mercoledì 28 gennaio 2015

CAVALLI DI RAZZA O CAVALLI DI TROIA?




Nel post Il Nuovo Inizio [clicca sul titolo per leggere], accennavo agli scenari non esaltanti che si andavano prefigurando con l’imminente elezione del presidente della repubblica. Mentre i nomi dei candidati continuano a rincorrersi in rete, sulla carta stampata e nei cenacoli dei partiti, va fatta una considerazione amara e realistica: neppure uno dei personaggi che si sentono proporre, con qualche speranza di successo, ha le carte in regola. Appartengono tutti, uomini e donne, alla casta che ha governato il Paese negli ultimi decenni e che non può non essere considerata responsabile in solido della grave crisi che è sotto i nostri occhi, con il debito pubblico cresciuto di un terzo in circa vent’anni, la disoccupazione raddoppiata, il potere di acquisto di redditi fissi e pensioni ridotto di oltre il 60%, le imprese dimezzate e il suicidio di tanti piccoli imprenditori, le tasse più elevate d’Europa, le riforme annunciate e mai realizzate, la corruzione tacitamente accettata come regola di governo, le tante lobby mai intaccate nei loro secolari privilegi.

 Insomma, visto che un capo dello stato bisogna pur eleggerlo, si abbia almeno il pudore di sceglierlo al di fuori della politica, anche considerando che la nostra non è una repubblica presidenziale, tant’è che il primo cittadino non viene scelto direttamente dal popolo ma dai suoi cosiddetti rappresentanti. Una personalità della cultura e/o dell’arte, di chiara fama nel mondo e stimata dalla maggior parte dei cittadini italiani, potrebbe essere la persona giusta. Ce ne sono? Pochi, ma comunque qualcuno c’è… Umberto Eco, Dario Fo, Riccardo Muti e forse qualche altro.

 E, invece, si può essere certi che il nuovo presidente sarà espressione di questa vergognosa e colpevole classe politica. Sarà Amato, sarà Prodi? Sarà una donna, nella persona di Anna Finocchiaro? Forse nessuno dei tre, ma intanto si continua a far credere all’opinione pubblica che i candidati più forti e rappresentativi [certamente i più pagati] sarebbero proprio Prodi e Amato, veri cavalli di razza della politica italiana. Scrivevo in un precedente post: […] chi non ricorda il già ineffabile capo dell’Ulivo, ancora il 20 Maggio del 2010 in una lettera al Messaggero, sostenere che “L’ingresso dell’Italia nell’euro rimane come uno dei punti più  alti della nostra recente storia nazionale”? Un euro accettato da sudditi e non attraverso un referendum tra i cittadini, vietato dalla “costituzione più bella del mondo”.

 Il vero scontro per il Quirinale è sempre stato quello tra Amato e Prodi, i genitori dell’euro e della sottomissione a Eurogermania, nella quale siamo entrati con un pessimo cambio lira-euro, facendo pagare una tassa ai cittadini-sudditi e, prima ancora, con un prelievo forzoso dai loro conto correnti. Chi dimentica le dichiarazioni successive di Vincenzo Visco – a quei tempi ministro delle Finanze del governo Prodi – a Il Fatto Quotidiano, allorché rivelò che l’ingresso dell’Italia nell’euro fu voluto fortemente dall’Unione Europea, per evitare che la debolezza della lira favorisse il commercio dell’Italia a scapito della Francia e soprattutto della Germania, costrette a commerciare in un mondo globalizzato con una moneta più forte e dunque meno competitiva? Una svendita del nostro Paese, dunque, perché senza l’ingresso dell’Italia nell’euro, la moneta unica non sarebbe mai nata. Lo stesso Prodi ha di recente riconosciuto gli enormi vantaggi che i tedeschi hanno ottenuto dall’introduzione dell’euro.

 Di Prodi e di Amato e dei motivi che dovrebbero sconsigliarne l’elezione alla presidenza della Repubblica non ho da dire molto di più di quello che scrissi nei post della primavera del 2013, allorché si stava per eleggere il nuovo capo dello stato e si arrivò poi alla rielezione di Giorgio Napolitano. La domanda che mi ponevo allora e che a maggior ragione mi pongo oggi è: Prodi e Amato sono “cavalli di razza” o sono stati i “cavalli di Troia” di Eurogermania?

 Amato è l’uomo che Berlusconi ha sempre voluto per il Quirinale. Pare sia anche il candidato preferito, in funzione anti-Renzi, da Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Di lui, gli italiani ricordano l’incursione  nottetempo nel loro conto corrente. In realtà, Amato incarna le virtù peculiari dell’italiano medio: astuzia e capacità di adattarsi rapidamente e con incredibile disinvoltura alle circostanze e alle convenienze. Di più, egli sembra rappresentare l’anima stessa della partitocrazia. Socialista, poi psiuppino con Basso, tornato nel PSI con incarichi ministeriali, fiero avversario di Craxi all’interno del partito, poi divenuto craxiano di ferro con nomine prestigiose. Sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo del leader socialista, ministro del Tesoro con Goria e De Mita, presidente del consiglio e soprattutto, nell’era di tangentopoli, vicesegretario del partito socialista, e di recente giudice costituzionale voluto da Napolitano. Tra i “meriti” politici, oltre al già ricordato prelievo forzoso nelle tasche degli italiani che con esemplare lungimiranza anticipò di dieci anni le misure adottate a  Cipro, Giuliano Amato può rivendicare: l’abolizione della scala mobile e le misure “lacrime e sangue”, anche in questo antesignano di una politica divenuta quanto mai attuale nel Belpaese.

 Come Prodi e come Tremonti [un altro folgorato sulla strada di Damasco], Amato, più ineffabile di sempre, si presenta oggi con un atteggiamento incredibilmente e inutilmente problematico nei confronti dell’euro e della politica dell’Unione Europea. Si leggano di seguito le sue dichiarazioni: 

[Testo di Byoblu, dal video blog di Claudio Messora del 7 Gennaio]:

 “Noi abbiamo fatto una moneta senza stato. Noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e da quei modi che sono propri dello Stato e che avevano sempre fatto ritenere che fossero le ragioni della forza, e poi della credibilità che ciascuna moneta ha.
 Eravamo pazzi? Qualche esperimento nella storia c’era stato di monete senza Stato, di monete comuni, di unioni monetarie, ma per la verità non erano stati molto fortunati. Perché noi, quando ci siamo dotati di una moneta unica, abbiamo pensato che potevamo riuscirci in termini di Unione, e non facendo lo Stato europeo? Avevamo già costruito un mercato economico comune fortemente integrato. Più o meno avevamo un assetto istituzionale che non era quello di uno Stato ma certo era qualcosa di molto più robusto di quello che usualmente c’è a questo mondo: la comunità europea, l’Unione Europea, col suo Parlamento, la sua Commissione, i suoi Consigli. Abbiamo anche previsto di avere una banca centrale.
 Però, sapete com’è, abbiamo deciso che trasferire a livello europeo quei poteri di sovranità economica che sono legati alla moneta era troppo più di quanto ciascuno degli stati membri fosse disposto a fare. E allora ci siamo convinti, e abbiamo cercato di convincere il mondo, che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere quella zona, quella convergenza economica, quegli equilibri economici-fiscali interni all’Unione Europea che servono a dare forza reale alla moneta.
 Non tutti ci hanno creduto. Molti economisti, specie americani, ci hanno detto allora:
 Guardate che non ci riuscirete! Non vi funzionerà! Se vi succede qualche problema che magari investe uno solo dei vostri paesi, non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo, che può intervenire il governo centrale, riequilibrare con la finanza nazionale le difficoltà delle finanze locali. La vostra banca centrale, se non è la banca centrale di uno Stato, non può assolvere alla stessa funzione cui assolve la banca centrale di uno Stato, che quando lo Stato lo decide diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza.
 In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti. Abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di auto coordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero di aiutare chi era in difficoltà. E abbiamo previsto che l’Unione Europea non assuma la responsabilità degli impegni degli Stati; che la Banca Centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli Stati; che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli Stati. Insomma: moneta unica dell’Eurozona, ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso.
 Era davvero difficile che funzionasse, e ne abbiamo visto tutti i problemi.”


sergio magaldi

martedì 27 gennaio 2015

IL GIORNO DELLA MEMORIA: Deutschland uber alles... e i campi della vergogna




 Nel giorno della memoria dell’Olocausto, ripropongo di seguito il libro Racconti della Shoà di Fulvio Giannetti. Presentato dal Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma, dott. Riccardo Di Segni, illustrato da Georges de Canino e introdotto dal sottoscritto, Racconti della Shoà raccoglie preziose testimonianze di eventi personalmente vissuti dall’autore durante l’infanzia o uditi narrare da chi vi prese parte. Di qui l’esigenza, nel racconto più lungo, di ricordare immaginando di scrivere una Lettera ad Anna Frank, la giovane ebrea che trascorse gli ultimi anni della sua breve vita nei campi di sterminio di Auschwitz prima e di Bergen-Belsen poi. Completano la raccolta: L’eccidio di Caiazzo, per la cui memoria Benedetto Croce fece incidere una lapide con le sue parole; il ritratto di Lello Perugia, combattente ebreo nelle formazioni partigiane "Liberty", noto come il "Cesare" del romanzo La tregua di Primo Levi e del film omonimo; e infine la storia di Giovanni Palatucci, ‘un giusto tra le nazioni’, il cui nome – osserva Fulvio Giannetti – "è scritto nel libro di pietre della memoria e della gratitudine d’Israele affinché tutti sappiano".










PRESENTAZIONE di Riccardo Di Segni

 Fulvio Giannetti propone in questo libro una raccolta dei suoi scritti, che hanno come tema comune le vicende drammatiche della seconda guerra mondiale, che egli ha vissuto personalmente con occhi di bambino nella terra dell’alta Ciociaria, in prossimità del fronte di Montecassino.

 Sono stati giorni e mesi terribili nei quali gli uomini hanno mostrato il peggio di sé, ma anche il meglio. Momenti di atrocità e di viltà, ma anche di umanità, di coraggio, di eroismo. Le stragi compiute senza pietà dai soldati tedeschi, le reazioni delle popolazioni colpite, l’eroismo dei singoli come il commissario Palatucci, le vicende umane di Lello Perugia (il “Cesare” di Primo Levi ) vengono riproposte in queste pagine in una ricostruzione semplice, non retorica e piena di sensibilità.

 Qualcuno dice che si parla troppo della seconda guerra mondiale e della shoà. In certi casi c’è forse un abuso, una improprietà, o una caduta di gusto. Non è così per le memorie di questo libro. Non è lecito tacere. Anzi, è un imperativo morale preciso quello di testimoniare. Tra non molti anni la generazione, sempre più sottile,dei sopravvissuti alla guerra e alla shoà sarà scomparsa. Di loro non rimarrà che il ricordo lasciato nei racconti scritti, nei filmati e nelle registrazioni. Inizierà allora un nuovo ciclo di conservazione della memoria con le sue regole, ma per il momento il dovere è quello di raccogliere, salvare, trasmettere. I disegni, che accompagnano i racconti sono di un artista, Georges de Canino, nato dopo gli eventi bellici ma che ha scelto di rivivere la tragedia immensa della Shoà  con i colori, i segni, e gli strumenti dell’arte, che trasmetterà emozioni e riflessioni a coloro che vorranno conoscere e sapere.

 A questo dovere risponde il nostro Fulvio Giannetti, e gliene siamo grati, come dobbiamo essere riconoscenti a tutti coloro che senza il timore di critiche continuano la meritoria opera di recupero.


 INTRODUZIONE di Sergio Magaldi

 C’è in questi racconti di Fulvio Giannetti il tentativo di saldare insieme memoria storica e ricordi personali, fatto e creazione, testimonianza e sogno, lavoro ingrato che si riparte tra metastoria e metaletteratura.

 Non starò a verificare se l’operazione sia riuscita e magari sia nato un genere nuovo, diverso persino dal racconto o dal romanzo storico. Quel che mi preme sottolineare è che Giannetti, dalla materia trattata, consapevolmente o meno, trae quattro motivi di riflessione, quattro “ragioni” nuove e diverse di porsi di fronte alla Shoah e, più in generale, di fronte alla vita.

 Perché scrivere una lettera ad Anna Frank? C’è forse nell’autore il desiderio di compiacere i lettori? O è magari perché Anna “simboleggia i sei milioni di morti della Shoah”? Così come Miep Gies nega che sia, per affermare invece che “la vita e la morte di Anna sono un destino individuale”, anche se “accaduto sei milioni di volte”. (1) Nulla di tutto ciò. E allora? La realtà è che Fulvio scrive oggi le pagine di un diario che Anna scrisse allora, quando lui aveva una decina d’anni meno di lei, e non sapeva ancora né leggere né scrivere, e che il Fulvio che ricorda quelle pagine non scritte parla con la consapevolezza dell’uomo maturo, dell’uomo che può commuoversi della propria “infanzia violata”, perché è almeno in grado di ricordarla. Dall’incontro del bambino di allora con l’uomo di oggi nasce la lettera che ognuno potrebbe scrivere alla propria compagna di giochi, trovandosi a vivere la medesima esperienza. La guerra e soprattutto l’identità ebraica.

 Un pretesto per raccontare di sé? In un certo senso lo è, perché il bambino Fulvio non sa nulla della Prinsengracht 263 di Amsterdam né dell’alloggio segreto, non conosce la segregazione totale protratta per oltre due anni e bruscamente interrotta un mattino dalla Gestapo, quasi alla vigilia della Liberazione, (2) né fortunatamente conosce i treni dai vagoni piombati e i tedeschi che li scortavano, non la fame, la sete e la vergogna di Westerbork, di Auschwiz e di Bergen-Belsen – campo, quest’ultimo, di cui pure ha sentito parlare dallo zio sopravvissuto – e l’uomo Fulvio potrebbe parlarne ma sarebbe lavoro di biografo. Il bambino Fulvio conosce invece la grotta-rifugio nella valle dell’Iri, dove apprende la morte del padre, della segregazione non ha che fugace esperienza anche se subisce il trauma del “sepolto vivo” e della fame conosce abbastanza da ricordarla, nel suo diario della memoria, quasi come un’ossessione. Certo, i‘suoi’ tedeschi sono diversi, non meno “orrendi”, (3) ma almeno egli li vede da spettatore. E se è vero che danno fuoco al volto di Anita che chiede pane, quando ha con loro un incontro “ravvicinato”, ne riceve in dono persino un’enorme fetta di torta!

 Ecco allora il senso dello scrivere una lettera ad Anna Frank che ogni bambino ebreo e non ebreo – oggi adulto – potrebbe scrivere commisurando la propria infanzia violata a quella dell’infelice Anna. Tante virtuali candeline accese per illuminare le coscienze e aiutarle a riconoscere il demone della guerra, dell’intolleranza, della violenza e delle persecuzioni.

 Perché, se è vero – come scrive Anna Frank – che in ogni uomo c’è un “pezzetto” di Dio, occorre fare in modo che quel pezzetto s’impadronisca del “resto” dell’uomo e lo trasformi, altrimenti nulla potrà davvero cambiare.

 In La vita di Cady, uno dei racconti più riusciti di Anna Frank e che non fa parte del Diario, nel colloquio tra Cady e una donna inferma, vicina di letto nel sanatorio, si misurano due concezioni, entrambe presenti nell’anima di Anna, reclusa nell’alloggio segreto. Da una parte la speranza, dall’altra un pessimismo che trascende anche la sua personale sorte, di cui, pure, il suo inconscio pare avvertito quasi con rassegnazione. Cady confida a se stessa che Dio si manifesta nei suoi pensieri e nelle sue parole, giacché Egli “prima d’inviare gli uomini nel mondo dà a ciascuno di essi un pezzetto di sé. È questo pezzetto che produce nell’uomo la differenza tra bene e male e che fornisce una risposta alle sue domande. Quel pezzetto è altrettanto naturale quanto la crescita dei fiori e il canto degli uccelli”. (4 ) Ma la donna che giace nel letto accanto al suo è oscuramente profetica: “Io non credo – ella dice – nulla delle voci che dicono che fra qualche mese tutto sarà finito. Una guerra dura sempre più di quel che credono gli uomini”. (5) Anzi, conclude la donna, e Anna fa parlare qui l’altra metà della sua anima, la guerra è la condizione stessa del genere umano: “Dopo ogni guerra gli uomini dicono: ‘Questo non accadrà mai più, è stato così terribile, bisogna evitare a qualsiasi prezzo che si ripeta’ e sempre di nuovo gli uomini devono combattere gli uni contro gli altri, questo non cambierà mai: finché sulla terra vi saranno degli uomini saranno sempre in lotta e quando ci sarà la pace cercheranno nuovi pretesti per scontrarsi”. (6)

L’impunità degli assassini 

Il racconto dell’eccidio di Caiazzo è emblematico per ciò che riguarda la questione dell’impunità degli assassini. Il caso Emden sta lì a testimoniare l’indifferenza, l’ignavia, la vigliaccheria e soprattutto le complicità che impedirono, in questo come in migliaia di altri casi, che fosse resa giustizia. Come pure, testimonia più spesso l’ipocrisia e la retorica di certi riconoscimenti tardivi e di certe celebrazioni postume.

 Io credo, tuttavia, che il problema non sia più, ormai a distanza da quegli avvenimenti, chiedersi perché tanti assassini siano rimasti impuniti, quanto piuttosto interrogarsi sul perché l’opinione pubblica ha sempre ricevuto così scarsa informazione sul fenomeno dell’impunità dei criminali nazisti. Non sarebbe venuto il momento di raccogliere in un volume unico, tradotto in tutte le lingue, a disposizione delle scuole, delle università e delle biblioteche pubbliche – libro bianco della memoria e della vergogna – i “curricula” dei criminali nazisti e dei loro giudici, catalogati magari in sequenza alfabetica? Non certo per spirito di vendetta, quei fatti essendo ormai al di fuori delle possibili “intercettazioni” della giustizia ordinaria o straordinaria, e neppure per alimentare in qualche esaltato un privato desiderio di giustizia sommaria nei confronti di vecchi inermi e prossimi ormai alla resa dei conti. Per bisogno di sapere, giacché la conoscenza fu sempre per l’uomo strumento di salvezza e non di perdizione. O si crede davvero che fu la pietà a mitigare l’animo dei giudici o magari l’insufficienza delle prove? E sebbene la pietà sia sentimento nobile e divino, talora incomprensibile ad una coscienza altra e diversa da quella che l’assume, resta nondimeno necessario il tentativo di darne spiegazione per evitare che ciascuno operi a modo suo e finisca quasi legittimamente per pensare che il Piazzale Loreto di Benito Mussolini e di Claretta Petacci sia un Tribunale d’alta giustizia invece che l’ultimo anello della barbarie. Ed è vero – come insegna purtroppo la storia italiana passata e recente – che gli atti della giustizia sommaria, praticata anch’essa talora in nome e per conto del popolo sovrano, nascondono spesso i disegni di chi teme che le oscure connivenze dei vinti siano portate alla luce.

 Sorprende invece, almeno che non sia ascrivibile a suprema bontà o a tacita e impalpabile “riconoscenza”, l’atteggiamento tenuto da Otto Frank, padre di Anna, nel corso del processo contro Karl Joseph Silberbauer, il capo reparto delle SS che, quel mattino del 4 Agosto del ’44, fece irruzione nell’alloggio segreto, causando la deportazione degli otto ebrei clandestini, tra cui Anna. Tornato tranquillamente a Vienna, sua città natale, nell’aprile del ’45, e in forza alla polizia viennese, Silberbauer, fu successivamente trattenuto in carcere per quattordici mesi con l’accusa di maltrattamenti compiuti durante un interrogatorio. Rientrato in polizia nel 1954, Silberbauer restò indisturbato sino all’Ottobre del 1963, anche perché mai denunciato da Otto Frank che depistò sempre la possibilità di accertarne l’identità, parlando piuttosto di un tale Silberthaler quale protagonista dell’irruzione in Prinsengracht 263. Furono le ricerche di Simon Wiesenthal (7) ad assicurare alla giustizia il poliziotto viennese. Sospeso dal servizio, Silberbauer tornò tranquillamente al suo posto due anni più tardi, soprattutto grazie alla testimonianza resa da Otto Frank che parlò di comportamento corretto durante l’arresto.

Melissa Muller, in una recente biografia di Anna Frank, ha così ricostruito il dialogo più importante che si svolse quel giorno tra Otto Frank e Silberbauer:
“Di chi è quella cassa?”, chiede Silberbauer.
“È mia”, risponde Otto, dicendo la verità. In lettere ben leggibili il coperchio con i rinforzi in ferro riporta la scritta: “Sottotenente della riserva Otto Frank”.
“Durante la prima guerra mondiale ero ufficiale”.
“Ma…”, Karl Silberbauer è visibilmente a disagio. Quella cassa non dovrebbe essere lì. Turba la sua routine. “Ma perché non si è presentato?” Secondo la gerarchia militare Otto Frank è un suo superiore. Frank, un ebreo.
“Sarebbe andato a Theresienstadt”, puntualizza, come se il lager di Theresienstadt fosse una casa di cura per convalescenti.
Inquieto, l’uomo delle SS si guarda intorno, evitando di incontrare lo sguardo di Otto Frank, che se ne sta lì tranquillo”. (8)

 C’è forse un altro aspetto, in questa vicenda, che meglio chiarisce l’atteggiamento del padre di Anna Frank. momento di andarsene le consente addirittura di restare nell’edificio. Sarà il gesto che consentirà a Miep Gies di raccogliere e nascondere il Diario e gli altri scritti di Anna.(9)
 

Gli interrogativi “metafisici” del combattente Lello


 Nel corso della breve intervista che Lello Perugia, il “Cesare” di Primo Levi, concede a Fulvio Giannetti emergono tre interrogativi inquietanti, ai quali, umilmente, l’intervistato non pretende di dare risposta, parendo il suo intento più un invito alla riflessione che un accertamento della verità.

 “Perché i nazisti volevano far scomparire gli ebrei dalla faccia della terra?”

 In risposta alla sua stessa domanda, Lello osserva che questa volontà fu davvero diabolica e che, forse, l’intera questione è di natura metafisica, ciò che nelle sue intenzioni equivale ad affermare l’impossibilità della risposta, anche se egli si limita a dire che si tratta di una domanda alla quale è difficile rispondere. E infatti, sull’argomento sono stati scritti trattati che hanno dato solo spiegazioni parziali. Né potrebbe essere diversamente, le ragioni ultime dimorando pur sempre nelle profondità dell’inconscio individuale e collettivo, difficilmente accessibili all’indagine umana. Certo, la volontà del genocidio non sembra prerogativa esclusiva dell’anima del nazista. Ma poi è certo che i nazisti avessero un’anima? O non è piuttosto l’anima, d’après James Hillman, un “da farsi”, una costruzione individuale che procede per tentativi, dubbi e tra mille difficoltà? Ad ogni buon conto, la volontà del genocidio è stata sempre presente nella storia e ha centrato talora l’obiettivo, laddove si è trattato di distruggere o asservire altri popoli, per sostituirsi ad essi nel governo di territori e quando questi popoli non seppero far valere – avrebbe detto Hegel – la necessità storica e culturale del loro stesso sussistere o, ciò che è lo stesso, quando non rientravano più nei piani della cosiddetta Ragione storica. Insomma, la storia ci mostra esempi molteplici di massacri e distruzioni di massa, ma neppure un caso assimilabile alla “soluzione finale” progettata dai nazisti contro gli ebrei, che sono popolo solo agli occhi di Dio, ma che, per tutto il resto, seppero e sanno perfettamente integrarsi con tutti gli altri cittadini nei paesi d’appartenenza. A meno che non si affermi che la moderna idea di genocidio consista proprio nella volontà di cancellare dalla storia i propri nemici finanziari, coloro che controllano e dirigono i grandi capitali. Ma anche in tal caso il progetto nazista avrebbe il crisma dell’originalità e dell’unicità. Solo che questa folle idea non ha trovato mai effettivo riscontro nella realtà, perché gli ebrei tedeschi ricchi non erano parte di un ipotetico Capitalismo Ebraico Internazionale, si sentivano bensì parte integrante del popolo tedesco e della finanza tedesca. E questo vale per gli ebrei ricchi di ogni altro paese. Che dire poi dello slogan tanto diffuso anche nell’Italia di quegli anni, e cioè che “gli ebrei sono capitalisti, ma sono anche comunisti”?

 Ha ragione Lello. Possiamo continuare ad esaminare la questione all’infinito, ma è difficile rispondere esaurientemente e in modo conclusivo.

 “Perché Kappler chiese alla comunità ebraica di Roma proprio cinquanta chili d’oro?”

 Ecco un secondo interrogativo che Lello definisce metafisico. Lui che si è sempre considerato un laico, butta lì improvvisamente una questione che potrebbe essere affrontata solo in una prospettiva religiosa o magari nell’ambito della tradizione ebraico-cabbalistica. Egli non si sente in grado di dare una risposta, ma lascia intendere che dietro quel numero, cinquanta, può nascondersi un significato preciso e magari un mistero sui quali altri e non lui sono forse in grado indagare. Egli non sa molto di ghematrie, ma ha sentito parlare dei numeri della tradizione, sa che cinquanta sono le Porte dell’intelligenza (Binah, la terza sephirah dell’albero della vita) e che 50 è anche la cifra dell’intera manifestazione (Kol, tutto, formato dalle lettere ebraiche Kaph e Lamed,  cioè: [20+30=50] (10)  e di Adamah, la terra di Adamo [Aleph, Daleth, Mem, He: 1+4+40+5= 50]. Non sa o non dice che 50 è anche la cifra di Yam, mare [ Yud, Mem:  10+40=50], simbolo dei segreti dell’inconscio, e di Mi, chi? [Mem, Yud: 40+10=50], la possibilità stessa di effettuare domande. Non dice o non sa che, al negativo, 50 è anche la cifra di Tame, impuro [Thet, Mem, Aleph: 9+40+1=50] e di Gezabel [Aleph, Yud, Zain, Beth, Lamed: 1+10+7+2+30=50], la regina malvagia, adoratrice di Baal e della dea Asera, che sterminò i profeti di Dio, ma 100 di loro furono soccorsi e nascosti in due grotte, 50 e 50, e si salvarono (I Re, 18, 13). E Gezabel finì sbranata dai cani.

 “Perché ci siamo lasciati massacrare senza combattere?”

 Lello considera metafisico anche questo interrogativo. Solo perché ai suoi occhi appare inconcepibile essersi lasciati massacrare in sei milioni e senza neppure opporre resistenza. Lui che, prima di essere deportato ad Auschwitz, i tedeschi li ha davvero combattuti. Lui che sembra far proprie le parole di sua madre Emma, che volentieri avrebbe destinato i 50 chili d’oro, da consegnare a Kappler in cambio di una improbabile salvezza, all’acquisto di armi per combattere. E anche laddove la ribellione gli appare inutile o impossibile, per la condizione disumana alla quale i nazisti li hanno ridotti nei campi di sterminio, non trattiene un moto spontaneo dell’anima nell’attribuire alla rivolta di Auschwitz del 6 Ottobre del ’44 – che portò alla distruzione di uno dei forni crematori – il merito di aver rallentato le esecuzioni con il gas.

 

I giusti tra le nazioni


 Dalla cronaca delle vicende di Giovanni Palatucci, Fulvio Giannetti trae spunto per invitarci ad una riflessione sul significato del Noachismo. Non tanto per esaltare il primato etico di una fede condivisibile da parte di tutte le religioni, o per discutere se si tratti di una fede soltanto rudimentale dettata da Noè all’epoca del diluvio universale o magari di una sorta di religione ebraica minore, dagli ebrei elargita generosamente a tutti i non ebrei. 

 Non di questo si tratta o non solo di questo. Nei sei precetti negativi (divieti di bestemmia e idolatria, divieti di natura sessuale, divieti di disporre della vita e della proprietà altrui, divieto di crudeltà nei confronti degli animali) e nell’unico precetto positivo (istituzione dei tribunali di giustizia), di cui si compone il biblico patto noachide, si intravedono, infatti, i principi del moderno giusnaturalismo, fondamento del liberalismo e della democrazia.  

 Dal De jure belli ac pacis di Grozio del 1625, al Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau del 1762, passando attraverso autori come Cartesio, Locke, Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Hume, tanto per citare i maggiori, nella cultura occidentale è tutto un fiorire di scritti che per la prima volta rompono col Diritto canonico, basato sull’identificazione della legge naturale con la legge divina, dalla quale discende che se Dio non c’è, non c’è neppure una natura umana creata su cui il diritto naturale si possa fondare.(11)

 È Grozio a rompere per primo l’incantesimo, il diritto naturale ha per lui ragion d’essere “anche se si ammettesse ciò che non si può ammettere senza delitto: che Dio non c’è o che non si cura degli affari umani”, come scrive nel Prologo (Prg.11) del De Jure.

 Il diritto naturale ha il suo fondamento nella ragione e la ragione trova a sua volta giustificazione nell’ordine naturale del tutto, nella Legge cosmica che governa l’universo, secondo la concezione antica degli Stoici, ripresa dall’ebreo Spinoza:

 “Ciascuno esiste per supremo diritto di natura, e quindi ciascuno per supremo diritto di natura fa ciò che segue dalla necessità della sua natura; e perciò per supremo diritto di natura ciascuno giudica quale cosa sia buona, quale cattiva, e provvede alla sua utilità a suo talento e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio. Or se gli uomini vivessero sotto la guida della ragione, ciascuno possederebbe questo suo diritto senz’alcun danno per gli altri.” (12)

 E quando più tardi il diritto naturale finisce col perdere il carattere di razionalità geometrica e necessaria, resta nondimeno principio indiscutibile della convivenza umana, tecnica almeno ragionevole di coesistenza pacifica.

 Se si prescinde dal loro fondamento mitopoietico e teologico, e si guarda unicamente alla loro sostanza, ci si accorge che i precetti noachidi, contenuti nel Talmud, sono innanzi tutto norme di diritto naturale condivisibili da tutte le fedi religiose semplicemente perché non hanno in se stesse nulla di religioso e persino quel riferirsi al divieto di bestemmia e di idolatria, lungi dal rappresentare una qualche forma di “costrizione” teologica esprime piuttosto il principio della tolleranza religiosa e l’invito alla ragione umana di non abbassarsi ad adorare feticci.

 Proprio come i principi del diritto naturale, i sette principi noachidi si caratterizzano, per così dire, per la loro elasticità e quindi per la loro capacità di evolversi e al tempo stesso restare immutabili, come già ricordava l’ebreo Benamozeg al cattolico e discepolo Pallière.

 Così, per esempio, dal divieto di uccidere discende il precetto positivo di salvare una, cento, mille vite, come fecero Palatucci e gli altri, a buon diritto chiamati giusti tra le nazioni.

  
                                          NOTE

1 Cfr., Postfazione di Miep Gies, in Melissa Muller, Anne Frank. Una biografia, trad. it., Einaudi, Torino, 2004, p.348. Di Miep Gies, personaggio chiave nella vicenda di Anna Frank, si parlerà più avanti.
2 Mi sia consentito, in questa pur breve introduzione, e senza che ciò possa apparire irriverente, riportare nella pagina che segue il grafico del tema zodiacale di Anna Frank, nel momento in cui, in quella terribile mattina del 4 Agosto del 1944, le SS di  Karl Joseph Silberbauer fecero irruzione nell’alloggio segreto a seguito di una delazione. Diversi “addetti ai lavori” dell’astrologia si sono variamente esercitati sul tema natale di Anna Frank, e non è mia intenzione aggiungermi a loro, ma solo rappresentare l’immagine astrale di un evento tanto tragico. Non procederò dunque in una analisi interpretativa, che qui sarebbe comunque fuori posto, limitandomi a suggerire ai lettori, anche digiuni di astrologia, una presa di coscienza immediata e puramente visiva dell’evento.


 GRAFICO DEI TRANSITI NEL CIELO DI
ANNA FRANK IL 04-08-1944 alle ore 10






 Come si vede, nel grafico, la Luna in transito, cuspide al Discendente od Occaso, e che con le sue fasi bene rappresenta ‘la trama della vita sulla terra’, si trova quasi interamente da sola a fronteggiare l’ “esercito” formato dalla fitta tela degli altri “pezzi” dello zodiaco (astri e pianeti natali e di transito). Inoltre, dei due pianeti di nascita che, come la Luna di transito, si trovano ad Occidente, Urano si congiunge al Sole e Saturno è in avvicinamento a Plutone nella sua dodicesima casa, conferendo al momento e alla situazione in generale una drammaticità, come si suol dire, karmica.
3 Così Anne Frank definisce i tedeschi nel suo Diario.
4 Anne Frank, Racconti dell’alloggio segreto, trad. it., Einaudi, Torino, 1983, p.150.
5 Ibid., p. 151.
6 Ibid., p. 152.
7 Ebreo polacco liberato nel maggio del ’45 nel campo di sterminio di Mauthausen. Divenuto famoso come “cacciatore dei nazisti” che si erano macchiati di stragi e delitti contro l’umanità ed erano rimasti impuniti.
8 Melissa Muller, op.cit., p.10
9 Ibid., p.11
10Com’è noto, ogni lettera dell’alfabeto ebraico ha un corrispondente valore numerico.
 11  La questione esce dal dibattito delle Accademie e dei cenacoli intellettuali per proporsi pubblicamente nell’immediato dopoguerra. La filosofia è trascinata in piazza dal cosiddetto Manifesto dell’esistenzialismo. “Se Dio non esiste tutto è permesso” ha scritto Dostoevskij e di questa frase Jean Paul Sartre dichiara nel 1946 di voler fare “il punto di partenza dell’esistenzialismo”.  Paradossalmente, l’esistenzialismo ateo di Sartre rivela qui la sua nostalgia d’assoluto, il rimpianto del paradiso perduto e il risentimento per l’abbandono di Dio. “Se, d’altro canto, Dio non esiste – scrive Sartre (L’Esistenzialismo è un umanismo, trad. it., Mursia, Milano, 1963, p. 47) non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini che diano il segno della legittimità della nostra condotta”. Vero è che questa religione della libertà, lungi dal tradursi in anarchia o arbitrio, si trasforma ben presto in Sartre in un’etica della responsabilità della scelta e nell’impegno civile e politico al servizio della libertà. 
12 B. Spinoza, Ethica, IV, 37, scol.2, Sansoni, Firenze, 1963, p. 477, omesse le note in parentesi del testo originale.

 sergio magaldi





martedì 20 gennaio 2015

DANNATI. Il male non muore mai... di Glenn Cooper

Glenn Cooper, Dannati, Casa editrice Nord, 2014,pp.494



 La mente umana ha variamente concepito e raffigurato l’Inferno, nella letteratura, nella poesia, nell’arte e nella religione. Il tratto comune della visione occidentale e delle religioni abramitiche è rappresentato soprattutto da due elementi: l’eterna sofferenza e l’impossibilità della speranza e della redenzione. L’inferno dantesco, nella sua opera di sublime poesia, bene rappresenta l’idea più diffusa sui luoghi della dannazione. Sulla porta dell’Inferno, Dante e Virgilio leggono queste parole [Inferno, canto III, vv.1-9]:
     
"Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.


Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,

la somma sapienza e 'l primo amore.


Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".


 Per quanto la visione dantesca si basi su una concezione medievale del peccato e della colpa e, nell’attribuzione delle pene, utilizzi la legge del contrappasso, secondo un principio che si ispira all’inferno vagheggiato dall’islamismo, resta vero che, mutatis mutandis, la tradizione conserva in Occidente e in gran parte del Medio Oriente una comune fantasia circa il castigo irreversibile che attende i dannati. Diversamente vanno le cose in Oriente, dove, pur con sfumature non indifferenti, induismo, taoismo e buddismo sono religioni accomunate dall’idea che il tormento dei dannati non sia eterno e/o che l’inferno non sia un luogo fisico di espiazione per i morti nel peccato, ma si realizzi tra i viventi, attraverso successive reincarnazioni modulate secondo la legge inesorabile del Karma.

 Non a caso il grande scrittore cinese Mo Yan introduce così la narrazione di un suo romanzo “Dice il Buddha: ‘La fatica di vivere nasce dall’avidità e dal desiderio. La rinuncia e la non-azione pacificano l’anima e il corpo’ ”. [cfr. il post Le sei reincarnazioni di XimenNao, e clicca sul titolo per leggere]. Così è per Ximen Nao, il latifondista giustiziato per le sue colpe vere o presunte dai comunisti locali e da cui, nel romanzo, prende il nome il villaggio a nordest di Gaomi. Finché il suo animo non sarà pacificato, liberandosi di ogni risentimento, desiderio e avidità, sarà costretto a reincarnarsi in forme animali e a vivere negli stessi luoghi in cui aveva già vissuto come incontrastato signore e ricco proprietario terriero: asino, toro, maiale, cane, scimmia e solo con la sesta reincarnazione tornerà finalmente uomo.

 La prospettiva muta naturalmente per i non credenti. Dan Brown ci lascia immaginare l’inferno come il futuro dell’umanità. E forse l’inferno non è solo il futuro ma già il presente. Basti pensare alle periferie dei grandi centri urbani e alle tante regioni del mondo dove fame, malattie, degrado, incesto, prostituzione infantile e violenze d’ogni genere dominano incontrastate:

 “L’Inferno di Dante non è finzione… è profezia!
 Sofferenza e tribolazione. Questo è il panorama del futuro.
 L’umanità, se non è tenuta a freno, agisce come una pestilenza, un cancro… Il numero degli abitanti cresce a ogni generazione finché le risorse terrene che un tempo alimentavano la nostra virtù e solidarietà si ridurranno gradualmente a zero, svelando il mostro che è in noi, spingendoci a lottare fino alla morte per nutrire i nostri piccoli.
 Questo è l’Inferno dantesco.
 Questo è ciò che ci attende.
 Mentre il futuro si avventa su di noi, alimentato dall’inesorabile matematica di Malthus, noi restiamo in bilico sopra il primo cerchio dell’Inferno… e ci prepariamo a precipitare più rapidamente di quanto abbiamo mai immaginato[…]
 Non fare nulla significa accettare un inferno dantesco… affollato di anime affamate e sguazzanti nel peccato. [leggi, cliccando sul titolo, il post C’è l’inferno nel futuro del mondo?]

 L’inferno descritto da Glenn Cooper nel suo romanzo DANNATI. Il male non muore mai… [titolo originale: Down-Pinhole] ricorda vagamente, quello descritto da John Milton nel poema Paradiso Perduto: “[…]un buio trasparente, una tenebra/ nella quale si scorgono visioni di sventura,/regioni di dolore e ombre d’angoscia, e il riposo e la pace/ non si troveranno,né mai quella speranza che ogni cosa/solitamente penetra;e solo una tortura senza fine… [libro I, vv.62-67].

 L’Oltre o Inferno è per Cooper una dimensione parallela a quella terrena dove entra, nell’istante stesso della morte, chi si è macchiato di delitti. Ne sono esenti coloro che hanno ucciso in guerra, a meno che non l’abbiano fatto per vendetta personale. Ne fanno parte i mandanti degli assassini, anche se non hanno mai ucciso personalmente.  Basta solo il tentativo di uccidere, anche se non riuscito. Ne è testimone un frate francescano che aveva tentato invano di avvelenare un confratello che lo aveva molestato a lungo. Egli è dannato, nonostante continui a credere in Dio e vagheggi persino l’impresa impossibile di fondare una Chiesa all’Inferno. Tra i dannati di Glenn Cooper non figurano invece coloro che si siano lasciati andare ai 7 vizi capitali, persino gli iracondi, purché la loro ira non si sia spinta sino al delitto.

 Ogni omicida “rinasce” all’Inferno nel luogo stesso in cui è morto ma in un habitat primordiale e squallido, dove non c’è sole e i colori predominanti sono il grigio e il marrone. I dannati hanno la stessa età e le stesse malattie di quando sono morti e puzzano perché la loro carne è putrefatta. Nessuno muore nell’Oltre se viene ucciso, persino se il suo corpo è fatto a pezzi. Un barlume di coscienza, nei suoi resti portati in una cella di decomposizione, continuerà a tormentarlo. Quel che l’autore non dice è se questa sofferenza cesserà al momento in cui la sua carne si sarà tutta consumata o se durerà anche quando di lui resteranno solo le ossa.

 Tutto si conserva in questo universo parallelo, regno assoluto del male: dagli uomini di Neandertal ai malvagi erranti e cannibali. L’Europa è divisa in tante nazioni e dilaniata da guerre per il potere. Le regole all’Inferno sono rigide e prive di misericordia, non c’è il Diavolo ma neppure Dio e la speranza della redenzione.Tutto ubbidisce ad una Legge inesorabile che non tiene conto delle distinzioni, così soprenderà non poco trovare nell’Oltre chi non avremmo mai pensato di incontrare.

 Come può accadere che un vivente entri in questa dimensione e un dannato torni sulla terra dove bene e male si misurano e a volte si confondono? Un esperimento condotto  a Dartfort, ad est di Londra, per aumentare gradualmente l’energia di collisione delle particelle, viene realizzato contro ogni procedura di sicurezza e nonostante il parere contrario di Emily Lougthty, direttrice del progetto Hercules. L’energia del MAAC – un tunnel circolare gigante, fratello maggiore di quello del CERN – viene intenzionalmente aumentata da venti a trenta TeV, determinando la scomparsa di Emily e l’apparizione al suo posto di uno sconosciuto.

 Mantenendo il segreto di fronte all’opinione pubblica, sarà John Camp, un militare a capo della sicurezza del laboratorio, innamorato di Emily, ad offrirsi per andare all’Inferno nel tentativo di riportare la direttrice di Hercules sulla terra.

 Tra avventure di ogni genere, sulle quali l’autore si dilunga anche troppo, finendo talora per annoiare, ecco apparire figure enigmatiche della storia, di cui però è ben nota la malvagità. Decisivo risulta per John l’incontro con Giuseppe Garibaldi, vecchio e malandato, ma non per questo meno battagliero. “Dunque un giorno sarete il re dell’Inferno. E poi?” Gli chiede John e Garibaldi risponde, annunciando il suo progetto:








 “Coalizzerò tutti gli uomini e tutte le donne contro il nostro nemico comune, l’Inferno stesso. Aboliremo la schiavitù e la tratta delle donne. Sconfiggeremo la fame lavorando la terra e allevando il bestiame. Promulgheremo leggi ragionevoli e giuste: anche se in vita ci siamo tutti macchiati di qualche delitto, credo sia possibile instaurare una forma di civile convivenza. Sceglieremo dei giudici che applicheranno le leggi, uomini virtuosi sebbene siano stati condannati all’Inferno. Anche se purtroppo non ci sono bambini da istruire, erigeremo delle scuole per educare il popolo e insegnare a tutti un mestiere. Saremo sempre dei dannati, badate bene, ma condurremo un’esistenza con meno sofferenze e dolore.” [cit., p.340,ediz. Mondolibro].

 Il finale del romanzo lascia un po’ di sconcerto, ma questo è solo il primo volume di una trilogia.


sergio magaldi

lunedì 12 gennaio 2015

IL NUOVO INIZIO




 Da pochi giorni è iniziato il nuovo anno del calendario giuliano, prima, e di quello gregoriano, poi. Per tutti coloro che seguono altri calendari [ebraico, islamico, cinese, persiano e indiano], il nuovo inizio è diversamente collocato nel corso delle stagioni, senza che tuttavia ne risulti sensibilmente modificato il significato [se non forse dal punto di vista religioso], da quello che la tradizione popolare attribuisce a ogni nuovo inizio, collegandolo inevitabilmente al tempo e ad un nuovo ciclo di nascita, crescita, sviluppo, morte e rinascita della vegetazione.

 In Occidente, e non solo, i festeggiamenti per il Capodanno hanno radici antichissime, costituendo un vero e proprio rito di passaggio: una fase si chiude e se ne apre un’altra per accedere ad un nuovo ciclo che si pretende migliore del precedente e che per questo lo si accoglie con festa e gran frastuono: i ben noti “botti” provocati dai fuochi artificiali, l’abitudine di gettar via vecchi oggetti, divenuti per lo più inservibili o comunque giudicati “conniventi” con l’anno appena conclusosi, lo scambio di auguri e le abitudini alimentari di auspicio alle fortune personali, di denaro e buona sorte, l’uso di indossare articoli di intimo rosso a favorire l’amore come mezzo di fecondità.

 Insomma, il nuovo inizio è accolto ovunque con duplice valenza, da una parte si vuole esorcizzare il ciclo appena concluso, con il suo retaggio di male, di dolore e di confusione, dall’altra si cerca di incoraggiare il bene, pure presente nello stesso periodo, a venire alla luce e a vincere sull’oscurità, creando un nuovo ordine cosmico in grado di cancellare definitivamente ogni traccia negativa. Illusione che l’intelligenza comprende - perché la dimensione in cui viviamo è di per sé intessuta di ordine e disordine, di bene e di male - ma che la volontà rifiuta giustamente di riconoscere per non dare alibi alla nostra accidia e alla presenza rassegnata e complice del male e del caos nell’universo fisico e morale. Qualsiasi ordine nuovo, anche in apparenza il più perfetto, non sarà mai in grado di respingere il male e il sempre  risorgente disordine. Lo sapevano bene gli antichi egizi che, nel loro Pantheon, ponevano la dea Maat, a ristabilire l’ordine cosmico perennemente in procinto di precipitare nel caos.
 






  Secondo quanto riferito nel recente volume Massoni.Società a responsabilità illimitata, di G.Magaldi e L.Maragnani, chiarelettere, Novembre 2014, Maat sarebbe il nome dato a una Ur-Lodge massonica, nata nel “tentativo ecumenico di contaminazione tra istanze massoniche neoaristocratiche e democratiche”. Fondata nel 2004 da Zbigniew Brzezinski e Ted Kennedy, la super loggia Maat vedrebbe tra i suoi affiliati il presidente degli USA, Barack Obama [op.cit. pp. 44,47-48, 381,454-456,543,548,578 e 581].  




 Come si vede nel grafico che segue, alla dea Maat si attribuiscono 42 ideali, ritenuti fondamentali per combattere il male morale e ristabilire l’ordine pubblico violato.






  Gli antichi romani celebravano il nuovo inizio, onorando Giano bifronte, leggendario re del Lazio di una remota età dell’oro, asceso al divino e raffigurato con un volto duplice che guarda contemporaneamente avanti e dietro di sé: una porta [ianua in latino] chiusa, per una porta che si apre a rappresentare un nuovo inizio. La festa di Ianus, dio del passaggio e dell’iniziazione collettiva, si celebrava il primo giorno di Gennaio, insieme alla festa di Iovis o Giove Capitolino del Campidoglio, ma secondo la testimonianza di Ovidio e altri autori latini, aveva il suo coronamento nelle Agonalia Iani del 9 Gennaio, con ludi sportivi e il sacrificio di un montone, compiuto dal rex sacrorum [un sacerdote-magistrato nominato dal pontifex maximus] sul colle del Quirinale.

 Non è un caso dunque che Giano bifronte sia presente nel simbolismo di diverse tradizioni a rappresentare, non già l’inizio di un nuovo anno, ma la possibilità stessa di una nuova iniziazione, di un percorso nuovo da compiere individualmente e collegialmente insieme ad altri iniziati, di un passaggio da una condizione di vita ordinaria o profana, ad una esistenza in cui si sceglie di procedere in modo alternativo e diverso, per rettificare se stessi, alla luce di una nuova consapevolezza o, se si vuole, di una illuminazione che ci aiuti a comprendere e superare il dualismo della dimensione cosmica.

 Così, per esempio, nell’iniziazione massonica, ritroviamo il motivo del frastuono che accompagna i viaggi simbolici dell’iniziando all’interno del tempio, rumore che andrà via via affievolendosi sino a scomparire del tutto nel momento culminante dell’esplosione della luce. Qualcosa che ricorda molto da vicino la dinamica dei fuochi di artificio per salutare il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo. E non basta: non c’è solo Giano, dio bifronte e signore del passaggio. Nell’iniziazione della massoneria ritroviamo anche il mito che accompagna l’eroe tragico dell’antica Grecia, riscopriamo cioè le radici della nostra civiltà.

 Zoppia e cecità, com’è noto, sono i tratti caratteristici che marchiano l’eroe greco e non solo. Il marchio [cfr. M. Bettini-G. Guidorizzi, Il mito di Edipo, Einaudi, Torino, 2004] “ […] è una menomazione del corpo ma anche un surplus di energia che avvia l’uomo che porta su di sé  un segno indelebile verso una sorte speciale. Questo elemento (in sostanza un tipo di compensazione simbolica)funziona come principio generale della mentalità mitica e lo vediamo infatti comparire in rapporto a una serie di personaggi mitici anche al di là dell’ambito culturale greco: Thor era monco, Varuna storpio, Odino guercio, Volund zoppo. Nella Bibbia si legge che il patriarca Giacobbe incontrò una notte un personaggio divino con cui lottò per tutta la notte; al mattino, la misteriosa entità gli toccò una coscia e la paralizzò, e nello stesso tempo gli impose un nuovo nome, un nome sacro che gli disvelava una nuova identità:Israele[cit.ed.Mondolibri,p.111][…]
 L’intelligenza dello zoppo è peraltro di tipo particolare: impossibilitato com’è a competere fisicamente con coloro che sono sani, egli sviluppa una forma di intelligenza intuitiva, fatta di vigile attesa, capacità di cogliere l’istante(kairós) […] Chi è zoppo possiede qualcosa che ad altri è negato, in particolare la capacità intellettuale di cogliere nessi che gli altri, che pure camminano spediti, non riescono a vedere: forse perché camminano troppo spediti passano oltre e non sanno fermarsi, mentre invece lo zoppo percorre la via passo dopo passo e sa vedere le cose in modo diverso. Ecco perché Edipo, lo zoppo, sa risolvere l’oracolo che a sua volta presenta una forma oscura, quasi zoppicante di linguaggio [cit.p.117][…] La cecità,però, come la zoppia, si presta ad assumere uno statuto ambiguo: se da un lato è una forma di castigo e di mutilazione,dall’altro talvolta comporta un incremento di poteri, persino una forma superiore di sapienza acquisita attraverso la perdita di una vista umana per ottenere la vista più acuta […] La cecità serve in questi casi a segnalare il passaggio da un tipo di vista, per così dire normale,a un altro speciale [cit.,pp.125-127].

 La  zoppia è il marchio simbolico che caratterizza il passo del massone quando fa il suo ingresso nel tempio, a rappresentare un procedere diverso da quello che ha tenuto in precedenza; la cecità è la benda che copre gli occhi dell’iniziando sino al momento in cui potrà vedere la luce che illumina lo spazio nuovo in cui deve muoversi e operare insieme agli altri che, come lui, hanno chiesto e ottenuto di essere iniziati.                 

 Cosa ci riserba questo nuovo inizio dell’anno 2015 del calendario gregoriano? L’astrologo dei media e dei rotocalchi vi dirà che questo sarà un anno fortunato per i nati sotto il segno del Leone e che dal mese di Agosto lo sarà anche per quelli nati sotto il segno della Vergine. La sua interpretazione, forse in onore della festa di Giove Capitolino che insieme a quella di Giano si celebrava il primo giorno di Gennaio, si basa sulla considerazione che Giove, presente quest’anno nei segni del Leone e della Vergine, è il più benefico tra gli dei planetari, senza tener conto della posizione che non solo Giove, ma anche tutti gli altri corpi celesti assumono nel tema di nascita e in quello di rivoluzione (annuale) di ciascun individuo. Una mistificazione, dunque, la solita di ogni anno, che serve a tener viva la tradizione dei superstiziosi dell’astrologia così come quella dei suoi detrattori. Niente di più che un’operazione commerciale, comune a tante altre, destinata ai profani della materia che sono la maggior parte.

 Per la verità, i presagi per l’anno appena cominciato non sembrano dei più fausti. Proprio nel giorno in cui gli antichi romani celebravano le Agonalia Iani  in onore di Giano bifronte [9 Gennaio], si è conclusa la tragica vicenda dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo e al Supermercato kosher di Parigi, con i suoi tanti morti, quasi a significare che i giorni che ci attendono non saranno dei più lieti.

 E, per parlare dell’Italia, sul colle del Quirinale sta per terminare il sacrificio del Presidente Napolitano, chiamato meno di due anni fa a ricoprire ancora la massima carica istituzionale contro la propria volontà [cfr. i post  IL BILANCIO DEL PRESIDENTE e IL CITTADINO MEDIO, cliccando sui titoli per leggere] e già si prepara il nuovo toto-quirinale che non promette, almeno per il momento, scenari esaltanti.

 Sembra che nel Paese ci sia voglia di Prodi, almeno a giudicare da certi segnali e da diversi sondaggi. Bersani sostiene che bisognerebbe ripartire dal suo nome, e con lui sembra d’accordo la sinistra del PD [forse non proprio tutta…]. L’oltre-PD, ben rappresentato da Il fatto quotidiano propone i nomi più votati  dai lettori: Rodotà, Imposimato, Zagrebelsky, Prodi, Bonino ecc… e poiché i primi tre non hanno quasi possibilità di essere eletti e la candidatura della Bonino appare come la solita designazione di rispetto per il personaggio e per la donna, resta il nome di Prodi. Si dice che a certe condizioni anche Berlusconi sarebbe disposto a votarlo. Bene, resta la speranza che Renzi e qualche altro illuminato tra i padri del PD, eccezionalmente alleati nell’occasione, nonché i parlamentari pentastellati, non si lascino convincere. Non ho nulla contro Romano Prodi ed in effetti bisogna riconoscere che egli ha tutti i requisiti per l’elezione: cattolico [l’alternanza laici-cattolici ha avuto sempre la sua importanza in Italia], fondatore dell’Ulivo e del PD, noto in tutto il mondo per i suoi tanti prestigiosi incarichi ben remunerati, egli si presenta come “un cavallo di razza” della politica italiana, così come l’altro ben noto “cavallo di razza” che si dice piacerebbe al presidente uscente. Mi riferisco a Giuliano Amato che però non può propriamente essere annoverato tra i cattolici.

 Di Prodi e di Amato e dei motivi che dovrebbero sconsigliarne l’elezione alla presidenza della Repubblica non ho da dire molto di più di quello che scrissi in due post della primavera del 2013, allorché si stava per eleggere il nuovo capo dello stato e si arrivò poi alla rielezione di Giorgio Napolitano. La domanda che mi ponevo allora e che a maggior ragione mi pongo oggi è: Prodi e Amato sono “cavalli di razza” o sono stati i “cavalli di Troia” di Eurogermania? Scrivevo, tra l’altro, nei post dei giorni 11 e 19 Aprile:

 “[…] chi non ricorda il già ineffabile capo dell’Ulivo, ancora il 20 Maggio del 2010 in una lettera al Messaggero, sostenere che “L’ingresso dell’Italia nell’euro rimane come uno dei punti più  alti della nostra recente storia nazionale”? Un euro nel quale siamo entrati non attraverso un referendum tra i cittadini, vietato dalla “costituzione più bella del mondo”, e per di più pagando una tassa! Chi ha dimenticato il pessimo cambio euro-lira imposto all’Italia e servilmente accettato? Chi non ricorda il dimezzamento automatico del reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati in virtù della conversione della lira in euro? Chi dimentica le dichiarazioni successive di Vincenzo Visco – a quei tempi ministro delle Finanze del governo Prodi – a Il Fatto Quotidiano, allorché rivelò che l’ingresso dell’Italia nell’euro fu voluto fortemente da Eurogermania, per evitare che la debolezza della lira favorisse il commercio dell’Italia a scapito della Francia e soprattutto della Germania, costrette a commerciare in un mondo globalizzato con una moneta più forte e dunque meno competitiva? Chi infine ha dimenticato le recenti dichiarazioni dello stesso Prodi [come Tremonti, un altro folgorato sulla strada di Damasco] circa gli enormi vantaggi che la Germania ha tratto dall’introduzione della moneta unica?

[…] Il vero scontro per il Quirinale è sempre stato quello tra Amato e Prodi, i genitori dell’euro e della sottomissione a Eurogermania, nella quale siamo entrati senza referendum tra gli italiani, ottenendo un pessimo cambio lira-euro, facendo pagare una tassa ai cittadini-sudditi e prima ancora  con un prelievo forzoso dai loro conto correnti. Un sacrificio per fare un favore a Francia e Germania, perché senza l’ingresso dell’Italia nell’euro, la moneta unica forse non sarebbe mai nata: una lira debole sarebbe stata troppo competitiva sul mercato globale, specialmente per la Germania. E lo stesso Prodi ha di recente riconosciuto gli enormi vantaggi che i tedeschi hanno ottenuto dall’introduzione dell’euro. Non ha invece ammesso quello che è sotto gli occhi di tutti: il declino italiano, oltre ad essere causato dalla corruzione, dall’evasione fiscale generalizzata, dagli sprechi e dalle ruberie della classe politica e dirigenziale, è prima di tutto una crisi determinata dalla mancanza di competitività sul mercato globale e dal circolo vizioso che si è venuto a creare: misure all’insegna del rigore per restare nell’euro, aumento delle tasse, come in nessun paese di Eurogermania, restrittività del credito per le imprese, fallimento della piccola e media industria, decrescita del PIL, recessione causata dal crollo dei consumi e dell’occupazione.


 sergio magaldi