giovedì 25 giugno 2015

GIUDA ISCARIOTA NON TRADI' GESU'...

Amos Oz, Giuda, trad. E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano, 2014, pp.329
Edizione Mondolibri, Milano, 2015, pp.321


  Giuda, ricco possidente di Kerioth, non tradì Gesù per miseri trenta denari, come raccontano i vangeli canonici, né perché era un agente al servizio dei farisei. Questa la tesi che Amos Oz fa sostenere al protagonista del suo recente romanzo Habasorah Al Pi Yehuda Ish Qariyot [“Vangelo secondo Giuda, uomo di Kerioth (Iscariota)”, reso nella versione italiana edita da Feltrinelli, semplicemente con il titolo di Giuda].

 La tesi dell’innocenza di Giuda, già contenuta nei vangeli gnostici, fa per così dire da sfondo a tutta la narrazione – che si svolge a Gerusalemme tra l’inverno del 1959 e la primavera del ’60 – e si riconnette alla figura storica di Gesù, visto dagli ebrei nel corso del tempo. È questo peraltro l’argomento della tesi di dottorato dello studente Shemuel Asch che, per gli aspetti caratteriali, l’abbandono della fidanzata e sopravvenuti motivi familiari, decide di abbandonare la ricerca e di accettare la “Proposta di rapporto personale” affissa nella bacheca degli annunci dell’Istituto Kaplan di Gerusalemme:

 “A studente celibe di scienze umane, conversatore sensibile dotato di competenza storica, offronsi alloggio gratis e modesto stipendio mensile in cambio di cinque ore serali di compagnia a settantenne invalido, colto ed eclettico. Invalido generalmente in grado di badare a se stesso, bisognoso di conversazione, non di aiuto […]. Date le particolari circostanze, al candidato sarà richiesto un impegno scritto a mantenere il riserbo.

 L’incontro, quasi all’insegna del mistero, di Shemuel con l’anziano Gershom Wald, affetto da atrofia degenerativa, e con la sua bellissima nuora Atalia Abravanel, offre ad Amos Oz tutta una serie di spunti per parlare di Gesù, dell’amore universale, di Ben Gurion, della politica di Israele, del rapporto ebrei-arabi e della passione di uno studente per una donna che ha il doppio dei suoi anni.

 Ne nasce un ottimo romanzo dove la psicologia dei personaggi principali – tra i quali sono da annoverare anche gli scomparsi Shatiel e Micah, rispettivamente padre e marito di Atalia – è approfondita con notevole acume e sempre in relazione alle vicende dell’esistenza, lasciando tuttavia aperta la questione se è il carattere a determinare la trama di una vita o se, viceversa, sono gli accadimenti a forgiare il modo di intendere e di affrontare la realtà.   

 Shemuel è spesso soggetto ad attacchi di asma ed è depresso per il fallimento economico di suo padre che non gli permette di continuare gli studi, e perché Yardena, la sua ragazza, lo ha appena lasciato per sposare un altro. È davvero così? O non c’è nel ragazzo un’energia sottile che lo induce a vivere con gli altri, ma in fondo separato, un’ansia di proseguire la sua ricerca fuori degli schemi accademici, il desiderio di amori impossibili che finiscono per lasciargli l’amaro in bocca? Così lo descrive Amos Oz:

 “Amava molto compiacere i suoi interlocutori, chiunque fossero, ma soprattutto gli amici del Circolo per il Rinnovamento socialista: amava commentare, argomentare, contraddire, smontare e ricominciare. Parlava a lungo, con compiacimento e intelligenza, divagando spesso.
 Ma quando gli replicavano, quando toccava a lui ascoltare le idee degli altri, Shemuel veniva colto da un improvviso attacco di impazienza, di distrazione, cadeva in preda a una stanchezza tale che gli si chiudevano gli occhi e la testa scompigliata crollava contro il tappeto villoso del petto.
Anche in presenza di Yardena amava tenere le sue ardenti orazioni, demolire preconcetti e far vacillare convinzioni assodate, attingere una conclusione da un’ipotesi e un’ipotesi da una conclusione. Ma quando era lei che parlava a lui, allora quasi sempre gli si abbassavano le palpebre nel giro di pochi secondi. Lei lo rimproverava perché non lo ascoltava, lui negava, lei gli chiedeva di ripetere quello che aveva appena detto, lui cambiava argomento […]” [p.10, ediz.Mondolibri] 

 Gershom Wald è un intellettuale che riguarda il mondo che lo circonda, come da una prigione, col disincanto che maschera il dolore per la morte del figlio, ma anche con l’amara saggezza che gli viene dalla conoscenza degli esseri umani e dallo studio della tradizione, alla quale ricorre spesso citando a proposito versetti biblici con la maestria di un cabalista. E di fronte a Shemuel che lo intrattiene sul frutto della sua ricerca, Gesù in una prospettiva ebraica, osserva che gli autori ebrei che si sono occupati di Gesù o hanno finito per denigrarlo, inventando favole sulle sue origini, come nelle Toledot Yeshu, o hanno parlato di lui come di un autentico ebreo, osservante della Legge e che mai ha dichiarato di essere figlio di Dio, se non nel senso che appartiene a tutti gli uomini. Nessuno, tuttavia, si è intrattenuto sul “sogno” di Gesù che è anche il suo messaggio più originale: il concetto di amore universale. Nessuno si è chiesto se è davvero possibile amare tutti gli uomini. Egli naturalmente non lo crede possibile e persino Gesù ne dà prova, quando in preda all’ira scaccia i mercanti dal tempio o quando maledice il fico che, incolpevole, non era nella stagione di dare frutti. E, a testimonianza del suo scetticismo, ecco le parole che un giorno rivolge a Shemuel:

 “Quasi tutti gli uomini attraversano lo spazio della vita, dalla nascita alla morte, a occhi chiusi. Anche tu e io, mio caro Shemuel. Ad occhi chiusi. Perché se solo li aprissimo per un istante, ci sfuggirebbe da dentro un urlo tremendo e continueremmo a urlare senza smettere mai. Se non urliamo giorno e notte, è segno che teniamo gli occhi chiusi” [p.219]

 Atalia che vive separata, in una zona quasi segreta della casa, è una donna che la morte del marito sembra aver reso fredda e sfuggente. In lei c’è anche l’amarezza per il ricordo del padre, un tempo amico di Ben Gurion, morto poi come traditore per aver creduto in una politica di pace tra arabi ed ebrei. Disincantata per la visione di una Palestina, sempre più divenuta un immenso cimitero, la donna sembra incapace di amare ancora e tuttavia cede occasionalmente ai sensi quando in lei si risveglia la compassione. Quanto il suo comportamento si lega alle sventure, quanto alla sua vera natura?

 Shemuel che ha continuato in proprio la sua ricerca su Gesù, giunge infine alla conclusione che Giuda Iscariota non solo non tradì il suo Maestro, ma fu anche l’unico ad amarlo veramente e a credere in lui come figlio di Dio. Per questo lo convinse a salire e predicare a Gerusalemme. La sua condanna alla croce, dalla quale si sarebbe liberato di fronte a tutti per volontà del padre, avrebbe rappresentato il giorno della redenzione universale e l’inizio del mondo a venire. La delusione e il rimorso per la sua ingenuità che aveva causato la morte del Maestro, lo costrinsero ad impiccarsi. Fu Giuda il vero primo cristiano, forse anche l’ultimo.


 sergio magaldi

mercoledì 24 giugno 2015

SIAMO TUTTI GRECI...






 La proposta annunciata dal MOVIMENTO ROOSEVELT di un sit-in di solidarietà, il prossimo 4 Luglio, davanti all’Ambasciata Greca di Roma, non è solo un omaggio dovuto alla Grecia da parte di cittadini europei che alla matrice ellenica, così come a quella ebraico-cristiana, riconoscono il ruolo fondante della civiltà occidentale. Una civiltà che, come ogni altro aspetto della realtà, ha le sue ombre e le sue luci, ma che nel bene e nel male ha introdotto su gran parte del pianeta il rispetto della libertà umana e che ha lottato per l’avvento della democrazia, anche laddove le istituzioni democratiche si siano rivelate soltanto formali e/o fonte di corruzione pubblica e pubblici privilegi.

 È soprattutto la consapevolezza che con la Grecia fuori dal vecchio continente, di là di mere questioni di contabilità e di economia, non avrebbe più senso parlare di Unità Europea. È un modo per ribadire il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità dei cittadini ellenici, in quanto cittadini europei e del mondo intero.

 Non a caso la data prescelta per il sit-in è il 4 Luglio, l’Independence Day, la ricorrenza della proclamazione di indipendenza di tredici colonie americane del 4 Luglio 1776 [Virginia, Maryland, Massachusetts, Rhode Island, New Hampshire, Connecticut, North Carolina, South Carolina, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Georgia], con la rivendicazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione, l’affermazione della sovranità popolare, nonché dei diritti inalienabili di ogni essere umano, tra i quali appunto la vita, la libertà, il perseguimento della felicità.

 Non è solo la memoria del passato più o meno lontano che dovrebbe mobilitare gli iscritti di MR, di qualsiasi movimento, partito politico o semplicemente di liberi cittadini, davanti all’Ambasciata Greca di Roma nella notte del 4 Luglio. È soprattutto la consapevolezza del presente.

 Per quanto non si possa negare la responsabilità dei precedenti governi greci nel gestire la cosa pubblica, favorendo di fatto la corruzione e i privilegi a danno del popolo greco [Così come del resto è avvenuto in Italia e altrove], non si può non riconoscere che il regime di austerità che BCE e istituzioni oligarchiche europee hanno imposto alla Grecia, hanno finito per affossarla definitivamente. I tagli di pensioni e stipendi, il licenziamento di oltre trentamila impiegati pubblici, la riduzione del costo della manodopera e l’introduzione di nuove tasse, non solo non hanno apportato benefici all’economia greca e al debito pubblico nazionale, ma hanno distrutto quasi completamente la prima e aumentato di oltre il 25% il secondo, con la disoccupazione salita al 28% e quella giovanile al 60% della popolazione.

 Ben altrimenti l’Europa e il resto del mondo trattarono la questione del debito tedesco nel 1953. Il debito della Germania risaliva agli anni che avevano preceduto e poi seguito la prima guerra mondiale, comprendeva inoltre i debiti contratti dopo la terribile seconda guerra, scatenata dalla barbarie nazista, vuoi per ricostruire il paese, vuoi per far fronte in minima parte ai danni di guerra provocati altrove. L’accordo di Londra del 27 Febbraio 1953 cancellò metà del debito e concesse di pagare l’altra metà solo a condizione che l’economia tedesca registrasse negli anni una plusvalenza commerciale. In caso di deficit, cioè, non sarebbe stato rimborsato alcun debito!

 Ben diversamente l’Unione Europea trattò la questione della riunificazione della Germania. “Chi ha pagato il conto dell’unità tedesca?”, ci si chiede in un articolo del Corriere della Sera del non lontano 8 Agosto 2012. Per far fronte al dislivello economico esistente tra Germania Est e Germania Ovest, i tedeschi spesero 1400 miliardi di marchi. Ciò fu possibile grazie al sostegno politico ed economico dell’Unione, che pagò ugualmente un prezzo alto e che progettò a breve scadenza, complice ingenua e interessata anche la Francia, l’introduzione dell’euro a esclusivo vantaggio, come è sotto gli occhi di tutti, della Germania unificata e della finanza internazionale.


sergio magaldi  

mercoledì 17 giugno 2015

IL NON - GIOCO della Nazionale di calcio questa volta non paga...

Nazioni vincitrici dei mondiali di calcio. Non sono riportate le ultime due edizioni


    Prima sconfitta di Antonio Conte alla guida della nazionale di calcio. A Ginevra contro il Portogallo [privo di Cristiano Ronaldo, il suo miglior giocatore], in un incontro amichevole per modo di dire, perché una vittoria avrebbe significato per gli azzurri entrare tra le teste di serie nel sorteggio dei gironi di qualificazione al mondiale del 2018. Cosa di cui il Portogallo non aveva bisogno perché, anche perdendo, sarebbe comunque rimasto tra le squadre già designate come teste di serie. Ma il commissario tecnico sostiene che questo non ha molta importanza [evidentemente non pensa di restare tanto a lungo nel suo incarico!] e che in ogni caso tutto dipende dai risultati conseguiti dalla nazionale prima del suo avvento. Certo, è un po’ strano che l’Italia, vincitrice del mondiale per ben 4 volte, di cui l’ultima nel 2006 [nel 2010 ha vinto la Spagna e nell’ultima edizione del 2014, la Germania] , non faccia parte delle teste di serie. Ma le alchimie della FIFA e i suoi criteri, com’è noto, sono ineffabili.

 Ciò premesso, ritengo che a giudicare dal calcio espresso nelle dieci partite sin qui disputate, sotto la gestione di Conte [Con 5 vittorie, 4 pareggi e una sconfitta], l’Italia del pallone non meriti di far parte del ristretto numero delle teste di serie per il mondiale. Infatti, se si esclude l’incontro amichevole vinto contro una rimaneggiata Olanda e quello, valevole per le qualificazioni europee, vinto in casa della Norvegia, tutte le partite successive hanno messo in mostra il non-gioco degli italiani. Ci hanno tuttavia premiato i risultati, con le striminzite vittorie in casa contro Azerbaijan e Albania e fuori casa contro Malta [come si vede, tutte e tre grandi potenze calcistiche!]. Ma, anche sotto questo profilo, le cose sono cambiate e, dal mese di Novembre 2014, l’Italia non riesce più a vincere, inanellando solo pareggi e, da ultimo, la sconfitta di ieri notte. Il non-gioco, insomma, non paga più, né c’è da stupirsene. Troppa sperimentazione, soprattutto in attacco, ma anche nel centrocampo, e quando mancano Chiellini e Barzagli ci sono problemi anche per la difesa: dopo il modesto Astori visto contro la Croazia, è il turno dell’inguardabile Ranocchia di ieri e appare incredibile che, con sei cambi a disposizione, Conte non abbia provveduto a sostituirlo. Che dire poi della formazione schierata per tutto il primo tempo e per un quarto d'ora del secondo, contro il Portogallo? Con un centrocampo inedito dove si è visto solo Pirlo, e un attacco formato da chi in campionato ha disputato solo qualche partita, per via dei ricorrenti infortuni [El Shaarawy], da chi come Immobile sparisce dal campo dopo i primi dieci minuti  e da chi come Candreva  ha sempre disputato pessime partite in nazionale, anche se gli ineffabili telecronisti della Rai, non hanno ancora smesso di esaltarlo per la partita contro la Croazia, dove segna un rigore col cucchiaio e corre tanto, ma sbaglia regolarmente gli assist  e per una decina di volte perde palla in prossimità della metà campo, innestando micidiali ripartenze avversarie. 

 È vero che erano indisponibili Eder, Zaza e qualche altro, ma perché non schierare sin dall’inizio Vasquez, Matri o Gabbiadini? Così, per rimontare una partita nella quale il Portogallo ha dominato per condizione fisica e organizzazione di gioco, cosa fa Conte? Ricorre a un improponibile 4-2-4, dopo il 4-3-3 iniziale e abbandonando il 3-5-2 che è il modulo che gli è più congeniale e con il quale ha vinto tre scudetti di fila con la Juventus. Può darsi che Antonio Conte, così come tanti altri grandi tecnici, italiani e non, sia più adatto ad allenare un club prestigioso piuttosto che la nazionale. Resta il fatto che, di là dai moduli e dal ruolo che riveste, egli dovrebbe cominciare a studiare una strategia per il gioco d’attacco, così come ha sempre fatto egregiamente per difesa e centrocampo, almeno finché ha potuto disporre di tutti gli effettivi. Un problema con gli attaccanti Antonio Conte l’ha sempre avuto; anche nella Juve, almeno dei primi due scudetti, li cambiava di continuo e i bianconeri faticavano molto ad andare in goal. Una questione che la squadra finiva poi per risolvere per la qualità complessiva del suo organico, per la presenza di qualche individualità eccellente, per la modestia degli avversari di campionato, e grazie alle reti di difensori e centrocampisti. 

 Una visione del gioco “globale”, quella di Conte, che finisce per sacrificare le punte, costrette a “tornare” di continuo e a sfiancarsi, snaturando il proprio ruolo. Nella maggior parte delle gare disputate sin qui dalla “sua” nazionale purtroppo non si è visto neanche questo, ma solo un ibrido tatticismo che ha prodotto il non-calcio e goal pochi e stentati. Sono anch’io certo, così come Conte, che col lavoro [e soprattutto con altri giocatori] le cose miglioreranno, ma intanto lo spettacolo offerto dalla squadra azzurra rasenta il penoso.

 Naturalmente, le responsabilità di Conte sono minime rispetto a quelle della Federazione Italiana. Scrivevo in un precedente post [IL NON-CALCIO DELLA NAZIONALE ITALIANA. Clicca sopra per leggere tutto]:

“[…] Inoltre, la FIGC [La Federazione Italiana Gioco Calcio, nuova nei suoi dirigenti e con un presidente che appena insediato si è subito segnalato per dichiarazioni improvvide che gli sono valse sei mesi di squalifica internazionale], che pure ha il merito di aver affidato ad Antonio Conte la conduzione della nazionale, sembra intenzionata a non cambiare nulla, perseguendo in tutto e per tutto nella politica che sta uccidendo lo sport nazionale per eccellenza, secondo una vocazione che ormai caratterizza il Paese del Gattopardo, non solo nel gioco del calcio, ma purtroppo in ogni ambito della vita civile”.

 E si può stare certi che nulla cambierà per il prossimo futuro: le squadre italiane continueranno a giocare in campionato con 9, 10 e anche undici calciatori stranieri. I vivai giovanili, dove sopravvivono, servono solo al calcio minore e si riempiono di extracomunitari giustamente in cerca di mutare la propria sorte. L’importazione dei giocatori dai vari continenti e l’arricchimento dei procuratori, dei loro affini e compari, continuerà come prima e ogni anno vedremo arrivare nel Bel Paese non già qualche grande campione, ma comitive di “mezze seghe” che qualche direttore tecnico spaccerà per grandi campioni, salvo a liberarsene l’anno dopo per un nuovo e proficuo “rifornimento”.

sergio magaldi

martedì 16 giugno 2015

IL RACCONTO DEI RACCONTI di Matteo Garrone

Il racconto dei racconti, regia di Matteo Garrone, Italia, Regno Unito, Francia, 2015, 125 minuti


 Così come il film di Paolo Sorrentino [vedi il post YOUTH – LA GIOVINEZZA e clicca sopra per leggere], anche IL RACCONTO DEI RACCONTI – TALE OF TALES resta a digiuno di premi al recente Festival di Cannes. Ma il nuovo lavoro di Matteo Garrone [dopo i successi di Gomorra del 2008 e di Reality del 2012] ha altre similitudini con quello di Sorrentino. I due registi napoletani hanno in comune il girare in inglese, con attori internazionali [anche se Garrone assegna due piccole parti a Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher] e si affidano entrambi a una sequenza di quadri animati, come purtroppo nella consolidata tradizione del cinema italiano degli ultimi decenni. Naturalmente ci sono quadri e quadri. Un conto è sovrapporre scene a scene, di cui ciascuna se ne sta per conto proprio, un altro è affidare al quadro la bellezza e l’efficacia della narrazione, senza troppo togliere al ritmo che scandisce la storia e che rappresenta l’anima stessa di un film. E se la splendida fotografia di Luca Bigazzi dà a Youth-La Giovinezza  una dimensione onirica di notevole efficacia, nel film di Garrone la fotografia di Peter Suschitzky, anche se altrettanto bella, non produce lo stesso effetto perché si avvale di un realismo iperbolico che sa di maniera e troppo strizza l’occhio allo spettatore che predilige il mostruoso e la vista del sangue. Si può osservare che quasi non c’era alternativa, dovendo il film narrare di fiabe intessute di magia, con streghe, fate, orchi e animali fantastici. Resta tuttavia l’impressione di aver voluto compiacere troppo lo spettatore dal palato forte.

 Per la verità, le similitudini formali dei due film riflettono abbastanza chiaramente la decadenza italiana nell’età della globalizzazione. Il messaggio è sin troppo chiaro: se si vuole mandare in giro per il mondo un film italiano con qualche prospettiva di successo e di incassi, occorre girarlo in inglese e con attori internazionali. La tradizione dei grandi attori italiani sembra essersi interrotta. Così come in tutti i settori della vita pubblica, la crisi del cinema, della cultura in generale e persino dello sport hanno un padre e una madre che poco hanno a che fare con il “villaggio globale”. Si chiamano mancato sviluppo di uno stato immobile e corporativo e corruzione della politica, della burocrazia e della società civile che conta. In Italia ormai si sopravvive, nel declino inarrestabile, appunto, e senza una politica per il cinema e per la cultura – [e non solo: c’è forse una politica per i migranti? Per l’occupazione? Per l’abbattimento dei tanti privilegi? Persino per il calcio, il nostro sport nazionale? Matteo Renzi ha dato l’idea di volerci provare a cambiare le cose, ma sta già per essere la vittima dei tanti condizionamenti interni e internazionali e della propria mancanza di coraggio] – , solo grazie a singole genialità che col passare del tempo si fanno sempre più rare. Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e pochi altri sono nel cinema italiano queste individualità e occorre riconoscerlo.




Giambattista Basile, Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenemiento de peccerille, Napoli, 1834-1836




  Non era facile portare sullo schermo Lo cunto de li cunti o Pentamerone di Giambattista Basile, un letterato napoletano del Seicento. Garrone lo fa scegliendo tre delle sue 50 fiabe. Le svolge separatamente e liberamente, passando di continuo dall’una all’altra, per poi unificarle nelle sequenze finali. Si tratta, in rapida successione e secondo le parole stesse del Basile di:

LA CERVA FATATA
TRATTENEMIENTO NONO
DE LA IORNATA PRIMMA
Nasceno per fatazione Fonzo e Canneloro: Canneloro
è ’nmidiato da la regina, mamma de Fonzo, e le rompe
la fronte. Canneloro se parte e, deventato re, passa no
gran pericolo. Fonzo, pe vertute de na fontana e de na
mortella, sa li travaglie suoie e vace a liberarlo.

 Sullo schermo, la fiaba subisce diversi mutamenti e presto ne comprendiamo il perché. La chiave del racconto è nelle parole che un “saccente” rivolge al re venuto a pregarlo di un prodigio perché la regina resti finalmente gravida. Così il mago risponde alla supplica, nel linguaggio dello stesso Basile:

   E chillo respose: «Ora siente buono, si la vuoi ’nzerta-
re a piro: fà pigliare lo core de no drago marino e fallo
cocinare da na zitella zita, la quale, a l’adore schitto de
chella pignata, deventarrà essa perzì co la panza ’ntorza-
ta; e, cuotto che sarrà sto core, dallo a manciare a la regi-
na, che vedarrai subbeto che scirrà prena, comme si fos-
se de nove mise». «Comme pò essere sta cosa?»
repigliaie lo re, «me pare, pe te la dicere, assaie dura a
gliottere». «No te maravigliare», disse lo viecchio, «ca si
lieie la favola, truove che a Gionone passanno pe li cam-
pe Olane sopra no shiore l’abbottaie la panza e figliaie».
«Si è cossì», tornaie a dicere lo re, «che se trove a sta
medesema pedata sto core de dragone.

 A seguire, l’incipit della seconda favola:

LO POLECE
TRATTENEMIENTO QUINTO
DE LA IORNATA PRIMMA
No re, c’aveva poco penziero, cresce no polece gran-
ne quanto no crastato, lo quale fatto scortecare, offere la
figlia pe premmio a chi conosce la pella. N’uerco la sen-
te a l’adore e se piglia la prencepessa: ma da sette figli de
na vecchia con autetante prove è liberata.

E dunque, l’antefatto della terza:

LA VECCHIA SCORTECATA
TRATTENEMIENTO DECEMO
DE LA IORNATA PRIMMA
Lo re de Roccaforte se ’nnammora de la voce de na
vecchia, e, gabbato da no dito rezocato, la fa dormire
cod isso. Ma, addonatose de le rechieppe, la fa iettare pe
na fenestra e, restanno appesa a n’arvolo, è fatata da set-
te fate e, deventata na bellissema giovana, lo re se la pi-
glia pe mogliere. Ma l’autra sore, ’nmediosa de la fortu-
na soia, pe farese bella se fa scortecare e more.

 Il poco comprensibile napoletano del Seicento, dialetto nel quale Giambattista Basile scrisse il suo Lo cunto dei li cunti, fu reso in italiano da Benedetto Croce, con l’aggiunta di una preziosa introduzione che valse all’autore delle fiabe una fama duratura, per via dei meriti che il noto filosofo e poligrafo napoletano riconobbe all’opera del suo concittadino. Scrive tra l’altro Croce:

Il Cunto de li Cunti è un libro di fiabe. E le fiabe, — 
non occorre quasi il dirlo — , sono racconti popolari tra- 
dizionali di avventure, alle quali pigliano parte esseri 
umani, ed esseri sovraumani od estraumani della mitolo- 
gia popolare, come fate, orchi, animali parlanti, ecc. Que- 
sto complesso di racconti tradizionali, la cui origine è 
incerta e discussa e risale senza dubbio a una remota 
antichità, viene ora considerato dalla moderna filologia 
come un gruppo di documenti importanti per la storia 
del genere umano e per la psicologia popolare. Ma, per 
molti secoli, essi non furono se non un oggetto di diletto 
e di trattenimento pel popolo ingenuo e pei fanciulli, che 
avidamente li ascoltavano: lo scienziato disdegnava d'ap- 
pressarvisi, e solo, di rado, vi si appressò l'artista. 

E uno dei primi artisti, anzi il primo, che vi si ap- 
pressasse, fu appunto il nostro Giambattista Basile. Non 
già che, prima di lui, la materia delle fiabe non fosse 
passata sotto le penne dei letterati. Varie fiabe contiene 
il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino; varie altre, per 
esempio, se ne ritrovano nel Mambrìano del Cieco di 
Ferrara, e sono state recentemente studiate; e molte 
altre ancora sarebbe agevole scavarne nella gran conge- 
rie dei nostri libri di novelle. E, finalmente, nel secolo 
decimosesto, ci fu uno scrittore, Giovan Francesco Stra- 
parola da Caravaggio, che, nelle sue Piacevoli Notti (pri- 
ma ediz., 1550, 1553), di molte sue novelle tolse la ma- 
teria da fiabe e facezie popolari; tanto che, per questo 
rispetto, può riguardarsi come il precursore del Basile. 
Ma, negli scritti di costoro, le fiabe sono modificate, 
regolarizzate, svisate. Essi le atteggiano a novelle citta- 
dine, le spogliano, per quanto possono, del meraviglioso 
messovi dalla fantasia popolare, e, infine, le raccontano 
sempre col rigido vecchio stile dei novellieri italiani. 
Dello Straparola dissero giustamente i Grimm: « Si sforzò 
di narrare secondo il modo solito e prestabilito, e non 
seppe far risuonare una nuova corda ». E si può dire 
che, con essi, le fiabe entrarono bensì nel campo della 
letteratura, ma vi entrarono di nascosto, inosservate, ca- 
muffate delle consunte vesti degli epigoni Boccacceschi. 
Invece, col Canto de li Cunti fecero un ingresso aperto, 
trionfale, nel campo dell'arte, abbigliate di tutta la pompa 
e le bizzarre e strane fogge della fantasia popolare. 
 
Il Basile racconta le fiabe come fiabe. — Ma quale 
interesse poteva egli prenderci, qual significato poteva 
darci, perché ripeteva e rifaceva queste fiabe, che aveva 
raccolto dal popolo? Qual' era, insomma, l’intuizione, che 
aveva, di questa sua materia? — Bisogna determinare 
questo punto, per determinare la natura dell'opera. 
 
Le fiabe, considerate come materia grezza, possono 
servire, naturalmente, a scopi svariati, scientifici, morali, 
artistici. E, tralasciando gli scopi scientifici e morali, 
[…] possono dar luogo ad una sorta di poe- 
tica rievocazione del passato fanciullesco ed ingenuo.

[…]il Basile era un letterato seicen- 
tista, e alle cose del popolo prendeva quell'interesse che 
solo poteva prenderci un letterato seicentista. Lo attira- 
vano lo strano, il goffo, l'assurdo, motivi per lui di co- 
mico spiritoso! E, per bizzarria, porse orecchio attento 
a questi cunti, che soleno dire le vecchie pe trattenemiento 
de peccerille; e, per bizzarria, prese poi a ripeterli, a 
volta facendo mostra di obliarvisi e interessarvisi, cosic- 
ché per la sua bocca parla il popolo in tutta la serietà 
del suo sentimento, a volte tornando sopra se stesso, e 
scherzando e facendone la caricatura. 
 
Per quanto questi sentimenti paiano, a prima vista, 
contraddittorii, per tanto essi sono sinceri e reali. Il sen- 
timento ha di queste stranezze e di questi ondeggiamenti; 
ed è naturale che l'opera d'arte, — ritraendo non la ve- 
rità logica, ma, semplicemente, la verità psicologica — , 
li rispecchi fedelmente. Il Basile non ripete commosso e 
ingenuo le fiabe dell'infanzia, e neanche le fa oggetto di 
uno scherzo e di una parodia, che sarebbero davvero sine 
ictu. Egli rappresenta, e, talvolta, scherza. E nei tratte- 
nemienti del Cunto de li Cunti, par di vedere, a volta a 
volta, ora la faccia grinzosa di una delle vecchie novella- 
trici; ora il volto arguto e ridento del Cavalier Basile. 

[…]nella sua 
opera le fiabe si ritrovino schiette e senza alterazioni. 
Egli comincia col serbar alla fiaba tutta la sua realtà po- 
polare: non vuol sollevarla a più alto stile, ma anzi vuol 
restare in tutta la bassezza e la volgarità della sua ma- 
teria. E, con queste disposizioni d'animo, è naturale che, 
nella sua opera, viva moltissima parte dell'intonazione 
e del sentimento popolare. 
 
Ma, a questa rappresentazione esatta e realistica, si 
mescolano, come si è detto, molti elementi burleschi ' 
e individuali. — E il primo elemento burlesco, che il ! 
Basile introduce nella sua raccolta di fiabe, è appunto / 
quella specie di macchinario epico, — Pentamerone — , / 
che costruisce con esse : le cinquanta fiabe delle cinque 
giornate sono tutte collegate tra loro, e racchiuse in una 
cornice generale, che ravvicina questo libro di fiabe ai 
più classici libri italiani di novelle, ai Decameron, alle 
Cene, ai Diporti, alle Piacevoli Notti, ecc. 
 
[…]Né lo stile del Basile, è un'apparizione cosi strana 
che, per ispiegarselo, bisogni uscire fuori del suo tem- 
po e del suo paese. Quello stile bizzarro é frutto del 
seicento letterario e dell'ingegno napoletano. Anche per 
Giordano Bruno, — compaesano e quasi contemporaneo 
del Basile — , il Mounier fece l'ipotesi che conoscesse 
il Rabelais e se ne appropriasse lo stile. E, — lasciando 
stare che sia piuttosto ardito il concepire lo stile di 
Giordano Bruno come qualcosa di esterno al suo carat- 
tere e al suo pensiero — , chi non vede che il ripe- 
tersi dello stesso caso per scrittori dello stesso tempo e 
dello stesso paese, é un'altra prova della poca verisimi- 
glianza di un' imitazione, fatta, e fatta misteriosamente, su 
cosi larga scala! — Il Basile applicava alle fiabe del 
Cunto de li Cunti i gusti comici suoi e del suo tempo. 

Il libero adattamento delle tre fiabe di Giambattista Basile, con i sostanziali cambiamenti apportati all’intreccio, ubbidisce in Matteo Garrone, oltre che a esigenze di copione, a un intento etico-pedagogico, per di più di ispirazione esoterica, che non sarebbe piaciuta a Benedetto Croce. Il filosofo, infatti, coglie il merito del letterato proprio nel raccontare “le fiabe come fiabe”, serbandole nella loro schiettezza e “senza alterazioni”. Insomma, l’originalità del Basile sta nel non sottrarre alla fiaba il retroterra popolare da cui proviene, né di pretendere di sollevarla a uno stile più alto, lasciandola al contrario “in tutta la bassezza e la volgarità della sua materia”.
 
L'intento di Garrone sarebbe tuttavia piaciuto a Ferdinando Galliani, 
al quale il Croce rimprovera di non aver capito Giambattista Basile. Scrive
Galliani a proposito dell'autore di Lo cunto de li cunti:

 
 « A costui {cioè al Basile), disgraziatamente 
per noi, venne il capriccio di contraffare l'incomparabile 
Decamerone di Giovanni Boccaccio, e compose un Pen- 
tamerone nel dialetto napoletano, e cosi divenire il 
Boccaccio, sia il testo di esso. A tanta impresa man- 
cavangli interamente i talenti per eseguirla. Privo in 
tutto e di genio elevato, e di filosofia, e di felicità d'in- 
venzione, e di ricchezza di cognizioni, a poter immagi- 
nare adornare novelle graziose o interessanti, o tragi- 
che, o lepide, o morali, altro non seppe pensare che 
d'accozzare racconti delle Fate e dell'Orco così insipidi, 
mostruosi, e sconci, che gli stessi Arabi, fondatori di 
questo depravatissimo gusto, si sarebbero arrossiti d'aver- 
gli immaginati » 

 Cosa fa Matteo Garrone nel portare sullo schermo le tre fiabe di Giambattista Basile? Le lega tra loro in una chiave metafisica e le rende portatrici di un messaggio karmico, collegato addirittura all’esoterismo della Qabbalah. Dice il saggio al re e alla regina che desiderano un figlio: “Non c’è desiderio che possa essere soddisfatto senza un corrispettivo da pagare, né c’è qualcosa che nasce senza qualcosa che muore”. E la spiegazione di queste affermazioni è semplice, osserva il saggio: la grande legge dell’universo è “l’equilibrio della bilancia”. L’affermazione ricorre spesso nello Zohar, l’opera più complessa e articolata della tradizione esoterica degli ebrei. Ci ricorda che ogni mutamento che gli esseri umani provocano più o meno consapevolmente all’interno della Manifestazione, deve di necessità essere bilanciato. L’ultima scena del film illustra chiaramente il concetto, rivelando al tempo stesso l’intento del regista: rappresentare la “materia vile” della fiaba, in tutto il suo realismo magico e nello stupore del suo cromatismo, per innalzarla a monito e insegnamento della legge che domina l’universo. Ciò che sarebbe piaciuto a Ferdinando Galliani ma che avrebbe fatto gridare al tradimento dello spirito del Basile da parte di Benedetto Croce.

 Non a caso, tuttavia, Matteo Garrone dichiara di essersi ispirato liberamente alle fiabe del Basile. E, forte di questa libertà, ha buon gioco nel trasformarle sullo schermo in filosofia di vita. L’operazione gli riesce e il film risulta godibile, pur con i limiti di cui dicevo sopra.

sergio magaldi
    



domenica 7 giugno 2015

JUVENTUS: E FANNO SEI...




  Sesta finale europea persa dalla Juve e, dunque, pronostico rispettato, con il Barcellona che si aggiudica la “Champions” 2015. Non che il famoso club catalano non abbia meritato la prestigiosa Coppa, ma rivedendo il film della partita e ancora di più l’organizzazione della Juventus in campo viene da chiedersi se la squadra italiana non abbia perso un’occasione forse irripetibile nel breve tempo. Si ha un bel dire che i bianconeri ci riproveranno l’anno prossimo. Tutti sanno che, oltre al merito, sono stati gli incroci favorevoli [Persino il Real Madrid, incontrato in semifinale, e non il Bayern o il Barcellona, come poteva capitare] a spingere la Juve verso la finale di Berlino e, in più, è abbastanza probabile che nella prossima stagione calcistica lasceranno sia Tevez che Pirlo, ne è da escludere la cessione dei centrocampisti Pogba e Vidal. Quattro pezzi pregiati della scacchiera bianconera che naturalmente sarebbero sostituiti adeguatamente ma, come si sa, gli innesti non sempre sono positivi o, almeno, potrebbero non esserlo nell’immediato. E i nomi di cui si parla per le eventuali sostituzioni non sembrano in grado di offrire garanzie certe. È vero che tanto il giovane campione francese che “El guerrero” cileno non sono stati all’altezza della prestazione offerta lo scorso anno, ma è altrettanto vero che i loro sostituti potrebbero farli rimpiangere.

 Insomma, con una difesa forte ma più vecchia di un anno, un centrocampo da ricostruire, se lasciassero in tre [Pirlo, Pogba e Vidal] e un attacco senza Tevez e tutto da sperimentare, la società bianconera potrebbe incontrare qualche difficoltà anche nel campionato italiano dove si troverà ad affrontare la sfida, oltre che delle due squadre romane, anche delle due milanesi, che di sicuro usciranno rafforzate dal mercato estivo.

 Ciò premesso, guardando alla partita di ieri notte c’è il rammarico per il calcio di rigore non concesso alla Juve per l’atterramento di Pogba in area di rigore blaugrana, quando la partita era sul punteggio di 1-1 e la Juve nel suo migliore momento, e soprattutto per la mancata punizione di un fallo commesso sulla fascia destra di metà campo ai danni dello stesso Pogba. Infatti, la palla persa dal francese era subito recuperata dagli avversari e il Barcellona, grazie anche a una cattiva respinta di Buffon su un tiro del grande Messi, chiudeva di fatto la sfida realizzando il goal del 2-1.

 In conclusione, non si può negare che abbia vinto il migliore, sia per mole di gioco che per spessore tecnico, ma si sa che nel calcio non sempre vince la squadra più forte e la Juventus ha perso la sua occasione, un po’ per le decisioni dell’arbitro turco, un po’ per i limiti di una organizzazione di gioco che è apparsa inadeguata nell’affrontare la formazione oggi forse più competitiva a livello mondiale. Non si può “regalare” il centrocampo al Barcellona così come ha fatto la Juve, con Pirlo a difendere, Pogba e Vidal a svariare disordinatamente sulla Tre quarti e lasciando il solo Marchisio a formare una diga - mai costruita al centro del campo - contro il formidabile trio d’attacco dei blaugrana. Non si può tentare di offendere [per di più con tiri sbilenchi o “telefonati”], così come hanno fatto i bianconeri, esponendosi alle continue ripartenze degli avversari. Un difetto non nuovo, questo della Juve, ma che contro avversari così forti diventa un suicidio. Scontato il maggior possesso palla degli avversari, bisognava fronteggiare i catalani sulla metà campo e non nella propria area di rigore, come spesso è avvenuto, e l’attacco doveva essere impostato proprio su quelle ripartenze che, al contrario, si sono rivelate fatali. Le caratteristiche del Barcellona si conoscono bene, e se la Juventus ha avuto un torto è stato quello di impostare la partita così come avrebbe fatto contro una qualsiasi squadra del campionato italiano, senza preoccuparsi di studiare una tattica specifica da opporre al temibile avversario che si trovava di fronte.
                                                                                                                            

sergio magaldi  

giovedì 4 giugno 2015

YOUTH - LA GIOVINEZZA

YOUTH-LA GIOVINEZZA, regia di Paolo Sorrentino, Italia, 2015, 118 minuti



  Youth di Paolo Sorrentino, contrariamente alle aspettative, resta a bocca asciutta al Festival del cinema di Cannes. La stessa cosa era capitata a La Grande Bellezza e aveva portato fortuna, perché mesi dopo il regista napoletano avrebbe ottenuto l’Oscar per il miglior film straniero.

 Youth solo nella locandina reca il sottotitolo “La Giovinezza”, nell’originale è interamente in inglese [titolo compreso], con la motivazione ufficiale che, avendo come protagonista Michel Caine, non poteva che essere girato in questa lingua. E, del resto, nel cast predominano gli attori britannici e statunitensi con poche eccezioni, come l’argentino Roly Serrano, sosia di Maradona, o la bella rumena Mădălina Diana Ghenea, nel ruolo di Miss Universo.

 Pur parlando inglese e con un cast internazionale, come si suole dire, di tipo stellare, il film vanta una regia sicuramente di stile italiano, con una serie di quadri animati che purtroppo appartengono ormai, con qualche rara eccezione, alla tradizione del cinema nazionale degli ultimi venti o trent’anni. Quadri che la fotografia di Luca Bigazzi rende però stupendi, con immagini oniriche concepite da Sorrentino con rara efficacia e dove il bello, il grottesco, l’orrore, il desiderio e il pacchiano si alternano tra musiche e canzoni in un turbinio di luci e colori. Quadri didascalici per apprendere come utilizzare la vita nel tempo della giovinezza ma soprattutto durante la vecchiaia.

 Insomma, se nel film che gli ha dato l’Oscar, La Grande Bellezza [vedi il post Omaggio a La Grande Bellezza, cliccando sopra per leggere], Sorrentino si era sottratto alla staticità e alla separatezza delle sequenze, grazie al grande dinamismo di Toni Servillo e alle immagini di Roma, città eterna, che costituivano il forte leitmotiv della gracile trama, qui la pur ottima interpretazione di Michel Caine, velata di malinconia per esigenze di copione e non solo, ripete il miracolo solo a metà e il film rimane sospeso tra la bellezza cromatica e la sagacia comunicativa da una parte, e l’inadempienza stilistica che ne riduce il ritmo, dall’altra.

 Alla bellezza, decadente ma viva, della città vegliata dai sette colli e cullata dal Tevere, si sostituisce qui la cornice di un resort delle Alpi svizzere dove si ritrovano, per ritemprarsi dalla fatica di vivere, vip di ogni genere, pensionati di lusso, artisti, ex grandi calciatori, attori poco soddisfatti di sé e che si appartano per studiare nuovi personaggi, rare donne in carriera, le cui splendide forme nude sfidano vecchiaia e morte, più di quanto non riesca al monaco buddista che fa levitare il suo corpo. Tutti più vicini alla natura, ma già paradossalmente più lontani dalla vita. In questo paradiso artificiale, l’unica musica possibile per Fred Ballinger [Michel Caine], illustre compositore e direttore d’orchestra, è quella prodotta dallo strofinio della carta che avvolge le caramelle rossana o dai suoni spontanei prodotti dagli animali nel loro habitat naturale. 

 Al contrario di lui, Mick Boyle [Harvey Keitel], suo amico e noto regista, è venuto al resort svizzero, con la sua troupe di cineasti per realizzare un film che vuole essere anche il suo testamento spirituale. E mentre Fred rifiuta l’invito della regina d’Inghilterra di recarsi a Buckingham Palace per dirigere le sue Canzoni semplici, cantate da un’artista giapponese di fama internazionale, e riceverne in cambio il titolo di sir, Mick si prodiga con ansia per portare a compimento il suo progetto. Dove l’uno [Fred] sa come controllare le proprie emozioni, l’altro [Mick] affida proprio all’emozione e al desiderio il compito di esorcizzare il tempo.

 In questo contrasto, si fa spazio con forza la dialettica di Sorrentino. Fred, in fondo, ha sempre pensato che le emozioni siano sopravvalutate, e lo dichiara apertamente. Questa sua consapevolezza, dunque, non è, come potrebbe apparire, una conquista della vecchiaia ma, come gli rimprovera la figlia Lena [una brava Rachel Weisz], una forma di egoismo artistico che lo ha sempre tenuto lontano dalla famiglia. Mick pensa invece che le emozioni siano tutto ciò che abbiamo e anche negli anni che gli restano da vivere non ha dismesso questa filosofia.

 La domanda a questo punto è: quando è tramontata la giovinezza e si approssima la morte, cosa ci tiene ancora in vita? Il futuro –  sembra rispondere il regista – nella vita di ognuno è garantito dal desiderio, nelle sue tante sfumature, e ciò è tanto più vero durante la vecchiaia. Se però ce ne lasciamo travolgere, usciamo sconfitti e, nello scacco del desiderio, non ci resta che la strada già indicata da Novalis, il poeta e filosofo romantico citato nel film. Scrive il pensatore tedesco nei versi di Anelito di morte: “Non più ci attraggono terre straniere,/vogliamo tornare alla casa del Padre”.

 Se, al contrario, nell’apparente atarassia, sappiamo conservare il desiderio nell’anima, allora la vita è ancora possibile, anche in tarda età. Messaggio sottile questo di Sorrentino, ancorché a una mente superficiale possa apparire contraddittorio o giungere malinteso. E il finale del film, pur in uno ostentato ottimismo che non convince del tutto per la coreografia, sembra una risposta alle parole  con cui Jep Gambardella calava il sipario su La Grande Bellezza:

 Finisce sempre così… con la morte. Prima però c’è stata la vita… nascosta sotto il bla… bla… bla… bla… bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore… il silenzio e il sentimento… l’emozione e la paura… gli sporadici inconsistenti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile… tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo…

 Insomma, al di là di certe cadute stilistiche, che purtroppo sembrano ormai connaturate al cinema italiano, il film di Sorrentino si muove efficacemente e con la consueta eleganza nella prosecuzione di un discorso già iniziato con il lavoro che gli ha meritato l’Oscar. La vita, nella giovinezza come nella vecchiaia, è inseguita dal tempo e non c’è rimedio. Le uniche consolazioni sono la bellezza e la serenità dello spirito.


sergio magaldi