lunedì 28 settembre 2015

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

A.Tornielli-G.Galeazzi, Papa Francesco Questa economia uccide, Piemme, 2015, pp.221


  Se mai ce ne fosse bisogno, il recente viaggio del Papa dimostra ancora una volta quanto sia più importante la comunicazione attraverso la tv e la rete, di quella che utilizza la carta stampata, che si tratti di libri, articoli, interviste e/o documenti ufficiali.

 In questi giorni, dopo l’ascolto in diretta delle parole pronunciate dal Pontefice a Cuba, davanti al Parlamento degli Stati Uniti e all’assemblea dell’Onu, l’opinione pubblica ritiene di aver scoperto elementi nuovi e definitivi su Papa Francesco. Si assiste così all’esaltazione entusiastica della sua figura da parte di una sinistra genericamente intesa e, di contro, alla critica più o meno garbata di una destra altrettanto genericamente intesa, circa i concetti da lui formulati in tali solenni occasioni. In realtà si tratta, mutatis mutandis, di affermazioni contenute già nell’esortazione apostolica  di circa due anni fa, l’ Evangelii Gaudium, e peraltro già note da tempo a chi si sia preso la briga di leggere una delle tante biografie in circolazione su Jorge Mario Bergoglio.  

 E per chi ama le sintesi, Papa Francesco Questa economia uccide – scritto da due vaticanisti di La Stampa e pubblicato da Piemme a inizio d’anno – quei concetti riassume, corredandoli di critiche del mondo anglosassone, cattolico e non, e di interviste, tra cui la più interessante è sicuramente quella con il Papa. Il fatto è che da decenni Bergoglio va dicendo più o meno le stesse cose. Certo, una cosa è dirle da superiore provinciale dei gesuiti, un’altra da vescovo, un’altra ancora da arcivescovo di Buenos Aires, e non c’è dubbio che ripetendole da papa, esse acquistino una risonanza planetaria.

 Innanzi tutto, gli autori respingono l’dea che in Vaticano si sia installato un marxista, un pontefice che si ispiri alla Teologia della liberazione. E questo è già noto da tempo. Scrivevo in un post [Francesco l’imperscrutabile, clicca sul titolo per leggere tutto], in merito alla biografia di Papa Francesco, positivamente tratteggiata dal vaticanista inglese Austen Ivereigh:

 “La realtà dei gesuiti argentini di quegli anni era molto complessa. C’era chi sosteneva la Teologia della Liberazione, non nascondendo le proprie simpatie per il marxismo e chi, come Bergoglio, si richiamava alla Teologia del Popolo [Il santo pueblo fiel de Dios] e al documento di Medellin che, sulla scia del Concilio Vaticano II, ampliò l’idea cristiana di liberazione e sottolineò la necessità di accogliere e soccorrere i poveri, mettendo tuttavia in guardia sia nei confronti del marxismo che del liberalismo. I sostenitori di queste concezioni simpatizzavano tutti per il peronismo, ma quando lo scontro sociale e l’instabilità politica si fece più forte, i peronisti [e di riflesso coloro che li appoggiavano] si divisero in una sinistra estrema, formata dai Montoneros e da altri gruppi di guerriglieri di ispirazione trotzkista, da un centro chiamato Guardia de hierro [Guardia di ferro] che ebbe il sostegno di Bergoglio, e da una estrema destra che anticipò le nefandezze di cui più tardi si rese colpevole la Giunta Militare. Lo stesso autore racconta che, dopo il crollo della dittatura e il ritorno alla democrazia parlamentare, Bergoglio fu isolato da una parte preponderante dei gesuiti del suo Paese che lo considerava un populista di destra [uno strano paradosso per un uomo che oggi in Italia piace ai radicali e alla sinistra e molto meno alla destra!]. Trascorse ritirato un paio di anni a Cordoba, privato di ogni potere, finché il Vaticano si ricordò di lui con la nomina a vescovo, poi ad ausiliario dell’arcivescovo di Buenos Aires, quindi ad arcivescovo della stessa città, e infine a cardinale nel 2001, per volontà di Giovanni Paolo II. Nel Conclave del 2005 fu secondo dopo Ratzinger, e papa nell’ultimo Conclave, dopo le dimissioni di Benedetto XVI”.

 Dopo questa doverosa smentita, nel libro suffragata solo da vaghi “si dice” [Il gesuita argentino (…) era conosciuto per non aver mai sposato certe tesi estreme della Teologia della liberazione,op.cit.,p.6], gli autori affrontano la tesi centrale del loro lavoro, soffermandosi su quella che il Papa chiama “economia dell’esclusione”, un’economia che uccide in virtù di una “cultura dello scarto”. Non è altro che la tesi contenuta nel paragrafo 53 dell’Esortazione Evangelii Gaudium di circa due anni fa:

 Così come il comandamento “non uccide­re” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’e­conomia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della compe­titività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di que­sta situazione, grandi masse di popolazione si ve­dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es­sere umano in se stesso come un bene di consu­mo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppres­sione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen­za alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.

 Con la variante dell’introduzione dell’abuso e della distruzione dell’ambiente, sono gli stessi concetti, espressi in sintesi, con minore patos, ma con altrettanta energia, di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite:

 L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono soffrire ingiustamente le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.

 I  successivi argomenti esposti nel libro riguardano la teoria della “ricaduta favorevole”, messa fortemente in dubbio dal Papa nel paragrafo 54 dell’Evangelii Gaudium:

 In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presup­pongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e inge­nua nella bontà di coloro che detengono il po­tere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter soste­nere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indiffe­renza. Quasi senza accorgercene, diventiamo in­capaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davan­ti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del be­nessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo anco­ra comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo.

 Questa tesi, con i successivi paragrafi 55 e 56, rispettivamente sull’idolatria del denaro e sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, unitamente all’affermazione di Papa Francesco: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”, costò al pontefice, come doverosamente riportano i due autori, il violento attacco verbale del commentatore radiofonico americano Rush Limbaugh: “Io sono stato varie volte in Vaticano: non esisterebbe, senza tonnellate di soldi […] La Chiesa cattolica americana ha un bilancio annuale da centosettanta miliardi di dollari. Penso sia più di quello che la General Electric incassa ogni anno. La Chiesa è il principale proprietario edile a Manhattan. Voglio dire: hanno un sacco di soldi [cit. p.75]. Naturalmente, Tornielli e Galeazzi respingono sdegnati l’attacco di Limbaugh: “Non vale la pena qui di soffermarsi sull’identità di tale «accusatore» di Francesco e dei suoi trascorsi. Non si deve però dimenticare che le sue trasmissioni contano circa una ventina di milioni di ascoltatori e che Limbaugh ha un contratto da quattrocento milioni di dollari per condurre il suo show”.

 Nelle pagine successive si fa il punto sulla presa di posizione del pontefice rispetto a due questioni di drammatica attualità: l’accoglienza dei migranti [“Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato gli immigrati”, cit.p.41] e il diritto per tutti a un lavoro degno che tuteli il riposo e il creato [p.43]. Infine, il tema della guerra che, ricondotto dal Papa alle “economie idolatriche che si alimentano con le guerre”, in una intervista della primavera dello scorso anno, gli valse la critica dell’Economist che lo paragonò a Lenin, sostenitore di uno stretto rapporto tra guerra, capitalismo e imperialismo. Si veda tuttavia di seguito la differenza tra quanto Papa Francesco ebbe a dichiarare nel corso di quell’intervista, e le parole più pacate e “contestuali” pronunciate all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove il nesso capitalismo-imperialismo-guerra scompare, pur restando ferma la condanna della guerra in quanto tale:

“[…]. Scartiamo un’intera generazione per mantenere un sistema economico che non regge più, un sistema che per sopravvivere deve fare la guerra, come hanno fatto sempre i grandi imperi. Ma visto che non si può fare la Terza guerra mondiale, allora si fanno le guerre locali. E questo cosa significa? Che si fabbricano e si vendono armi, e così facendo i bilanci delle economie idolatriche, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si sanano”  [p.159].

Questa, invece, la dichiarazione fatta all’Onu:

 La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti. In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

 Le interviste finali, con l’eccezione naturalmente di quella con Papa Francesco, non impreziosiscono il libro e lascia piuttosto perplessi la risposta di Ettore Gotti Tedeschi – che fu a capo dello IOR dal 23 settembre 2009 al 25 maggio 2012 – alla prima delle dodici domande:

Domanda:Condivide l’allarme lanciato dal papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium sull’economia che uccide?
Risposta: Come potrei non condividerlo? (…) [p.166].

 In conclusione, viene da chiedersi se ci sia davvero la possibilità che la chiesa di Pietro un giorno faccia proprie le idee e i propositi di Francesco. Ne dubito, per la vastità e la complessità della chiesa cattolica, per l’inevitabile intreccio dei suoi interessi mondani e alla luce di tutta la sua storia, fatta di ombre e di luci, più spesso di ombre che di luci. Perché allora i potenti della terra dovrebbero mettere in pratica i suoi concetti? Non che Papa Francesco sia tanto ingenuo da ritenere di poterli convincere, inoltre egli sa bene che il male radicale è parte integrante della natura umana, una sua costante possibilità. Perché allora prospettare questa utopia, questo “Paradiso in terra”, se solo si desse ascolto al Gesù dei Vangeli? Pure, siamo consapevoli che Jorge Mario Bergoglio continuerà a ripetere le parole che abbiamo già ascoltato tante volte, finché avrà vita, e non sarà solo per testimoniare il Vangelo, ma per combattere l’indifferenza e nel tentativo di illuminare la coscienza di ciascuno, credente o non credente.


sergio magaldi     

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