domenica 23 novembre 2014

SEI MILIONI DI ITALIANI OGGI AL VOTO









  Sorprende non poco che, alla vigilia delle elezioni regionali in Emilia Romagna e in Calabria, il governo lasci passare le indiscrezioni sulla riforma della RAI, con misure che dovrebbero svincolare l’ente pubblico radiotelevisivo dalle ingerenze dei partiti [Come se questo fosse possibile, semplicemente sottraendo alle segreterie di partito le nomine dei dirigenti e dei consiglieri di amministrazione!], diminuire il canone per i cittadini, ma al tempo stesso introducendolo anche per le seconde case come balzello obbligatorio da inserire nella bolletta dell’elettricità o, come sembra più probabile, come prelievo fiscale, a prescindere dal fatto che si possieda o no un apparecchio televisivo. Insomma, un po’ quello che è avvenuto, con i precedenti governi, per i cosiddetti servizi aggiuntivi, introdotti per aumentare vistosamente l’IMU e la tassa sui rifiuti. Un provvedimento demagogico che mentre strizza l’occhio all’antipolitica, dichiarando di voler sottrarre finalmente il servizio pubblico radiotelevisivo alle spartizioni partitocratiche, finisce per ridurre ulteriormente i consumi degli italiani. Annuncio che va di pari passo con la riforma del catasto, ormai prossima, e che vedrà aumentare  per molti cittadini la rendita catastale già lievitata di recente a seguito della revisione della classe e della categoria degli immobili di diverse microzone dei centri urbani, in applicazione dell’art.1, comma 335, della legge 311/2004.

 Bene, anzi male, perché viene da pensare che il governo Renzi, sul quale si erano appuntate tante speranze da parte degli italiani, continui esattamente nella politica dei precedenti governi, per di più trattando i cittadini nemmeno da sudditi, ma da bambini ai quali si può far credere tutto, anche che questa preannunciata riforma della Rai si faccia nel loro interesse! C’è un solo modo per riformare davvero il servizio pubblico radiotelevisivo ed è quello di abolire il canone, lasciando la Rai libera di competere sul mercato, con le altre televisioni private, introducendo accanto ad una o due reti in chiaro, pubbliche e gratuite, servizi a pagamento su determinati programmi particolarmente pregevoli e appetibili.

 Più in generale, si ha l’impressione che il governo Renzi, non potendo far cassa a spese delle tante lobby, dopo averci timidamente provato, finisca per ricorrere al solito aumento delle tasse che avrà come effetto di deprimere ulteriormente i consumi degli italiani, innescando una crisi sociale ed economica di proporzioni sempre più vaste e senza soluzione di continuità.

 Cosa sta accadendo al “Rottamatore”? Dopo essere stato costretto da Eurogermania a rompere un equilibrio che pareva finalizzato all’approvazione della riforma della legge elettorale e all’abolizione del bicameralismo perfetto, i soli strumenti che potrebbero consentire di cominciare a governare sul serio l’Italia [si vedano in proposito i post: Matteo Renzi e l’equilibrio della bilancia e Matteo Renzi e lo sbilanciamento, cliccando sopra per leggere], Renzi appare sempre più nervoso, e solo in apparenza sempre più sicuro di sé. Forse ha capito che né la governance europea né le tante lobby del suo paese gli consentiranno di cambiare realmente l’Italia, come pure credeva e pareva risoluto a fare. Cosa fa allora? Si volge a cambiare lì dove gli è consentito e/o dove pensa di non trovare ostacoli o addirittura, trovandoli, di servirsene per allargare la propria base elettorale. Per fare cassa, tuttavia, deve ricorrere a misure che, se non ora, presto si riveleranno impopolari. Le circonda con l’aura dell’antipolitica, facendo credere quello che non è. Di qui il suo nervosismo. Sa di avere le mani legate. Cerca nuovi bilanciamenti, lasciando intendere che il patto del Nazareno non è poi così saldo e per farlo credere getta sul tavolo una carta non prevista, quella che Di Maio di Cinque Stelle gli aveva fatto intravedere nell’incontro di Luglio, di cui tutti sembrano essersi dimenticati. Scrivevo allora nel post L’incontro tra PD e M5S sulla riforma elettorale [clicca sopra per leggere tutto]:

 “ […] E, in questo senso, una mano a Renzi sembra darla proprio Di Maio. L’esponente di Cinque Stelle, infatti, se per un verso dichiara di aver voluto incontrare il PD per tentare di arginare “la deriva” democratica che si va configurando nel Paese, dall’altra sembra incline ad accettare l’Italicum nelle sue linee generali, purché venga introdotto, il voto di preferenza dei candidati, abolita la soglia di sbarramento, sostituito il ballottaggio tra le due coalizioni più forti con il doppio turno di lista. Ho detto sembra, perché in realtà, ove accolte, tali modifiche muterebbero profondamente la natura della legge elettorale già approvata alla Camera.


 Anch’io ritengo che con queste modifiche [con qualche riserva da parte mia sul voto di preferenza, per le ragioni già spiegate in diversi post di questo blog] – che in linea di massima non sarebbero sgradite neppure a Renzi – la legge elettorale migliorerebbe sensibilmente. Resta il fatto che nessuna delle tre proposte dei Cinque Stelle potrà essere accettata da Berlusconi, in particolare il doppio turno di lista che rischierebbe di mettere fuori gioco Forza Italia proprio a vantaggio del M5S. Io credo che Renzi e Di Maio siano i primi a saperlo […]”.

 Nonostante tutto, continuo a credere che Matteo Renzi sia, almeno per il momento, l’unico leader capace di cambiare questo infelice Paese. Si astenga da riforme cervellotiche e furbesche per fare cassa e/o produrre consenso elettorale, così come sembra aver capito facendo marcia indietro sul Bonus bebé per le famiglie con redditi di 7000-8000 Euro mensili! Metta ogni energia nel fare approvare più in fretta che può la riforma del senato e la legge elettorale, aspetti poi fiducioso il responso delle urne e infine, quando avrà ottenuto la legittimazione popolare, si volga in direzione dell’Europa per tentare di cambiarne la governance oligarchica.

sergio magaldi


mercoledì 19 novembre 2014

IL NON-CALCIO DELLA NAZIONALE ITALIANA






 Con la striminzita vittoria di ieri contro l’Albania, in una notte dedicata a Genova e ai disastri provocati dalla “inondazione responsabile” della città, si conclude il primo ciclo della nuova gestione di Antonio Conte. Bilancio positivo se si guarda ai risultati: su sei partite disputate, due vittorie nelle amichevoli contro l’Olanda e l’Albania, tre vittorie nelle qualificazioni europee 2016 e un pareggio casalingo con la Croazia. Se si prescinde dalla quantità, tuttavia, e si guarda alla qualità, solo nelle prime due partite l’Italia calcistica ha giocato a pallone [contro Olanda e Norvegia].

 Nelle ultime quattro partite, infatti, le vittorie sono arrivate all’insegna del non-calcio e per di più contro nazionali come Azerbaijan, Malta e Albania. Non certo per colpa di Conte che, al contrario, ha tutto il merito di aver ottenuto il massimo con i giocatori a disposizione, anche considerando le molte assenze e la non buona condizione di forma che di volta in volta gli hanno impedito di schierare in campo i calciatori migliori o almeno più noti. In più con il merito di aver dato spazio a giocatori mai utilizzati o scarsamente utilizzati in passato. Pur nel non-gioco complessivo di ieri sera, per esempio, vanno sottolineate le prove positive di Cerci e di Okaka.

 Ciò premesso, più che comprensibili “le lamentazioni” di Antonio Conte prima e dopo la partita. La nazionale tornerà a scendere in campo solo a Marzo 2015 e al momento non sono previste pause di campionato per consentire al commissario tecnico di allenare i suoi giocatori. Inoltre, la FIGC [La Federazione Italiana Gioco Calcio, nuova nei suoi dirigenti e con un presidente che appena insediato si è subito segnalato per dichiarazioni improvvide che gli sono valse sei mesi di squalifica internazionale], che pure ha il merito di aver affidato ad Antonio Conte la conduzione della nazionale, sembra intenzionata a non cambiare nulla, perseguendo in tutto e per tutto nella politica che sta uccidendo lo sport nazionale per eccellenza, secondo una vocazione che ormai caratterizza il Paese del Gattopardo, non solo nel gioco del calcio, ma purtroppo in ogni ambito della vita civile.

 Già nel mese di Giugno, all’indomani della disfatta italiana nel mondiale brasiliano, scrivevo [per leggere tutto il post clicca su I doni del cielo e quelli di Cesare Prandelli]:

 “Ma le responsabilità di Prandelli non escludono le responsabilità, addirittura maggiori di altri. A cominciare dalla FIGC [Federazione Italiana Gioco Calcio] che non fa nulla per promuovere i vivai giovanili e che consente alle squadre italiane del massimo campionato di schierarsi in campo senza calciatori italiani, come è avvenuto in passato per l’Inter, o con un solo italiano, come per il Napoli [Insigne] o per la stessa Inter [Ranocchia] di quest’anno, o con due o tre italiani, come avviene di regola per la maggior parte delle squadre, se si escludono  Juventus e Roma, destinate prima o poi anch’esse ad uniformarsi alla moda che favorisce l’importazione dei giocatori e l’arricchimento dei procuratori, con la giustificazione politica della libera circolazione dei “lavoratori” del pallone. Se non si avrà il coraggio di introdurre la regola – già inutilmente ventilata in passato – che il tesseramento libero e semilibero di calciatori comunitari ed extracomunitari debba essere affiancato dall’obbligo che almeno sei giocatori degli undici schierati sul rettangolo di gioco  siano italiani [intendendo per italiani anche gli oriundi e i naturalizzati], presto sarà persino impossibile allestire la nazionale di calcio”.

 Da allora, e sono già passati circa sei mesi, nulla è cambiato, né si prevedono cambiamenti nell’immediato futuro. In questa situazione, come dar torto ad Antonio Conte? Il commissario tecnico della nazionale italiana di calcio ha tutte le ragioni di lamentarsi, tanto più se – come sembra – gli era stata promesso, al momento in cui ha accettato l’incarico, un sostanziale mutamento di rotta della politica calcistica.

sergio magaldi

lunedì 17 novembre 2014

THE JUDGE

The Judge, [Il Giudice], regia di David Dobkin, USA, 2014, 142 minuti



 The Judge [Il Giudice] non potrebbe essere film più “americano”, nel migliore e nel peggiore dei sensi. Nel migliore: innanzi tutto perché per l’intera durata, due ore e venti minuti, mantiene sempre elevato il ritmo, ciò che ne fa appunto un film, poi perché si avvale della recitazione di due grandi attori: Robert Downey Jr, nel ruolo di Hank Palmer, l’avvocato di successo e privo di scrupoli che vive a Chicago e Robert Duval, suo padre, il giudice di una immaginaria cittadina dell’Indiana, Joseph Palmer, noto per la sua severità come tutore della legge e come genitore. Nel peggiore, perché ripropone i tradizionali clichés della società americana: una cittadina di provincia del Midwest con i suoi drammi e i suoi segreti e dove prevale una mentalità reazionaria, e ancora: l’alcolismo e l’eterno conflitto generazionale che rende i figli ottusi o li trasforma in ribelli di successo. Se non fosse per una lapide dove si vede scolpita una data di morte [Gennaio 2014], penseremmo di trovarci in un film americano ambientato negli anni Sessanta del secolo scorso.








  Come non bastasse, l’idea di fondere insieme, nel film, il dramma giudiziario [courtroom movie] con quello familiare ha il potere di ridurre di molto l’efficacia della rappresentazione dell’uno e dell’altro. Perché il processo che ha per imputato l’integerrimo giudice di Carlinville, con il figlio accettato dal padre come difensore solo all’ultimo momento, presenta molte lacune sotto il profilo della difesa come dell’accusa e lascia sgomento lo spettatore nel vedere, prima il figlio interrogare il padre come testimone, poi nell’ascoltare la deposizione del padre al limite del patetico e infine nell’apprendere qual è l’asso nella manica del tanto celebrato avvocato di Chicago.

 Quanto al dramma familiare, nulla di nuovo sotto il sole: un padre burbero e autoritario che, insieme al male che lo affligge, nasconde i veri sentimenti che nutre verso il figlio “scapestrato”, più che altro nel ricordo di quando era piccolo e gli ubbidiva ciecamente o quasi. Tutto il resto è contorno che sa di déjà vu: dalle vicende sentimentali dei protagonisti alle soluzioni trovate per “uscire” dal film dopo circa due ore e mezzo di proiezione.

 Solo l’interpretazione di due grandi attori giustifica il costo del biglietto.

sergio magaldi


giovedì 13 novembre 2014

CHI SONO I MASSONI NELL'IMMAGINARIO COLLETTIVO?


lunedì 10 novembre 2014

"UNA SERA A PARIGI" nell'eco di un film di Woody Allen

Nicolas Barreau, Una sera a Parigi, Universale Economica Feltrinelli, ottobre 2014, pp.251


 È abbastanza arduo parlare di un libro di uno “scrittore immaginario”, come Wikipedia definisce Nicolas Barreau, l’autore francese di Una sera a Parigi [titolo originale: “Eines Abends in Paris”] che scrive in tedesco [!] tutti i suoi libri. Osserva in proposito l’enciclopedia libera:

 “Nicolas Barreau è uno scrittore immaginario a cui sono attribuiti quattro romanzi d'amore pubblicati dalla casa editrice tedesca Thiele & Brandstätter. La sua fama è legata in particolare al terzo romanzo, Gli ingredienti segreti dell’amore, che ha venduto oltre 150 mila copie in Germania ed è stato al primo posto delle classifiche italiane per quattro mesi. La falsa identità dell'autore è stata denunciata dal giornalista Elmar Krekeler in un articolo pubblicato su Die Welt in cui viene analizzata la tendenza delle case editrici tedesche a creare autori fittizi per la pubblicazione di nuovi romanzi scritti in base ad analisi di mercato. Secondo lo scrittore Norbert Krüger, il personaggio di Nicolas Barreau è stato creato dalla casa editrice per sfruttare il favore di pubblico ottenuto dagli autori francesi in Germania […] Secondo le note biografiche riportate dall'editore, Barreau sarebbe nato a Parigi nel 1980 da madre tedesca e padre francese. Laureatosi alla Sorbonne in Lingue e letterature romanze, avrebbe lavorato in una libreria sulla Rive Gauche prima di dedicarsi alla scrittura”.

 Ciò premesso, e senza entrare nel merito di come funziona il mercato editoriale, vale la pena esaminare con quali ingredienti sia stato costruito il romanzo, a prescindere dal fatto che sia opera del vero o falso Nicolas Barreau.

  Una sera a Parigi racconta una vicenda romantica, percorrendo strade e luoghi suggestivi della Ville Lumière ad uso e consumo del turista tedesco e non solo. Alain Bonnard è il giovane proprietario di un cinema d’essai ereditato dallo zio, il Cinéma Paradis, così chiamato in omaggio al film Nuovo Cinema Paradiso [1988] di Giuseppe Tornatore.  





 Tra i pochi frequentatori del suo locale, seduta sempre nello stesso posto della fila 17, Alain vede una ragazza dal cappotto rosso [siamo in inverno] di cui finisce con l’innamorarsi. Solo dopo quattro mesi trova il coraggio di rivolgerle la parola e di invitarla a cena. L’incontro con Mélanie [questo il nome della ragazza] avviene di Mercoledì e si rivela subito come una “promessa d’amore” tra i due giovani, ma Alain non potrà rivedere la ragazza sino al Mercoledì successivo, quando Mélanie sarà di ritorno da un piccolo paese della Bretagna, dopo aver fatto visita alla zia inferma. Al momento dei saluti – a tarda notte, sotto l’albero di castagno che si trova all’interno di un caseggiato di rue de Bourgogne, dove la ragazza abita – un bacio appassionato suggella data luogo e ora del prossimo incontro: sarà al Cinéma Paradis, il Mercoledì successivo, nell’orario della proiezione serale del film.

 Alain trascorre una settimana straordinaria. La ragazza dal cappotto rosso, prima di partire, gli ha fatto avere un biglietto che porta sempre con sé e che rilegge di tanto in tanto:

Caro Alain,
 tutto bene il rientro a casa ieri? Mi sarebbe piaciuto accompagnarti in rue de l’Université, ma così avremmo passato tutta la notte a fare la spola e stamani dovevo alzarmi presto. Però non ho dormito. Sono entrata in casa e mi mancavi già. E quando questa mattina ho aperto la finestra e ho visto il vecchio castagno mi sono sentita felice […] non vedo l’ora che sia mercoledì prossimo, non vedo l’ora di rivederti  e non vedo l’ora di vivere tutto quello che verrà. Ti bacio,M. [pp.51-52].

 Non sono solo le parole di Mélanie a rendere speciale quella settimana per Alain. Come dal nulla, due figure si sono materializzate, una sera, davanti al Cinéma Paradis: il grande regista americano Allan Wood e una famosa e bellissima attrice francese che vive negli Stati Uniti, entrambi intenzionati a chiedergli di poter girare alcune scene del film Ricordando Parigi all’interno del cinema di sua proprietà. Inutile aggiungere che la pubblicità dell’evento, le foto scattate dai tanti paparazzi, con Alain in compagnia dell’attrice, fanno riempire di spettatori la sala del cinema d’essai nella quale è in programmazione una rassegna del film d’amore.

 Qui, il riferimento al film Midnight in Paris di Woody Allen [clicca sul titolo per leggere] non è casuale, ma espressamente voluto, con quell’assonanza col nome scelto per il regista del romanzo [Allan Wood]. E come non bastasse, con altri particolari che scoprirà il lettore, c’è il ponte Alessandro III – sul quale, nella scena finale del film, gli amanti s’incamminano sotto la pioggia [che c’è di più romantico che amarsi sotto la pioggia?!] – che è anche il ponte prediletto dalla ragazza dal cappotto rosso, una location che avrà la sua funzione nella vicenda di Alain e Mélanie.







 Come si vede, i voluti richiami al film di Woody Allen servono da esca all’inconscio del lettore, per predisporlo ad essere “pescato” e coinvolto nella trama del romanzo. Un libro ben congegnato, ancorché pieno di luoghi comuni e soluzioni scontate e paradossali. Una storia per anime sensibili e romantiche non ancora disilluse dalla realtà dell’amore vissuto.

 Eppure, il romanzo del vero o falso Nicolas Barreau ha il suo fascino nel riuscire a trasmettere l’angoscia di Alain quando Mélanie non si presenta all’appuntamento e inutilmente il giovane la cerca nel palazzo di rue de Bourgogne dove, evidentemente, la ragazza dal cappotto rosso non abita…


sergio magaldi  

giovedì 6 novembre 2014

ROMA "catenacciara"





 La Roma è stata proclamata dalla stampa sportiva regina dell’ultimo calciomercato e Walter Sabatini il suo re. In realtà, quali sono le novità della formazione rispetto allo scorso anno? [8 punti in meno nelle prime dieci giornate di campionato]. Astori [quando non è infortunato] e più spesso Yanga Mbiwa al posto di Benatia [che era il vero regista della difesa giallorossa] e poi Cole, Holebas e Manolas, per una difesa per lo più “greca”, dove rispetto all’anno scorso manca costantemente l’infortunato Castan e spesso Maicon [cosa non sorprendente in assoluto, persino scontata, dopo il campionato del mondo del Brasile], sostituito dal solito Torosidis di cui si conoscono ormai più i difetti che i pregi. Per il resto nulla è cambiato con la sola eccezione talora di Keita a metà campo, mentre perdura l’assenza per infortunio di Strootman, il regista di centrocampo dello scorso anno, e con l’aggiunta di Uçan e Paredes, oggetti misteriosi perché non giocano mai. Un solo acquisto in attacco, Iturbe, la speranza più che la certezza di un campione, pagato circa 30 milioni e forse poco adatto al gioco offensivo della Roma, dove c’è già un certo Ljajic, in una squadra apparsa già lo scorso anno dipendente in attacco da Gervinho e dalla forma di un inesauribile Totti. Insomma tanti acquisti di livello medio o se si vuole rincalzi di lusso, quando era evidente la necessità di acquistare una punta centrale di grande valore e già si conosceva l’infortunio dell’olandese e la partenza del marocchino, come ho già detto, i veri registi di difesa e centrocampo dell’ultimo campionato.

 Ciò premesso, la partita di eri sera a Monaco, contro il Bayern, ha denotato, se mai ce ne fosse bisogno, i limiti di un allenatore pur simpatico e bravo come Rudi Garcia. L’umiltà è una virtù, solo se non si trasforma in sottomissione o, peggio ancora, nello snaturamento delle proprie potenzialità e nella rinuncia preventiva a combattere. Garcia ha dichiarato incredibilmente al termine della partita di ieri sera: “Sono fiero dei miei ragazzi…”. L’idea che non ci sia alternativa, tra sfidare il Bayern a viso aperto e prendere 7 goal, e quella di giocare col catenaccio per prenderne solo 2, appare semplicistica e provinciale. Difficilmente chi ragiona in questi termini riuscirà a vincere qualcosa d’importante.

 Dicevo già nel post del 22 Ottobre, Il suicidio della Roma [clicca sopra per leggere], che la forza dei giallorossi è nel centrocampo [tra chi gioca e chi resta in panchina], nelle ripartenze di Gervinho e nelle palle che Destro riesce a giocare nell’area di rigore avversaria. La verità è che a Roma, contro il Bayern, la squadra giallorossa non ha giocato a viso aperto, ma tatticamente in modo sprovveduto, lasciando ben sei centrocampisti avversari, padroni della metà campo, con una difesa scarsamente organizzata e senza autentica profondità in attacco, che non fossero le incursioni del solo Gervinho che, per caratteristiche sue, è bravo nel portare palla nell’area di rigore avversaria ma poi non possiede né la potenza balistica né l’opportunismo del vero attaccante. Il Bayern di ieri sera mancava di Robben e di Muller, le sue punte più pericolose, e di diversi altri titolari. La velocità è stata ridotta, ciò che avrebbe potuto favorire il gioco dei giallorossi se solo questi non avessero rinunciato a giocare, accontentandosi di perdere con un paio di goal e riuscendo a tirare una sola volta nella porta avversaria, peraltro quando è entrato Gervinho e si era già sul 2-0.

 In conclusione, arrivo a dire [suscitando probabilmente critiche e ilarità di chi legge] che con uno schieramento diverso la Roma avrebbe potuto addirittura vincere ieri sera all’Allianz Arena di Monaco. Perché non giocare, visti i difensori attualmente disponibili, con tre centrali: Manolas, Yanga Mbiwa, De Rossi, cinque centrocampisti: Florenzi, Keità, Uçan [o Paredes], Pjanic, Nainggolan [con Florenzi e Nainggolan sulle fascie] e due attaccanti: Gervinho e Destro? La mia proposta sembra avere il sapore di una provocazione, ma non lo ha: è solo un invito rivolto a Rudi Garcia ad essere più duttile, in considerazione dell’avversario che di volta in volta si trova ad affrontare.



sergio magaldi