sabato 13 settembre 2014

IL NERO E L' ARGENTO

Paolo Giordano, Il nero e l'argento, Einaudi, Torino, 2014, pp.118



 Centodiciotto pagine per ricomporre, rielaborandolo in senso letterario, il frammento di una storia vera e dolorosa. Questa l’avvertenza che Paolo Giordano premette al suo terzo e breve romanzo.

 Nora e l’io narrante, giovani sposi con un figlio piccolo, nulla hanno a che vedere con Alice e Mattia, la coppia protagonista del romanzo che ha dato il successo all’autore quando aveva solo 26 anni [2008]. Alice e Mattia sono  entrambi come numeri primi gemelli, divisibili cioè solo per 1 e per se stessi e separati tra loro da un unico numero e dunque vicini, ma mai abbastanza per toccarsi davvero [vedi il post di La solitudine dei numeri primi romanzo e quello di La solitudine dei numeri primi film e clicca sui titoli per leggere]. Nora e l’io narrante sono rispettivamente l’argento e il nero, cioè quanto di più distante ci possa essere, eppure l’io narrante confessa:

 “Io, invece, avevo Nora, che comprendeva ogni sottigliezza delle frasi che pronunciavo e ogni implicazione di quelle che sceglievo di non dire. Potevo aspirare a qualcosa più di questo?, immaginare di metterlo a rischio in favore di una borsa di studio seppure prestigiosa?” [p.36]







 L’io narrante è il nero, il colore di Saturno e della malinconia, che rende l’umore atrabile, ma predispone alla genialità come si sostiene da parte di Aristotele e sino a Marsilio Ficino. Nora è l’argento, il miglior conduttore tra i metalli, quello più bianco e che riflette l’immagine come in uno specchio:

 “Mi soffermo sull’analogia che Galeno aveva evidenziato fra il cancro e la malinconia, entrambi portati da un eccesso di umore nero. Mentre leggo, è come se avvertissi il liquido vischioso, un fiotto di catrame irradiarsi per il mio sistema linfatico, otturandolo. […] Credo che la hostess non sappia nulla dell’umore nero, come d’altronde non ne sa molto Nora, dolcemente addormentata contro la mia spalla. La guardo, indeciso tra la commozione e l’invidia. La sua linfa scorre chiara, limpida e copiosa a dispetto di tutto […] e il suo è argento fuso, il più bianco tra i metalli, il migliore fra i conduttori, il riflettente più spietato.” [pp.68-69]

 Nora aveva avuto il potere di scardinare la sua ritrosia e il suo essere laconico. E qui l’io narrante è davvero somigliante a Mattia di La solitudine dei numeri primi, forse per quel tanto di autobiografico che c’è nei due personaggi. Entrambi cultori di matematica e fisica teorica, tutti e due fidando più nell’intelligenza che nel piacere agli altri.

 Ma Nora nulla ha a che vedere con Alice. Dove la prima sembra in grado di mitigare il nero, ricomporlo in un insieme con l’argento, la seconda, proprio perché così simile a Mattia non riesce mai veramente a raggiungerlo. La diversità o addirittura il contrasto, e non l’affinità, favorisce dunque l’intesa nella coppia?

 Non è vero nemmeno questo, perché l’io narrante scopre ben presto che gli elementi opposti non si armonizzano, se non in circostanze particolari, quando ci siano dei “punti di riferimento” a fare da collante:

 “Ero sicuro che l’argento di Nora e il mio nero si stessero mischiando lentamente e che lo stesso fluido metallico e brunito avrebbe infine percorso entrambi […]. Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. La vita si stringe talvolta come un imbuto e dall’emulsione iniziale degli umori si producono degli strati. L’esuberanza di Nora e la mia malinconia” [p.108].

 Cosa ha funzionato da collante, da punto di riferimento durante i primi anni di matrimonio tra Nora e l’io narrante? Una signora che si è presa cura di entrambi e che ha visto nascere il loro figlio. E la triste vicenda della signora A. occupa il centro della narrazione e non è, come si potrebbe pensare, un pretesto per parlare di una coppia. La signora A., chiamata affettuosamente Babette in omaggio alla cuoca del racconto di Karen Blixen, resa familiare dall’omonimo straordinario film di Gabriel Axel, vincitore nel 1987 dell’Oscar per il miglior film straniero.








 “La signora A. era la sola vera testimone dell’impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa […]. A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo.” [pp.16-17]

 Poi, all’improvviso, l’annuncio che Babette non verrà più in casa. La donna è stanca, è malata di cancro, ed ecco apparire i primi segni di disgregazione familiare. E tutte le fasi della malattia della signora A. sono descritte dall’autore con garbo e partecipata sofferenza. Con loro, la descrizione del malessere che serpeggia tra Nora e l’io narrante:

 “Anche una coppia giovane può ammalarsi, di insicurezza, di ripetizione, di solitudine. Le metastasi sbocciano invisibili e le nostre hanno presto raggiunto il letto. Per undici settimane, le stesse in cui la signora A. perdeva una alla volta le funzioni elementari del suo organismo, Nora e io non ci siamo sfiorati né cercati. Sdraiati a distanza di sicurezza i nostri corpi somigliavano a blocchi inespugnabili di marmo.” [p.107].

 Quindi la fine inesorabile di Babette. Una morte annunciata dall’uccello del paradiso che poco prima della scoperta della malattia andò a posarsi accanto a lei mentre lavorava nell’orto? Questo uccello dalle piume bellissime nella tradizione popolare pare sia presagio di morte. E l’io narrante ci tiene a precisare che Nora é tra quelli che credono nei presagi, mentre lui no: un’altra differenza che ci sarà sempre tra loro, commenta freddamente.








 Un universo razionale, una realtà che si può raccontare in numeri, una solitudine sempre riemergente tra gli individui ma che a tratti è mitigata dalla fantasia, dalla complicità e dalle emozioni. Questo il mondo che Paolo Giordano sembra voler rappresentare. E lo fa con efficacia narrativa e stile raffinato.

sergio magaldi





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