sabato 28 febbraio 2015

GHEMATRIE DI PRESIDENTI: Sergio Mattarella e Matteo Renzi





 Sapendomi studioso di Qabbalah, Sergio Di Cori Modigliani, un intellettuale di cui apprezzo l’acume e la libertà di pensiero, mi ha rivolto una domanda per il suo blog [http://www.libero-pensiero.net/che-cosa-pensano-i-cabbalisti-elezione-sergio-mattarella/    post del 15 Febbraio u.s.] e io così ho risposto, un po’ per “gioco” e un po’ per parlare di politica.                                                                                               Domanda:

 “Il nome di Sergio Mattarella, anagrammato produce la frase ‘Matteo si rallegra’. E’ una divertente casualità sintattica dell’inconscio collettivo cosmico. Che cosa ne pensi?”

Risposta:

 Non so se l’anagramma in questione sia una “casualità sintattica dell’inconscio collettivo cosmico”, ancorché divertente. Resta la considerazione che l’energia dell’inconscio, individuale e/o collettiva, se è in grado di intuire processi cosmici con minore o maggiore approssimazione, non può tuttavia creare ex nihilo fenomeni di carattere storico, capaci di modificare la realtà, se non attraverso un’attività conscia e direzionata, che so, una rivoluzione, una sollevazione popolare o mediante il voto, democraticamente espresso, così per esempio com’è avvenuto di recente in Grecia.

 Ciò premesso, è pur vero che l’anagramma “Matteo si rallegra” si adatti unicamente all’elezione del nuovo presidente della Repubblica Italiana e che si cercherebbe forse invano, tra quelli che erano i possibili candidati per il Quirinale, un altro nome capace di rappresentare con la stessa efficacia “l’entusiasmo” di Matteo Renzi. Se ne deduce che tutto è già scritto nel grande libro della Storia e che l’uomo dispone unicamente di segni per decifrare la realtà? L’interrogativo rischia di rimanere senza risposta se si imposta la questione all’insegna del mistero, del caso e della mancanza di libertà da parte dell’uomo, ma se proviamo ad esercitare sino in fondo gli strumenti del pensiero ci si accorgerà, tanto più nel caso specifico, come razionale e irrazionale coincidano, in barba al principio di non-contraddizione di Aristotele, al principio di identità della logica formale, e in virtù del senso hegeliano del superamento della contraddizione apparente.

 Quali erano i candidati con più probabilità di essere eletti alla massima carica istituzionale? Facciamo solo qualche nome tra quelli che si sentivano ripetere con più insistenza: Prodi, Amato, Casini, Finocchiaro, Castagnetti. L’ex-segretario del PD, a pochi giorni dal voto disse che bisognava ripartire da Prodi, cioè dal candidato più illustre, per titoli interni e visibilità internazionale, ma che per Bersani si era rivelato una vera e propria pietra d’inciampo. Renzi, naturalmente, si è guardato bene dal dargli retta: Prodi, divisivo nel suo stesso partito, improponibile per gli alleati di Centrodestra e per Berlusconi, ingombrante come personaggio con cui lavorare insieme, primo attore dell’ingresso dell’Italia nell’euro e quindi osteggiato da una parte dell’opinione pubblica [non però dalla sinistra “dura e pura” e chissà perché dai Cinque Stelle, i cui parlamentari se non altro hanno avuto il merito di sostenere sino all’ultimo un degno candidato], e causa non ultima, con quel tanto di “sfiga” che la sua candidatura aveva portato alle ambizioni dell’allora segretario del Partito Democratico.

 Amato e Casini, l’incredibile coppia proposta da Alfano e Berlusconi e, sul cui rifiuto, NCD e Forza Italia si sono basati per sostenere il cosiddetto tradimento del patto del Nazareno da parte di Renzi. Eppure queste sono le forze politiche che da tempo sostengono l’elezione diretta del Capo dello Stato: come proporre ai cittadini un uomo che nella narrazione collettiva s’è introdotto nottetempo nei conto correnti degli italiani, per di più con il fine di portarci in Eurogermania? Un uomo che sa parlare ai notabili ma pochissimo alla gente? E che dire di Casini, la quintessenza della destra democristiana, sgradito agli stessi elettori di Forza Italia per essere considerato un “voltagabbana” così come Fini? Nessun tradimento del “Nazareno”, dunque da parte di Renzi il quale, dal canto suo ha sempre ribadito che l’incontro con Berlusconi non aveva altro scopo che ricercare un’intesa sulle regole, cioè le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale, allo scopo di porre fine ai governi delle “larghe intese” e di rendere possibile l’approvazione più spedita delle leggi. Si pensi a quel che accade oggi per la legge elettorale: approvata già dai due rami del Parlamento, deve tornare alla Camera e se sarà modificata andare nuovamente in Senato e “il gioco” potrebbe continuare all’infinito. Scrivevo un anno fa in merito all’incontro del Nazareno:

 “La levata di scudi di tanti epigoni di DC e PC nasconde in realtà propositi detti e non detti, una sostanziale mancanza di spirito democratico e una instancabile determinazione a lasciare che l’Italia vada in malora, purché trovino sfogo rancori personali e siano soddisfatti piccoli interessi di retrobottega. Con loro, i tanti giornalisti, più o meno schierati sul fronte del centro-sinistra, onnipresenti  nei Talk show e sempre pronti a dare eco alla “voce del padrone”, di coloro cioè che si preoccupano che la “stabilità cimiteriale” del Paese possa essere alterata. Persino Travaglio, di cui non si può certo dubitare l’avversione a Berlusconi e al berlusconismo, ha ritenuto che per Renzi non vi fossero alternative. Ma i benpensanti non sono di questo avviso, e ritengono che la mossa di Renzi, resuscita Berlusconi, fa uno sgarbo ad Alfano e affonda Letta. Per non parlare dei commenti dei politici del Nuovo Centro Destra all’annuncio dell’incontro del Nazareno: dalle minacce, si passa con disinvoltura a similitudini come quella che non avrei mai creduto di udire e cioè che, con l’accordo tra Renzi e Berlusconi, saremmo di fronte ad un nuovo patto scellerato Stalin-Von Ribbentrop!”

 Nessun accordo, dunque, sul futuro Capo dello Stato, tanto più che allora non era prevedibile un’uscita di scena tanto repentina da parte di Napolitano, rieletto da appena sei mesi. Che in seguito se ne sia parlato è probabile, ma nulla di più dell’idea di cercare un candidato da condividere. Poteva Renzi cadere nell’ingenuo tranello di accettare i nomi impopolari di Amato o di Casini? C’è di più: dalla ricostruzione attendibile dei retroscena emerge che Berlusconi abbia contattato D’Alema e Bersani ad insaputa di Renzi e ne abbia ottenuto in cambio una sostanziale adesione della minoranza del PD sul nome di Amato. Ce n’era quanto bastava perché Renzi rompesse gli indugi.

 La senatrice Anna Finocchiaro poteva essere un’alternativa. L’idea di eleggere finalmente una donna al Quirinale era seducente per Renzi - al di là degli scambi poco cortesi che i due si erano rivolti in passato - anche in considerazione del buon rapporto che, in occasione della stesura della nuova legge elettorale, si è creato tra la senatrice e il ministro Maria Elena Boschi. Ma Bersani ha pubblicamente sostenuto che la scelta di un ex DS o peggio ancora di un ex PC avrebbe aperto la stura ai “veti incrociati”, per questioni di rivalità, all’interno del Partito Democratico. Senza contare l’importanza che in Italia ha sempre avuto “Il fattore C” nell’elezione del presidente della repubblica, l’alternanza cioè di laici e cattolici alla guida del Paese. Dopo i 9 anni di Napolitano e i 7 di Ciampi, al netto di ogni altra questione, sarebbe stato opportuno, dopo Scalfaro, riportare finalmente un cattolico al Colle. Magari un uomo che non fosse stato direttamente responsabile dell’ingresso nell’euro e/o che per una ragione o per l’altra si fosse tenuto lontano dalla politica militante degli ultimi anni. In questa prospettiva, già un po’ di tempo prima, era stata lanciata l’ipotesi Pierluigi Castagnetti, tanto per tastare il terreno. Ma anche per evitare i tanti “Castagnetti chi?” dei cittadini più giovani, ecco l’idea vincente di Matteo Renzi. Sergio Mattarella, lontano dalla politica da circa vent’anni, ha i requisiti migliori: fratello di Piersanti Mattarella che fu assassinato dalla mafia, noto ancora oggi per la legge elettorale denominata “Mattarellum”, giudice costituzionale e soprattutto cattolico di sinistra della corrente di Aldo Moro, il democristiano che gli italiani ricordano con più rispetto per la sua vita e soprattutto per la sua morte. Così Renzi chiude il cerchio. Ristabilisce l’unità del partito che, dopo i 16 anni di Ciampi e Napolitano, non poteva dire di no all’elezione di un cattolico, sinceramente democratico e antifascista. Propone al NCD e a Forza Italia un candidato non sospetto di essere stato concordato al “Nazareno”, apparentemente in regola - ricambiando astuzia con astuzia - con i requisiti pretesi da Berlusconi [né divisivo, né un ex comunista, pur sapendo che in realtà quella dei cosiddetti cattocomunisti è sempre stata la corrente democristiana meno amata dall’elettorato di centro e di destra], tant’è che alla fine, pur tra sofismi e mugugni, lo vota anche Alfano, e Berlusconi indica la scheda bianca, mentre quaranta dei suoi nel segreto dell’urna non fanno mancare il loro appoggio a Sergio Mattarella. Ripristina infine una tradizione culturale cara ai suoi padri, perché se è vero che per ragioni anagrafiche Renzi non è mai stato democristiano e che ha irriso più volte a certe “democristianerie” di suoi compagni di partito, è pur vero che egli si ricolleghi idealmente al cattolicesimo socialmente impegnato di Giuseppe Dossetti e dei toscani come lui, Giorgio La Pira, Amintore Fanfani e padre Ernesto Balducci.   

 Non si vede, dunque, perché Matteo Renzi non dovrebbe rallegrarsi per l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale! La razionalità dei fatti e delle analisi coincide qui perfettamente con l’irrazionalità dell’anagramma, che in virtù della permutazione delle lettere può essere considerato [dal greco ana, sopra e gramma, lettera] un esempio per così dire essoterico di Ghematria, laddove sappiamo che quest’ultima è parte integrante della Qabbalah [questa l’unica trascrizione esatta della parola ebraica, formata da sinistra a destra dalle lettere consonanti Quf=Q, una Beit con daghesh forte, cioè con un punto nel corpo della consonante per rappresentarne il raddoppio=BB, che in ebraico non si scrive ancorché si pronunci, una Lamed=L, una Hey=H]. La Qabbalah può essere definita come la mistica dell’ebraismo o come l’esoterismo della Torah. In questo ambito, la Ghematria è uno strumento efficace per interpretare la realtà, partendo dal presupposto che tutto nell’universo è misura e che ogni lettera dell’alfabeto ebraico rimanda ad un numero. Con la conseguenza che l’uso più frequente della Ghematria è rappresentato dal porre in relazione parole e frasi aventi lo stesso valore numerico, per coglierne il significato comune e/o mostrare aspetti solo apparentemente diversi della medesima realtà. Da questo punto di vista, il Sefer Yetzirà, che può essere considerato il primo trattato di Qabbalah scritta, ci dice che le lettere sono altrettante pietre con le quali è stato costruito l’edificio del mondo. Ogni singola lettera è dunque di per sé creativa, significativa e misurabile.

 Ciò premesso, vediamo cosa succede se applichiamo gli strumenti della Ghematria al nome di Sergio Mattarella. Procediamo innanzi tutto con la traslitterazione delle lettere italiane nelle corrispondenti lettere [consonanti] dell’ebraico biblico: partendo da sinistra a destra abbiamo una Mem, una Tet doppia, una Resh, una Lamed doppia. In termini numerici 40+18+200+60=318. Applicando la riduzione teosofica dell’esoterismo occidentale o il Mispar Qatan o Numero piccolo della tradizione ebraica si ha:3+1+8=12. Mattarella è il dodicesimo presidente della Repubblica Italiana. Ripetiamo l’operazione col nome Sergio: una Samekh, una Resh, una Ghimel, una Yud, una Vav, cioè 60+200+3+10+6=279 e ancora 2+7+9=18, quindi 1+8=9. Se ora applichiamo il Mispar Qatan al nome e al cognome abbiamo 9+1+2=12. Se si procede allo stesso modo con i nomi degli altri candidati sopra citati non si troverà il 12 in nessuno di loro.

 Esaminiamo ora il cognome Mattarella alla luce del Mispar Echrakhi o Numero dovuto, cioè il 318. Questo numero corrisponde a quello di Eliezer che si scrive con Alef, Lamed, Yud, Ain, Zain, Resh cioè 1+30+10+70+7+200=318. Eliezer in ebraico significa Dio è il mio aiuto ed è il nome di undici personaggi biblici, di alcuni maestri talmudici e di Lazzaro, il fratello di Marta e Maria di Betania che si dice Gesù Cristo abbia fatto risorgere. Per strana [ma non tanto strana…] ironia, un commentatore TV ha detto che Matteo Renzi facendo eleggere Mattarella ne ha fatto una sorta di Lazzaro, resuscitandolo alla politica dopo un lungo letargo.

 Il più noto Eliezer biblico è il servo fedele di cui Abramo, il primo patriarca, si rallegrò sempre. Servo per modo di dire perché Eliezer fu per lungo tempo, secondo la legge allora vigente, erede del patriarca prima che questi avesse figli. Rashi di Troyes riportando il versetto 14,14 di Genesi [“Quando Abramo seppe che suo fratello era stato preso prigioniero, armò i suoi uomini addestrati, servi nati nella sua casa, in numero di 318…”], così ne commenta una parte:”In numero di trecentodiciotto – I nostri rabbini hanno detto che, in realtà, si trattava solo di Eliezer, il cui nome ha il valore numerico di trecentodiciotto”.

 Tra i maestri del Talmud di nome Eliezer, spicca rabbi Eliezer Ben Hyrcanus, noto per essere uno dei più saggi tannaim e un nazareno. Nell’ambito dei servitori di stato e dei precettori, se sommiamo il numero del nome e del cognome del nuovo Capo dello Stato abbiamo 318+279=597, che corrisponde al valore numerico della frase “Vayehi omen et Hadassa” che significa “Ed era il precettore di Hadassa”. Hadassa è l’altro nome di Ester, di cui all’omonimo libro biblico e alla festa ebraica di Purim: l’equivalente del nostro Carnevale, che nel calendario gregoriano anticipa sempre il Purim e che quest’anno va dal 1 [il giorno dopo l’elezione di Mattarella] al 17 Febbraio.                                                                                                      
  Ancora, se togliamo la lettera finale dal nome del Presidente, una Vav=6, il numero complessivo del nome e cognome diventa 591 che corrisponde alla frase “Vaimlokh Baedom Bela Ben Beor”, cioè: “E Bela figlio di Beor regnò su Edom” e richiama il versetto 36,32 di Genesi: “Regnò in Edom Bela, figlio di Beor, e la sua città si chiamava Dinhavah”. Il nome della città da cui proviene il primo re di Edom è composto dalle parola Din, un altro nome della Sephirah Gheburah dell’Albero della vita [o Albero delle Sephirot], che significa severità e rigore e dalla parola Ahavah che significa amore. Dunque, Amore per il rigore, a sottolineare l’elemento che affrettò la caduta del primo regno di Edom. Se dovessimo utilizzare il concetto, il significato evidente sarebbe che il nuovo presidente sarà purtroppo il primo cittadino di uno stato condotto all’insegna del rigore e dell’austerità.

 Se facciamo la stessa operazione, togliendo però questa volta la lettera finale del cognome, cioè una Lamed=30, il numero complessivo diventa 567 che è il numero di Sekhel  Bahir, in Qabbalah il 12° dei 32 Sentieri della Sapienza. Di nuovo perciò con riferimento al dodicesimo presidente della Repubblica Italiana.

 I “giochi” di Ghematria potrebbero continuare all’infinito, ma non c’è dubbio che l’anagramma “Matteo si rallegra” sia sufficiente di per sé ad esprimere l’apparente paradosso del connubio di razionale e irrazionale, di realtà e coincidenze.

 Termina qui la mia risposta alla domanda. Aggiungo ora qualche informazione per chi sia curioso di conoscere le ghematrie del nome e cognome dell’altro presidente: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi. Naturalmente, anche sul nome dell’ex sindaco fiorentino circolano da tempo alcuni anagrammi di senso compiuto. I più noti e “calzanti” per gli estimatori del presidente sono: “Meritato zen”, “Età ritmo zen”, “Rottami e zen”, nonché per i suoi detrattori: “È zen ma trito”, “Temo zar in te”.

 Com’è noto, lo zen, la parola che ricorre in gran parte degli anagrammi di Matteo Renzi, è una filosofia di vita ma è anche l’unica filosofia senza una vera e propria speculazione mentale e la formulazione di pensieri articolati. È bensì una modalità semplice di affrontare i problemi dell’esistenza, basata unicamente sul “qui e adesso” e che confida nell’esperienza privilegiata del satori, cioè nella capacità intuitiva di comprensione della realtà. Naturalmente, lo zen è anche altro, ma non è certo questo il luogo per parlarne.

 Il nome Matteo, traslitterando in ebraico le lettere che lo compongono, è formato da una Mem, una Tet doppia, una Waw, in termini numerici: 40+9+9+6=64. Una delle sue ghematrie è Chotama che significa naso ed è formata dalle lettere Heth, Waw, Tet, Mem e Alef, cioè 8+6+9+40+1=64. Chotama è uno dei 7 Tikkunim [plurale di Tikkun, lo strumento che serve a riparare un danno e/o a ripristinare un ordine preesistente andato distrutto] di Gulgalta [termine aramaico che significa “Cranio”]. Si lega all’olfatto e alla capacità di cogliere la realtà attraverso questo senso. Come dire di qualcuno “che ha fiuto”. Se ora procediamo con il Mispar Qatan si ha 6+4=10. Questo numero è, tra l’altro, la ghematria di Gavah [Ghimel, Beth, He, cioè 3+2+5=10] che significa alto, esaltato; di Aat [Alef, Tet, cioè 1+9=10] che vuol dire adagio; e di Badad [Beth, Daleth, Daleth, cioè 2+4+4=10] isolamento, in italiano. Ne nasce un monito: considerarsi in alto [Gavah] è pericoloso, occorre procedere con cautela [Aat], altrimenti si finisce nell’isolamento [Badad].

 Il cognome Renzi, procedendo con la traslitterazione, è composto da Resh, Nun, Zain e Yud, cioè 200+50+7+10=267, di cui fra l’altro alle ghematrie di Merkaz, centro e di Merkavah, carro. Un riferimento per quanti considerano Renzi al centro dello schieramento politico e/o come chi procede nelle sue azioni come un “carro armato”: la parola ebraica designa infatti il carro armato in dotazione all’esercito israeliano. Ma, attenzione, perché la Merkavah [più esattamente la Ma’aseh Merkavah] è anche il carro delle visioni di Ezechiele e rappresenta una rara capacità di ascesa. Il Mispar Qatan, a sua volta, è 2+7+6=15 con le ghematrie significative di Hod, gloria, ottava sephirah dell’Albero della vita, Aviv, primavera e Ga’avah, orgoglio. Applicando ancora il Mispar Qatan abbiamo: 1+5=6, con la ghematria di Bad, bugia, che è anche la radice che indica separazione e isolamento. In altri termini: la bugia determina a lungo andare il rischio di restare da soli.

 Infine, sommando il valore del nome e del cognome [Matteo Renzi] si ha 64+267=331, la cui ghematria più interessante è Efraim [Aleph, Pe, Resh, Yud, Mem, 1+80+200+10+40=331], il figlio minore del Giuseppe biblico, figlio a sua volta di Giacobbe. Il nome di Efraim si riferisce anche ad una delle 12 tribù di Israele. In Genesi, 48 si narra la singolare e fortunata imposizione di potere che Efraim ricevette dal patriarca Giacobbe, suo nonno, detto anche Israele:

 8 Poi Israele vide i figli di Giuseppe e disse: «Chi sono questi?». 9 Giuseppe disse al padre: «Sono i figli che Dio mi ha dati qui». Riprese: «Portameli perché io li benedica!». 10 Ora gli occhi di Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere. Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò. 11 Israele disse a Giuseppe: «Io non pensavo più di vedere la tua faccia ed ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!». 12 Allora Giuseppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. 13 Poi li prese tutti e due, Efraim con la sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra di Israele, e li avvicinò a lui. 14 Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito.17 Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di Efraim e ciò gli spiacque. Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di Efraim e porla sul capo di Manasse. 18 Disse al padre: «Non così, padre mio: è questo il primogenito, posa la destra sul suo capo!». 19 Ma il padre ricusò e disse: «Lo so, figlio mio, lo so: anch'egli diventerà un popolo, anch'egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni».

Efraim, di Francesco Hayez [1791-1882] pittore veneziano



 Insomma, Efraim fu prescelto, nonostante che suo fratello Manasse vantasse più diritti di lui. I profeti Isaia e Osea non furono teneri con Efraim. In particolare, Osea lo paragonò a una focaccia non rivoltata, troppo cotta o bruciata sotto, ma cruda di sopra [Osea, 7,8]. Di lui disse ancora che era schiacciato dalla colpa da quando aveva cominciato a inseguire il nulla [5,11]. Che si era prostituito [5,3]. Che gli stranieri gli avevano tolto ogni energia, mentre lui neanche se ne era accorto, comportandosi da ingenua colomba priva di intelligenza [Osea, 7,9-11]. Non migliore reputazione, anche a torto, toccò gli efraimiti, che il profeta Isaia descrive come “orgogliosi ubriaconi”.

 Le ghematrie di Sergio Mattarella e di Matteo Renzi conducono dunque rispettivamente ai personaggi biblici di Eliezer [Lazzaro] e di Efraim e, nota curiosa, si chiamava Efraim, presso Betel, la località semidesertica dove Gesù si ritirò con i discepoli, dopo aver risuscitato Lazzaro dal sepolcro.

 Infine, di buon auspicio per il presidente del consiglio, applicando il Mispar Qatan al suo nome e cognome abbiamo 3+3+1=7, la cui più importante ghematria è Gad [Ghimel, Daleth, 3+4=7]. Nome e numero che portano fortuna. Un Gad fu profeta, consigliere e ministro di David, ma il Gad più famoso è il settimo figlio di Giacobbe e di Zilpa, ancella di Lia, la quale vedendolo nascere gridò: “Per fortuna!”. Gad è anche il nome di un’ altra delle 12 tribù di Isreale, quella che più di altre fu celebrata per il suo valore e per la sua combattività. E con ciò termino davvero “i giochi” di ghematria che mi sono stati sollecitati da una domanda.

sergio magaldi














venerdì 20 febbraio 2015

IO SONO IL MESSAGGERO

Markus, Zusak, Io sono il messaggero [The Messenger], Frassinelli, 2015, pp. 404



 Prendete il mazzo delle carte francesi e ordinatelo secondo la successione dei quattro semi, a cominciare dal seme di quadri, per continuare con fiori, picche e cuori. Avrete quattro mazzetti, ciascuno formato da 13 carte, con alla testa un asso per ogni mazzetto. Alla fine aggiungete un jolly e vi appare lo schema narrativo utilizzato dallo scrittore australiano Markus Zusak per il suo romanzo. Gli assi, in ottica divinatoria, in tutti i tipi di carte e anche nei tarocchi, rappresentano lettere, messaggi e notizie.

 Ed Kennedy è un giovane tassista che vive con il Portinaio, un cane vecchio e robusto che puzza tanto, ma che forse è per lui il migliore amico. Per la verità, di amici Ed ne ha pochi e l’amore lo fa di rado e neanche gli riesce bene. Sua madre sembra detestarlo perché troppo gli ricorda il marito e Audrey, la ragazza di cui è innamorato, è sì una buona amica ma l’amore lo fa con un altro.

 L’aver contribuito alla cattura di un rapinatore di banche offre ad Ed l’opportunità per uscire dall’esistenza anonima. E gli arriva il primo messaggio: la carta dell’asso di quadri sulla quale sono scritti tre indirizzi. Vi si reca, e da ognuna delle case, semplicemente osservando le persone che vi abitano, apprende quale deve essere il suo compito. Ricondurre alla ragione o costringere alla fuga un uomo prepotente che batte e stupra la moglie di fronte alla figlioletta; consolare Mila, una donna anziana che vive in solitudine, e che crede di rivedere in lui Jimmy, il ragazzo di cui è sempre stata innamorata e che è morto a 25 anni durante la seconda guerra mondiale e… così via. Ed si chiede chi sia il mandante del messaggio ma intanto porta a compimento, da angelo o buon messaggero, quello che ci si attende da lui.

 Ed ecco giungergli il secondo messaggio: un asso di fiori, la carta dal significato inquietante perché annuncia difficoltà, contrasti e pericoli. A recapitarla, insieme ad una lettera, sono due energumeni che gli mettono a soqquadro la casa e lo riempiono di botte. Eppure il contenuto della lettera sembra premiarlo, riconoscendo il suo merito:

 “Caro Ed,
    se stai leggendo queste parole, a quanto pare va tutto bene. Naturalmente spero che la testa non ti faccia troppo male. Senza dubbio Keith e Darly ti avranno detto  che siamo molto soddisfatti dei tuoi progressi[…].Hai gestito la faccenda in modo pulito, senza intoppi. Notevole, davvero.
  Congratulazioni.
  […].Adeso ti attendono altre sfide.
  I fiori non sono una passeggiata, figliolo.
 La domanda è: sei all’altezza della situazione?
 O forse è una domanda irrilevante? Di sicuro, non eri all’altezza dell’asso di quadri.
  Ma te la sei cavata.
 Buona fortuna, e continua a riferire i messaggi. Ti renderai conto che la tua vita dipende da questo.
  Ciao”.

 Il compito di Ed si fa sempre più difficile con l’arrivo dell’asso di picche, sul cui significato di notizie spiacevoli e sconcertanti, c’è poco da dubitare. L’arrivo dell’asso di cuori lo costringerà ad occuparsi di questioni affettive, sue e degli amici. Infine, ecco per ultimo arrivare il Jolly. Il messaggio questa volta lo riguarda personalmente. La carta discende direttamente dal Matto dei tarocchi, ne è per così dire la versione essoterica.







 La carta sembra invitarlo ad affrontare la vita senza inutili prudenze, paure e tentennamenti. Il sorriso del Jolly ricorda quello del suo antenato che avanza lieto, seguito da un cane e senza curarsi del precipizio. Affrontare la vita con leggerezza e semplicità non è incoscienza: se le nostre intenzioni sono giuste e sincere, procedere come il Matto dei tarocchi è il solo modo per riuscire ad andare anche oltre le nostre capacità, senza preoccuparsi di ciò che potrebbe accadere. 

 Sorridi alla vita sembra dire il Jolly e avrai la giusta ricompensa. Non prendere la vita troppo sul serio, ammonisce il Matto, tanto alla fine non ne uscirai vivo. Il messaggero alla fine è divenuto il messaggio: una nuova vita e un nuovo inizio attendono ora Ed Kennedy.






 Certo, il nuovo romanzo di Zusak [in realtà si tratta della riscrittura di un libro pubblicato anni fa senza molta fortuna] non raggiunge l’intensità di Storia di una ladra di libri, e neppure ne possiede la complessità drammatica e storica [leggi il post del film Una ladra di libri al tempo di Hitler, cliccando sul titolo], ma è pur sempre, con la sua trama scarna di vago sapore kafkiano, il tentativo di una nuova eticità. Tutti siamo in gradi di decifrare i messaggi che ci arrivano, inviati non si sa bene da chi. Se ci sforziamo di comprenderli e di portarli a compimento, anche noi avremo il nostro Jolly. 

sergio magaldi

martedì 17 febbraio 2015

GIORDANO BRUNO 17-02-1600 - 17-02-2015









 A 415 anni dalle fiamme che spensero la vita di Giordano Bruno, ma non il suo pensiero, che da quel rogo si levò con più forza che mai, ripropongo il seguente intervento presentato ad uno dei tanti convegni sul Nolano. Benché da allora siano trascorsi alcuni anni, le parole contenute in quella relazione mi sembrano quanto mai attuali.

A   
S.M.


GIORDANO BRUNO UOMO UNIVERSALE MARTIRE DEL LIBERO PENSIERO… ?

- Relazione di GIOELE MAGALDI

 Il tema del convegno è perentorio, non ammette punti interrogativi o forse, più saggiamente, li lascia alla discrezione dei relatori…

 Senza abusare di tale libertà e auspicando di fare cosa utile (magari riconquistando alla fine ciò che è stato messo in discussione all’inizio) vorrei dunque invitare a questi lavori un personaggio di provata onestà e schiettezza: sua eccellenza il “dubbio”. E vorrei fargli assumere i panni vetusti ancorché fascinosi di quel tal filosofo di nome Socrate, il quale aveva una pessima abitudine… Sì, poiché l’ateniese, posto davanti ad una frase, un discorso, un concetto che il suo interlocutore ostentava come cosa ovvia, domandava sempre: Ti estì (Che cos’è? Che intendi dire?). Fuor di metafora: siamo proprio sicuri che Giordano Bruno, bruciato vivo quattrocento anni or sono, abbia voluto essere e sia stato “uomo universale” e “martire del libero pensiero”? E ancora: quando è nata quest’idea, questo giudizio così solenne e impegnativo per un uomo che si autodefiniva “…esule, fuggiasco, zimbello di fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall’odio della folla…”[1]. E per finire: nata e affermatasi l’affascinante visione di un uomo morto a difesa della libertà di “pensare” e “conoscere” da parte dei suoi simili, si ha memoria di taluno che abbia osato revocare in dubbio un così edificante ritratto del filosofo nolano?

 Rispondere a questi interrogativi appare a chi scrive di vitale importanza.

 La domanda più semplice è quella che dice “quando?“ Ebbene la risposta più ragionevole e scontata intonerebbe così: Il 9 giugno 1889 veniva inaugurato a Roma, in Campo dei Fiori, il monumento a Giordano Bruno, il quale veniva acclamato martire del libero pensiero e della libertà di coscienza.
Quest’atto ufficiale sanzionava una mobilitazione di idee, progetti, iniziative degli anni precedenti, a partire dalla proposta commemorativa di Alfredo Comandini nel 1876.
Nel 1880 era stata fondata in Italia l’Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”.
Nel 1885 veniva istituito, sempre in Italia, un Comitato promotore del monumento da erigere a Campo dei Fiori…E ancora nel 1885, questo stesso comitato metteva in circolazione un volume (“numero unico a benefizio del fondo per il monumento”) che raccoglieva importanti adesioni e interventi a favore dell’iniziativa, da parte di illustri firme del mondo intellettuale nazionale e internazionale. E non solo. Da qui al 1889 sarà tutto un rigoglioso fiorire di opuscoli e libelli di varia origine e provenienza…

 Intorno all’imminente omaggio da offrire al filosofo italiano si era mobilitato un complesso coacervo di posizioni politiche, civili e culturali, su cui, comunque, fra tutte spiccava una presenza: quella massonica.

 La Massoneria italiana, sotto la gran maestranza di Adriano Lemmi, insediato per l’appunto nel 1885, seppe dare la forza propulsiva necessaria al buon esito del progetto. Un progetto su cui Lemmi riuscì a convogliare ed aggregare personalità distanti se non pure ostili tra loro. Ma tutto questo è storia, comprese le “prudenze” e i tatticismi che impedirono la presenza ufficiale del governo e del “fratello” Francesco Crispi -che quel governo presiedeva- il giorno dell’inaugurazione del monumento. E ciò, nonostante la decisione parlamentare che la Camera dei deputati fosse rappresentata ufficialmente il 9 giugno a Campo de’ Fiori.

 Chi legga spassionatamente quegli eventi, vedrà chiaramente come la figura del grande pensatore e l’idea della sua celebrazione fossero intimamente legati, per fautori e detrattori, al dibattito civile e politico contemporaneo. Negli stessi anni, il mondo degli storici e dei filosofi vede uno sviluppo determinante degli studi bruniani. Dalla edizione tedesca paradiplomatica dei  Dialoghi Italiani e del Candelaio, curata dal Lagarde nel 1889, all’edizione nazionale italiana delle opere latine, tra il 1879 e il 1891, curata da Fiorentino, Tocco, Vitelli, Imbriani e Tallarigo; dalle monografie di Levi, Berti, Tocco e Fiorentino ai saggi di Giovanni Gentile -curatore, peraltro, della prima edizione nazionale dei Dialoghi Italiani- è tutto un operoso variare, virtuoso ma solidale, su una tesi precisa.

 Una tesi che aveva visto come iniziatore Bertrando Spaventa, negli anni Sessanta dell’Ottocento: Giordano Bruno è un eroe del pensiero, un Prometeo della filosofia della libertà…

 Spaventa e i suoi epigoni, dichiarati o dissimulati, fino a Gentile, investigheranno variamente il pensiero e le opere dell’illustre nolano; tutti, in un modo o nell’altro, al termine della loro sintesi intoneranno il medesimo peana: ecco il moderno profeta della nuova scienza, il precursore della filosofia moderna, il martire del libero pensiero.

 L’interpretazione della società civile, massoneria in testa, e l’interpretazione storico-filosofica convergevano quindi, negli stessi anni decisivi su una precisa e scultorea immagine. Semplice coincidenza? Non sembra…

 Il Giordano Bruno del Grande Oriente d’Italia, delle società radicali, positiviste e razionaliste, delle associazioni studentesche, dei comitati repubblicani e socialisti, di Giovanni Bovio, il quale dichiarò che il 9 Giugno, a Roma, era stata incisa “per consenso di genti libere, la data della religione del pensiero”; questo Bruno, dicevo, era pressoché indistinguibile dall’altro, il Bruno degli “addetti ai lavori”, degli accademici insomma. Ed  era indistinguibile poiché, in entrambi i casi, il fine era simile. Da un lato occorreva un simbolo, un’icona, un’immagine potente che coagulasse intorno a sé le aspettative, le ansie, le ambizioni e le paure di certa società laica - stretta tra le ambiguità e i conservatorismi della Corte e del governo (financo dei massoni “governativi”) e il pericolo sempre temuto di una revanche clericale, magari all’ombra di nuovi accordi tra trono e altare - dall’altra parte l’obiettivo era nientemeno che la nobilitazione filosofica e scientifica della giovanissima nazione italiana.

 La filosofia italiana, l’aveva ben detto per primo Bertrando Spaventa, aveva anticipato gli sviluppi della filosofia europea tutta. Di qui, dall’Italia, erano venute le primizie che avrebbero poi invaso il “mercato della modernità” e quindi ecco Telesio e Campanella precursori di Bacone e Locke; Campanella precursore anche di Cartesio; e Bruno, anticipatore di Spinoza e Leibniz, sacerdote della libertà filosofica, che, sola, avrebbe consentito il progressivo dispiegarsi della Ragione, della Civiltà e della Scienza moderna. Finalmente il quadro è ben designato: gli uni e gli altri, gli studiosi e gli ammiratori, studenti e professori, politici e scrittori, artisti, commercianti e professionisti hanno trovato un vessillo che li accomuna; e ciò all’interno di una nazione appena nata che, oltre a santi e navigatori, ha bisogno anche di filosofi e martiri. I governanti osservano plaudenti l’operazione accademica, benigni ma prudenti quella massonica, preoccupati, ma non troppo, quella repubblicana, socialista e radicale, talvolta utile spauracchio per ammorbidire l’intransigenza pontificia.
 Dopo tre secoli di vita fertile ma sotterranea, di trafelati commenti negli Epistolari dei “dotti” e plagi inconfessati nelle loro opere, Bruno rientrava nell’ufficialità dalla porta principale, magari sovraccarico di addobbi e lustrini. Il mito è nato.

 Già, ma si trattava solamente di un mito? Voglio dire, al di là della chiara utilizzazione in chiave ideologica del simbolo “Giordano Bruno”, non è che magari un’analisi ampia, filologicamente e storicamente impeccabile avrebbe potuto mostrare una sorprendente affinità fra l’uomo in carne ossa e pensieri e il suo ‘Golem’, fabbricato nella seconda metà dell’Ottocento?

 Rimandiamo di qualche riga la soluzione di questo dilemma e cimentiamoci piuttosto nell’altro dei tre quesiti che ponevo all’inizio. Chi e con quali argomenti ha contestato un ritratto così fortemente mitologico? Intendo dire, evidenti a tutti gli intrecci politici, civili e culturali propulsivi dell’operazione bruniana di fine Ottocento, in che modo è stata valutata la distanza di quell’ “effigie” dal suo originale? In nessun modo. Tutti, indistintamente, “maggiori e minori” della storiografia bruniana della seconda metà del Novecento hanno ragionato in termini tautologici. L’icona era falsa in modo autoevidente, ecco tutto. Non c’era bisogno di raffinate confutazioni o analisi. Il Bruno del 1889 se l’erano inventato i massoni, gli anticlericali scalmanati, i liberali e i radicali di fine Ottocento, gente dabbene ma un po’ sprovveduta e grossière, maldestramente ignorante del “vero” Giordano Bruno. A chi interessa constatare quanto vado affermando basterà consultare l’ingente bibliografia bruniana degli ultimi cinquant’anni. Ma, a riprova di quanto tetragono, unilineare e influente sia stato questo atteggiamento, occorre mettere il naso anche al di là della storiografia strettamente bruniana.

 Aldo A. Mola, il più insigne storico della Massoneria Italiana, va ancora oltre nello smascherare la “messinscena” del 9 Giugno 1889: “Ripetere che il pensiero del filosofo cinquecentesco fu strumentalizzato dalla Massoneria e subordinato a una interpretazione ‘mitica e allegorica’ della sua vicenda (arrestato dolosamente, interrogato dall’implacabile Tribunale inquisitorio del Santo Uffizio, condannato a morte per eresia e arso vivo in Campo de’ Fiori, a Roma, il 17 febbraio 1600) è ormai superfluo (…) Non v’era insomma una ragione particolarmente valida e convincente perché proprio Giordano Bruno, per un periodo incredibilmente lungo e non ancora chiuso nel ricordo e nei fremiti di taluni Fratelli, dovesse divenire la bandiera ufficiale della Massoneria. Solo la scarsa conoscenza della storia dell’Ordine in Italia e il desiderio, filologicamente opinabile, di elevare agli onori del G.. O.. d’Italia una figura di prestigio internazionale che potesse reggere al confronto con Voltaire e Goethe spianò la via al mito di Bruno, precursore dell’anticurialismo certo, di un sofferto e discontinuo anticattolicismo forse, ma della Massoneria Italiana post-unitaria certamente no, né della Libera Muratoria in quanto tale.”[2]

 Ecco... Tanto varrebbe, dunque, mettere fine a questa imbarazzante farsa, annullare convegni, seminari e commosse celebrazioni, tutte iniziative originate all’ombra di un equivoco e di una maldestra falsificazione? Sì, se la frettolosa unanimità di certe valutazioni culturali fosse sinonimo di verità storica. Ma così non ci pare che sia né debba essere. E allora proviamo a rispondere all’ultimo dei quesiti posti all’inizio, rimasto finora in sospeso. Tra il mito ottocentesco di “Giordano Bruno uomo universale martire del libero pensiero” tutt’ora vivo a più di un secolo dalla sua nascita (tanto da essere epigrafe ufficiale di questo convegno) e il filosofo nolano che visse in quella turbolenta Europa di fine Cinquecento, esiste una solida, fondata connessione, al di là di strumentalismi e arruolamenti d’ufficio? Ancora: è proprio vero che, come dice Aldo Mola, fu solo una puerile ignoranza ambiziosa a spianare la via al mito di Bruno precursore della Libera Muratoria? Quella che segue vuole essere la dimostrazione di uno straordinario paradosso. Quei padri fondatori dell’icona bruniana di fine Ottocento avevano ragioni da vendere. Certo essi arruolarono ideologicamente il filosofo italiano, ma all’ombra di una acutissima intuizione. Nessuno più di Giordano Bruno aveva espresso a chiare lettere nei suoi scritti gli ideali che erano alla base della gestazione secentesca della massoneria speculativa moderna, della sua nascita ufficiale nel 1717 e che sarebbero rimasti alla fine dell’Ottocento, così come oggi, i fondamenti generali della massoneria universale, anche al di là della suddivisione in differenti obbedienze. E oltre la massoneria stessa, il pensiero bruniano costituisce un possente e originale richiamo, specie per l’epoca in cui fu concepito, al rispetto e all’amore per la straordinaria varietà del reale. Rispetto e amore, dunque, per le diverse opinioni, civiltà, religioni e filosofie che l’eterna vicenda umana vede dispiegarsi; in una concezione del tempo che esclude “cadute” e “giudizi universali”, rifiuta evoluzionismi e involuzionismi, ma tutto vede relativizzarsi nella infinita potenza divina di cui ogni essere vivente è un frammento, artefice responsabile ma finito del proprio infinito destino.

 A testimonianza di ciò chiamerò ora a parlare non già la drammatica vicenda della prigionia e della tragica morte del Nolano, troppo spesso abusata chiave di lettura unilaterale e riduttiva d’una esperienza assai complessa; no, a parlare sarà Giordano Bruno in persona, con buona pace di chi non ha avuto la pazienza di ascoltarlo prima, potendo evitare così giudizi frettolosi.

 E’ il 1583 e Bruno così si presenta: “… proclamatore di una filantropia universale, che non preferisce gli Italiani ai Britanni, i maschi alle femmine, le teste mitrate a quelle incoronate, gli uomini di toga a quelli d’arme, coloro che portano il saio a coloro che non lo portano, ma colui che è più temperante, più civile, più leale, più capace; che non prende in considerazione la testa unta, la fronte segnata, le mani lavate, il pene circonciso, ma (e ciò permette di conoscere l’uomo dal viso) la cultura della mente e dell’anima. Che è odiato dai propagatori d’idiozie e dagli ipocriti, ma ricercato dagli onesti e dagli studiosi…”[3]

 Un anno prima, nel dialogo introduttivo del De Umbris Idearum, afferma: “… il nostro ingegno non ci vincola ad un particolare genere di filosofia altrui, e non ci fa disprezzare in generale nessuna strada filosofica…”[4]. Nella Cena delle Ceneri, biasimando l’idiozia di chi odia e combatte gli “altri” per la diversità di cultura e religione: “… crescemo et siamo allevati co la disciplina et consuetudine di nostra casa, et non meno noi udiamo biasimare le leggi, gli riti, le fede, et gli costumi de nostri adversarii, et alieni da noi: che quelli de noi, et di cose nostre. Non meno in noi si piantano per forza di certa naturale nutritura le radici del zelo di cose nostre: che in quelli altri molti, et diversi de le sue. Quindi facilmente ha possuto porsi in consuetudine, che i nostri stimino far un sacrificio agli dei, quando arranno oppressi, uccisi, debellati, et sassinati gli nemici de la fé nostra: non meno che quelli altri tutti quando arran fatto il simile a noi. Et non con minor fervore et persuasione di certezza quelli ringraziano Idio d’aver quel lume per il quale si promettono eterna vita: che noi rendiamo grazie di non essere in quella cecità et tenebre ch’essi sono…”[5]

 E ancora sulla necessità di apportare ragioni ai propri argomenti e non basarsi sulla fede cieca e sulla consuetudine dogmatica: “… Nundinio come colui che quello che dice, lo dice per una fede et per una consuetudine; et quello che niega, lo niega per una dissuetudine et novità, com’è ordinario di que’ che poco considerano et non sono superiori alle proprie azzioni, tanto razzionali, quanto naturali; rimase stupido e attonito…”[6]

 Nello Spaccio della bestia trionfante, Bruno colloca in cielo, al posto dell’immagine di Ercole, la forza d’animo e la costanza, capaci di domare la cieca fortuna, ma aggiunge, rivolto appunto alla “Forza” come virtù personificata: “… conduci le tue virtuose figlie Sedulità, Zelo Toleranza, Magnanimità, Longanimità… “[7]

 Tolleranza assolutamente necessaria tra gli uomini se, come aveva detto prima a proposito della “verità”: “… la quale come non è chi alcunamente la possa toccare, cossì non si trova qua basso chi la possa perfettamente comprendere: perché non è compresa, o veramente non viene appareggiata se non da quello in cui è per essenza; e questo non è altro che lei medesima. E perciò da fuori non si vede se non in ombra, similitudine, specchio ed in superficie…”[8]

Riguardo alla libertà di pensiero ed espressione, viene comandato al potere giudicante, nell’atto di esercitare le sue funzioni: “… che non attenda a quel che s’imagine o pense ciascuno, pur che le paroli e gesti non corrompano il stato tranquillo; e massime verse in correggere e mantenere tutto quel che consiste ne l’operazioni…”[9] Il che, tradotto in termini moderni, suona: solo gli atti criminosi o l’istigazione a delinquere possono essere legittimamente puniti e non già la libera espressione d’idee. E che dire di queste parole: “A che verrà il mondo, se tutte le repubbliche, regni, dominii, fameglie e particolari diranno, che si deve esser santo col santo, perverso col perverso? e si faranno iscusati d’essere scelerati, perché hanno il scelerato per compagno o vicino? e pensaranno che non doviamo forzarci ad esser buoni assolutamente, come fussimo dei, ma per commoditate ed occasione, come gli serpenti, lupi ed orsi, tossichi e veneni?…”[10]

 E si potrebbe continuare, se i limiti di questa relazione lo consentissero. Ma se lo studio attento e diretto dei testi bruniani dimostra inconfutabilmente la sua, giustamente invocata, paternità ideale nei confronti della Massoneria Universale e di qualsivoglia posizione che si richiami al ‘libero pensiero’, è possibile aggiungere di vantaggio altro ancora.

 Il professor Mola, nella stessa pagina in cui nega recisamente qualsiasi discendenza “della Libera Muratoria in quanto tale” dalla figura di Giordano Bruno, mette in nota, per una valutazione scientifica dell’illustre pensatore, l’ormai classico libro di Frances Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica.

 Non è chi non conosca la Yates; insieme a M. Ciliberto (a parere di chi scrive) la più importante e originale scrittrice di cose bruniane degli ultimi trentacinque anni. Ebbene, esattamente trentacinque anni fa, nella prima edizione del suo bel libro, la studiosa inglese così si esprimeva, sintetizzando l’opera di Bruno: “Dove mai si ritrova una simile sintesi di tolleranza religiosa, di solidarietà psicologica col passato medievale, di esaltazione delle buone opere, di adesione entusiastica alla religione e al simbolismo degli Egiziani? L’unica risposta a questa domanda che mi venga in mente è: nella massoneria, con il suo mitico collegamento con i muratori medievali, con la sua tolleranza, la sua filantropia e il suo simbolismo egiziano. La massoneria, come istituzione ben caratterizzata, non appare in Inghilterra che agli inizi del XVII secolo, ma certamente essa ebbe precedenti e tradizioni che risalgono molto indietro nel tempo, sebbene sia questa una materia estremamente oscura. A questo proposito brancoliamo nel buio, fra strani misteri, ma non possiamo fare a meno di domandarci se non sia stato proprio fra gli Inglesi spiritualmente insoddisfatti, i quali forse trovarono nel messaggio ‘egiziano’ di Bruno qualche motivo di sollievo, che i temi del Flauto magico risuonarono per la prima volta nell'aria.”[11]. E ancora: “Bruno applicò il suo ermetismo per la monarchia, al culto cavalleresco tributato a Elisabetta I dai suoi cavalieri. Gli interessi del primo massone a noi noto, Ashmole, non contrasterebbero con l’idea che egli fosse influenzato da motivi che risalivano ai circoli di corte del tempo di Elisabetta. Ashmole era un fervente realista con un forte interesse per la storia della cavalleria. Che l’influenza di Bruno perdurasse in circoli di corte è indicato dal Coelum Britannicum rappresentato a corte solo dodici anni prima dell’ingresso di Ashmole nella Massoneria. Non è una supposizione impossibile che l’importazione di idee dei Rosacroce in Inghilterra, dai cui furono influenzati Fludd, Vaughan e Ashmole, possa essersi incrociata con una precedente corrente cortigiana, forse influenzata da Bruno, dando così vita alla Massoneria”[12].  Ma anche sul ‘movimento’ dei Rosacroce sembra aleggiare l’influenza bruniana. Più volte dai costituti del processo al Nolano emerge un particolare, pregiudizievole per la sorte dell’imputato, ma assai verosimile e in accordo con le vicende biografiche e le dottrine che di lui conosciamo: Bruno avrebbe fondato in Germania una nuova setta, diversa da tutte le altre e che aveva trovato largo seguito tra i luterani. Di questa setta non sappiamo niente di più di quanto ci accennino i documenti del processo bruniano, ma è un fatto che, pochi anni dopo il soggiorno di Bruno, proprio in Germania compaiano i manifesti dei Rosacroce. E citando ancora la suddetta studiosa britannica: “Giordano Bruno, errando attraverso l’Europa, aveva predicato l’approssimarsi di una riforma generale del mondo, fondata sul ritorno alla religione ‘egizia’, insegnata nei trattati ermetici, una religione che doveva superare le differenze religiose con l’amore e la magia e doveva basarsi su una nuova visione della natura da conseguirsi mediante esercizi ermetici di contemplazione. Aveva predicato questa religione, presentata in forme mitologiche, in Francia, Inghilterra e Germania. A sentir lui, aveva fondato in Germania una setta (detta dei ‘giordanisti’) che esercitò una grande influenza tra i luterani. Altrove ho suggerito che potrebbe esservi un nesso tra i ‘giordanisti’ di Bruno e il movimento rosacrociano, che un segreto influsso bruniano potrebbe aver contribuito allo sviluppo del genere di riforma adombrato dai manifesti rosacrociani.”[13] . Così Frances Yates, significativamente isolata – fatta eccezione per l’eccellente libro di Saverio Ricci, La fortuna del pensiero di Giordano Bruno 1600-1750 –  nell’indagine dal di dentro dei rapporti tra Bruno e le società segrete dei secoli XVII e XVIII. E per l’appunto Saverio Ricci conviene menzionare, per una vicenda assai singolare, ambientata nell’Europa dei primissimi anni del Settecento e avente come centro di irradiazione l’Inghilterrra: “Nel 1713 uscì a Londra la prima e assai discussa traduzione inglese dello Spaccio, la Expulsion  of the triunphant beast: sulle reazioni che questa, come altre iniziative dei freethinkers, suscitò nell’establishment culturale e religioso diremo più avanti. Si vuole per ora guardare all’episodio solo dal punto di vista del problema della circolazione materiale dello Spaccio e in generale delle opere italiane del Nolano nell’Inghilterra di quegli anni. Toland fu da molti creduto l’autore della versione…”[14]. Di seguito: “Le idee politiche agitate da Collins, Shaftesbury e Toland nei circoli whig e nella sodalitas socratica dei pantheists (che ‘correspond to (…) the Lodge of the Freemassons which was founded about the same time, 1717, in London’, dice sempre Ricci citando da F.H. Heineman,  John Toland and the age of Enlightenment, ‘Rewiew of English Studies’ xx (1944), pp.125-146: 139) si radicavano in una concezione della natura e dell’uomo, della religione e dell’etica che aveva in Bruno una delle sue fonti più importanti. Infatti l’interpretazione e la messa in circolazione libertina o freethinker della ‘Nolana filosofia’ rappresentavano per il loro principale promotore uno dei momenti più significativi della costruzione di quel credo filosofico-religioso che – come vedremo – il partito ‘protestante’ e ‘repubblicano’ europeo avrebbe dovuto darsi. Toland intendeva serrare, attorno a quel credo, le fila di un movimento intellettuale internazionale capace di influenzare le scelte politiche di stati protestanti come l’Inghilterra, l’Olanda e lo Hannover, ma anche del cattolicissimo Impero Asburgico, che attraverso diplomatici e militari libertini, quali Eugenio di Savoia e Georg Wilhelm von Hohendorf si faceva ostile al papato e alle monarchie ‘papiste’(Francia e Spagna) e si avvicinava piuttosto al mondo protestante e anglosassone. La propaganda ‘repubblicana’ e whig si connetteva quindi sottilmente alla diffusione degli scritti di Bruno, degli autori ‘eretici’ e ‘scismatici’, dei libelli antiromani, delle dottrine ‘panteiste’. Bruno diventava così anche strumento di agitazione politica, o, meglio, uno degli elementi più sostanziosi di quella cultura libertina ed eretica, spregiudicata ed eversiva che Toland e i suoi volevano porre alla base di una rinnovata azione politica sia sul piano inglese che su quello internazionale”[15] . Ma per chi volesse notare che Le Costituzioni di Anderson del 1723 non odoravano eccessivamente di spregiudicatezza ed eversione, lasciamo ricordare ancora a Ricci che “… Toland coinvolse, più o meno direttamente nella sua propaganda, non soltanto whigs, radicali e notori freethinkers, come Collins, Clavel, Baker, ma anche personaggi di primo piano nell’establishment politico quali Lord Aylmer e Lord Harley, nel tentativo di conquistare i vertici sia del partito whig che del partito tory al suo programma filosofico e politico(…) fuori d’Inghilterra la diffusione bruniana promossa da Toland investì progressivamente i Paesi Bassi e la Germania, Vienna e l’Italia. Il filosofo irlandese aveva una notevole familiarità con gli ambienti dotti del continente…”[16]

 Insomma,  la storia della nascita ufficiale della massoneria moderna speculativa in Inghilterra  e della sua diffusione continentale appare parallela e fortemente intrecciata alla reviviscenza e circolazione bruniana degli stessi anni. La storia puntuale e particolareggiata di questa importante connessione non è stata ancora scritta. Essa potrà darci, credo, informazioni anche più sorprendenti e decisive del rapporto tra il pensiero bruniano, talvolta così finemente mitologico e allusivo e miti e simboli che avrebbero caratterizzato la Weltanschauung massonica. A conclusione, un piccolo spunto di riflessione per coloro –fra i lettori di questa relazione e i presenti al convegno –  che frequentano i lavori massonici nelle logge.

 Giordano Bruno, nello Spaccio della bestia trionfante rappresenta lo svolgimento di un concilio degli dei. A che ora devono cominciare i lavori di questo concilio? L’autore ce lo dice per ben due volte, nell’epistola esplicatoria e all’inizio della  terza parte del I Dialogo: a  mezzogiorno.

 Qual è lo scopo di questo concilio? L’intento di Giove e degli dei, ci dice Bruno, è nientemeno che la riforma e il progresso dell’umanità che si dibatte nella cecità, nell’ignoranza e nella corruzione.

Con quali mezzi vengono attuati questa riforma e questo progresso? Esaltando nelle costellazioni tutte le virtù utili alla convivenza umana e scacciandone in basso i vizi che colpevolmente gli dei vi avevano lasciato dimorare…  Sat prata biberunt


[1] Cfr.‘Oratio valedictoria’ in Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e R. Amerio, pp. 687-688.
[2] Cfr. Aldo A. Mola  Storia della Massoneria Italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano 1994, pp.196-7.
[3] Cfr. Giordano Bruno Opere latine, II (1), pp.76-7.
[4] Cfr. Giordano Bruno Le Ombre delle Idee, a cura di M. Maddam, Mimesis, Milano 1996, p.33.
[5] Cfr. Giordano Bruno La Cena delle Ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955, p.111
[6] Ibid. p.166.
[7] Cfr. Giordano Bruno Spaccio de la bestia trionfante, a cura di M. Ciliberto, Milano 1985, p.199.
[8] Ibid. p. 158.
[9] Ibid. p. 162.
[10] Ibid. p.249.
[11] Cfr. F.Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969, p.300.
[12] Ibid. p.447.
[13] Cfr.F.Yates, L’illuminismo dei Rosacroce, Torino 1976, p.163.
[14] Cfr. S. Ricci,  La  fortuna del pensiero di Giordano Bruno 1600-1750, Firenze 1990, p.249.
[15] Idid. pp.258-9.
[16] Ibid. pp.259-60.