mercoledì 23 luglio 2014

IL GIOCO GRANDE DEL POTERE




  La giornalista Sandra Bonsanti, sulla base della propria esperienza professionale e delle molte interviste raccolte nel corso degli anni, racconta l’Italia degli ultimi cinquant’anni, dilaniata da lotte intestine per l’accaparramento del denaro e l’esercizio del potere. Lo fa con una chiave universale che le permette di entrare nelle stanze segrete del potere per mostrare “di che lacrime grondi e di che sangue” il Belpaese e perché.

 L’aspetto più sconcertante della ricostruzione storica fatta dall’attuale presidente dell’associazione Libertà e Giustizia è innanzi tutto nella divisione manichea tra agenti del bene e agenti del male, individuati tra i membri della classe politica che governò il Paese. Emerge così, chi da una parte lavorò in difesa della Repubblica, dall’altra coloro che  si mossero tra Stato e Antistato, spesso a contatto con organizzazioni malavitose, centrali lobbistiche, servizi segreti ed eversione di destra e di sinistra.

 Altro che “casta della politica”, corrotta e privilegiata, superficiale e inconcludente, altro che  oscillazioni tra Stato e Antistato! Il quadro che emerge dalle analisi della Bonsanti è quello di un gruppo dirigente – con l’eccezione di quanti vengono citati per nome e cognome e che Gustavo Zagrebelsky ricapitola nella Postfazione del libro [p.237] – che fa del crimine un “instrumentum regni”, senza naturalmente mai apparire in prima persona, lasciando sul campo solo voci incontrollate ad uso delle chiacchiere da salotto.

 Coerenza avrebbe voluto che la Bonsanti, oltre a raccontare e a “lasciare intendere”, avesse tratto delle conclusioni, senza servirsi della nebulosa metafora di “Stato e Antistato”, per descrivere la gestione del potere da parte di chi – secondo la sua ricostruzione dei fatti – più che servire la Repubblica, pensava unicamente e con ogni mezzo a servire se stesso e le lobby di cui era parte.   

 Come interpretare altrimenti affermazioni di questo tenore? “Santillo era un onesto e fedele servitore dello Stato. I suoi rapporti però furono ignorati […]. La struttura di Santillo  fu silurata alla vigilia del sequestro Moro per iniziativa del ministro dell’Interno Francesco Cossiga” [pp.33-34], il quale Cossiga sostituì il nucleo antiterrorismo di Emilio Santillo, con il comitato di crisi formato di autorevoli rappresentanti delle più alte cariche dello stato, che la commissione di Tina Anselmi rivelò più tardi essere per la maggior parte iscritti alla P2 [p.69], e ancora: “Andreotti era lo Stato e l’Antistato, Gelli era il potere occulto, Carmelo Spagnuolo era la giustizia compromessa e la vecchia mafia. Santillo era un bravo poliziotto e un servitore onesto” [p.37].

 Del resto, sin dai primi tempi della sua attività di giornalista, recandosi in Sicilia, la Bonsanti si era fatta un’idea di come funzionasse l’Italia: “Mi era parso di capire che lo Stato, la nostra Repubblica, fosse nelle mani di un gruppo di mafiosi che contendevano ad altri mafiosi l’amicizia e la protezione di Fanfani e di Andreotti, che il secondo stesse scalzando il primo (Salvo Lima aveva abbandonato il proconsole fanfaniano Giovanni Gioia già nel 1968) e che attorno a questo duello, che materialmente si combatteva in Sicilia a colpi di tessere di partito, affari, traffici di droga e morti ammazzati, fra vecchi e nuovi padrini, ruotassero tutte le vicende della politica italiana”[pp.19-20].

 Salvo a ricredersi più tardi, quando scopre che la tela è assai più vasta e complessa e che la madre di tutte le vicende della politica italiana era rappresentata dalla “loggia P2 di Licio Gelli, di Michele Sindona e dei loro padrini politici”[p.20]. Ecco trovato nel piduismo il grimaldello per comprendere i tanti misfatti, tutti volti a controllare denaro e potere nell’intento, in un primo tempo, di una “violenta occupazione” dello Stato, secondo il progetto politico contenuto nello Schema R. [dove R. sta per rivoluzionario], e in secondo tempo nel tentativo, grazie all’apporto del cosiddetto Piano di rinascita democratica, di “rivitalizzare il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori”, [p.45].

 Non c’è dubbio che le analisi della Bonsanti, per quanto in gran parte già note, per tutto quello che negli ultimi decenni è stato scritto sugli stessi argomenti, suscitino una qualche attenzione, soprattutto laddove si tratti di apprendere qualche particolare in più. Come pure, è sensato imputare ad alcuni iscritti alla P2 probabili responsabilità in merito a fatti che misero a dura prova la vita della Repubblica, riconoscendo alla magistratura il merito di aver talora riempito il vuoto lasciato da un potere esecutivo, spesso imbelle e condizionato dagli interessi e dalle fazioni. Desta invece più di una perplessità la semplificazione con la quale la giornalista arriva a concludere che tutti i mali dello stato italiano siano imputabili al piduismo, soprattutto se si considerano gli argomenti utilizzati per sostenere questa tesi:
1)L’appartenenza dei piduisti alla Massoneria. 2)La presenza nel mondo degli affari di iscritti alla loggia di Licio Gelli. 3) L’attribuzione non dimostrata alla P2 della regia di ogni intrigo e mistero italiano. 4)L’esistenza del Piano di rinascita democratica con il fine preciso di trasformare la Repubblica democratica in stato autoritario, soprattutto attraverso le modifiche costituzionali.  

 L’ultimo punto, sul quale la Bonsanti insiste particolarmente, è divenuto quanto mai attuale proprio in questi giorni in cui il Parlamento è chiamato ad esprimersi sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. Osserva in proposito Marco Travaglio su Il fatto quotidiano del 15 Luglio u.s., che “se andrà in porto la controriforma elettorale e costituzionale” voluta da Renzi e Berlusconi con il patto del Nazareno, Licio Gelli e la loggia P2 saranno finalmente accontentati. 

 «Quanto al Parlamento – scrive tra l’altro Travaglio - il capo della P2 sfoderava una gamma di proposte davvero profetiche. “Ripartizione di competenze fra le due Camere” con due “nuove leggi elettorali diverse: per la Camera di tipo misto (uninominale e proporzionale secondo il modello tedesco)”; e – udite udite – “per il Senato di rappresentanza di 2° grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali”. Uno spettacolare caso di telepatia vuole che proprio questo sia il “Senato delle Autonomie” inventato da Renzi & B: Camera elettiva, ma fino a un certo punto (l’Italicum, con le liste bloccate dei deputati nominati, rende il Piano di Gelli un tantino troppo democratico); e Senato con elezione di “secondo grado”, cioè con i consigli regionali che nominano senatori 95 fra consiglieri e sindaci. Il Maestro Venerabile meriterebbe almeno il copyright. Anche per l’idea di espropriare il Senato del voto di fiducia: “Modifica della Costituzione per stabilire che il Presidente del Consiglio è eletto dalla Camera” e “per dare alla Camera preminenza politica (nomina del Primo Ministro) e al Senato preponderanza economica (esame del bilancio)”. Qui però i venerabili allievi Matteo e Silvio vanno addirittura oltre: la Camera vota in esclusiva la fiducia al governo del premier-padrone della maggioranza, e il Senato non vota più neppure il bilancio».

 Insomma, le analisi di Travaglio mi sembrano la puntuale conclusione delle affermazioni contenute nel libro della Bonsanti e, del resto, già il 28 Marzo, Il fatto quotidiano aveva riportato l’appello di Libertà e Giustizia contro le riforme:

 “Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali. Con la prospettiva  di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del PD  è enorme  poiché sta  consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.

 Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del PD a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone”.

 In merito non posso che ripetere quanto già scrivevo allora, aggiungendo soltanto che il cosiddetto Piano di rinascita democratica non è un male in sé e che, se al suo interno vi sono elementi simili a quelli che potrebbero essere utilizzati per uscire dalla paralisi legislativa in cui il Paese versa da troppi anni, non bisogna averne timore né demonizzarli:

 “Il bicameralismo perfetto è bello perché rende l’Italia l’unico Paese al mondo capace di esercitare l’autentica democrazia. Già, perché si sostiene che l’abolizione del Senato elettivo e legislativo, sostituito dalla Camera delle autonomie, con rappresentanti non retribuiti ed eletti indirettamente dai cittadini attraverso le consultazioni regionali e comunali, rappresenterebbe una svolta autoritaria in senso illiberale. In altre parole, il vero esercizio della democrazia consisterebbe nella quasi totale paralisi e/o nel sistematico insabbiamento delle leggi, costrette a rimbalzare per anni tra una Camera e l’altra del Parlamento”. [Sull’intera questione, rimando al post del 1 Aprile 2014: Bicameralismo perfetto è bello!].

sergio magaldi

giovedì 17 luglio 2014

L'INCONTRO TRA PD E M5S SULLA RIFORMA ELETTORALE




 Si è svolto oggi l’atteso incontro tra la delegazione del PD guidata da Renzi e quella del M5S che ha avuto come portavoce il vicepresidente della Camera, cittadino Di Maio. Inutile cercare il vincitore del duello tra i due protagonisti. Entrambi si sono battuti con efficacia, portando dialetticamente le proprie ragioni. Renzi, ricordando gli impegni già presi con altri partiti e che ora non si possono buttare via non solo per coerenza, ma anche perché si rischierebbe di tornare indietro come accade spesso nel “gioco dell’oca”. Di Maio, poco curandosi del passato e sottolineando la disponibilità attuale del Movimento.

 Insomma, un’ora e mezzo di parole per ribadire il punto di vista di ciascuna delle parti, ma anche un’opportunità, per chi ha seguito il dibattito in diretta streaming, per riflettere sulle cose dette e sulle ragioni politiche di questo secondo incontro che ne prefigura addirittura un terzo, prima che la nuova legge elettorale, già approvata alla Camera, venga presentata nell’altro ramo del Parlamento e, dunque, subito dopo la votazione sulla riforma costituzionale del Senato. Precisazione, questa fatta da Renzi, di non secondaria importanza e che, a mio giudizio, contiene implicitamente l’idea che quanto più maggioranza di governo e maggioranza del Nazareno saranno unite sul voto di modifica del Senato, tanto meno sarà possibile tener conto delle richieste del Movimento Cinque Stelle di modificare l’Italicum. Vero, naturalmente, il contrario, con tanto di messaggio spedito da Renzi – naturalmente, sempre a mio parere – ai dissidenti del suo stesso partito, a SEL, ai Popolari per l’Italia, agli alleati di NDC e soprattutto a Forza Italia.

 E, in questo senso, una mano a Renzi sembra darla proprio Di Maio. L’esponente di Cinque Stelle, infatti, se per un verso dichiara di aver voluto incontrare il PD per tentare di arginare “la deriva” democratica che si va configurando nel Paese, dall’altra sembra incline ad accettare l’Italicum nelle sue linee generali, purché venga introdotto, il voto di preferenza dei candidati, abolita la soglia di sbarramento, sostituito il ballottaggio tra le due coalizioni più forti con il doppio turno di lista. Ho detto sembra, perché in realtà, ove accolte, tali modifiche muterebbero profondamente la natura della legge elettorale già approvata alla Camera.


 Anch’io ritengo che con queste modifiche [con qualche riserva da parte mia sul voto di preferenza, per le ragioni già spiegate in diversi post di questo blog] – che in linea di massima non sarebbero sgradite neppure a Renzi – la legge elettorale migliorerebbe sensibilmente. Resta il fatto che nessuna delle tre proposte dei Cinque Stelle potrà essere accettata da Berlusconi, in particolare il doppio turno di lista che rischierebbe di mettere fuori gioco Forza Italia proprio a vantaggio del M5S. Io credo che Renzi e Di Maio siano i primi a saperlo, nondimeno la loro intelligenza politica li porterà ad incontrarsi di nuovo e questo sarà comunque un bene per il Paese.
                                                           

sergio magaldi

sabato 12 luglio 2014

PREMIATA DITTA SORELLE FICCADENTI

          Andrea Vitali, Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti, Rizzoli, Milano, marzo 2014, pp.447

 Un nuovo romanzo di Andrea Vitali, già medico di base di Bellano e cantore instancabile della provincia italiana – o meglio dei tanti paesi che si affacciano sul lago di Como –, nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l’era fascista. Un mondo contadino oggi difficile da riconoscere e che tuttavia mantiene inalterato il rapporto con il passato. Mutano le forme del vivere, sembra voler dire l’autore, ma la condizione degli esseri umani permane identica a se stessa. Con l’avidità, l’inganno, il delitto, la bestialità e la fede malintesa o bigotta che agita il cuore e il cervello dei viventi. 

 Il pregio di Vitali non è solo saper raccontare, avere “la felicità del racconto”, come ha detto di lui Andrea Camilleri, ma l’ironia con cui descrive personaggi e situazioni per un pubblico che si diverte e che è chiamato a riflettere liberamente sul destino individuale – in parte determinato dalla natura di ciascuno, in parte da una volontà imperscrutabile – senza per questo dover subire lezioni di metafisica o, ancor peggio, noiose prediche di morale.

 Il teatro in cui si svolge l’azione, con qualche sconfinamento nella vicina Svizzera e nei comuni limitrofi, è quello di Bellano degli anni della prima guerra mondiale, visto con gli occhi di Esebele, personaggio minore di questa storia, eppure quasi deus ex machina dell’intero racconto:

 “Paese grosso, importante, popoloso, denso di traffici. Negozi da perderci il conto, osterie pure. Un porto che, gli avevano raccontato, non avrebbe sfigurato sulle rive di qualche mare e che era un andirivieni continuo di comballi che andavano su da Como o di bacarozzi che venivano giù dall’alto scaricando merci che poi di lì partivano alla volta delle valli che stavano alle spalle del paese. C’era tutto. Una pretura, dalla quale era meglio stare alla larga, e un ospedale che avrebbe servito la popolazione di mezzo lago e dei paesi di montagna. Alberghi di lusso, in uno dei quali gli avevano raccontato che avesse dormito Garibaldi, e locande per il popolino. E non era mica finita lì, perché oltre a tutto quel movimento, c’era anche un santuario sulla montagna, dedicato alla Madonna che aveva pianto lacrime di sangue ai tempi di carlo codega, che richiamava frotte di pellegrini anche dai Grigioni. Insomma un posto vivace dove la moneta circolava e la gente però non aveva in testa il solo lavoro.” [p. 345].   

 Il romanzo inizia con la Stampina, madre di Geremia, – un giovane robusto di 32 anni tutto “chiesa, casa e bottega” del quale in paese si dice che manchi di qualche giovedì  – che in una notte d’inverno della fine del 1915 bussa alla porta di Don Primo Pastore, prevosto del paese per chiedere aiuto: il figlio minaccia di buttarsi nel lago ancora prima del Natale se non gli riuscirà di sposare Giovenca Ficcadenti, la nuova merciaia, alta, bella e bionda, di cui si è innamorato per averla vista una sola volta. L’altra sorella della “Premiata ditta sorelle Ficcadenti” è Zemia, così brutta da sembrare uno zombi. Da questo momento tutta la vicenda ruoterà attorno alle due sorelle e alla miriade di personaggi che, per una ragione o per l’altra, entrerà in contatto con loro.

 Tra i tanti attori si cercherà inutilmente nella vicenda il cosiddetto “eroe positivo” e, a conti fatti, l’unica figura da “salvare” è forse quella di Don Primo Pastore che, a suo modo e dal suo limitato orizzonte, farà di tutto per risolvere i problemi delle sue pecorelle ma che alla fine dovrà darsi per vinto. Quanto più forte è l’ironia dell’autore, tanto più s’intravede il giudizio inappellabile sulla natura umana e l’impossibilità del riscatto. E dietro le morti accidentali – chi scivolando su una lastra di ghiaccio, chi per aver inghiottito un bottone o aver ricevuto sulla testa una persiana pericolante – si può cogliere la trama sottile di un disegno karmico, beffardo quanto inesorabile.

 Molti invece gli “eroi negativi” che popolano il romanzo. A cominciare da quel Gerlando, “uno dei più facinorosi interventisti del paese” che non fa altro che “concionare contro la ‘canaglia neutralista’ e la ‘pavida conigliera’ e che allo scoppio del conflitto mondiale si dà alla macchia per non andare in guerra. Per finire con l’intrigante e avido Editto Giovio, “Notaro in Como”, che nel corso di un intervista lo stesso Andrea Vitali ammette essere il peggiore di tutti e che nel romanzo è così descritto:

 “[…] era un essere grasso al limite della ripugnanza, sempre sudato, dalla dubbia igiene personale, soprannominato “vonciòn” dai proprietari delle trattorie dove quotidianamente consumava pantagruelici pranzi e cene.
 Cinquantenne, era ricco, e non certo grazie ai favori dei maggiorenti comaschi che, ricambiati, lo disprezzavano, ma in virtù di un intuito, seguendo il quale Editto Giovio aveva rivolto sin dall’inizio le sue attenzioni alle classi meno agiate, le più facili da turlupinare. I suoi clienti abitavano a quote variabili sulle montagne che contornano la città di Como e in genere mai sotto i cinquecento metri sopra il livello del mare. Raramente il notaio li riceveva presso il suo studio: era lui che li andava a trovare e quelli erano ben felici di pagare un sovrapprezzo […]. Avvisato che c’era bisogno di lui per una divisione, un passaggio di proprietà, una compravendita, un matrimonio di cui bisognava calcolare il valore e la contropartita in dote della sposa, partiva senza indugi […]. Il suo metodo era semplice, si basava sulla candida ignoranza di quella gente che si lasciava intronare dai suoi paroloni e spaventare quando affermava che senza la documentazione necessaria, spesso latitante, la transazione in atto si faceva complicata quando non impossibile. Una volta cotto a fuoco lento il cliente, il Giovio assicurava che con un poco di pazienza, il suo imprescindibile intervento presso uffici demaniali, giudiziari e finanziari, il necessario esborso di moneta sonante per ungere qualche ingranaggio e pagare improbabili tasse arretrate, bolli, permessi e autorizzazioni al fine di dare corpus tangibilis a una res nullius per le leggi vigenti, fosse una stalla, un appezzamento, una vigna, un bosco eccetera, l’affare si poteva concludere con piena soddisfazione delle parti: la sua, prima di ogni altra, visto che il Notaro intascava, oltre all’onorario, tutti i soldi che riusciva a pelare al malcapitato con l’aggiunta di eterna gratitudine, spesso tradotta con l’invio in quel di Como di prodotti tra i più vari in occasione delle principali festività.” [pp.191-192].

 “L’incursione nel giallo”, come è stato definito l’approccio di Andrea Vitali alla narrativa del genere – secondo un costume ormai di moda da qualche anno tra gli scrittori, anche grandi – se raggiunge il fine di semplificare una materia, altrimenti complessa e di difficile risoluzione, nulla aggiunge alla genuinità del romanzo, e lascia persino perplesso il lettore nel comprendere certe motivazioni che, nel bene e nel male, guidano le azioni dei protagonisti. Resta la considerazione di avere tra le mani e sotto gli occhi il libro di un autore che, per quanto premiatissimo, non sembra aver ottenuto dalla critica il riconoscimento che merita.

sergio magaldi       

giovedì 3 luglio 2014

QABBALAH E SIMBOLISMO MASSONICO (parte terza)

Disegno di Alessandro Troisi




 Il simbolismo dei luoghi e degli strumenti
 [leggi i precedenti post sull’argomento, cliccando sui titoli: Qabbalah e simbolismo massonico(parte prima) e Qabbalah e simbolismo massonico (parte seconda)]

   Col riferimento ad Hiram e al Tempio di Salomone non si esaurisce la presenza della tradizione ebraico-cabbalistica nella Libera Muratoria.

 Appena entrati in Officina ci troviamo di fronte tre pilastri, da non confondere con le due colonne, Jakin e Boaz, situate nel portico, all’ingresso del Tempio. I tre pilastri ben possono corrispondere a quelli dell’Albero della vita in analogia con le tre sephiroth che li rappresentano: Gheburah-Forza sul pilastro di sinistra (la Colonna di Settentrione del Tempio massonico), Tiphereth-Bellezza su quello di centro (dove, nel punto più alto, siede il Maestro venerabile) e ‘Hochmah-Sapienza su quello di destra (la Colonna del Meridione). 

 Sui tre pilastri trovano posto i dignitari di Loggia almeno in numero di dieci e che, d’après Jules Boucher, [1] la maggior parte degli studiosi, considera in analogia con le dieci sephiroth dell’Albero della Vita. Di diverso avviso sembra essere il Grande Oriente d’Italia. Nei Quaderni di Simbologia Muratoria, a cura di Ivan Mosca, si individuano infatti 21 funzioni tra dignitari e ufficiali di Loggia, tra loro anche cumulabili e riconducibili a 12, esprimendo con ciò l’analogia coi segni zodiacali piuttosto che con l’Albero delle sephiroth.

 Per quanto sia lecito esprimere qualche riserva sull’analogia tra le sephiroth e i dignitari di Loggia, sarei propenso a collocare nella colonna centrale il Venerabile (Kether), il Maestro delle Cerimonie (Tiphereth), il 1°Sorvegliante (Yesod) e il Copritore interno (Malkuth), nella colonna di destra il Segretario (‘Hochmah ), l’Ospitaliere (‘Hesed), il 2°Sorvegliante (Netzach) e nella colonna di sinistra l’Oratore (Binah), il Tesoriere (Gheburah) e l’Esperto (Hod).

  Anche la marcia di apprendista, compagno e maestro in Officina, per alcuni, si ispira all’Albero delle sephiroth: coi primi tre passi di apprendista, il massone si sposta successivamente da Malkuth a Yesod e da Yesod a Tiphereth. Con un passo a sinistra, da compagno, egli raggiunge ora Gheburah e con un passo a destra ‘Hesed. Il maestro appoggiandosi sulle sephiroth Binah e ‘Hochmah giunge infine a Kether, la Corona.[2]

 Al centro dell’Officina incontriamo il ‘Quadro di Loggia’ che, pur nella diversità dei gradi e delle rappresentazioni simboliche, fa riferimento di nuovo al Tempio di Salomone, alle due Colonne poste davanti al Tempio e alla leggenda di Hiram.

 Quanto alla denominazione di ‘Camera di Mezzo’, dove lavorano i maestri, è facile vederne il collegamento con la Bibbia, I Libro dei Re VI:5-8 ‘Si costruì un edificio a tre piani che circondava il Tempio da tre lati… l’ingresso al piano più basso dell’edificio intorno al Tempio si trovava sul lato destro, c’erano delle scale interne che portavano al piano di mezzo’. [3]

 Avvicinandoci all’ara, nei tre gradi di apprendista, compagno e maestro, notiamo subito che, nella figura, la squadra è simile alla lettera ebraica Resh. In entrambe, poi, si manifesta la duplicità: la squadra massonica è formata dalla livella (orizzontale) e dal filo a piombo (verticale) a sottolineare la necessità di equilibrare due elementi contrastanti e tuttavia positivi se armonizzati tra loro. La Resh ebraica è una delle sette lettere doppie. Nella versione del Sepher Yetzirah, elaborata dal Rabbi Eliahu, Gaòn de Vilna (GRA), la più seguita dai cabbalisti, la Resh indica l’alternativa tra pace e guerra e, bene utilizzata, consente di ottenere un grado elevato di crescita spirituale e la pacificazione di ogni contesa.

 Inoltre, la squadra intrecciata al compasso, nel grado di compagno, ricorda, nella forma e nel significato il Sigillo o Esagramma di Salomone. Gli strumenti intrecciati significano che il compagno massone ha raggiunto l’equilibrio tra materia e spirito. Il Sigillo di Salomone, dal canto suo, ricorda che, senza equilibrio tra forze cosmiche antagoniste, nessuna manifestazione è possibile. E ancora: sotto squadra e compasso c’è il Libro con cui la l’Officina apre i lavori. Esclusivamente libri dell’Antico Testamento nelle Logge anglosassoni, il Vangelo di San Giovanni nelle altre. [4] Così, diverse Grandi Logge statunitensi aprono i lavori col libro di Amos, nei versetti 7 e 8 del capitolo VII:

   “Il Signore mi fece avere ancora un’altra visione: stava vicino a un muro, alto e diritto, e teneva in mano un filo a piombo. Il Signore mi chiese:
   ‘Amos che cosa vedi?’
   ‘Un filo a piombo’, risposi
   ‘Ho misurato con esso il mio popolo – disse il Signore – e non posso più perdonarlo…’
 
 Accanto al Libro, sull’ara, troviamo la Menorah o candelabro a sette bracci: ‘Mi farai – dice il Signore a Mosé (Esodo, 25:31-40) – un candelabro d’oro puro fatto tutto d’un pezzo: il piedistallo e il fusto, i suoi calici, i suoi bocciòli e i suoi fiori formeranno un solo corpo con esso. Sei rami usciranno dai suoi lati, tre rami del candelabro da una parte e altri tre dall’altra…’

 La Menorah è citata in numerosi passi biblici:  in Esodo 37:17-24 per dire che Betzalel, l’artista designato da Dio in persona, ha costruito il candelabro esattamente come l’aveva progettato il Signore. Sempre in Esodo, 30:27 per raccomandare che il candelabro, insieme ad altri oggetti del Tabernacolo, sia unto con olio sacro. Ancora in Esodo il candelabro è citato tre volte: quando il lavoro è ultimato e portato a Mosé (39:37), allorché il Signore ne ordina a Mosé la collocazione nell’Abitazione o ‘Tenda dell’incontro’ a lui consacrata(40:4) e Mosé esegue (40:24). In  Levitico (24:3) per precisare a chi è concesso accenderlo. In Numeri è citato due volte: (3:31) per ribadire che l’accensione del candelabro è riservata ai leviti e (8:24) per la raccomandazione del Signore a Mosé che le sette lampade illuminino la parte anteriore del candelabro. Nel Libro di Daniele, il candelabro è citato(5:5) per ricordare il banchetto del re Baldassar, figlio di Nabucodonosor, durante il quale, apparve una mano di fronte al candelabro e scrisse parole che solo Daniele riuscì a interpretare. Nel  I Libro dei Re (7:49) e nel II Libro delle Cronache (4:7) per predisporre 10 candelabri all’interno del Tempio: 5 a destra e 5 a sinistra del santuario.  Ancora nel II Libro delle Cronache (13:11) si ricorda che l’accensione delle lampade è un obbligo verso il Signore. Nel I Libro dei Maccabei (4:49-50) il candelabro è utilizzato per la riconsacrazione del Tempio, mentre in Siracide (26:17) ha la funzione di metafora poetica: la lampada che brilla sul candelabro è paragonata a un bel volto di donna sopra un corpo grazioso.  Infine, in Zaccaria (4:1-12), il candelabro fa parte della quinta visione del profeta:

  “L’angelo incaricato di parlarmi venne a scuotermi come si fa con uno che dorme.
Mi domandò: ‘che cosa vedi?’ Io risposi: ‘vedo un candelabro d’oro, con in cima un recipiente per l’olio. Il candelabro a sette lucerne e sette beccucci per dare olio a ogni lucerna.
Vicino al recipiente ci sono due ulivi, uno a destra e l’altro a sinistra.’
E domandai all’angelo: ‘che significa tutto questo,  mio signore?’
Allora l’angelo mi spiegò: ‘Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che osservano tutta la terra…”

  Sembra interessante osservare che Betzalel, il nome dell’artista prescelto dal Signore per la costruzione della Menorah e di parte del Tabernacolo, ha valore numerico 153 (leggendo le lettere da destra a sinistra: 2+90+30+1+30 = 153), ossia il triangolo di 17. “Il 17 – osserva Nadav Eliahu – è un numero importantissimo in Cabalà poiché è il numero che indica il bene (Tov). Non a caso è la Ghematria di due dei 72 Nomi di Dio, il 1° e il 49°. Anche questi numeri non sono casuali, in quanto si riferiscono alle Cinquanta Porte dell’Intelligenza, le più importanti delle quali sono la prima dall’alto e la quarantanovesima dal basso. Ed ecco che 17 è anche il valore di EGOZ (noce), un frutto molto esoterico, studiando il quale il re Salomone derivò delle importanti considerazioni sulla struttura degli universi paralleli  (vedi il Cantico dei Cantici, al versetto ‘Sono sceso al giardino delle noci’) ” .

  Il 17, inoltre, è anche il valore di Hagadah e osserva ancora Nadav Eliahu: “ Il nome HAGADAH (leggenda) si riferisce a tutta quella parte della tradizione orale dell’Ebraismo che contiene racconti e descrizioni basate soprattutto sul funzionamento tipico dell’emisfero cerebrale destro. Il valore 17 allude all’intrinseca bontà di questa parte, a volte ingiustamente trascurata o minimizzata dagli ebrei razionalisti.”[5]

 Nella Qabbalah medievale, i sette bracci della Menorah sono associati alle sette sephiroth inferiori: da ‘Hesed a Malkuth. Nel Sepher Temunah o Libro della figura, [6]il candelabro puro d’un sol pezzo lavorato a martello’ è identificato con Binah, la sephirah dell’intelligenza, e i sette bracci, con le sette sephiroth inferiori che da lei provengono. Mentre i 49 tra calici e boccioli che sono tutto un pezzo col candelabro, come è scritto in Esodo, formano le 49 porte dell’intelligenza cioè della sephirah Binah che ne è la Cinquantesima e che neppure a Mosé, come è detto nel Talmud, fu dato oltrepassare [7]

  Nel Pardes Rimmonim o Giardino dei Melograni, il cabbalista Moshé Cordovero fa corrispondere ai sei bracci della Menorah le sephirot comprese tra la quarta (‘Hesed ‘Grazia’) e la nona (Yesod ‘Fondamento’) mentre l’asse centrale del candelabro è rappresentato dalla Alef, prima lettera dell’alfabeto ebraico e da Kether  ‘Corona’, la sephirah più alta. Alla base del candelabro c’è poi la sephirah più bassa: Malkuth  Terra o Regno. [8]

   “La Menorah accesa in Camera di Mezzo – osserva Ivan Mosca – può, meglio di ogni altro simbolo e solo come supporto aiutarci a raggiungere ‘lo scopo per il quale noi Massoni ci riuniamo’. [9]

 Sotto questo rispetto è dunque della massima importanza apprendere a far ruotare i tre bracci snodabili della Menorah e “Questa modalità – osserva ancora Ivan Mosca – sarà utile anche a noi Massoni per stabilire le corrette analogie con i nostri lavori, le iniziazioni, i passaggi di Grado, i ‘pagamenti’ agli operai per mandarli ‘via’ contenti e soddisfatti. Ma se ci limitasse a seguire nel nostro meraviglioso candelabro le sole fasi della Luna senza il loro significato esoterico, verremmo meno alla nostra ricerca. Porremo dunque sulle 7 lampade le lettere che compongono il Tetragramma che, nel Delta sacro, è sospeso sul capo del Maestro Venerabile.” [10]

 E, in effetti, le lettere del Tetragramma si trovano spesso iscritte nel Delta massonico: è il nome impronunciabile di Dio e le quattro lettere ebraiche che lo formano: uno Yud, una Heh ripetuta due volte e una Wav andrebbero studiate sia nella forma grafica che nel loro significato. I tre angoli del Delta rappresentano ancora Sapienza, Bellezza e Forza, virtù che, attraverso il Maestro venerabile, devono poter illuminare la Loggia. E il Maestro Venerabile ha in mano la Spada fiammeggiante per trasmettere il fuoco all’adepto che egli – come recita il rituale di iniziazione – dichiara di voler  c r e a r e  massone. Ed è proprio pensando all’atto creativo che molti studiosi hanno parlato di corrispondenze con le prime tre sephiroth dell’Albero della vita, allorché il Maestro venerabile pone la spada sulla testa e poi sulle spalle del neofita. [11]

   Gioverà ancora osservare che sia le tre parole di passo sia le tre ‘parole sacre’ dei tre gradi della Massoneria azzurra sono prese dalla tradizione ebraica e che le lettere delle ‘parole sacre’ di apprendista e compagno sono ricavate, mediante permutazione, dalle lettere che formano i nomi ebraici delle due Colonne poste davanti al Tempio di Salomone.

   Va infine ricordato che, nel simbolismo massonico, la ‘parola sacra’ è solo un sostitutivo della parola andata ‘perduta’ con l’assassinio di Hiram e che si dice ‘ritrovata’. Analogamente, nella tradizione ebraico-cabbalistica, la perdita della vera pronuncia del nome di Dio ha diversi sostitutivi, nessuno dei quali tuttavia è l’originale. [12]

  Una delle indagini principali  delle prime scuole di Qabbalah storica, riguardò proprio la ‘parola perduta’, il ‘vero nome’ di Dio:

  “Il giorno in cui YHWH Elohim fece il cielo e la terra ( Genesi 2:4) il nome non era intero, finché l’uomo non fu creato a immagine di Dio e il Sigillo non fu completo”. [13]

 A questa speculazione si collega quella sul male, introdotto con la frattura del Nome, che torna ad essere incompleto com’era prima della creazione dell’uomo. Ma la causa non è – come si potrebbe pensare – il peccato di Adamo. [14] Il riferimento è  bensì in Esodo,17:7: “…Vedremo se il Signore è con noi o no ”. Si allude a quando, dopo l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto, venne Amalek, capo degli Amaleciti, beduini del sud di Canaan. Allora “la mano di Amalek si levò sopra il trono di Y(a)h ” e Isacco il Cieco descrive così la lotta di Mosé contro l’Arcangelo di Amalek:

  “Mosé. dovette ricorrere all’elevazione delle mani per lottare contro l’Arcangelo e respingere le sue mani dalla sephirah Ghevourah ”. [15] Aron e Chur sostengono le mani di Mosé e Israele può vincere, ma il male si è generato. Il Nome non potrà più essere pronunciato e inevitabili conseguenze saranno la distruzione del Tempio, l’esilio e il ritrarsi delle sephiroth superiori ‘in Alto’.

   Nel collegare la ‘parola perduta’ del vero Nome di Dio alla rottura dell’equilibrio delle sephiroth dell’Albero della vita, piuttosto che al peccato di Adamo, nel divieto di indagare su En Soph Dio o Infinito, la Qabbalah storica denota, nei fatti, una sostanziale laicità. Del resto, Isacco il cieco soleva affermare che la ‘diversità ebraica’ consisteva nella pratica di una filosofia esoterica basata sullo studio e sulla conoscenza piuttosto che su una religione unicamente ispirata alla fede e al sentimento. Questo stesso principio sembra seguire la Massoneria, nell’utilizzare il simbolismo tratto dalla Qabbalah degli ebrei.
  

sergio magaldi
















[1] Cfr., J. Boucher, Op.cit., pp.98-106.  
[2]  Ibid., p. 331. Il Boucher, tuttavia, nel passo che il compagno fa a destra vede l’incontro con la cosiddetta sephirah nascosta Da’at Conoscenza, piuttosto che con la sephirah ‘Hesed Grazia. Egli scrive (Ibid.): ‘Il Compagno, con un passo a sinistra, raggiunge Geburah la Forza e, un passo a destra, lo conduce alla ‘Scienza’ tra Chochmah e Binah.’.
[3]  Ibid. p. 280 e ss.
[4]  Ibid., pp.120 e ss.
[5] cfr. Nadav Eliahu, Misparei Ha-Sod. I numeri del segreto, Milano, 1990, pp. 29-30.
[6] Il testo del Sepher ha-Temunah tradotto in italiano (con una breve introduzione circa la data presunta di composizione e il relativo contenuto), si trova in Mistica Ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo a cura di G. Busi ed E. Loewenthal, Einaudi, Torino, 1995, pp.243-346
[7] Cfr. Talmud, bRo’sh ha-shanah 21 b,  bNedarim 38a.
[8] Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 219-221.
[9] Cfr. Luz, Trimestrale di Studi Tradizionali,  Har Tzion, n.3, Autunno 1999, pp.17-18.
[10]  Ibid., p.16
[11] Cfr. J. Boucher, Op.,cit., pp. 58-60
[12] Cfr. Giuseppe Abramo, La Cabalà e la Massoneria, pp.17-25 in  Gradus,n.22, 1989, p. 22.
[13]  in C. Mopsik, Les grands Textes de la Cabale,cit., p. 74. La traduzione è mia.
[14] Ibid.,p.83
[15] Ibid., p.85