giovedì 29 maggio 2014

IL MAESTRO E LA MASSONERIA

L'iniziazione al grado di maestro


  Quale che sia l’origine della leggenda di Hiram [in proposito vedi il post Le fonti tradizionali della leggenda di Hiram e clicca sul titolo per leggere], appare evidente la sua centralità nella Massoneria, sia nella cerimonia di iniziazione al terzo grado della Massoneria azzurra, il grado di maestro, sia per ciò che attiene alla prosecuzione dei lavori nei gradi del Rito Scozzese Antico ed Accettato, almeno sino al 17.mo grado del Cavaliere d’Oriente e d’Occidente.

 Il Compagno della Loggia azzurra sente parlare di Hiram allorché è elevato al grado di maestro. Egli apprende che Hiram è il grande architetto prescelto dal re Salomone per la costruzione del Tempio.

 Hiram aveva diviso gli operai in tre categorie: apprendisti, compagni e maestri, dando a ciascuna categoria precise parole di passo per farsi riconoscere e riscuotere il salario dovuto. Un giorno, com’è noto, tre compagni invidiosi, ritenendo di meritare il salario di maestro, chiedono minacciosi a Hiram la parola segreta. Il grande architetto, naturalmente, si oppone gridando ai tre compagni parole che dovremmo meditare a lungo e in ogni circostanza: ‘Non così io l’ho ricevuta! Non così si deve chiederla!’. E sul punto di morire, per le violenze inferte, egli così ammonisce i compagni:

 ‘Lavora, persevera, impara. Solo così avrai diritto alla maggior ricompensa!’.

 Il massone che è sul punto di ricevere la maestria è condotto alla scoperta della tomba di Hiram presso un albero di acacia e attraverso una drammatizzazione, che è il cuore stesso della cerimonia iniziatica, prende coscienza dell’eterno ciclo della morte e della rinascita.

 Quale, allora, il significato del ripresentarsi della leggenda nel quarto grado, nel primo cioè dei gradi del Rito Scozzese Antico ed Accettato?

 Salomone, benché sconvolto per la scomparsa del grande architetto, nomina un nuovo sovrintendente perché i lavori per la costruzione del Tempio possano riprendere con forza e vigore. Quale maggiore continuità si potrebbe stabilire tra le vicende che ispirano il rituale del terzo grado della Massoneria Azzurra e quelle da cui inizia il cammino dello ‘scozzese’?


Il Maestro Hiram


 Diversi autori hanno tentato di ricostruire la prima apparizione della leggenda di Hiram nella tradizione massonica. In proposito, c’è chi ricorda la citazione che del nome di Hiram fa il Manoscritto di Cooke, circa alla metà del Quattrocento e nell’ambito della Massoneria ‘operativa’ del XV secolo, senza peraltro alludere alla sua uccisione ma solo per ricordare che Hiram, ‘il figlio di Tiro era il capo degli 80.000 muratori al servizio di Salomone per la Costruzione del Tempio, iniziato da re David.’ [1] E, nella tradizione orale, vi sarebbero testimonianze dell’introduzione, nel rituale del terzo grado della Gran Loggia di Londra, della figura di un ‘maestro costruttore’ e della sua morte e rinascita iniziatica.[2] Siamo nel 1725 e bisogna attendere sino al 1733 perché la leggenda di Hiram compaia nel rituale del terzo grado delle Logge londinesi e altri cinque anni perché venga inserita nella ristampa delle Costituzioni inglesi del 1723. Tuttavia, la leggenda di Hiram, nelle sue diverse versioni, sarebbe di fatto già presente nella Massoneria operativa dell’Europa medievale e in particolare negli archivi dei vari Compagnonnages francesi. Tutti i testi, nel collegarsi al racconto biblico della costruzione del Tempio di Salomone, fanno poi riferimento a vicende non menzionate nella Bibbia e che si differenziano poco le une dalle altre, concordi tutte, comunque, nel sottolineare che la morte di Hiram, frutto dell’invidia, dell’avidità e della violenza di alcuni operai, ebbe come effetto di ritardare i lavori di costruzione del tempio:

 “La presenza a Gerusalemme di tanta moltitudine di operai non mancava di causare a Salomone e ad Hiram delle gravi preoccupazioni. Specialmente il pagamento degli operai non si effettuava senza difficoltà: talvolta, si presentavano alcuni intrusi e degli oziosi e, profittando della confusione che regnava fra quella folla di gente, percepivano un salario come i lavoratori. Per ovviare a questo inconveniente, Hiram (qualche testo dice invece Salomone) diede a ogni operaio un segno per farsi pagare e una parola di passo per farsi riconoscere, cosicché ciascuno era pagato secondo il proprio merito. Inoltre, quando un operaio era diventato un buon artigiano veniva segnalato a Hiram, che lo riceveva alla presenza del suo Consiglio. Dopo averlo interrogato, se gli riconosceva le capacità acquisite, lo esortava a perseverare, perché sarebbe stato ricompensato. Qualche giorno dopo questa conversazione, uno dei suoi sorveglianti incontrava, come per caso, il nuovo recepiendario e lo conduceva in un sotterraneo del tempio dove, in mezzo ai compagni di lavoro del nuovo venuto, si procedeva alla sua iniziazione e gli si confidava la nuova parola di passo, che doveva farlo riconoscere […] ”.

 Tre apprendisti - continua un’altra versione della leggenda - che si chiamavano Holem, Sterkin e Choterfut e le cui radici aramaiche dei nomi significano: testardo e ripugnante per Holem, scellerato e traditore per Sterkin e perfido e prepotente per Choterfut, tre apprendisti - dicevo - gelosi di Hiram [che in aramaico significa “vita elevata”] e furibondi per essersi visti rifiutare da lui la maestria, decisero di obbligarlo a rivelare la parola di passo di questo grado. L’attesero, in agguato, all’uscita del tempio, dove egli lavorava fino a sera; Holem, armato di un maglietto, si imboscò presso la porta del sud; Sterkin, con un regolo in mano, si nascose presso la porta occidentale; e Choterfut, con una leva, attese il Maestro alla porta orientale. Hiram si presentò, com’era sua abitudine, alla porta dell’occidente, dove Sterkin, infame assassino, volle costringerlo a rivelargli il suo segreto. Egli rifiutò, dicendo: ho guadagnato il mio segreto con la mia saggezza e il mio talento; sforzatevi di fare altrettanto e siate sicuri che vi riuscirete. Sterkin lo colpì alle spalle con il regolo. Egli fuggì verso la porta del sud, dove Holem gli rivolse la stessa domanda e, al suo rifiuto, gli assestò un colpo di maglietto. Hiram sperava di trovare libera la porta dell’oriente, ma c’era Choterfut che l’aspettava e, non avendo potuto strappargli la parola di passo, quel traditore uccise Hiram con un colpo di leva. I tre assassini nascosero il cadavere sotto le macerie. Di notte, vi ritornarono e trasportarono il cadavere fino ad un luogo recondito, dove scavarono tre fosse: una per il cadavere, la seconda per gli abiti e la terza per il bastone di Hiram (un giunco marino che egli portava sempre con sé). Un ramo di acacia fu piantato sulla sua tomba. Intanto si erano accorti dell’assenza di Hiram. Nove compagni si misero alla sua ricerca e, guidati da un fluido, trovarono il ramo di acacia, la terra smossa di fresco e sotto di essa il corpo. Fu cambiata la parola di passo e fu avvertito Salomone che ordinò a tutti i compagni di radersi la barba, di tagliarsi i capelli, di mettersi dei grembiuli di pelle bianca in segno di lutto e dei guanti bianchi, per indicare che essi erano innocenti da assassinio.  Hiram fu sepolto in una tomba di rame larga tre piedi, profonda cinque e lunga sette… ecc… ecc… [3]

 Fatta una certa chiarezza sui tempi della comparsa dei testi della leggenda di Hiram nell’ambito, prima della Massoneria operativa poi di quella speculativa, resta, ancora irrisolto e forse non del tutto solubile, per via di prove documentarie, il problema della genesi della leggenda, il rinvenimento delle sue fonti originarie. La questione è tanto più complessa perché, se per un verso tutti sono concordi nel rintracciare nel racconto biblico il motivo ispiratore, le divergenze cominciano quando si cerca di spiegare ciò che la vicenda biblica non dice e soprattutto allorché si tenta di chiarire il significato ultimo e per così dire più autentico del mito di Hiram.

 Così, c’è chi sostiene che la leggenda massonica di Hiram, a partire dai pochi spunti del racconto biblico, fu opera di fantasia di massoni illuminati; chi ne rintraccia l’origine addirittura in una versione popolare arabo-turca; chi ne avverte la presenza nel Talmud degli ebrei, senza peraltro indicare in quale dei numerosi trattati della Mishnah o in quale suo commento o Ghemarah si troverebbe; chi ancora la riconduce ai miti di morte e risurrezione presenti in tutte le tradizioni e in particolare nella tradizione egizia della morte di Osiride, o in quella occidentale della morte di Cristo; chi, infine, la riconduce genericamente ai miti solari del ciclo zodiacale e vegetativo.

 Per quanto mi riguarda, ho trovato plausibile che l’origine della leggenda potesse trovarsi nel Talmud, anche e soprattutto per via del suo riferimento alla tradizione ebraica del racconto biblico della costruzione del Tempio di Salomone. Sinora, tuttavia, per quanto abbia cercato nei trattati della Mishnah  che ho potuto consultare, non mi è stato dato di trovare traccia di Hiram, grande architetto di Salomone, ucciso per mano degli operai. Ciò non significa, d’altra parte, che il riferimento non esista davvero come pure sostengono autorevoli studiosi.  Ho preferito allora restare alla Bibbia, lì dove il nome di Hiram è citato e poi allargare la ricerca in ambito biblico ogni qualvolta ci si riferisce alla edificazione di una ‘casa del Signore’.
   

Hiram biblico


  Nella Bibbia, Hiram è citato nel I Libro delle Cronache (14,1) e nel II libro di Samuele (5,11) solo per dire che era re di Tiro. Se ne parla poi soprattutto nel I Libro dei Re, allorché Salomone informa Hiram re di Tiro di voler costruire un tempio - secondo gli accordi che suo padre David aveva preso direttamente con Dio - e perciò gli chiede operai fenici per tagliare gli alberi e legname di cedro necessario alla costruzione del tempio. Hiram acconsente di buon grado allo scambio commerciale e concede, oltre ai cedri e agli operai, oro in abbondanza e pietre preziose in cambio di 6000 tonnellate di grano, 8000 litri di olio purissimo ogni anno e 20 villaggi della Galilea. D’ora in poi Fenici ed Ebrei lavoreranno insieme, cominciando con lo squadrare le pietre necessarie alla fondazione del Tempio.

 L’altro Hiram del racconto biblico è sempre di Tiro, ma è un artigiano, figlio di una vedova, non un architetto. Egli è sommamente esperto nella lavorazione del bronzo: vasche, carrelli, gli oggetti bronzei all’interno del tempio e ogni tipo di arredo e soprattutto le due colonne erette davanti al Tempio: Jachin e Boaz. Di questi stessi fatti si parla anche nei Libri delle Cronache. Non sarà inutile soffermarci su qualcuno dei versetti più significativi del racconto biblico. A cominciare da quando Salomone si rivolge ad Hiram:

“…Ora ho intenzione di costruire un tempio consacrato al Signore, mio Dio…” (I Re, 5,19) e Hiram osserva: “Sia lodato il Signore che ha dato  a David un figlio tanto saggio per governare il numeroso popolo di Israele” (5,21). Poco dopo è detto dell’alleanza che da allora intercorse tra Hiram e Salomone: “Come aveva promesso, il Signore diede grande saggezza a Salomone. Così Salomone mantenne sempre buoni rapporti con Hiram: i due fecero anche un’alleanza” (5,26). Nei successivi versetti i due sovrani sono impegnati nel reperire il materiale necessario alla costruzione del Tempio: “ Il re Salomone organizzò in Israele dei lavori obbligatori, ai quali dovettero partecipare trentamila uomini. Ogni mese Salomone mandava in Libano una squadra di diecimila uomini. Così lavoravano un mese in Libano e poi potevano tornare due mesi a casa loro. Adoniram era il sovrintendente ai lavori obbligatori. Salomone aveva ottantamila tagliapietre all’opera in montagna e settantamila uomini di fatica. A questi si aggiungevano tremila funzionari, dipendenti dai prefetti di Salomone; sorvegliavano i lavori e dirigevano gli operai. Il re ordinò di estrarre e squadrare grandi pietre di ottima qualità per le fondamenta del tempio. Gli operai di Hiram, quelli di Salomone e quelli provenienti dalla città di Biblos le squadrarono. Essi prepararono anche tutte le pietre e il legname per la costruzione dell’edificio” (5, 27-32).

 Nel versetto successivo (6,1) si precisa che i lavori di costruzione del Tempio ebbero inizio allorché erano trascorsi 400 anni dall’uscita degli Ebrei dall’Egitto. Per chi conosca appena la tradizione ebraico-cabbalistica ‘uscire dall’Egitto’ e ‘400’ hanno un preciso significato. Uscire dall’Egitto significa abbandonare la via ‘consueta e profana’ per intraprendere un cammino iniziatico. Quanto al 400, lo sappiamo corrispondere al valore numerico dell’ultima lettera dell’alfabeto ebraico: la Taw.

 Settima lettera doppia e ultima delle 22 lettere dell' alfabeto ebraico, la Taw   è collocata  sul trentaduesimo e ultimo sentiero dell’Albero della vita,  di collegamento tra le sephiroth Malchut e Yesod, detto anche sentiero di Saturno. Dio pose questo sigillo, la lettera Taw, sulla fronte di Caino a testimoniare la caduta e insieme la possibilità della risalita. Il suo valore numerico, il 400, simboleggia tutto ciò che di bene e di male c'è nel quaternario. Il simbolo si spiega con l’essere, questa lettera, l’ultima delle lettere con cui Dio creò il mondo.

  Ad Esau che gli viene incontro con 400 mercenari che rappresentano le forze del male, Giacobbe dice:  Yesh Li Kol  'Ho tutto', frase il cui valore numerico è ancora 400, ad indicare che Giacobbe, detto  Israele, dispone di tutto ciò di cui ha bisogno per risalire.

  Per lasciare l'Egitto occorrono agli Ebrei 400 anni e soprattutto occorre  la Tehinnah che si scrive con la Taw iniziale e che significa amicizia e clemenza. Per qualcuno, la forma della lettera è l' ideogramma di due braccia che stanno aprendosi ad accogliere un amico.

 Questa è la verità della Taw ed Emet, verità in ebraico, si scrive Alef-Mem-Taw. In questa parola, Emet, lettera mediana tra la Alef iniziale e la Taw finale è la Mem, simbolo di ogni singolo aspetto della manifestazione divina. Ove si dimentichi che il Tutto della manifestazione, rappresentato dalla Taw, si collega all' Uno che è nella  Alef,  Emet si muta in Met  Mem-Taw che significa morte. Senza la Alef o principio creativo, cioè, la realtà non è altro che vuota forma, apparenza, illusione e morte.

 Nel Midrash noto come Alfabeto di Rabbi Aqiva si rivela la duplice natura della lettera Taw  allorché è detto di  non leggerla come  Taw  bensì come Taev  desiderio. Desiderio di ogni bene terreno ma anche desiderio dello spirito di risalire in alto.

 De hoc satis, ce n’è abbastanza da dimostrare che l’edificazione del Tempio, alla quale si accingono insieme Hiram e Salomone, non è nel racconto biblico soltanto la mera e formale glorificazione di un monumento elevato al Signore o Grande Architetto dell’Universo, è bensì anche un tracciato da compiere, una via da seguire. E su questa via Hiram e Salomone si trovano insieme. Ma è davvero un trattato commerciale quello si stipula tra loro? Chiunque, esaminando nei dettagli del racconto biblico quanto concede effettivamente Hiram e quanto in realtà Salomone dà in cambio, si rende conto che fu davvero un ben strano trattato. Il riferimento è nel I Libro dei Re, 9,10-14:

  “…Ci vollero 20 anni per costruire il tempio e la reggia.
   Hiram, re di Tiro, aveva fornito a Salomone tutto il legname di cedro e di pino e tutto l’oro che Salomone aveva voluto. In cambio, Salomone diede a Hiram venti villaggi della regione della Galilea.
 Allora Hiram partì da Tiro per andare a ispezionare i villaggi che Salomone gli offriva, ma non ne fu soddisfatto.
 Disse a Salomone: ‘Fratello, sarebbero questi i villaggi che vuoi darmi?’. Per questa frase di Hiram, ancora oggi quella regione si chiama Cabul (‘come niente’).
 Hiram aveva fornito a Salomone più di quattro tonnellate d’oro.”

 Il richiamo della tradizione ebraico-cabbalistica, alla quale non è poi così arbitrario riferirsi, trattando la Bibbia la storia del popolo ebraico, ci consente ancora una piccola scoperta.Hiram  è formato dalle lettere Chet-Yod-Resh-Mem cioè per ghematria: 40+200+10+8=258 con lo stesso valore numerico di Arazim  che significa CEDRI, e che è parola formata dalle lettere Aleph-Resh-Zain-Yod- Mem cioè: 40+10+7+200+1=258. E ancora:  Zahav, oro in ebraico, ha valore numerico 14 (2+5+7) come Yad mano  (4+10=14) e come David (la promessa del Tempio, 4+6+4=14).

 Ciò significa che senza i cedri del Libano, senza gli operai e senza l’oro, in una parola senza Hiram nessuna mano avrebbe innalzato il tempio suggellando il patto che il Signore aveva concluso con David, padre di Salomone (I Re, 9, 1-10).

 Cosa rappresenta il cedro nella tradizione biblico-ebraica? Innanzi tutto il soffitto del Tempio era fatto di travi e assi di cedro, i pavimenti di legno di cedro, l’altare di cedro rivestito d’oro, le colonne tutte di cedro come pure i soffitti della Sala del Giudizio (I Re). Nel II libro di Samuele, 7,7 è Dio stesso a chiamare ‘Casa di cedro’ il Tempio che gli deve essere costruito.

 Il cedro, inoltre, è nella Bibbia di volta in volta simbolo di FORZA (Isaia, 9,9 ‘…Le fragili travi di fico sono state abbattute ma noi useremo robuste travi di cedro…’) di BELLEZZA (Salmo 92:13-14  ‘Bello come un cedro del Libano piantato nel cortile del Tempio’– Cantico dei cantici cap.5:15 ‘Egli ha l’aspetto delle montagne del Libano, è magnifico come gli alberi di cedro’) di SAPIENZA (Siracide cap. 24:13 Elogio della sapienza: ‘sono cresciuta ( io la sapienza) come un cedro del Libano’).

 Inoltre, nella tradizione ebraica il frutto del cedro (etrog) è detto il frutto di un albero di bell’aspetto: Perì  ’ Etz Hadar: “Prenderete il primo giorno di Sukkoth un frutto di bell’aspetto, rami di palme e rami dell’albero di mirto e rami di salice e vi rallegrerete davanti al Signore vostro Dio” (Levitico, 33, 40). Il frutto del cedro è infatti uno dei 4 componenti del Lulav (mazzo composto di 1 ramo di palma, 2 di salice, 3 di mirto, 1 cedro). Si prende il Lulav con la destra, il cedro con la sinistra, li si agita ai 4 punti cardinali, in alto e in basso, dopo aver detto la relativa benedizione. Così si compie la mitzwà del Lulav durante la festa di Sukkoth o festa delle Capanne. [4] Sempre nella tradizione ebraica il cedro è detto simbolo: 1)di Dio nella sua veste di gloria (cioè Hadar, come l’aspetto del cedro)  2)di Abramo  3)del Sinedrio 4)del Popolo ebraico 5) del cuore dell’uomo.

  L’altro Hiram della Bibbia è un valente artigiano figlio di una vedova della tribù di Neftali, dunque un discendente di Giacobbe e di Bila, la schiava che Rachele concesse al marito per avere discendenza. Il I Libro dei Re gli dedica l’intero settimo capitolo per descrivere tutto l’arredo per l’abbellimento del Tempio che egli costruì.

  Così tratteggiate le due figure dell’Hiram biblico, non stupisce certo che entrino a far parte della leggenda massonica inserita nelle Costituzioni, fuse insieme nell’unica figura di Hiram grande architetto di Salomone. Inutile, dunque, cercare al di fuori ciò è già ampiamente contenuto nel racconto biblico.

  Già, si dirà, ma dove si trova nella Bibbia la vicenda del tradimento degli operai e dell’assassinio di Hiram?

 Eppure a guardar bene nella Bibbia si trova anche questo: vi allude un studioso serio come il Porciatti, senza tuttavia trarne tutte le dovute  conseguenze. “I cattivi compagni - egli scrive - sono i ribelli che mossi da istinti brutali si armano contro l’autocrazia della saggezza: sono i biblici Core, Dathan e Abiron. Sono coloro che, deformando e svisando la legge, colpiscono con il regolo che ne è il simbolo; sono coloro che per reagire ad una tirannide, con un’altra tirannide attentano più fatalmente alla realtà della saggezza; sono infine quei cosiddetti restauratori che, nella loro brutale pretesa, credono di assicurare ad essi autorità schiacciando l’intelligenza.” [5]

 In quale contesto s’inserisce la ribellione dei tre levìti? E’ il momento del passaggio degli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Ed è anche il periodo di un’abitazione, sia pure mobile e rudimentale, elevata al Signore, prima della costruzione del Tempio di Salomone, com’è detto nel II Libro di Samuele, 7, 6-7: “Io non ho abitato in una casa dal giorno in cui condussi i figli d’Israele fuori dalla terra d’Egitto, fino a questo giorno, ma ho camminato in un tabernacolo e in una tenda. In tutti i luoghi per i quali sono passato con tutti i figli di Israele, ho forse io detto ad alcuna delle tribù a cui ho ordinato di pascere il mio popolo: perché non mi avete fabbricato una casa di cedro?”

 E infatti il legno di questa primordiale ‘casa di Dio’ non è di cedro ma di acacia (dal greco a-kakìa, cioè puro e senza macchia) come è attestato nel Libro dell’Esodo. Dio aveva detto a Mosè (Esodo, 25,8): “Ed essi mi costruiranno un Santuario e Io risiederò in mezzo a loro”. Dio aveva poi indicato nei dettagli i criteri e il materiale per la costruzione. Così, il Tempio mobile degli ebrei sarà fatto con assi di legno di acacia collocati in posizione eretta (Es.,26,15), l’Arca sarà di legno d’acacia, ricoperto d’oro puro sia all’interno che all’esterno (Es.,25,10-11), di acacia sarà la tavola dei pani (Es., 25,23) come pure l’altare del Tempio (Es., 27,1), quello per l’olocausto (Es., 38,1 e quello per bruciare l’incenso e i profumi (Es., 30,1). Di legno d’acacia saranno le quattro colonne della ‘tenda dell’incontro’ (Es., 26, 31-32) e così via continuando.

 L’episodio della ribellione di Core, Dathan e Abiron è contenuto nella Torah [6] e si sostanzia delle parole che Mosè rivolge ai ribelli: “ Non vi basta il fatto che il Signore, il Dio d’Israele, ha scelto voi fra tutti gli altri israeliti? Vi concede di avvicinarvi a Lui, per prestare servizio nella sua Abitazione e per celebrare il culto in nome di tutta la comunità d’Israele. Il Signore ha permesso a te, Core, e a tutti i fratelli leviti di avvicinarvi a lui e voi ora pretendete anche il sacerdozio? ” (Numeri, 16, 9-10).

 Un eco della vicenda dei tre ribelli è contenuto anche nel Nuovo Testamento, nella Lettera di Giuda contro i falsi profeti: “… tra noi si sono infiltrati certi uomini empi - egli dice - la condanna dei quali è già scritta da molto tempo (…) Guai a loro perché hanno preso la strada di Caino (…) Costoro sono la vergogna delle loro agapi, dove gozzovigliano senza ritegno…” (Lettera di Giuda, 4-12).  Analogamente, i tre operai della leggenda massonica, che pure hanno il privilegio di lavorare alla costruzione del Tempio, pretendono la maestria senza averne diritto e la loro avidità e superbia li spinge al delitto.

Il mito di Osiride e la Massoneria


 La leggenda di Hiram è dunque interamente riconducibile alla tradizione biblico-ebraica pur con le modalità e i significati specifici che detta tradizione assume in ambito massonico. Ciò non esclude, d’altra parte, che il mito di Hiram, e soprattutto il mito della sua morte e rinascita non possa essere avvicinato, nel suo simbolismo, ad altri miti solari e in particolare al mito egizio di Osiride. D’altra parte, la preferenza, accordata dalla maggior parte degli autori a questo mito piuttosto che al racconto biblico, si spiega soprattutto con la necessità di sottolineare il momento topico della morte e della risurrezione, e questo è abbastanza comprensibile in una istituzione iniziatica. Scrive in proposito il Porciatti, pur cogliendo l’analogia tra i tre assassini di Hiram e i tre leviti ribelli: “La drammatica leggenda - egli osserva - non può dirsi ispirata dalla Bibbia; infatti biblicamente Hiram è ricordato quale geniale artista, fonditore delle due colonne del Tempio e dei loro capitelli, del ‘mare di bronzo’ e di altre cose ancora, ma mai quale architetto preposto alla costruzione del Tempio e capo di una immensa schiera di operai che avrebbe ripartito in Apprendisti, Compagni e Maestri. Essa è piuttosto inspirata dalla iniziazione Osirica, da quel terzo grado della iniziazione Egizia che si chiamava ‘Porta della Morte’, anzi la riproduce: la bara di Osiride, di cui l’assassinio era supposto recente, portava ancora le tracce del sangue ed era posta al centro della sala dei Morti, ove avveniva una parte della cerimonia; si chiedeva all’Iniziando se aveva preso parte all’assassinio di Osiride, e dopo altre prove malgrado i suoi dinieghi era colpito, o gli si imponeva la sensazione di essere colpito con un colpo di ascia alla testa; esso era rovesciato, avvolto in bende come le mummie; si gemeva attorno a lui; balenavano lampi; l’Iniziando, il supposto morto, era avvolto di fuoco, poi reso alla vita.” [7]

 Ciò che sorprende di questa analisi è l’aver ridotto l’intera leggenda di Hiram ad una generica rappresentazione del mito solare e  a una brutta copia del mito di Iside e Osiride, dove le analogie si possono riassumere nella morte di Osiride per mano del fratello di sangue Seth, nella ricerca disperata che Iside, la vedova di Osiride, fa dello sposo perduto e infine nell’attribuzione ai massoni del titolo di figli della vedova.

 Giustamente Osiride è stato detto Signore della morte e della risurrezione [8], ma egli è solo una tra le tante divinità nella folta schiera dei morti e risorti in cui troviamo Orfeo, Dioniso, Mithra, Adone, Cristo, Krishna e molti altri, tutti peraltro riconducibili al ciclo cosmico e vegetativo, al mito del Sole che scompare e ogni volta rinasce, mentre la Luna, inconsolabile vedova, lo va cercando nella notte stellata.

 Tra le divinità citate, si può parlare di iniziazione solo a proposito di Dioniso e di Osiride, mentre per tutti gli altri ci si deve limitare al pathos religioso e alla celebrazione dei relativi Misteri. E c’è differenza profonda tra ricevere una Iniziazione e partecipare ai Misteri, perché i Misteri sono feste religiose che ripercorrono le varie fasi della passione del dio, sollecitando attraverso il pathos di massa un’esperienza unitiva solo emozionale e solo allusiva di una generica salvezza, mentre l’iniziazione indica un cammino che il neofita deve percorrere e che potrà modificare la sua individuale coscienza, elevandolo nella direzione del divino, rispetto al quale, tuttavia, resta sempre altro.

 In base alle testimonianze di Plutarco, Clemente Alessandrino, Arnobio e Firmico Materno sembra che esistesse un vero e proprio rituale di iniziazione dionisiaca, ma il serpente aureo che, durante il rito, l’iniziando, spalmato d’argilla e bagnato con acqua, faceva scivolare lungo il corpo, troppo richiamava i furori orgiastici delle Menadi o sacerdotesse di Dioniso, troppo sottolineava il carattere eversivo, perturbatore dell’ordine e della morale corrente dello spirito dionisiaco:

 “Schopenhauer - scrive Nietzsche - ci ha descritto l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione (…) Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che (…) sale dall’intimità profonda dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo nell’essenza del dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé (…) Ci sono uomini che, per mancanza d’esperienza o per ottusità, distolgono lo sguardo da tali fenomeni come da‘malattie popolari’, schernendoli o compiangendoli nella coscienza della propria sanità: i poveretti non sospettano certo quanto cadaverica e spettrale apparirebbe appunto questa loro ‘sanità’, quando passasse loro accanto fremendo la vita ardente degli invasati da Dioniso. Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame tra uomo e uomo, ma anche la natura estranea, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo (…) Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l’inno alla gioia di Beethoven in un quadro (…) così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la ‘moda sfacciata’ hanno stabilite tra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando (…) l’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico della natura (…) Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più nobile, il marmo più prezioso, l’uomo (…) L’estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell’esistenza contiene (…) un elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato. Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dei cardini.” [9]

 Insomma, l’iniziazione dionisiaca è l’accettazione festosa della profonda irrazionalità del vivere, coi suoi punti nodali scanditi da dolore, lotta, crudeltà, inquietudine e morte, senza tuttavia che tale consapevolezza si trasformi nella rinuncia e nell’ascetismo propri della religione cristiana e del comune sentire spirituale. Con Dioniso, il dio dell’ebbrezza e della gioia, del canto, dell’amore e della danza una nuova tavola di valori è scritta e il concetto stesso di virtù è rovesciato: non più il sacrificio, il dominio di sé, la rinuncia, non la mortificazione dell’energia vitale come pretendono le religioni e la morale dominanti, bensì l’accettazione entusiastica di ogni passione che esprime la vita ed è capace di esaltare - scrive ancora Nietzsche in Volontà di potenza (prg. 479) - “la fierezza, la gioia, la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle abitudini, le buone maniere, la volontà forte, la disciplina dell’intellettualità superiore, la volontà di potenza, la riconoscenza verso la terra e verso la vita, (in una parola) tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla…”

 Così stando le cose, si comprende bene la maggiore fortuna toccata all’iniziazione osirica, ormai attestata dal prezioso ritrovamento del Papiro T 32 di Leida. Osiride “è un dio fecondo e benefico, la cui vita, morte e resurrezione hanno seguito, fin dalle origini mitiche, il ritmo di tutta la vita egiziana particolarmente nei due cicli entro i quali essa si aggira: il ciclo agrario e il ciclo funerario.” [10]

 La funzione normalizzatrice e rassicurante dell’iniziazione osirica riguarda ogni aspetto del viver civile e della morte stessa, perché Osiride è insieme il Nilo e il deserto, il sole che ogni giorno appare all’orizzonte, tramonta e ogni volta risorge, il seme fecondo e il corpo smembrato, la certezza della morte e la fede nella risurrezione. E non importa se queste sono soltanto le forme di conoscenza dell’apparenza, come dimostra la cura che gli Egizi dedicano alla conservazione dei cadaveri e al mantenimento della loro integrità, perché le forme dell’apparire sono simboli della realtà e la realtà si rivela nella formula della ricorrenza e dell’eterno ritorno. Così, da ultimo e nonostante tutto, l’irrazionale che si esprime nel ‘dionisiaco’ coincide con la ragione prometeica che tutto vuole spiegare e chiarire e su tutto apporre il sigillo della consapevolezza. Ma, infine, entrambe sono concezioni dell’eternità della vita con la sola differenza che l’una riguarda il divenire cosmico e l’altra si preoccupa della conservazione delle singole forme, perché in ogni singola forma è detto abitare un frammento del dio smembrato. E a ben guardare non è per l’uomo differenza di poco conto, perché l’una atterrisce e l’altra consola, l’una si sofferma sulla disgregazione e sul caos, l’altra sulla reintegrazione e sull’ordine. Nell’economia dell’universo, tuttavia, l’una è speculare all’altra perché non c’è ordine e reintegrazione se non lì dove c’era disgregazione e caos.

 E’ abbastanza comprensibile, in tale contesto, riferire a Osiride quella parte della leggenda massonica di Hiram, che parla di morte e di resurrezione, perché l’iniziazione non può che essere un’avventura della coscienza individuale e perché, a quanto pare, fu nella valle del Nilo che venne elaborato per la prima volta il processo psicologico dell’iniziazione [11] attraverso un viaggio rituale che, come testimonia il citato Papiro di Leida, contemplava per il postulante l’arrivo e l’accettazione, quindi la proclamazione di giustificato, cioè di destinato alla resurrezione, quindi il bagno rituale, l’illuminazione che sembra prevedesse cosiddetti stati di coscienza fuori dell’ordinario (non sappiamo sino a che punto indotti artificialmente) e che, infine, si concludeva col ‘sonno nel tempio’. Come si vede, nulla che ricordi i rituali massonici ma certamente la comune convinzione che il rituale di iniziazione sia almeno capace di operare una prima trasformazione della coscienza. E certo Hiram ci fa venire in mente il mito egizio di Osiride e, attraverso questo, i miti solari e della ciclicità naturale, il mito della morte e della risurrezione e soprattutto il mito del Caos sempre risorgente e in grado di minacciare l’Ordine raggiunto. Anche il mondo più organizzato conserva traccia del Caos che può distruggerlo, anche nella coscienza più illuminata può annidarsi il germe della distruzione che trasforma in assassino. Osiride esorcizza bene nella cosmologia egizia tutto ciò che nasce, muore e deve rinascere in eterno ciclo, egli - l’ho già detto - è l’espressione mitica della ricorrenza: il sole, la luna, la vegetazione: a cominciare dalle terre lussureggianti che il Nilo faceva affiorare e puntualmente faceva scomparire. Come Osiride è ucciso dal fratello Seth, Hiram è ucciso da forza fraterna e tuttavia antagonista, come Osiride, Hiram è destinato a cadere mille volte e mille volte a risorgere come si legge nei rituali del Rito Scozzese.

 Del resto, il sempre risorgente conflitto sembra essere a fondamento di questo universo, almeno finché l’uomo non abbia completato la costruzione del Tempio, non abbia utilizzato l’ottavo giorno, non abbia terminato cioè l’opera che gli è stata affidata dal Grande Architetto dell’Universo. Com’è detto in Genesi 2, 1-3: “Il cielo e la terra e tutto il loro esercito erano ormai completi. Nel settimo giorno Dio aveva completato l’opera Sua che aveva fatto, così nel settimo giorno cessò da tutta la Sua opera che aveva compiuto. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso aveva cessato da tutta la Sua opera che Egli stesso aveva creato perché fosse poi terminata.”

 Posso ora cercare di raccogliere le membra sparse del mio discorso. Se si guarda alla leggenda massonica di Hiram alla luce del mito della morte e della risurrezione, non c’è dubbio che la sua origine possa essere ricondotta al mito egizio di Osiride e di Iside, come sostiene la maggior parte degli studiosi. Ma, a pensarci bene, sotto questo riguardo, non è meno vero che la leggenda, da un punto di vista più generale, possa appartenere ad uno qualsiasi dei tanti miti di dei ed eroi morti e risorti, Gesù, per esempio, come pure altri autori hanno sostenuto. C’è - è vero - una preferenza verso il mito egizio, non solo e non tanto perché, come Iside, l’iniziato massone va cercando le spoglie del dio ucciso per farlo risorgere, quanto - come si è visto- per le implicazioni psicologiche che ne deriverebbero in virtù del cerimoniale iniziatico. Comunque sia, sotto questo profilo, il mito massonico di Hiram, altro non sarebbe che una tarda rappresentazione dei miti solari e/o della rinascita e dunque della consolazione e della speranza.


 Cosa c’è, al contrario, di unico e peculiare nella leggenda massonica di Hiram che si ispira alla fonte biblica e alla tradizione ebraico-cabbalistica? La costruzione del Tempio, nel senso e con la prospettiva nota a tutti i massoni e per la quale ogni fratello sa di dover portare la propria pietra sgrossata. In tale contesto, si comprendono allora le ragioni stesse dello ‘scozzesismo’ i cui rituali, come si è già detto, almeno sino al diciassettesimo grado, hanno lo scopo di allargare e approfondire la conoscenza della leggenda di Hiram, additando altresì, dal quarto grado e sino al trentatreesimo, un ideale cammino di perfezionamento e una pratica di vita necessari all’acquisizione di innumerevoli virtù, quali il silenzio, il segreto, l’obbedienza, la fedeltà, il coraggio, la carità, la santità, la giustizia. Virtù tutte senza le quali il Tempio non può essere costruito. Per quanto in noi debba sempre mantenersi la necessaria umiltà che ci fa consapevoli che il Tempio non può essere terminato, senza la quale umiltà cadremmo nel dogma delle Chiese o peggio ancora finiremmo come quel tale - citato da Kafka - che si stupiva della facilità con cui seguiva la via dell’eternità solo perché la stava percorrendo in discesa. [12]

 D’altra parte, si è spesso ripetuto, da parte di alcuni studiosi, che una volta raggiunta la maestria, il massone ha ormai completato il suo ciclo iniziatico e che nulla può ricevere di più e di diverso da ulteriori e ripetute iniziazioni quali otterrebbe lungo il cammino tracciato dal Rito Scozzese Antico ed Accettato. A ciò si è giustamente obiettato, osservando che il conferimento degli alti gradi, con lo studio e la pratica loro connessi, non ha altro scopo se non quello di rendere reali, concreti e comprensibili gli insegnamenti dei primi tre gradi della Massoneria Azzurra.

 C’è di più e di altro. Si è spesso tentati di identificare il momento spazio-temporale dell’iniziazione con il rituale che la conferisce, ignorando una verità semplice e fondamentale e cioè che tempo e spazio della coscienza non corrispondono al tempo e allo spazio di ciò che chiamiamo realtà. La coscienza converte, per così dire, il tempo e lo spazio della realtà, nel proprio ‘vissuto’ o Erlebnis e può scoprire di essersi davvero modificata solo al termine di un lungo e faticoso processo di cui gli istanti spazio-temporali della realtà sono solo isolati dati d’esperienza sebbene talora dotati di forte carica emozionale. Si aggiunga che ogni drammatizzazione simbolica, se ha il potere di fissare l’attenzione dell’attore e di tenerla desta, non ha anche la creatività sufficiente, per il suo carattere essenzialmente ludico, per generare una coscienza ‘nuova’. L’iniziato sa, per quanto grande sia la sua emozione durante il rito, di recitare una parte e che questa parte simula ma non è la propria morte e rinascita. Al di là del ‘gesto’ liturgico, egli sa bene che ciò che potrà trasformare e, per così dire, ampliare  davvero la sua coscienza è la progressiva e costante consapevolezza di essere davvero ‘morto’ e ‘rinato’. Può così accadere, per quanto paradossale possa sembrare, che egli rimanga un iniziato soltanto simbolico anche dopo reiterate e più elevate iniziazioni, anche dopo aver raggiunto quella del trentatreesimo e ultimo grado.

 L’ipotesi più probabile, tuttavia, è che le ripetute iniziazioni gli siano di giovamento come altrettante tappe e ostacoli che egli incontra sul proprio cammino e che di volta in volta è chiamato a superare. Neppure è improbabile che gli siano di scudo e protezione contro le numerose ‘prove’ che la vita cosiddetta profana riserba a tutti. Quel che è certo, ad ogni modo, è che gli sono offerte molteplici opportunità per riflettere su di sé, sugli altri e sulla realtà intera.

 Max Guilmot, docente universitario e consulente dell’Oriental Museum di San José in California, forse un massone, sottolinea il grande merito di società iniziatiche in grado di dispensare ripetute iniziazioni: “Queste - egli scrive - devono procedere a successive morti rituali, seguite da rinascite, per scuotere il mentale nel profondo e suscitare, infine, delle emozioni che non soltanto saranno analoghe a quelle precedenti il vero trapasso, ma faranno anche prevedere il destino ulteriore della coscienza in una sorta di visione premonitrice. Le diverse cerimonie iniziatiche sono, perciò, i momenti più alti di una lunga alchimia mentale (…) Questa sorta di stato di grazia perdura, tutt’al più, qualche giorno. La vita profana, come una marea montante, ben presto ricopre le tracce del cammino spirituale. Si dovranno, perciò, moltiplicare i rituali, ripetendo i gesti creatori dello stato iniziatico fino a rendere quest’ultimo permanente.” [13]  
  

sergio magaldi





[1] Cit. a proposito di un lavoro di A. Reghini, in  E. Bonvicini, I Gradi della massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato, Bastogi, Foggia, 1996, p.17
[2] Ibid.
[3] Cfr. i testi della leggenda di Hiram, citati in  G. Abramo, Appunti sulle origini (pp.111-120), in Hiram, n.5, Maggio 1992, Erasmo Edit.,  pp.116-117
[4] Il 15 del  mese ebraico di Tishrì (settembre-ottobre) ricorre la festa di Sukkoth in memoria delle capanne costruite dagli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Nella Torah è conosciuta anche col nome di Chag Ha-Asif o festa del raccolto, perché con lei terminava la stagione del raccolto. E’ una festa di gioia e di allegria, come comanda la Torah. Dura sette giorni, durante i quali l’ebreo è chiamato a vivere nella Sukkah (capanna), costruita all’aria aperta ad imitazione di quella che gli antenati edificarono nel deserto.
[5] Cfr. U.G.Porciatti, Simbologia Massonica. Massoneria Azzurra, Atanor, Roma, rist., 1992, p.172
[6] La Torah scritta si compone dei libri del Pentateuco (Genesi o Bereshit, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Inizia con la lettera Bet di Bereshit e termina con la lettera Lamed di Israel con cui si chiude il Deuteronomio. Insieme, le due lettere formano la parola Lev cuore, a indicare che la vera conoscenza della Torah è una conoscenza del cuore e non dell’intelletto, il che, naturalmente, non significa che la Torah non debba essere studiata, come invece raccomanda la tradizione ebraico-cabbalistica. Lev  ha valore numerico 32 come i trentadue sentieri dell’Albero della vita.
[7] Cfr. U.G. Porciatti, op.cit., p.169
[8] Cfr. J. Campbell, Le figure del mito, trad.it., Mondadori, Milano 1991, pp.15-31
[9] Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad.it., 11.ma ediz., Adelphi, Milano 1989, pp. 24 e ss.
[10] Cfr. N.Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, I Dioscuri, Genova, 1987, p.101
[11] Cfr. Max Guilmot, Iniziati e Riti iniziatici nell’antico Egitto, trad. it., Mediterranee, Roma 1999, pp.92 e ss.
[12] Cfr. F. Kafka, Trentottesima Considerazione, in Confessioni e immagini, trad.it., Mondadori, Milano 1960, p.62
[13] Cfr. M.Guilmot, op.cit., pp.43-44

giovedì 22 maggio 2014

CONSIDERAZIONI SUL VOTO EUROPEO




   Non nego che in poco più di due mesi e mezzo il governo Renzi abbia prodotto risultati forse mai conseguiti da altri governi negli ultimi venti anni:

 1)Tracciato il percorso di una riforma costituzionale per l’abolizione del bicameralismo perfetto, causa del rinvio delle leggi all’infinito da un ramo all’altro del Parlamento, a prescindere poi dalla fisionomia che assumerà il nuovo Senato e dai compiti che gli verranno assegnati.

 2)Approvata una riforma elettorale dalla Camera dei deputati, che sarà anche manchevole, perché premia le coalizioni a danno dei singoli partiti, ma che almeno garantisce la governabilità in un Paese che continua a mantenere il primato negativo in Europa circa la durata dei governi. E se appaiono giustificate le polemiche del Movimento Cinque Stelle contro una legge che sembra concepita per il PD e per la coalizione di Centrodestra, bisogna osservare che, prima di arrivare al patto del Nazareno con Berlusconi, Renzi si era rivolto a Grillo probabilmente per concordare con lui una legge diversa, vedendosi opporre il rifiuto di ogni trattativa. Stupisce in proposito l’atteggiamento di alcuni noti giornalisti della carta stampata e della TV che, prendendo a riferimento le prossime elezioni europee, dove si vota col sistema proporzionale, si ostinano a ripetere che l’attuale duello per il primato tra PD e Cinque Stelle, potrebbe ripetersi alle future elezioni politiche, anche in presenza della nuova legge elettorale. Ipotesi quanto mai ingannevole e tesi quanto mai  improbabile se si considera che il Centrodestra si gioverebbe quasi sicuramente in futuro di una coalizione [Forza Italia-NCD-Fratelli d’Italia e Lega Nord] che, in base a tutti i sondaggi, oggi si attesta al 34-35%, percentuale difficilmente raggiungibile dal solo M5S.

 3)Tagli della spesa pubblica e tetto nella retribuzione dei dirigenti pubblici. Certo, misure timide e parziali. Resta comunque apprezzabile la strada imboccata in questa direzione. È chiaro che se il governo si fermasse qui, si tratterebbe solo di una goccia d’acqua prelevata dal mare.

 4)Taglio degli ormai arcinoti 80 Euro di Irpef nella busta paga dei lavoratori dipendenti con reddito sino a 25.000 Euro annui. Misura sicuramente elettorale e persino priva di equità, innanzi tutto perché non tiene conto del reddito imponibile complessivo ma solo di quello da lavoro dipendente. Infatti, può benissimo darsi il caso di chi non guadagna più di 1500 Euro mensili ma possiede beni mobili e immobili di una certa rilevanza. Eppure, qualcosa di nuovo sotto il sole, un beneficio di cui potranno comunque giovarsi alcuni milioni di italiani. Resta comunque la considerazione che senza una riforma fiscale in grado di riequilibrare tra loro i redditi degli italiani, senza i controlli fiscali incrociati per combattere davvero l’evasione fiscale – tra servizi resi e quelli usufruiti e detraibili per i cittadini –, la stessa misura degli “80 Euro per sempre” si risolverebbe presto in un gioco delle tre carte [in proposito, clicca per leggere il post Il ritorno di Berlusconi].

5)Una serie di altre misure che hanno fatto discutere, ma che se non altro si è avuto il coraggio di proporre, tra cui l’abolizione delle Province, come enti politici, e i provvedimenti sul lavoro che qualche segnale positivo sul fronte dell’occupazione sembra lo stiano dando.

 Insomma, se si trattasse di andare a votare per le elezioni politiche italiane, si potrebbe tranquillamente e almeno per il momento, “fare fiducia” a Renzi, non tanto e non solo in base a ciò che ha realizzato sin qui, ma nella prospettiva e nella speranza che continui con la sua determinazione nel portare avanti le riforme necessarie alla sopravvivenza del Paese. Il fatto è che Domenica 25 maggio si va a votare per l’Europa e qui la questione si complica.

 Com’è noto il potere nella UE è esercitato da tre organismi: la BCE, la Commissione Europea, il Consiglio Europeo. C’è poi il MES [Fondo salva stati/banche] e il Parlamento Europeo. Sotto la supervisione della BCE, Presidente della Commissione Europea promuove le leggi, e il Consiglio Europeo degli stati membri ha il potere di approvarle o respingerle, mentre il Parlamento Europeo ha una funzione meramente consultivo-decorativa. In questa ottica risulta evidente il primato della finanza e di Eurogermania perché, con qualche eccezione per alcuni paesi del nord europeo che però non hanno rilevanza politica, l’unico stato florido e in pieno sviluppo del continente è quello tedesco. Pertanto, l’elezione di qualche deputato in più di un partito rispetto ad un altro non sembra così importante, anche se un successo degli euroscettici [Front National della francese Le Pen – PPV  dell’olandese Geert Wilders – UKIP dell’inglese Nigel Farage, con gli alleati italiani di Fratelli d’Italia e della Lega Nord] potrebbe condizionare la politica interna di ciascuno di questi paesi, ma solo nel senso di un ulteriore allontanamento dalla realizzazione dell’Europa dei popoli. Anche l’elezione del Presidente della Commissione Europea non ha l’importanza che si fa finta di attribuirgli. A fronte dei poteri esercitati da chi controlla il flusso del denaro, dalla BCE e da Eurogermania, come definire il potere del Presidente uscente, il portoghese José Manuel Barroso, e quello del vicepresidente, l’italiano Antonio Tajani?

 Inoltre, basta vedere il programma dei candidati alla Presidenza. Il leader greco Alexis Tsipras dichiara di volersi battere per mettere fine alla politica di austerità che ha arricchito la Germania a danno degli altri paesi europei e per fare dell’Europa un’entità politica e di popoli, con un vero Parlamento e con una Banca in grado di ripianare debiti e risorse tra gli stati membri dell’Unione. Bene, il fatto è che Tsipras non ha alcuna possibilità di vincere e la sua presenza come candidato ha solo valore di testimonianza. Gli altri quattro candidati, di cui due tedeschi, sembrano attestarsi su posizioni equivalenti tra loro, dichiarando a parole di voler adottare misure per rilanciare l’Europa, ma guardandosi bene dal volerne intaccare l’attuale funzionamento. In questa direzione si muovono sia il liberal democratico belga Guy Verhofstadt, sia i tedeschi Martin Schulz [PSE] e Ska Keller [Verdi] e persino il lussemburghese Jean Claude Junker, candidato del Partito Popolare Europeo, di cui fanno parte tutti i gruppi conservatori e/o dei cosiddetti moderati, tra i quali la CDU di Angela Merker, il Nuovo Centrodestra di Alfano e  Forza Italia di Berlusconi. Cioè dello schieramento che sin qui ha orchestrato le strategie europee. Bene, cambierebbe qualcosa in Europa, se il PPE, con i suoi attuali 13 commissari su 28 [i restanti, spartiti tra i liberali dell’ALDE – tra cui figura Oli Rehn, il commissario UE per gli affari economici e monetari – e i socialisti del PSE] perdesse il primato a vantaggio dell’Alleanza Progressista dei socialisti e democratici? I quali già in passato e per vent’anni hanno avuto la preminenza in Europa?

 In questa prospettiva, il voto al PD nelle elezioni di Domenica prossima equivale ad un voto dato all’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici di Martin Schulz, nella speranza che il socialdemocratico si batta realmente per ridurre lo strapotere del suo stesso Paese, l’unica strada percorribile se si vuole uscire dalla crisi che attanaglia l’Europa. Dal canto mio, non riesco ad immaginare un tedesco che affronti l’impopolarità di opporsi ad un altro tedesco, soprattutto se quest’ultimo si è visto confermare di recente il successo elettorale in patria e se il partito del primo ha da poco formato con l’altro una grosse koalition per governare il Paese, mantenendo intatta l’egemonia in Europa. Naturalmente, potrei sbagliarmi e occorre aggiungere che non è soltanto colpa della Germania se l’Europa è in crisi, perché la corruzione della classe politica, soprattutto in Italia, in Grecia e in Spagna, non è un fattore di secondaria importanza.

 Se questa è la realtà che abbiamo di fronte, cosa rimane da fare al cittadino che voglia davvero contribuire al cambiamento della politica europea e che tuttavia abbia l’intenzione di continuare a sentirsi europeo? Perché l’uscita dall’euro, come propongono gli euroscettici, sarebbe pagata a caro prezzo, con un costo ancora più oneroso per i cittadini di quando furono costretti ad entrare nella moneta unica senza neppure una consultazione popolare e vedendosi addirittura dimezzare il proprio reddito da un giorno all’altro. E il ritorno alla cosiddetta sovranità nazionale, come sostiene la francese Le Pen e i suoi alleati di destra più o meno oltranzisti, significherebbe un passo indietro, il passo del gambero nella direzione dei conflitti nazionali permanenti.

 E allora? La tentazione di non andare a votare è forte, ma potrebbe essere un errore perché ridurrebbe ulteriormente le nostre aspettative. L’unica alternativa sembra essere non tanto un voto di testimonianza ma forse qualcosa di più. Forse la condivisione di un movimento che finisca con l’affiancarsi a Tsipras, senza patirne l’eredità ideologica, e che non pretenda di uscire dall’euro e di ritornare alle litigiose e apparenti sovranità nazionali, come propugnano le destre, ma che sia abbastanza forte nel nostro Paese e così inquieto sul versante continentale, tanto da indurre l’Europa ad un reale cambiamento di prospettiva.

sergio magaldi

martedì 20 maggio 2014

L'IDEALE DI BELLEZZA DEL DOTTOR MENGELE, MEDICO NAZISTA







The German Doctor [Wakolda], regia di L.Puenzo, Argentina, Francia, Spagna, Norvegia, Germania, 2013, 93 minuti




 The german doctor [“Il medico tedesco”, in originale Wakolda, il nome di una bambola malandata] della giovane regista argentina Lucía Puenzo è il tentativo di descrivere gli esperimenti di eugenetica compiuti dal medico nazista Josef Mengele in Patagonia [Argentina], dopo la sua fuga in Sud America dal porto di Genova,  a seguito della chiusura del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. I fatti narrati nel film si riferiscono al 1960, mentre la permanenza di Mengele in Argentina risale a undici anni prima, considerando la successiva fuga in Paraguay e il definitivo stanziamento in Brasile sin dal 1955, dove resterà sino alla morte avvenuta il 7 Febbraio 1979 per annegamento, in conseguenza di  un infarto. Fu sepolto sotto la falsa identità di Wolfgang Gerhard nel cimitero di Nostra Signora del Rosario di Embu das Artes. Ma Ben Abraham, storico dell’Olocausto e vicepresidente dell’Associazione internazionale dei sopravvissuti del nazismo, e con lui molti altri, sostengono che in realtà il medico tedesco morì negli Stati Uniti nel 1992, all’età di 81 anni, mentre continuava gli esperimenti sotto la protezione della CIA.

 Attratto da studi filosofici, antropologici e di medicina, Josef Mengele si laurea a 24 anni in antropologia con una tesi sulla Ricerca morfologico-razziale sul settore anteriore della mandibola in quattro gruppi di razze e due anni dopo diventa assistente – presso l’Istituto per la biologia ereditaria e per l’igiene razziale di Francoforte – del prof. Otmar von Verschuer, uno scienziato  illustre per le sue ricerche sulla genetica e sui gemelli. Nello stesso periodo si laurea in medicina e si iscrive al Partito Nazionalsocialista. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola volontario nella Waffen-SS. Per gli atti valorosi e il salvataggio di due soldati tedeschi sottratti da un carro armato in fiamme, viene insignito per due volte con la croce di ferro. Più tardi, ferito dai sovietici e promosso capitano delle SS, è destinato ad altri incarichi, lontano dal fronte. Infine, nel Maggio del 1943 è inviato ad Auschwitz dove gli sarà possibile, mantenendosi in stretto contatto con lo scienziato Otmar von Verschuer, procedere nella ricerca e negli esperimenti.       







                     Auschwitz, il padiglione in cui lavorava Mengele


 Personaggio di una certa complessità, Mengele, in base alle numerose testimonianze raccolte ad Auschwitz, fu definito talora come l’angelo bianco ma più spesso come l’angelo della morte. Salvò dalla camera a gas numerosi bambini, soprattutto zingari e gemelli, ma solo per poterne disporre nei propri esperimenti. Nondimeno, c’è chi parla di lui come di un uomo dalla doppia personalità, ora gentile, calmo e professionale, persino “buono” nel prendersi cura dei bambini e nel nutrirli, ora inquieto e violento. Tra i suoi misfatti figurerebbe l’ordine di uccidere tutti i deportati di un capannone infestato dai pidocchi, l’invio nella camera a gas dei bambini che a una data età non raggiungessero l’altezza di un metro e mezzo, la soppressione personale di diversi prigionieri mediante iniezioni di fenolo, e soprattutto la responsabilità della selezione, all’arrivo dei convogli di deportati, tra chi era idoneo al lavoro e chi era destinato alla camera a gas.

 Wakolda è la bambola malandata che cade dalle mani di Lilith [Florencia Bado] – una graziosa bambina di 12 anni che per la sua statura ne dimostra 9 – e che il medico tedesco [Alex Brendemühl] raccoglie da terra per riconsegnarla alla sua proprietaria, iniziando così la conoscenza della ragazzina e della sua famiglia, formata da due fratelli, dalla madre Eva di origini tedesche [Natalia Oreiro] e dal padre Enzo [Diego Peretti], il quale ha la passione di costruire bambole e sogna di poterne realizzare un prototipo con il cuore che batte. Singolare il caso che  Alex Brendemühl, che interpreta la parte di Mengele, sia un naturalizzato spagnolo di padre tedesco. Studente di in una scuola tedesca di Barcellona, con nonno nazista, l’attore ha dichiarato in una intervista di essersi più volte domandato se non dovesse sentirsi in colpa per il passato della sua famiglia, ma che nell’interpretare Mengele ha dovuto seguire il processo inverso,  perché il medico non solo non si sentiva in colpa, ma era convinto di salvare il mondo dall’impurità razziale e di contribuire, con gli studi e gli esperimenti, al miglioramento della razza umana.





Patagonia [Argentina]


 Il medico segue la famiglia di Lilith in Patagonia e diventa il primo cliente che Eva ed Enzo ospitano nell’albergo da loro gestito. Mengele lavora presso un istituto medico all’interno della comunità tedesca di Bariloche, una città poco distante dall’albergo. Qui e non soltanto qui egli ha modo di continuare nei propri esperimenti, riesce infatti a convincere Eva e Lilith a farsi “aiutare”. La prima, nel portare avanti la gestazione di quello che si rivelerà un parto gemellare, la seconda nel sottoporsi alla somministrazione dell’ormone della crescita, per aumentare la propria statura e nella speranza che i compagni di scuola smettano di chiamarla “nana”.






                             Candido Godoi [Brasile]




  Nello stesso anno [1960] in cui la Puenzo descrive la presenza del medico nella comunità tedesca di Bariloche, Mengele si trovava in realtà a Candido Godoi, in una zona del Brasile di confine tra Paraguay e Argentina, in quello che a buon diritto è stato chiamato “Il laboratorio a cielo aperto di Josef Mengele”. Qui egli si prendeva cura di uomini e animali, sui quali ultimi praticava già l’inseminazione artificiale per la gioia degli allevatori, e in particolare si dedicava all’osservazione dei parti gemellari umani che, per effetto della sua presenza, aumentarono in modo esponenziale. Fenomeno che persiste tutt’oggi in quella zona, con una media di un parto gemellare ogni cinque, laddove la media mondiale è di uno su cento. Negli esperimenti di Mengele sui gemelli monozigoti, pare che il gemello più debole fungesse spesso da cavia per rafforzare il gemello più forte.







                          Candido Godoi - Festa dei gemelli



  Tornando al film, il medico tedesco, sempre gentile e premuroso, mai violento – se non nell’occasione in cui scopre che Nora [Elena Roger], la fotografa dell’istituto, è in realtà una spia dei servizi segreti israeliani che danno la caccia ai criminali di guerra – si mostra disponibile a realizzare anche il sogno di Enzo, investendo denaro per fabbricare in serie bambole dal cuore che batte, dai capelli veri e dagli occhi azzurri e movibili, con chiara allusione della regia ad un altro difficile esperimento nel quale sembra si cimentasse Mengele: mutare il colore degli occhi nella specie umana. E quando Enzo – che nutre nei confronti del medico un’ istintiva ostilità e che è tenuto all’oscuro degli esperimenti sulla moglie e sulla figlia – gli chiede perché lo fa, Mengele gli risponde: “È per un’idea di bellezza”.

 Per la verità, l’ideale estetico fu sempre a fondamento dell’etica del nazismo. Hitler dichiarava solennemente che il nazionalsocialismo aveva dato all’arte compiti nuovi e grandi: la creazione di un mondo più bello, più puro e più sano, eliminando tutto ciò che avesse ostacolato questo supremo ideale di bellezza. Il corpo umano, nella pittura come nella scultura, doveva rappresentare la perfezione delle forme e l’armonia delle proporzioni. A Hitler fa eco Goebbels che assegna all’artista il compito di modellare, plasmare, eliminare il marcio e spianare la via al sano. Il Mengele del film sembra oscillare tra questa estetica totalizzante che tende a fare della politica un’arte e che trasforma l’espressione artistica in una liturgia di regime, e un’estetica che resta ancorata a valori di esaltazione individuale, più fascista o almeno più dannunziana che nazista. «Difendete la Bellezza! E' questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi!», scrive Gabriele D’Annunzio in Le vergini delle rocce.

 L’espediente delle bambole e il rapporto che il medico tedesco intrattiene con Lilith, un nome che evoca il lato oscuro del femminile, hanno lo scopo evidente di trascendere la realtà storica, creando nello spettatore l’attenzione morbosa di un horror a sfondo erotico. Quel che emerge tuttavia non è una Lolita attratta dal proprio carnefice, ma una ragazzina che s’innamora di una sorta di cavaliere medievale – con lei sempre corretto e gentile – che si batte per sottrarla alla cattiveria delle compagne che la prendono in giro pesantemente e la picchiano a causa della bassa statura. Il risultato è che agli occhi del pubblico non appare più la figura del medico nazista che si macchiò di atroci delitti, ma un uomo affascinante e carismatico che lotta per la propria sopravvivenza e che lavora con passione e genialità, sia pure in modo malinteso, al bene dell’umanità. Per contro, e come se non bastasse, la regia mette di fronte a lui un personaggio – l’unico ad intuire sin dal principio il male che si nasconde nell’animo del medico tedesco – oggettivamente poco simpatico: Enzo, il padre di Lilith, che sembra preoccuparsi solo di ciò che gli appartiene, moglie e figlia comprese.



















                                               




 Insomma, il film non sfugge ad una notevole ambiguità, anche nell’ipotesi che si siano volute prender per buone “le voci” di Auschwitz che parlano di una doppia personalità del medico tedesco. È probabilmente su questo equivoco che Lucía Puenzo ha scritto e diretto il film. Dando per scontata una realtà storica che inchioda Mengele alle proprie colpe e volendo invece soffermarsi sull’autenticità e la determinazione del medico tedesco. Un po’ quello che Alex Brendemühl - sin troppo somigliante nel fisico al personaggio che interpreta [fatto salvo il baffo "hitleriano" e lo sguardo vagamente ottuso di Mengele] - dichiara di aver appreso, soffermandosi sullo “spirito” del copione. Ma il risultato non muta e c’è il rischio che lo spettatore esca dal cinema con l’immagine di un Mengele, considerato alla stregua di un eroe… sia pure negativo

sergio magaldi


 La Rai si è occupata di Mengele in in servizio del 6 Giugno 2011 di La storia siamo noi. Per vederlo clicca su htmlhttp://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a87c0865-653b-43b2-bacf-d17d34b98530.html