato in campo, senza affiancargli una punta di ruolo (Matri soprattutto, ma anche Osvaldo o Pazzini), lasciandolo ai rari assist del pur ammirevole Cassano, del grande Pirlo, o di Montolivo, è una responsabilità che riguarda il tanto celebrato (persino dopo il 4-0 subito con la Spagna!) commissario tecnico della nazionale italiana: l’ineffabile Cesare Prandelli […] Infatti, dopo le sconfitte nelle tre ultime partite di avvicinamento agli europei, contro Uruguay, Stati Uniti e Russia, sono arrivati, facendo leva sul blocco della Juve, i tre pareggi (Spagna, Croazia e Inghilterra), la stentata vittoria contro l’Irlanda di Trapattoni e l’eliminazione della Germania grazie ai goal di Balotelli. Con questi risultati, grazie anche alla “lotteria” dei rigori e all’onestà degli spagnoli che non hanno fatto il cosiddetto biscotto con i croati, Prandelli ha ottenuto il diritto di disputare la finale del campionato europeo. La sorte gli ha perdonato gli errori commessi al momento delle convocazioni, la mancanza di un modulo e di una filosofia di gioco, per due anni sempre in bilico tra vecchi schemi e nuove strategie, ma al momento della verità ha preteso che mettesse nella nazionale qualcosa di suo…”. 

 Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, con la speranza che la dea bendata rinnovi sin da questa sera il credito nei confronti del commissario azzurro. Non ci credo molto, ma naturalmente, come tutti gli italiani che amano il calcio, me lo auguro.


sergio magaldi