martedì 16 giugno 2015

IL RACCONTO DEI RACCONTI di Matteo Garrone

Il racconto dei racconti, regia di Matteo Garrone, Italia, Regno Unito, Francia, 2015, 125 minuti


 Così come il film di Paolo Sorrentino [vedi il post YOUTH – LA GIOVINEZZA e clicca sopra per leggere], anche IL RACCONTO DEI RACCONTI – TALE OF TALES resta a digiuno di premi al recente Festival di Cannes. Ma il nuovo lavoro di Matteo Garrone [dopo i successi di Gomorra del 2008 e di Reality del 2012] ha altre similitudini con quello di Sorrentino. I due registi napoletani hanno in comune il girare in inglese, con attori internazionali [anche se Garrone assegna due piccole parti a Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher] e si affidano entrambi a una sequenza di quadri animati, come purtroppo nella consolidata tradizione del cinema italiano degli ultimi decenni. Naturalmente ci sono quadri e quadri. Un conto è sovrapporre scene a scene, di cui ciascuna se ne sta per conto proprio, un altro è affidare al quadro la bellezza e l’efficacia della narrazione, senza troppo togliere al ritmo che scandisce la storia e che rappresenta l’anima stessa di un film. E se la splendida fotografia di Luca Bigazzi dà a Youth-La Giovinezza  una dimensione onirica di notevole efficacia, nel film di Garrone la fotografia di Peter Suschitzky, anche se altrettanto bella, non produce lo stesso effetto perché si avvale di un realismo iperbolico che sa di maniera e troppo strizza l’occhio allo spettatore che predilige il mostruoso e la vista del sangue. Si può osservare che quasi non c’era alternativa, dovendo il film narrare di fiabe intessute di magia, con streghe, fate, orchi e animali fantastici. Resta tuttavia l’impressione di aver voluto compiacere troppo lo spettatore dal palato forte.

 Per la verità, le similitudini formali dei due film riflettono abbastanza chiaramente la decadenza italiana nell’età della globalizzazione. Il messaggio è sin troppo chiaro: se si vuole mandare in giro per il mondo un film italiano con qualche prospettiva di successo e di incassi, occorre girarlo in inglese e con attori internazionali. La tradizione dei grandi attori italiani sembra essersi interrotta. Così come in tutti i settori della vita pubblica, la crisi del cinema, della cultura in generale e persino dello sport hanno un padre e una madre che poco hanno a che fare con il “villaggio globale”. Si chiamano mancato sviluppo di uno stato immobile e corporativo e corruzione della politica, della burocrazia e della società civile che conta. In Italia ormai si sopravvive, nel declino inarrestabile, appunto, e senza una politica per il cinema e per la cultura – [e non solo: c’è forse una politica per i migranti? Per l’occupazione? Per l’abbattimento dei tanti privilegi? Persino per il calcio, il nostro sport nazionale? Matteo Renzi ha dato l’idea di volerci provare a cambiare le cose, ma sta già per essere la vittima dei tanti condizionamenti interni e internazionali e della propria mancanza di coraggio] – , solo grazie a singole genialità che col passare del tempo si fanno sempre più rare. Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e pochi altri sono nel cinema italiano queste individualità e occorre riconoscerlo.




Giambattista Basile, Lo Cunto de li Cunti overo lo trattenemiento de peccerille, Napoli, 1834-1836




  Non era facile portare sullo schermo Lo cunto de li cunti o Pentamerone di Giambattista Basile, un letterato napoletano del Seicento. Garrone lo fa scegliendo tre delle sue 50 fiabe. Le svolge separatamente e liberamente, passando di continuo dall’una all’altra, per poi unificarle nelle sequenze finali. Si tratta, in rapida successione e secondo le parole stesse del Basile di:

LA CERVA FATATA
TRATTENEMIENTO NONO
DE LA IORNATA PRIMMA
Nasceno per fatazione Fonzo e Canneloro: Canneloro
è ’nmidiato da la regina, mamma de Fonzo, e le rompe
la fronte. Canneloro se parte e, deventato re, passa no
gran pericolo. Fonzo, pe vertute de na fontana e de na
mortella, sa li travaglie suoie e vace a liberarlo.

 Sullo schermo, la fiaba subisce diversi mutamenti e presto ne comprendiamo il perché. La chiave del racconto è nelle parole che un “saccente” rivolge al re venuto a pregarlo di un prodigio perché la regina resti finalmente gravida. Così il mago risponde alla supplica, nel linguaggio dello stesso Basile:

   E chillo respose: «Ora siente buono, si la vuoi ’nzerta-
re a piro: fà pigliare lo core de no drago marino e fallo
cocinare da na zitella zita, la quale, a l’adore schitto de
chella pignata, deventarrà essa perzì co la panza ’ntorza-
ta; e, cuotto che sarrà sto core, dallo a manciare a la regi-
na, che vedarrai subbeto che scirrà prena, comme si fos-
se de nove mise». «Comme pò essere sta cosa?»
repigliaie lo re, «me pare, pe te la dicere, assaie dura a
gliottere». «No te maravigliare», disse lo viecchio, «ca si
lieie la favola, truove che a Gionone passanno pe li cam-
pe Olane sopra no shiore l’abbottaie la panza e figliaie».
«Si è cossì», tornaie a dicere lo re, «che se trove a sta
medesema pedata sto core de dragone.

 A seguire, l’incipit della seconda favola:

LO POLECE
TRATTENEMIENTO QUINTO
DE LA IORNATA PRIMMA
No re, c’aveva poco penziero, cresce no polece gran-
ne quanto no crastato, lo quale fatto scortecare, offere la
figlia pe premmio a chi conosce la pella. N’uerco la sen-
te a l’adore e se piglia la prencepessa: ma da sette figli de
na vecchia con autetante prove è liberata.

E dunque, l’antefatto della terza:

LA VECCHIA SCORTECATA
TRATTENEMIENTO DECEMO
DE LA IORNATA PRIMMA
Lo re de Roccaforte se ’nnammora de la voce de na
vecchia, e, gabbato da no dito rezocato, la fa dormire
cod isso. Ma, addonatose de le rechieppe, la fa iettare pe
na fenestra e, restanno appesa a n’arvolo, è fatata da set-
te fate e, deventata na bellissema giovana, lo re se la pi-
glia pe mogliere. Ma l’autra sore, ’nmediosa de la fortu-
na soia, pe farese bella se fa scortecare e more.

 Il poco comprensibile napoletano del Seicento, dialetto nel quale Giambattista Basile scrisse il suo Lo cunto dei li cunti, fu reso in italiano da Benedetto Croce, con l’aggiunta di una preziosa introduzione che valse all’autore delle fiabe una fama duratura, per via dei meriti che il noto filosofo e poligrafo napoletano riconobbe all’opera del suo concittadino. Scrive tra l’altro Croce:

Il Cunto de li Cunti è un libro di fiabe. E le fiabe, — 
non occorre quasi il dirlo — , sono racconti popolari tra- 
dizionali di avventure, alle quali pigliano parte esseri 
umani, ed esseri sovraumani od estraumani della mitolo- 
gia popolare, come fate, orchi, animali parlanti, ecc. Que- 
sto complesso di racconti tradizionali, la cui origine è 
incerta e discussa e risale senza dubbio a una remota 
antichità, viene ora considerato dalla moderna filologia 
come un gruppo di documenti importanti per la storia 
del genere umano e per la psicologia popolare. Ma, per 
molti secoli, essi non furono se non un oggetto di diletto 
e di trattenimento pel popolo ingenuo e pei fanciulli, che 
avidamente li ascoltavano: lo scienziato disdegnava d'ap- 
pressarvisi, e solo, di rado, vi si appressò l'artista. 

E uno dei primi artisti, anzi il primo, che vi si ap- 
pressasse, fu appunto il nostro Giambattista Basile. Non 
già che, prima di lui, la materia delle fiabe non fosse 
passata sotto le penne dei letterati. Varie fiabe contiene 
il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino; varie altre, per 
esempio, se ne ritrovano nel Mambrìano del Cieco di 
Ferrara, e sono state recentemente studiate; e molte 
altre ancora sarebbe agevole scavarne nella gran conge- 
rie dei nostri libri di novelle. E, finalmente, nel secolo 
decimosesto, ci fu uno scrittore, Giovan Francesco Stra- 
parola da Caravaggio, che, nelle sue Piacevoli Notti (pri- 
ma ediz., 1550, 1553), di molte sue novelle tolse la ma- 
teria da fiabe e facezie popolari; tanto che, per questo 
rispetto, può riguardarsi come il precursore del Basile. 
Ma, negli scritti di costoro, le fiabe sono modificate, 
regolarizzate, svisate. Essi le atteggiano a novelle citta- 
dine, le spogliano, per quanto possono, del meraviglioso 
messovi dalla fantasia popolare, e, infine, le raccontano 
sempre col rigido vecchio stile dei novellieri italiani. 
Dello Straparola dissero giustamente i Grimm: « Si sforzò 
di narrare secondo il modo solito e prestabilito, e non 
seppe far risuonare una nuova corda ». E si può dire 
che, con essi, le fiabe entrarono bensì nel campo della 
letteratura, ma vi entrarono di nascosto, inosservate, ca- 
muffate delle consunte vesti degli epigoni Boccacceschi. 
Invece, col Canto de li Cunti fecero un ingresso aperto, 
trionfale, nel campo dell'arte, abbigliate di tutta la pompa 
e le bizzarre e strane fogge della fantasia popolare. 
 
Il Basile racconta le fiabe come fiabe. — Ma quale 
interesse poteva egli prenderci, qual significato poteva 
darci, perché ripeteva e rifaceva queste fiabe, che aveva 
raccolto dal popolo? Qual' era, insomma, l’intuizione, che 
aveva, di questa sua materia? — Bisogna determinare 
questo punto, per determinare la natura dell'opera. 
 
Le fiabe, considerate come materia grezza, possono 
servire, naturalmente, a scopi svariati, scientifici, morali, 
artistici. E, tralasciando gli scopi scientifici e morali, 
[…] possono dar luogo ad una sorta di poe- 
tica rievocazione del passato fanciullesco ed ingenuo.

[…]il Basile era un letterato seicen- 
tista, e alle cose del popolo prendeva quell'interesse che 
solo poteva prenderci un letterato seicentista. Lo attira- 
vano lo strano, il goffo, l'assurdo, motivi per lui di co- 
mico spiritoso! E, per bizzarria, porse orecchio attento 
a questi cunti, che soleno dire le vecchie pe trattenemiento 
de peccerille; e, per bizzarria, prese poi a ripeterli, a 
volta facendo mostra di obliarvisi e interessarvisi, cosic- 
ché per la sua bocca parla il popolo in tutta la serietà 
del suo sentimento, a volte tornando sopra se stesso, e 
scherzando e facendone la caricatura. 
 
Per quanto questi sentimenti paiano, a prima vista, 
contraddittorii, per tanto essi sono sinceri e reali. Il sen- 
timento ha di queste stranezze e di questi ondeggiamenti; 
ed è naturale che l'opera d'arte, — ritraendo non la ve- 
rità logica, ma, semplicemente, la verità psicologica — , 
li rispecchi fedelmente. Il Basile non ripete commosso e 
ingenuo le fiabe dell'infanzia, e neanche le fa oggetto di 
uno scherzo e di una parodia, che sarebbero davvero sine 
ictu. Egli rappresenta, e, talvolta, scherza. E nei tratte- 
nemienti del Cunto de li Cunti, par di vedere, a volta a 
volta, ora la faccia grinzosa di una delle vecchie novella- 
trici; ora il volto arguto e ridento del Cavalier Basile. 

[…]nella sua 
opera le fiabe si ritrovino schiette e senza alterazioni. 
Egli comincia col serbar alla fiaba tutta la sua realtà po- 
polare: non vuol sollevarla a più alto stile, ma anzi vuol 
restare in tutta la bassezza e la volgarità della sua ma- 
teria. E, con queste disposizioni d'animo, è naturale che, 
nella sua opera, viva moltissima parte dell'intonazione 
e del sentimento popolare. 
 
Ma, a questa rappresentazione esatta e realistica, si 
mescolano, come si è detto, molti elementi burleschi ' 
e individuali. — E il primo elemento burlesco, che il ! 
Basile introduce nella sua raccolta di fiabe, è appunto / 
quella specie di macchinario epico, — Pentamerone — , / 
che costruisce con esse : le cinquanta fiabe delle cinque 
giornate sono tutte collegate tra loro, e racchiuse in una 
cornice generale, che ravvicina questo libro di fiabe ai 
più classici libri italiani di novelle, ai Decameron, alle 
Cene, ai Diporti, alle Piacevoli Notti, ecc. 
 
[…]Né lo stile del Basile, è un'apparizione cosi strana 
che, per ispiegarselo, bisogni uscire fuori del suo tem- 
po e del suo paese. Quello stile bizzarro é frutto del 
seicento letterario e dell'ingegno napoletano. Anche per 
Giordano Bruno, — compaesano e quasi contemporaneo 
del Basile — , il Mounier fece l'ipotesi che conoscesse 
il Rabelais e se ne appropriasse lo stile. E, — lasciando 
stare che sia piuttosto ardito il concepire lo stile di 
Giordano Bruno come qualcosa di esterno al suo carat- 
tere e al suo pensiero — , chi non vede che il ripe- 
tersi dello stesso caso per scrittori dello stesso tempo e 
dello stesso paese, é un'altra prova della poca verisimi- 
glianza di un' imitazione, fatta, e fatta misteriosamente, su 
cosi larga scala! — Il Basile applicava alle fiabe del 
Cunto de li Cunti i gusti comici suoi e del suo tempo. 

Il libero adattamento delle tre fiabe di Giambattista Basile, con i sostanziali cambiamenti apportati all’intreccio, ubbidisce in Matteo Garrone, oltre che a esigenze di copione, a un intento etico-pedagogico, per di più di ispirazione esoterica, che non sarebbe piaciuta a Benedetto Croce. Il filosofo, infatti, coglie il merito del letterato proprio nel raccontare “le fiabe come fiabe”, serbandole nella loro schiettezza e “senza alterazioni”. Insomma, l’originalità del Basile sta nel non sottrarre alla fiaba il retroterra popolare da cui proviene, né di pretendere di sollevarla a uno stile più alto, lasciandola al contrario “in tutta la bassezza e la volgarità della sua materia”.
 
L'intento di Garrone sarebbe tuttavia piaciuto a Ferdinando Galliani, 
al quale il Croce rimprovera di non aver capito Giambattista Basile. Scrive
Galliani a proposito dell'autore di Lo cunto de li cunti:

 
 « A costui {cioè al Basile), disgraziatamente 
per noi, venne il capriccio di contraffare l'incomparabile 
Decamerone di Giovanni Boccaccio, e compose un Pen- 
tamerone nel dialetto napoletano, e cosi divenire il 
Boccaccio, sia il testo di esso. A tanta impresa man- 
cavangli interamente i talenti per eseguirla. Privo in 
tutto e di genio elevato, e di filosofia, e di felicità d'in- 
venzione, e di ricchezza di cognizioni, a poter immagi- 
nare adornare novelle graziose o interessanti, o tragi- 
che, o lepide, o morali, altro non seppe pensare che 
d'accozzare racconti delle Fate e dell'Orco così insipidi, 
mostruosi, e sconci, che gli stessi Arabi, fondatori di 
questo depravatissimo gusto, si sarebbero arrossiti d'aver- 
gli immaginati » 

 Cosa fa Matteo Garrone nel portare sullo schermo le tre fiabe di Giambattista Basile? Le lega tra loro in una chiave metafisica e le rende portatrici di un messaggio karmico, collegato addirittura all’esoterismo della Qabbalah. Dice il saggio al re e alla regina che desiderano un figlio: “Non c’è desiderio che possa essere soddisfatto senza un corrispettivo da pagare, né c’è qualcosa che nasce senza qualcosa che muore”. E la spiegazione di queste affermazioni è semplice, osserva il saggio: la grande legge dell’universo è “l’equilibrio della bilancia”. L’affermazione ricorre spesso nello Zohar, l’opera più complessa e articolata della tradizione esoterica degli ebrei. Ci ricorda che ogni mutamento che gli esseri umani provocano più o meno consapevolmente all’interno della Manifestazione, deve di necessità essere bilanciato. L’ultima scena del film illustra chiaramente il concetto, rivelando al tempo stesso l’intento del regista: rappresentare la “materia vile” della fiaba, in tutto il suo realismo magico e nello stupore del suo cromatismo, per innalzarla a monito e insegnamento della legge che domina l’universo. Ciò che sarebbe piaciuto a Ferdinando Galliani ma che avrebbe fatto gridare al tradimento dello spirito del Basile da parte di Benedetto Croce.

 Non a caso, tuttavia, Matteo Garrone dichiara di essersi ispirato liberamente alle fiabe del Basile. E, forte di questa libertà, ha buon gioco nel trasformarle sullo schermo in filosofia di vita. L’operazione gli riesce e il film risulta godibile, pur con i limiti di cui dicevo sopra.

sergio magaldi
    



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