martedì 24 marzo 2015

SUITE FRANCESE ovvero l'amore tra nemici

Suite Française, regia di Saul Dibb, Gran Bretagna, Francia, Canadà, 2015, 107 minuti



 Il successo di pubblico che sta accompagnando l’uscita di Suite Française, in Italia e in Europa, non trova riscontro nell’accoglienza riservata al film dalla critica e se ne comprende il motivo.

 Il regista inglese Saul Dibb, coadiuvato nella sceneggiatura da Matt Charman, trasferisce sullo schermo il romanzo incompiuto di Irène Némirovsky, ebrea ucraina, trapiantata a Parigi e morta a Auschwitz nel 1942. Il manoscritto, ritrovato da Denise, una delle figlie della scrittrice, fu pubblicato in 38 lingue con gran successo una diecina di anni fa. Nelle intenzioni della Némirovsky, Suite Française nasceva come una grande sinfonia composta di cinque movimenti, a cominciare dal primo, molto mosso, dal titolo “Tempesta di Giugno”, che raccontava l’esodo dei francesi da Parigi occupata dai nazisti, per continuare con il secondo, andante dolce, e con gli altri tre intitolati rispettivamente “Prigionia”, “Battaglie” e “La Pace”, sui quali Irène Némirovsky fece appena in tempo a tracciare qualche appunto prima di essere deportata dai nazisti.

 I primi due capitoli del suo incompiuto “romanzo sinfonico”, Irène Némirovsky li scrive ritirandosi in provincia, dopo l’occupazione nazista di Parigi. Vive con il marito, e le figlie Denise ed Elisabeth, in un albergo di Issy-l’Evêque, dove sono acquartierati gli ufficiali della Wehrmacht. Poi affitterà una casa propria, ma avrà l’obbligo di ospitare i soldati tedeschi. L’eco di questa  pericolosa “convivenza” si avvertirà nel libro e, naturalmente, nel film di Saul Dibb, ancorché la sua esistenza trascorra relativamente tranquilla sino ai primi di Giugno del 1941, quando una nuova legge del regime collaborazionista della Francia di Pétain, obbliga lei e suo marito a portare la stella gialla degli ebrei, nonostante l’esibizione alle autorità di cerificati di battesimo perfettamente in regola. Già l’undici Luglio, la scrittrice sembra intuire la sorte che l’attende. Scrive: 

“[…]in mezzo a un oceano di foglie morte, bagnate dalla tempesta della notte precedente, come se stessi seduta su una zattera con le gambe incrociate[…]Sto scrivendo molto, immagino che saranno opere postume, però almeno mi fanno passare il tempo”.

 Fatalmente profetica, sarà arrestata solo due giorni più tardi. Inutilmente suo marito, Michel Epstein, che fa l’interprete per i soldati tedeschi, cercherà di salvarla. Non servirà, né una lettera firmata dai sottufficiali nazisti ospitati in casa:

 “Camerati! Abbiamo vissuto per qualche tempo con la famiglia Epstein e abbiamo avuto modo di conoscerla come una famiglia assai premurosa. Vi preghiamo pertanto di riservarle un trattamento adeguato. Heil Hitler!”

e neppure il ripudio dell’origine ebraica sua e della moglie:

 “(Irène) è una donna che, pur essendo di origine ebraica, non ha – come dimostrano tutti i suoi libri – alcuna simpatia né per il giudaismo né per il regime bolscevico... mia moglie è diventata una rinomata scrittrice. In nessuno dei suoi libri (che del resto non sono stati messi al bando dalle autorità d’occupazione) troverà una parola contro la Germania, e benché sia di razza ebraica mia moglie scrive degli ebrei senza alcuna simpatia. I nonni di mia moglie, così come i miei, erano di religione israelita; i nostri genitori non professavano alcuna religione; quanto a noi, siamo cattolici come le nostre bambine, che sono nate a Parigi e sono francesi”.

 A nulla varranno tutti gli sforzi di Michel, il ripudio e le buone maniere. Deportata ad Auschwitz il 17 Luglio del 1942, Irène sopravviverà per un solo mese. Più tardi, la stessa sorte toccherà a suo marito.

 Nelle intenzioni della Némirovsky, c’era inizialmente forse un altro auspicio per la propria sorte personale, almeno a giudicare dalle mille pagine che si proponeva di scrivere per un libro che doveva concludersi con la pace e che – come dichiara la scrittrice – :

 in sé deve dare l'impressione di essere semplicemente un episodio... com'è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque... ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico... collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L'importante – i rapporti fra le diverse parti dell'opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall'altra dell'armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile.







 Il punto è proprio questo. Il film che ha un certo ritmo all’inizio e nel finale, ne è del tutto privo nella parte centrale, nonostante la grande interpretazione dei suoi protagonisti che vivono sotto lo stesso tetto, nel paese di Bussy, presso Parigi: la giovane e bella Lucille Angellier [Michelle Williams], moglie di Gaston, un ricco possidente, ora al fronte, che ha sposato più per volontà del padre che per amore, sua suocera [Kristin Scott-Thomas], una donna autoritaria e addirittura implacabile con i suoi mezzadri ma che, al momento opportuno, saprà rischiare la vita per aiutare la resistenza francese e salvare una piccola ebrea, e l’ufficiale tedesco Bruno Von Frank [Matthias Schoenaerts] che il comando tedesco sistema temporaneamente nella splendida dimora degli Angellier. Un nazista speciale e discreto che ama la musica e che per amore pare disposto a ingannare non tanto Hitler, quanto almeno i suoi intermediari.

 Il fatto è che Saul Dibb, più che collegare tra loro le parti di una vicenda storica – come auspicava la scrittrice, quasi profetizzando lo sbocco cinematografico del suo romanzo – si propone il racconto di un amore impossibile, per di più non nuovo né originale, trattandosi di un sentimento sbocciato tra un uomo e una donna che la società e gli eventi rendono nemici implacabili: Lucile e Bruno, uniti dall’amore per la musica, da nozze poco felici per entrambi e dal desiderio di bellezza e di felicità, divisi irrimediabilmente dalla guerra che la barbarie nazista ha portato in Europa, programmando lo sterminio del popolo ebraico. Insomma, il regista si è ispirato solo al movimento in andante dolce, con qualche accenno al primo movimento molto mosso [“Tempesta di Giugno”], con il risultato di raccontare l’ennesima storia d’amore nel bel mezzo della guerra, confezionando a parere di alcuni addetti ai lavori, una sorta di soap opera dove tutto diventa prevedibile e scontato e in ogni caso, soprattutto a giudizio della critica francese, non riuscendo a cogliere lo spirito del romanzo, impresa peraltro sempre ardua quando si tratta di portare un libro sullo schermo.

 Si comprende invece il favore accordato dal pubblico, condotto volentieri a rinfrescare una memoria storica, ancora fortunatamente presente nella coscienza collettiva, senza badare agli stereotipi di cui il film è intessuto. Anche se la vicenda amorosa stempera agli occhi dello spettatore l’immane tragedia abbattutasi nell’Europa del secolo scorso e rischia di essere un alibi sull’ineluttabilità della guerra e sulle sue miserie, come negli episodi che il film racconta di cittadini francesi che, per vendetta personale, denunciano ai nazisti i loro concittadini. Insomma una sorta di “romanzo” popolare con tanto di amore romantico sublimato dallo spartito di Suite Francese, una musica composta dal tenente tedesco e donata “per sempre” alla donna di cui è innamorato.

 Certo, un film che nel complesso si lascia vedere e che forse ha la sua nota più bella e originale nel tratteggiare la figura di Lucile: una donna fragile e in apparenza arrendevole, capace ancora di innamorarsi e di credere che il suo amore giustifichi l’isolamento dal mondo cui appartiene, ma poi risoluta, pur continuando ad amare il suo ufficiale, nel comprendere qual è il suo ruolo in mezzo agli altri che lottano per la libertà.


sergio magaldi

giovedì 19 marzo 2015

LA CONSAPEVOLEZZA DEI DIRITTI UMANI [Parte Seconda]




La Dichiarazione Unanime di Tredici Stati Uniti d’America (1776), La Prima Costituzione Americana (1787), La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789)]


N.B. Il post è stato pubblicato per la prima volta sul sito del Movimento Roosevelt


 L’individuazione di un primo nucleo di diritti umani inalienabili, avvenuta tra contrasti e alterne vicende, nell’Inghilterra del XVII Secolo, trovò la sua concreta formulazione, per uno dei tanti paradossi della Storia, nella Dichiarazione di Indipendenza dalla madrepatria inglese di tredici colonie americane. Se nel preambolo di The Unanimous Declaration of the Thirteen of the United States of America e in gran parte delle affermazioni che ne seguono l’obiettivo è quello di legittimare il distacco dalla Corona britannica, i primi cinque principi hanno valore universale e fondativo di ogni successivo diritto umano. Si basano su una verità considerata evidente di per sé, quella stessa verità di cui, come sappiamo (cfr. il post La consapevolezza dei diritti umani [Parte Prima] e clicca sul titolo per leggere) già parlavano confusamente alcuni illuminati sofisti  dell’Atene del V Secolo contro altri sofisti:

 “[…] Da una parte, Trasimaco e Callicle, sostenitori del diritto del più forte – basato sulla natura ferina dell’uomo e sull’idea di una originaria disuguaglianza che fa gli uni più forti e/o più intelligenti e capaci di altri, gli uni atti a comandare, gli altri a ubbidire – che legittima la privazione dei diritti umani a vantaggio di un’aristocrazia della forza e/o dello spirito […]Dall’altra, Ippia di Elide, Alcidamante e Antifonte Sofista, che rivendicano per tutti gli uomini – in quanto una sola è la condizione umana sulla Terra, a prescindere dalle diverse risorse e capacità – il godimento degli stessi diritti imposti dalla medesima natura”.

 Verità evidente e fondata sulla ragione, ma non riconosciuta da tutti, perché è un fatto, purtroppo, che non tutti gli esseri umani facciano uso di ragione. Verità addirittura negata per affermare, come faceva  il sofista Callicle, il diritto del più forte. Ricordavo in proposito, nel precedente intervento, gli esempi storici del Fascismo, del Nazismo e di ogni Totalitarismo di destra o di sinistra e, aggiungo ora, di ogni  regime oggi esistente dove, di diritto e/o di fatto, i diritti umani sono sistematicamente violati. Il che, purtroppo, si verifica in centinaia di Paesi, a giudicare dal rapporto inquietante formulato di recente da Amnesty International.

 “We hold these truths to be self-evident, “Queste verità noi consideriamo di per sé evidenti…” dichiarano i rappresentanti degli stati americani riuniti in Congresso a Philadelphia il 4 Luglio del 1776:

1)   “that all men are created equal”,  “che tutti gli uomini sono stati creati uguali”
2)   “that they are endowed by their Creator with certain unalienable rights”,  “che sono stati dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili”
3)   “that among these are life, liberty and the pursuit of happiness”,  “che tra questi diritti ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”
4)   “that to secure these rights, governments are instituted among men, deriving powers from the consent of the governed”,  “che per assicurare questi diritti, tra gli uomini sono stati istituiti governi, che traggono il loro consenso direttamente dai governati”
5)   “that whenever any form of government becomes destructive to these ends, it is the right of the people to alter or to abolish it and to institute new government, laying its foundation on such principles and organizing its powers in such form, as to them shall seem most likely to effect their safety and haooness”,  “che ogniqualvolta una forma di governo si fa distruttiva di questi fini, è diritto del popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo che poggi le sue fondamenta su tali principi e regoli il potere in una forma tale da sembrare la migliore per promuovere la sicurezza e la felicità del popolo”.

 Come si vede, viene ripreso il principio – anche se con minori puntualizzazioni – già formulato nel Patto del Libero Popolo Inglese [An Agreement of the Free People of England ], che riconosce la sovranità popolare, il contratto sociale e i diritti inalienabili dell’uomo alla vita e alla libertà (secondo punto) e anche alla sicurezza, come si evince dal quinto punto. Le idee del filosofo inglese John Locke [1632-1704] trovano dunque pieno accoglimento. C’è in più, fortemente voluto da Benjamin Franklin [1706-1790], il diritto al “perseguimento della felicità”. Norma di principio che non troverà posto negli articoli di nessuna futura costituzione europea, a cominciare dalla famosa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che tuttavia, come si vedrà più sotto, vi fa riferimento nel Preambolo. La ragione è semplice e si basa almeno su tre ordini di motivi: a) Il timore “classista” di un diritto così impegnativo, b) lo scetticismo degli europei a fronte dell’ottimismo degli americani, c) l’idea che lo stato non possa e non debba interferire a nessun titolo nella sfera privata dei cittadini. A tutto ciò, deve aggiungersi ancora oggi la valutazione ironica o addirittura sarcastica circa un principio di cui non si riesce a vedere, o non si vuole, l’efficacia normativa; dimenticando di considerare, o non volendo, che l’introduzione nella carta costituzionale del diritto alla ricerca della felicità, comporta di necessità da parte dei legislatori l’introduzione di tutta una serie di norme per facilitare il più possibile il raggiungimento di tale legittima aspirazione da parte di ogni essere umano.

 La piattaforma dei diritti umani sarà completata, a undici anni di distanza dalla Dichiarazione d’Indipendenza, nella prima Costituzione degli Stati Uniti d’America [17 Settembre 1787] che è anche la prima carta costituzionale del mondo. In dieci emendamenti vengono codificati alcuni dei punti contenuti nel più volte citato Patto del Libero Popolo Inglese e cioè: il divieto di introdurre norme atte a stabilire una religione di Stato, con il relativo diritto per i cittadini di professare qualsiasi religione [sull’esempio del Pantheon degli antichi romani]; il divieto di ogni norma che limiti la libertà di parola e di stampa, il diritto di associazione e di rivolgere petizioni al governo [Primo Emendamento]. Il diritto del popolo di tenere e portare armi per la propria sicurezza [II]. E ancora, una norma che riprende e modifica il terzo punto della Petizione dei diritti che nel 1628 il Parlamento inglese rivolge al re Carlo I [cfr. la Parte Prima di questo scritto], in base alla quale nessun soldato, in tempo di pace, può essere acquartierato in una casa senza il consenso del proprietario né, in tempo di guerra, se non nei modi previsti dalla legge [III]. Il diritto dei cittadini a non subire perquisizioni di alcun genere [persone, case, carte, effetti], non ragionevoli o non sufficientemente motivate [IV]. E inoltre che in tempo di pace, nessuno possa essere chiamato a rispondere di un delitto se non su denuncia o accusa di un Gran Giurì, nessuno possa essere processato due volte per lo stesso delitto, né chiamato in un processo penale a testimoniare contro se stesso [V]. I restanti emendamenti riguardano la tutela legale del cittadino.
                                       
 La risoluzione circa i diritti umani, contenuta nei principi della Dichiarazione di Indipendenza Americana e nei successivi emendamenti, sbarca nel vecchio continente a due anni i distanza dall’approvazione della prima Costituzione degli Stati Uniti d’America. Dopo la presa della Bastiglia del 14 Luglio, il popolo francese in armi, attraverso i propri rappresentanti, tra il 26 e il 27 Agosto del 1789, approva la famosa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino in 17 articoli preceduti dal seguente Preambolo:




  Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen de 1789
 Les Représentants du Peuple Français, constitués en Assemblée Nationale, considérant que l'ignorance, l'oubli ou le mépris des droits de l'Homme sont les seules causes des malheurs publics et de la corruption des Gouvernements, ont résolu d'exposer, dans une Déclaration solennelle, les droits naturels, inaliénables et sacrés de l'Homme, afin que cette Déclaration, constamment présente à tous les Membres du corps social, leur rappelle sans cesse leurs droits et leurs devoirs ; afin que les actes du pouvoir législatif, et ceux du pouvoir exécutif, pouvant être à chaque instant comparés avec le but de toute institution politique, en soient plus respectés ; afin que les réclamations des citoyens, fondées désormais sur des principes simples et incontestables, tournent toujours au maintien de la Constitution et au bonheur de tous.

 I rappresentanti del popolo francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le sole cause delle pubbliche calamità e della corruzione dei governi, hanno preso la risoluzione di esporre in una Dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell'Uomo, affinchè questa Dichiarazione, costantemente presente per tutti i Membri del corpo sociale, ricordi loro senza interruzione diritti e doveri; affinchè gli atti del potere legislativo e quelli dell'esecutivo, potendo essere ad ogni istante messi a confronto con il  fine di ogni istituzione politica, siano più rispettati; e le proteste dei cittadini, fondate d’ora in avanti su semplici e incontestabili principi, si volgano sempre al mantenimento della Costituzione e alla felicità di tutti.

    Nella traduzione italiana, ho messo in risalto le parole che chiudono il Preambolo, prima della successiva formulazione dei 17 articoli. Quel “bonheur de tous”, nella maggior parte delle versioni italiane è tradotto, per me impropriamente, con « bene comune », ma bonheur in francese significa felicità e, sempre a mio parere, si tratta di un chiaro riferimento a quel diritto di ricerca della felicità sancito nella Dichiarazione di Indipendenza Americana. È vero che non trova riscontro nel II articolo, dove si legge, ribadendo i principi del contratto sociale e del giusnaturalismo, che lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei “diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo”, e cioè libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione. Manca dunque il riferimento al perseguimento della felicità, ma non per questo si può ignorare il timido accenno che se ne fa nel Preambolo. È assente dalla lista anche il diritto alla vita, ribadito dagli americani e conforme alle teorie di Locke. Semplice dimenticanza, o sintomo di una certa riluttanza a parlare di “diritto alla vita” nel bel mezzo di una rivoluzione che di sicuro fu cruenta?

 Rispetto alla Dichiarazione del 1776 e alla Costituzione del 1787 ci sono altre differenze: la sovranità del popolo diventa la sovranità della nazione [Art. III], si definisce il concetto di libertà, intesa come il diritto di poter fare tutto quello che non nuoce agli altri [IV], si dichiara lecito tutto ciò che non è proibito dalla legge [V] e che quest’ultima è l’espressione della volontà generale [VI], concetto che si ispira a Jean-Jacques Rousseau [1712-1778] e di cui parlerò in seguito, si ribadisce solennemente nell’ultimo articolo che la proprietà è un diritto inviolabile e sacro [XVII]. Gli articoli che non ho menzionato, riguardano la libertà di opinione, di comunicazione e di stampa, la tutela dei cittadini di fronte alla legge, l’obbligo alla contribuzione pubblica, l’inconsistenza giuridica di ogni società nella quale non sia assicurata la guarentigia dei diritti. Tutti principi che, mutatis mutandis, si ritrovano nelle rivendicazioni del Popolo e del Parlamento inglese nel XVII Secolo, e nei Congressi americani del XVIII.

 Restano per il momento due osservazioni: la prima è che le dichiarazioni e le codificazioni originali dei diritti umani sono tutte redatte in inglese o francese, non in spagnolo, italiano, tedesco o in qualsiasi altra lingua del mondo. La seconda è che neppure una parola è detta sui diritti delle donne, laddove in buona o cattiva fede sembra ritenersi che il concetto di “uomini” [e neppure di “esseri umani”], genericamente inteso, sia sufficiente anche a rappresentare  l’ “altra metà del cielo”, ma di questo mi occuperò in un prossimo intervento.


sergio magaldi

martedì 10 marzo 2015

LA CONSAPEVOLEZZA DEI DIRITTI UMANI [Parte prima]

La Petizione dei Diritti (1628)- An Agreement of Free People of England (1647-1649) - Bill of Rights (1689]

 N.B.  Il post è stato pubblicato per la prima volta sul sito del Movimento Roosevelt .

 Chi fa parte del Movimento Roosevelt [MR] – al di là di una legittima pluralità di idee e di propositi anche diversi, ma auspicabilmente convergenti – non può ignorare la fonte dei diritti umani, il momento storico della loro formulazione e successiva elaborazione, nonché il progressivo riferimento che trovarono nella carta costituzionale di molti paesi, anche a prescindere dalla loro effettiva realizzazione nell’ambito della società civile.

 Il dibattito sui diritti umani inizia già nell’antichità classica e procede di pari passo col più ampio confronto su ciò che debba intendersi per giustizia e diritto naturale. Nel I libro della Repubblica di Platone, il sofista Trasimaco identifica il diritto naturale nel diritto del più forte, con la conseguenza che leggi e giustizia rappresentano solo l’utile di chi ha il potere perché è il più forte. Insomma, per dirla con Cicerone [De Officiis, I,10,33] Summum ius, summa iniura. Dice Trasimaco a Socrate:

 “[…] Ogni governo stabilisce sempre le sue leggi  a seconda del proprio interesse, la democrazia istituisce leggi democratiche, la tirannide tiranniche e così via: una volta poi stabilite queste leggi i governanti dichiarano che per i sudditi giusto è ciò che giova a loro, e chi trasgredisce è punito come trasgressore delle leggi, come violatore della giustizia. Ecco, amico mio, in che consiste questa giustizia che io affermo essere di fatto sempre la stessa in tutte le città: ciò che giova al potere costituito. Esso possiede, infatti, la forza, perciò per chi ragiona rettamente, segue che ovunque il giusto consiste sempre nella stessa cosa, in ciò che giova al più forte”. [Repubblica, 338e-343]

 Partendo  dallo stesso presupposto, e cioè che in natura vige il diritto del più forte, nel Gorgia platonico, Callicle, un altro sofista, rovescia il punto di vista di Trasimaco. Leggi e diritti sono solo l’espediente escogitato dai più deboli che si uniscono insieme per impedire l’affermazione dell’unica giustizia esistente in natura: il diritto del più forte.

 Ma nell’Atene del V secolo, nel fervido clima culturale favorito dalla democrazia di Pericle, altri sofisti si levano per affermare tesi completamente opposte a quelle di Trasimaco e di Callicle: Ippia di Elide nel sostenere che “tutti gli uomini sono congiunti tra loro, perché il simile è per natura parente del simile”; Alcidamante [cfr. Aristotele, Retorica] col proclamare la libertà originaria dell’uomo, giacché “la natura non creò nessuno schiavo”; Antifonte Sofista per sottolineare il contrasto esistente tra legge [nomos] e natura [fusis], la violazione che la norma di diritto positivo compie di frequente nei confronti dei diritti che appartengono all’uomo per natura, la sostanziale uguaglianza naturale di tutti gli uomini:

 “Noi rispettiamo e veneriamo coloro che hanno nobili natali, ma non rispettiamo e non veneriamo chi è di oscura nascita. In questo ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari, perché per natura in tutto e per tutto siamo tutti uguali, sia barbari che Greci. Basta considerare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini: sotto questo aspetto nessuno di noi può essere definito barbaro o greco. Noi tutti respiriamo, infatti l’aria con la bocca, con le narici e…”[Oxyrh, Pap., XI, n.1364, ed. Hunt, Fragm. B.,col.2:D.-K.,87 B.44.]

  Per quanto posta su basi materiali, la concezione di Antifonte – unitamente alle affermazioni di Ippia e Alcidamante – rappresenta l’espressione ante litteram del giusnaturalismo, con l’idea che il diritto naturale si fondi sulla ragione, con la conseguente individuazione dei primi diritti umani inalienabili, e non più sui suoi istinti ferini. Non a caso, nel XVII Secolo, a seguito di tutto un fiorire nella cultura occidentale di scritti che rompono con il diritto canonico, Grozio enuncia i principi del moderno giusnaturalismo, in base al quale il diritto naturale perde la sua fonte giustificativa nella legge divina, per trarre il suo fondamento unicamente dalla ragione umana. Contestualmente, con Johannes Althusius si affaccia nella storia il principio della sovranità popolare e la legittimità di ogni comunità umana tramite un contratto esplicito o implicito.

 La prima moderna rivendicazione di diritti umani, ancorché limitata alla sicurezza personale e al patrimonio, fondata però sul diritto naturale e sulla tesi contrattualistica del potere è La Petizione dei Diritti che nel 1628 il Parlamento Inglese invia al re Carlo I. Promossa da Sir Edward Coke, la Petizione contiene  quattro principi: 1) Nessuna tassa può essere imposta dal Sovrano senza il consenso del Parlamento. 2) Nessuno può essere imprigionato senza una prova [ribadendo un principio della Magna Charta, già noto come “habeas corpus”]. 3) Nessun soldato può essere alloggiato a carico della popolazione. 4) Nessuna legge marziale ha valore in tempo di pace.

 Una più ampia ed elaborata rivendicazione di diritti umani si ha nel corso della I Rivoluzione Inglese, con il Patto del Libero Popolo Inglese [An Agreement of the Free People of England], elaborato tra il 1647 e il 1649. La modernità del Patto sta innanzi tutto nel riconoscere la sovranità al Popolo prima ancora che al Parlamento. Si legge tra l’altro nelle conclusioni:

 È chiaro il motivo per cui noi vogliamo istituire un patto col popolo e dichiarare quali siano i nostri diritti naturali, piuttosto che chiedere al Parlamento di sancirli: nessun atto del Parlamento è, o può essere, immodificabile, per cui non esclude con garanzia sufficiente - per la vostra e la nostra sicurezza - la possibilità che un altro Parlamento si lasci corrompere e decida in senso contrario. Inoltre, il Parlamento deriva potere e rappresentatività da coloro che glieli trasmettono. Il popolo deve quindi specificare in che cosa consiste tale potere e tale rappresentatività, ed è appunto questo che si prefigge il nostro patto”.






 Tra i punti di particolare significato, c’è la libertà religiosa:

  “Tutto ciò che concerne la religione e il culto non può essere in alcun modo da noi demandato a un potere  terreno, dal momento che non possiamo, senza commettere deliberatamente un peccato, rinunciare anche in minima parte a ciò che la nostra coscienza dichiara essere la volontà di Dio: inoltre, l'insegnamento in questo campo alla nazione intera - mai però con la forza - resta affidato alla coscienza”.

 C’è inoltre l’abolizione delle decime e la fine della coscrizione obbligatoria che sarà sostituita dall’arruolamento volontario di soldati a pagamento:

 “Obbligare i cittadini a servire  nell'esercito  va contro la loro libertà, e perciò non possiamo permettere che i nostri rappresentanti ci costringano a questo servizio. Al contrario, riteniamo che essi, grazie al denaro che hanno sempre a disposizione (l'arma principale di ogni guerra) potranno arruolare in qualsiasi momento un numero sufficiente di soldati che combattano per una causa giusta”.

  E ancora, c’è l’estensione del diritto di voto “a tutti gli uomini dai ventun anni in su”; l’ineleggibilità parlamentare dei membri delle forze armate salariate e degli amministratori di denaro pubblico; l’obbligo per gli avvocati di astenersi dalla professione durante l’esercizio del mandato parlamentare; l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di “potere, ricchezze, titoli, nobiltà, nascita, posizione sociale”.

 Con l’ascesa al potere del Cromwell e la proclamazione della Repubblica [Commonwealth]  e successivamente con la restaurazione degli Stuart, i diritti umani sanciti dal Patto del Libero Popolo Inglese furono vanificati e neppure con la seconda rivoluzione e l’incoronazione di Guglielmo d’Orange tornarono in auge. Nel 1689 fu però riconosciuto dal nuovo sovrano il Bill of Rights che dettava regole per la successione al trono e che, pur parlando di sudditi e non più di cittadini, riconosceva al Parlamento libertà di parola e di stampa. In particolare il Bill of Rights si compone di 13 articoli che hanno il fine di stabilire cosa debba ritenersi illegale e quali incontestabili diritti debbano essere garantiti alle Camere dei Lords e dei Comuni, in quanto organi di espressione della volontà popolare:
        1. che  il preteso potere di sospendere le leggi o l’esecuzione delle leggi, in forza dell’autorità regia, senza il consenso del Parlamento, è illegale;
     2. che  il  preteso potere di dispensare dalle leggi o dall’esecuzione delle leggi, in forza dell’autorità regia, come è stato assunto ed esercitato in passato, è illegale;
     3. che il mandato per costituire la passata Court of Commissionners per le cause ecclesiastiche, e tutti gli altri mandati e corti di analoga natura, sono illegali e pericolosi;
     4. che levare tributi per la Corona o per il suo uso, su pretesa di prerogativa, senza la concessione del Parlamento, per un tempo più prolungato o in un modo diverso da quello che è stato o sarà stato concesso, è illegale;
     5. che è diritto dei sudditi avanzare petizioni al re, e che tutti gli arresti o le procedure d’accusa per tali petizioni sono illegali;
     6. che levare o tenere un esercito permanente all’interno del regno in tempo di pace, senza che ciò sia col consenso del parlalento, è illegale;
     7. che i sudditi protestanti possono avere armi per la loro difesa conformemente alle loro condizioni e come consentito dalla legge;
     8. che le elezioni dei membri del Parlamento debbono essere libere;
     9. che la libertà di parola e di dibattiti o procedura in Parlamento non possono esser poste sotto accusa o in questione in qualsiasi corte o in qualsiasi sede fuori dal Parlamento;
     10. che non debbono essere richieste cauzioni eccessive, né imposte eccessive ammende; nè inflitte pene crudeli o inusitate;
     11. che i giurati debbono essere nelle debite forme indicati in una lista, da notificare; e che i giurati che decidono sulle persone nei processi per alto tradimento debbono essere liberi proprietari;
     12. che tutte le assicurazioni e minacce di ammende o confische fatte a particolari individui prima della condanna, sono illegali e nulli;
     13. e che per riparare a tutte le ingiustizie, e per correggere, rafforzare e preservare la legge, il Parlamento dovrà tenersi frequentemente.

 Per tutto il secolo XVII procede intanto, soprattutto in Inghilterra, il dibattito sulla natura del potere, sul diritto naturale e sul contratto sociale. Si delineano quattro scuole di pensiero. Si va da Robert Filmer, che continua a sostenere l’origine divina del potere del Sovrano, a John Warr che rivendica la sovranità popolare in nome di Dio, in virtù della scintilla divina presente in ogni uomo. La tesi contrattualistica del potere è invece sostenuta da Thomas Hobbes e da John Locke ma con opposte implicazioni. Per Hobbes, lo stato di natura è caratterizzato dal principio, già evocato in età classica, che “ogni uomo è un lupo per l’altro uomo” [homo homini lupus], con il risultato che il potere si accentra nelle mani del più forte e che non esiste il diritto naturale, ma solo il diritto fondato sulla forza. Per uscire da questa condizione di guerra incessante degli uni contro gli altri, gli uomini accettano di divenire parte integrante di uno Stato che d’ora in avanti godrà di un potere illimitato. Locke, al contrario, ritiene che non necessariamente nello stato di natura gli uomini debbano combattersi fra loro, in quanto la ragione li fa consapevoli di possedere il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Si assoceranno, dunque, ma solo al fine di evitare l’anarchia e di creare uno Stato per la tutela di tali diritti, e il cui potere [avendo ben cura di separare il potere legislativo da quello esecutivo] potrà sempre essere rimesso in discussione allorché venga meno il fine stesso della costituita comunità politica. Saranno poi i coloni americani, circa mezzo secolo più tardi, a mettere in pratica il liberalismo di John Locke, in parte ispirandosi anche al Patto del Libero Popolo Inglese. Con la dichiarazione unanime di tredici Stati Uniti d’America e la proclamazione dell’indipendenza. Mentre sarà l’Europa continentale, ventitre anni più tardi, quasi alla fine del XVIII Secolo, ad esporre la più compiuta tavola dei diritti umani, quelli che l’immaginario collettivo ricorda come i principi del 1789. Ma di ciò mi occuperò in un successivo intervento. Mi soffermo invece ancora per qualche breve, ulteriore riflessione su quanto già detto.

 Se guardiamo alla storia dell’Occidente, si vede bene che la questione dei diritti umani restò sempre, mutatis mutandis, nei termini in cui la ponevano gli antichi filosofi greci. Da una parte, Trasimaco e Callicle, sostenitori del diritto del più forte – basato sulla natura ferina dell’uomo e sull’idea di una originaria disuguaglianza che fa gli uni più forti e/o più intelligenti e capaci di altri, gli uni atti a comandare, gli altri a ubbidire – che legittima la privazione dei diritti umani a vantaggio di un’aristocrazia della forza e/o dello spirito che, come nella visione di Callicle, più che di Trasimaco, legittima lo Stato giusto perché oligarchico e totalitario. Dall’altra, Ippia di Elide, Alcidamante e Antifonte Sofista, che rivendicano per tutti gli uomini – in quanto una sola è la condizione umana sulla Terra, a prescindere dalle diverse risorse e capacità – il godimento degli stessi diritti imposti dalla medesima natura, anche contro la legge positiva, laddove questa si manifesti in palese violazione dei diritti fondamentali che spettano a ogni essere umano, in quanto uomo dotato di ragione.

 Da una parte gli ideologi e i sostenitori del giuspotivismo, dell’assolutismo e del totalitarismo, dall’altra i fondatori e i fautori del giusnaturalismo, del liberalismo e della democrazia. Non a caso il fascismo e ancora di più il nazismo si fecero interpreti della più grande negazione dei diritti umani che la Storia abbia mai conosciuto, col massacro programmato – il nazismo – o semplicemente avallato – il fascismo – di milioni di ebrei, ma anche di zingari, omosessuali, massoni e avversari politici. Non a caso la dottrina del fascismo, elaborata da Benito Mussolini e da Giovanni Gentile, irride ai principi dell’Ottantanove che chiama “sacri”, “immortali”, “intangibili”, per meglio beffarli.

  “ […]Il Fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la “felicità” sulla terra come fu nel desiderio della letteratura economicistica del `700 […]Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto(10).Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica.(11)E’ contro il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare.Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il Fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo.(12)E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico,il Fascismo è per la libertà. E’ per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato. (13) Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il Fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.(14)Il Fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più;(17)ma è la forma più schietta di democrazia se il popolo è concepito, come deve essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti.(18)[Benito Mussolini, “La Dottrina del Fascismo”, Milano, 1942, Enrico Hoepli editore]

 Queste idee, a beneplacito di chi coglie diversità tra un “primo” fascismo e il  fascismo di guerra, si ritrovano già nel 1926:

 […]siamo cioè in uno Stato che controlla tutte le forze che agiscono in seno alla nazione. Controlliamo le forze politiche, controlliamo le forze morali, controlliamo le forze economiche, siamo quindi in pieno Stato corporativo fascista…
Noi rappresentiamo un principio nuovo nel mondo, noi rappresentiamo la antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola, degli immortali principi dell’89.”
[S. E D.: 1926; vol. V, pagine 310-11].

 E prima ancora nel Manifesto degli Intellettuali Fascisti elaborato da Giovanni Gentile nel 1925:

 “[…]questa piccola opposizione al Fascismo, formata dai detriti del vecchio politicantismo italiano (democratico, reazionalistico, radicale, massonico) è irriducibile e dovrà finire a grado a grado per interno logorio e inazione, restando sempre al margine delle forze politiche effettivamente operanti nella nuova Italia. E ciò perché essa non ha propriamente un principio opposto ma soltanto inferiore al principio del Fascismo, ed è legge storica che non ammette eccezioni che di due principi opposti nessuno vinca, ma trionfi un più alto principio, che sia la sintesi di due diversi elementi vitali a cui l’uno e l’altro separatamente si ispirano; ma di due principi uno inferiore e l’altro superiore, uno parziale e l’altro totale, il primo deve necessariamente soccombere perché esso è contenuto nel secondo, e il motivo della sua opposizione è semplicemente negativo, campato nel vuoto […]”.

 E ancora sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, si veda di seguito cosa ne pensa un altro ideologo del fascismo, all’indomani dell’invasione nazista di Parigi. Siamo nel Luglio del 1940 [Anno XVIII dell’era fascista], l’Italia è appena entrata in guerra e tale Adriano Lualdi non è neppure sfiorato dal sospetto della triste sorte che alla fine toccherà, non ai francesi, ma ai camerati tedeschi. La sua preoccupazione sta piuttosto nell’imputare a quelli che chiama tra virgolette i “sacri principi” dell’89, la causa del decadimento fisico, morale e spirituale che ha portato alla disfatta militare della Francia:

 “[…]Non crediamo affatto – contrariamente a quanto ritengono molti specialisti espertissimi delle vite e delle crisi dei popoli e dei regimi - che la Francia potrà riaversi senza troppe difficoltà e in tempo relativamente breve del gravissimo colpo che l'ha gettata a terra. La catastrofe della Francia non è un fatto accidentale, come di uno che incèspica e cade: è la ineluttabile logica conclusione di un lungo processo di decadimento fisico morale spirituale e politico al quale tutti i francesi hanno pazientemente e volonterosamente collaborato per lunga serie di anni: è il completo fallimento dei «sacri principi» della rivoluzione dell'89, e dei loro modi e metodi di applicazione, e del clima morale che da essi principi, e dalle loro degenerazioni, fatalmente derivò, avvelenando tutta intera la Nazione.
I «sacri principi» furono dichiarati e riguardati dai francesi - e pare lo siano ancora - come «intangibili». Ma non valsero a rendere intangibile l'anima della Francia, che ne rimase uccisa”.

 Può anche darsi che abbia ragione lo storico israeliano Zeev Sternhell [Nel saggio del 1989, Le origini dell’ideologia fascista, tradotto in italiano quattro anni dopo da G. Mori per Baldini Castoldi], nel sostenere la netta distinzione tra fascismo e nazismo, e nel ritenere il fascismo, non tanto e non solo la reazione della classe dominante in combutta con la media e piccola borghesia, ma tendenzialmente la sintesi dell’incontro di due distinte eresie: “un radicalismo di destra, eretico rispetto alla destra moderata e conservatrice che tassa il macinato, fucila i cafoni, cannoneggia il popolo e decora Bava Beccaris; e un radicalismo di sinistra, eretico rispetto alla sinistra riformista e progressista, pacifista e codarda”.

 Comunque sia, resta il fatto che il fascismo fu per principio, come ogni totalitarismo di destra e di sinistra, nemico giurato dei diritti umani.


sergio magaldi

mercoledì 4 marzo 2015

IL SEGRETO DEL SUO VOLTO

Phoenix [Il segreto del suo volto], regia e sceneggiatura di Christian Petzold, Germania 2015, 98 minuti



 Il titolo originale del film del tedesco Christian Petzold è Phoenix. E direi giustamente, non solo perché la protagonista, l’ebrea deportata ad Auschwitz, Nelly Lenz [più che convincente l’interpretazione di Nina Hoss] rinasce dalle sue stesse ceneri come la mitica fenice, ma anche perché è nella Berlino appena alla fine della guerra, nel settore americano della città distrutta, in un locale chiamato Phoenix, che Nelly ritrova il marito Johannes - che lei chiama affettuosamente Johnny [Ronald Zehrfeld]- un tempo pianista ora costretto a fare il cameriere. Phoenix infine è anche una metafora della rinascita tedesca che fa oggi della Germania il Paese leader dell'Europa unificata all'insegna della moneta unica e del rigore.

 Un’ambiguità, dunque, che il titolo italiano del film [Il segreto del suo volto] risolve con riferimento al segreto che il volto di Nelly nasconde. La donna infatti, scampata miracolosamente alle atrocità di Auschwitz, ma con il volto deturpato in modo orrendo, è costretta ad operarsi, con il risultato di avere un volto completamente nuovo. Un viso che non la rende immediatamente riconoscibile, se non agli occhi della sua amica Lene [Nina Kunzendorf] che lavora presso l’Agenzia ebraica ed è la sola ad assisterla, progettando il trasferimento con lei in Palestina, così come in quello stesso periodo vagheggiavano migliaia di ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio.






 L’ambiguità voluta del titolo originale [Phoenix-uccello che risorge da se stesso e Phoenix-locale del settore americano di Berlino, ecc...] è solo la prima delle tante ambiguità proposte dalla sceneggiatura e dalla regia di Christian Petzold. Lo stesso rapporto tra Lene e Nelly, che ha il potere di esaltare il senso dell’amicizia e della solidarietà umana, si tinge di ambiguità. Sarebbe stato meglio, infatti, rendere più esplicita l’attrazione sessuale di Lene per la sua protetta, in luogo di lasciarla supporre come la motivazione non-detta della sua scelta, allorché si rende conto che Nelly è ancora innamorata del marito e che non intende affrontare con lei il viaggio in Palestina.

 E in effetti, Nelly ritrova Johnny, ma questi non la riconosce e consapevole della somiglianza che la donna ha con la moglie che crede morta nel lager, intende usarla per mettere le mani sulla cospicua eredità della consorte. Nelly si presta al “gioco” nella speranza di ritrovare l’amore di suo marito, di cui scena dopo scena si avverte il comportamento ambiguo, non perché nella donna egli abbia riconosciuto la moglie, bensì perché lo spettatore è costretto a chiedersi di continuo quale sia il reale sentimento che in passato legava l’uomo a Nelly. 

 Né minore ambiguità è nell’atteggiamento di amici e parenti [familiari di Johnny, evidentemente, dal momento che sin dall'inizio del film è detto che Nelly è l’unica sopravvissuta della sua famiglia]: la riconoscono subito, laddove il marito non è stato in grado di riconoscerla, sebbene abbia trascorso con lei diversi giorni nell’istruirla ad imitare la moglie che crede morta. Poi ci sono le ambiguità per così dire tecniche, non volute e/o non calcolate: la messinscena dell'arrivo a Berlino con un treno proveniente dall’est, dopo che Nelly ha girato in lungo e in largo la città, da sola e in compagnia del marito, il fatto che Johnny non si chieda chi sia veramente la donna, dove abiti ecc… e ancora, la questione legale che impedirebbe all’ex pianista di mettere le mani sulla fortuna di Nelly. 

 C’è inoltre un’ambiguità sostanziale che aleggia nel film: un clima, quasi di neutralità etica tra i contendenti della guerra appena conclusa, che lascia insoddisfatti, ancorché sia un atteggiamento comune a molti connazionali di Christian Petzold. 

 Dispiace infine che un tema così avvincente sia stato trattato con rigido mestiere ma senza molta fantasia e che il linguaggio tecnico utilizzato si attesti su una modalità di fare cinema che a tratti pare sorpassata. Tutto ciò nulla toglie alla bellezza e alla drammaticità delle scene finali, allorché Johnny siede al pianoforte e Nelly intona una canzone popolare composta nel 1943 da Kurt Weill con testo di Ogden Nash. Dice, tra l’altro, il motivo:

 Speak low when you speak love
 Time is so old and love so brief
 Love is pure gold and time a thief

 Speak low when you speak love
 Our summer’s day withers away too soon, too soon
 Speak low when you speak love […]

 Parla piano quando parli d’amore
 Il tempo è così vecchio e l’amore così breve
 L’amore è oro puro e il tempo un ladro

Parla piano quando parli d’amore
Il giorno della nostra estate appassisce troppo presto, troppo presto
Parla sottovoce quando parli d’amore […] 













sergio magaldi