lunedì 30 novembre 2015

CAMPIONATO:tifosi romanisti e capro espiatorio.E questa sera Napoli azzurra propone il gioco del calcio...




 Dopo la disfatta di Barcellona [6-1] e la sconfitta casalinga contro l’Atalanta [0-2], tifosi e addetti ai lavori si scatenano sulle radio della capitale nel chiedere l’esonero di Garcia, ma la società nicchia e giustamente nella valutazione realistica che il contratto del francese scade nel 2018, e che l’eventuale sostituto di ora sarebbe solo un allenatore di transizione. Ma c’è anche un motivo non detto: questa squadra è figlia di chi ha fatto la campagna acquisti e cessioni degli ultimi anni, con tanto di lode, pressoché unanime, della stampa sportiva. Tant’è che si è parlato di un “Organico da scudetto” e che famosi opinionisti del calcio ci hanno spiegato in TV che la Roma è la squadra con maggior tasso tecnico del campionato italiano. 

 In un post del 2 Ottobre mi sono già pronunciato in merito [ROMA calcio: un organico da scudetto? Clicca sul titolo per leggere], giungendo alla conclusione, credo motivata dai fatti, che questa squadra è carente in molti reparti, a cominciare dal portiere. Quali i punti fermi di questo organico? Manolas centrale difensivo, De Rossi tra difesa e centrocampo [non centrocampista], Nainggolan [interditore di centrocampo], Pjanić trequartista [non centrocampista], Gervinho e Salah esterni alti. A questi si possono aggiungere Strootman [centrocampista], quando sarà completamente ristabilito e Florenzi [jolly di centrocampo]. Per un organico capace di competere davvero per lo scudetto occorrono cinque giocatori almeno dello stesso livello di quelli appena citati: un portiere, due terzini, un centrale difensivo, una punta vera, capace cioè di segnare non meno di 15-20 goal a stagione. In totale dunque un organico di 13-14 giocatori [aggiungendo anche Totti se vorrà e potrà giocare].

 È chiaro che, nella situazione attuale, Garcia non è esente da responsabilità. Preso atto che senza le frecce africane [Gervinho e Salah], questa squadra non sembra in grado di andare in goal, almeno nella partita contro l’Atalanta avrebbe dovuto cambiare tattica e schieramento. Ma il guascone ha anche avuto il merito di due secondi posti consecutivi in campionato e di saper dare alla Roma un gioco offensivo e a tratti piacevole. Peccato non suo che la coperta di cui dispone sia troppo corta.

 E oggi si affrontano Napoli e Inter. L’impressione è che siano le due squadre che quest’anno lotteranno per lo scudetto e che Fiorentina, Roma, Juventus e Milan si batteranno sino alla fine ma solo per il terzo posto che porta alle qualificazioni di Champions. Naturalmente è solo un’impressione, perché il distacco tra le squadre di vertice è ancora contenuto e tutto in teoria può ancora accadere. Per chi ama il calcio non ci sono dubbi: per volume e qualità di gioco la squadra di Sarri e di Higuaín questa sera meriterebbe di vincere, ma può anche darsi che questo sia davvero l’anno dell’Inter. Mancini è un grande stratega e il suo calcio fisico e speculativo, con una squadra non bella a vedersi, alla lunga potrebbe avere la meglio. Non sarebbe la prima volta che questo accade, nel campionato italiano e non solo. Naturalmente l’auspicio è che vinca sempre e comunque il gioco del calcio.

sergio magaldi


giovedì 26 novembre 2015

CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM? [Parte Quarta e Ultima]




(Segue da CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM? [Parte Prima], CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM [Parte Seconda], CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM [Parte Terza]. Clicca su ogni titolo per leggere)



 L’intento di ritrovare le fonti della leggenda di Hiram mi ha portato, quasi inevitabilmente, ad interrogarmi sulle fonti stesse dell’istituzione massonica. Ciò dimostra quanto sia importante approfondire lo studio della leggenda, anche se bisogna convenire che finché la ricerca si muove in ambito storico, pochi sono i progressi che potranno compiersi, vuoi per mancanza di documentazione, vuoi per il consolidarsi di tradizioni ormai diffusamente accettate.

 Per altro aspetto, non del tutto convincente appare il tentativo di rintracciare le fonti della leggenda di Hiram fuori dell’ambito biblico, riconducendo gli episodi della vita e della morte di Hiram a generici miti solari di morte e di resurrezione. Troppo semplice, e in tal caso Hiram sarebbe estraneo al ciclo di Salomone, cui invece sembra indissolubilmente legato.

 E’ sin troppo facile, in tal senso, avvicinare il mito di Hiram al mito egizio di Osiride. D’altra parte, la preferenza, accordata dalla maggior parte degli autori a questo mito piuttosto che al racconto biblico, si spiega soprattutto con la necessità di sottolineare il momento topico della morte e della resurrezione, così importante in una tradizione iniziatica. Scrive in proposito il Porciatti:

 “La drammatica leggenda non può dirsi ispirata dalla Bibbia; infatti biblicamente Hiram è ricordato quale geniale artista, fonditore delle due colonne del Tempio e dei loro capitelli, del ‘mare di bronzo’ e di altre cose ancora, ma mai quale architetto preposto alla costruzione del Tempio e capo di una immensa schiera di operai che avrebbe ripartito in Apprendisti, Compagni e Maestri. Essa è piuttosto inspirata dalla iniziazione Osirica, da quel terzo grado della iniziazione Egizia che si chiamava ‘Porta della Morte’, anzi la riproduce: la bara di Osiride, di cui l’assassinio era supposto recente, portava ancora le tracce del sangue ed era posta al centro della sala dei Morti, ove avveniva una parte della cerimonia; si chiedeva all’Iniziando se aveva preso parte all’assassinio di Osiride, e dopo altre prove malgrado i suoi dinieghi era colpito, o gli si imponeva la sensazione di essere colpito con un colpo di ascia alla testa; esso era rovesciato, avvolto in bende come le mummie; si gemeva attorno a lui; balenavano lampi; l’Iniziando, il supposto morto, era avvolto di fuoco, poi reso alla vita.[24]

 Ciò che sorprende di questa analisi è l’aver ridotto l’intera leggenda di Hiram ad una generica rappresentazione del mito solare e ad una brutta copia del mito di Iside e Osiride, dove le analogie si possono riassumere nella morte di Osiride per mano del fratello di sangue Seth, nella ricerca disperata che Iside, la vedova di Osiride, fa dello sposo perduto e infine nell’attribuzione ai massoni del titolo di figli della vedova.

 Giustamente Osiride è stato detto Signore della morte e della resurrezione [25], ma egli è solo una tra le tante divinità nella folta schiera dei morti e risorti in cui troviamo Orfeo, Dioniso, Mithra, Adone, Cristo, Krishna e molti altri, tutti peraltro riconducibili al ciclo cosmico e vegetativo, al mito del Sole che scompare e ogni volta rinasce, mentre la Luna, inconsolabile vedova, lo va cercando nella notte stellata.

 La maggiore fortuna di Osiride, tra i morti e i risorti, si spiega forse con la sua immediata identificazione col Sole. Egli “è un dio fecondo e benefico, la cui vita, morte e resurrezione hanno seguito, fin dalle origini mitiche, il ritmo di tutta la vita egiziana particolarmente nei due cicli entro i quali essa si aggira: il ciclo agrario e il ciclo funerario. [26]

 La funzione normalizzatrice e rassicurante dell’iniziazione osirica riguarda ogni aspetto del viver civile e della morte stessa, perché Osiride è insieme il Nilo e il deserto, il sole che ogni giorno appare all’orizzonte, tramonta e ogni volta risorge, il seme fecondo e il corpo smembrato, la certezza della morte e la fede nella resurrezione. E non importa se queste sono soltanto le forme di conoscenza dell’apparenza, come dimostra la cura che gli Egizi dedicano alla conservazione dei cadaveri e al mantenimento della loro integrità, perché le forme dell’apparire sono simboli della realtà e la realtà si rivela nella formula della ricorrenza e dell’eterno ritorno.

 E’ dunque abbastanza comprensibile, anche se alquanto generico, riferire a Osiride quella parte della leggenda massonica di Hiram, che parla di morte e di resurrezione, perché l’iniziazione non può che essere un’avventura della coscienza individuale e perché, a quanto pare, fu nella valle del Nilo che venne elaborato per la prima volta il processo psicologico dell’iniziazione [27] attraverso un viaggio rituale che, come testimonia il Papiro T 32 di Leida, contemplava per il postulante l’arrivo e l’accettazione, quindi la proclamazione di giustificato, cioè di destinato alla resurrezione, quindi il bagno rituale, l’illuminazione con stati di coscienza fuori dell’ordinario (non si sa sino a che punto indotti artificialmente) e che, infine, si concludeva col ‘sonno nel tempio’.

 Come si vede, nulla forse che ricordi i rituali massonici, ma certamente la comune convinzione che il rituale di iniziazione sia almeno capace di operare una prima trasformazione della coscienza. E certo Hiram ci fa venire in mente il mito egizio di Osiride e, attraverso questo, i miti solari e della ciclicità naturale, il mito della morte e della resurrezione e soprattutto il mito del Caos sempre risorgente e in grado di minacciare l’Ordine raggiunto. Anche il mondo più organizzato, infatti, conserva traccia del Caos che può distruggerlo, anche nella coscienza più illuminata può annidarsi il germe della distruzione che trasforma in assassino. Osiride esorcizza bene nella cosmologia egizia tutto ciò che nasce, muore e deve rinascere in eterno ciclo, egli è l’espressione mitica della ricorrenza: il sole, la luna, la vegetazione. A cominciare dalle terre lussureggianti che il Nilo faceva affiorare e puntualmente faceva scomparire. Come Osiride è ucciso dal fratello Seth, Hiram è ucciso da forza fraterna e tuttavia antagonista, come Osiride, Hiram è destinato a cadere mille volte e mille volte a risorgere.

 Se, dunque, si guarda Hiram alla luce del mito della morte e della resurrezione, non c’è dubbio che la fonte primaria della sua leggenda possa essere ricondotta al mito egizio di Osiride e di Iside, come sostiene la maggior parte degli studiosi. Ma, giova ripeterlo, sotto questo riguardo, non è meno vero che la leggenda, da un punto di vista più generale, possa appartenere ad uno qualsiasi dei tanti miti di dei ed eroi morti e risorti. Gesù, per esempio, come pure altri autori sostengono. Qui, gli apostoli-iniziati vanno cercando le spoglie del dio ucciso per farlo risorgere. In tale prospettiva, comunque, la vicenda di Hiram, altro non sarebbe che una tarda rappresentazione dei miti solari e/o della rinascita e dunque della consolazione e della speranza.

 Cosa c’è, al contrario, di unico e peculiare nella leggenda massonica di Hiram? La costruzione del Tempio, nel senso e con la prospettiva nota a tutti i massoni e per la quale ogni fratello sa di dover portare la propria pietra sgrossata.

 C’è di più: sostenere che l’iniziazione in quanto tale sia opera di edificazione, è errore determinato dall’identificazione del momento spazio-temporale dell’iniziazione con il rituale che la conferisce, ignorando una verità semplice e fondamentale e cioè che tempo e spazio della coscienza non corrispondono al tempo e allo spazio della realtà. La coscienza converte, per così dire, il tempo e lo spazio della realtà, nel proprio ‘vissuto’ o Erlebnis e può scoprire di essersi davvero modificata solo al termine di un lungo e faticoso processo di cui gli istanti spazio-temporali della realtà sono solo isolati dati d’esperienza sebbene talora dotati di forte carica emozionale. Si aggiunga che ogni drammatizzazione simbolica, se ha il potere di fissare l’attenzione dell’attore e di tenerla desta, non ha anche la creatività sufficiente, per il suo carattere essenzialmente ludico, per generare una coscienza ‘nuova’. L’iniziato sa, per quanto grande sia la sua emozione durante il rito, di recitare una parte e che questa parte simula ma non è la propria morte e rinascita. Al di là del gesto liturgico, egli sa bene che ciò che potrà trasformare e, per così dire, ampliare davvero la sua coscienza è la progressiva e costante consapevolezza di essere davvero ‘morto’ e ‘rinato’. Può così accadere, per quanto paradossale possa sembrare, che egli rimanga un iniziato soltanto virtuale anche dopo reiterate e più elevate iniziazioni.

 Alla luce di quanto sopra, mi sono chiesto se non sia possibile conseguire maggiori risultati mutando di prospettiva e cioè collocando la leggenda di Hiram all’interno del ciclo di Salomone, in uno spazio e in un tempo meramente simbolici, dove sia tuttavia possibile spiegare la leggenda per se stessa senza farla dipendere da generici miti di morte e rinascita. Sarà forse così anche più facile comprendere perché, nei documenti e nei rituali della Massoneria speculativa del XVIII secolo, il ritrovamento della tomba di Hiram si confonda o s’intrecci spesso con quello del disseppellimento di Noè ad opera dei suoi tre figli.

 A tale proposito conviene ricordare l’etimologia di Hiram e il significato che gli è stato dato. Spirito si è detto o qualcosa di simile. Ebbene, dove s’incontra, nella Bibbia, per la prima volta la parola ‘spirito’ ? Proprio all’inizio, al secondo versetto di  Bereshit o “Genesi”, dov’è scritto che ‘lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque’. Qui, ‘spirito’ in ebraico è Ruach   ed è proprio spirito nel significato più vicino ad Hiram, cioè di spirito di vita. L’intera espressione del “Genesi” è Ruach Elohim, ‘spirito divino’ e come tale è riportata sull’architrave della Porta Ermetica di piazza Vittorio.

 Ricordando che nell’alfabeto ebraico ogni lettera è numero e ogni numero è lettera, il valore numerico di Ruach Elohim è 300,  cioè lo stesso valore della Shin  lettera simbolica del Fuoco e che è anche una delle tre lettere madri dell’alfabeto ebraico [28]

 Dello spirito con questo stesso significato parla l’Asclepius ermetico: ‘spiritus implet omnia…’ e ancora: ‘ spiritus vero agitantur sive gubernantur omnes in mundo species’ cioè: ‘ dallo spirito sono mosse e governate tutte le specie del mondo’. Di questo spirito parla Marsilio Ficino nel De Vita: ‘ipse vero est corpus tenuissimum, quasi non corpus…’, e nei Commentaria all’Ars brevis di Raimondo Lullo, Agrippa lo dice ‘spiritus domini’ che ‘replevit orbem terrarum’, ma la definizione più completa mi sembra quella che ne dà Galileo, nella famosa lettera del 23 Marzo 1615 a Monsignor Pietro Dini, in difesa del sistema copernicano:

 “Direi parermi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale diffondendosi per l'universo, penetra per tutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le viventi creature; di questo spirito par che 'l senso stesso ci dimostri il corpo del Sole esserne ricetto principalissimo, dal quale espandendosi un'immensa luce per l'universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, gli rende vividi e fecondi.

 Tornando alle Costituzioni di Anderson ci stupisce vedere la Massoneria definita come Arte reale, una definizione in genere attribuita all’Arte ermetica. Salomone conosceva forse il valore della pietra filosofale? Parrebbe proprio di sì, almeno a quanto ne riferisce Yochanan Alemanno, un ebreo italiano vissuto nel Quattrocento. Nel suo Sepher ha-liqqutim egli racconta che la regina di Saba decise di andare a Gerusalemme per conoscere la saggezza di Salomone:

 “Andò così da lui in gran pompa – egli scrive - con molto oro, argento e pietre preziose da portare in dono al re, come testimonia la Scrittura. Si trova anche scritto nel Libro delle Cronache dei re di Saba che ella portò con sé quella preziosa pietra filosofale (…) per mettere alla prova con essa Salomone, verificare se egli conoscesse l’occulto segreto (…) Il re rispose a tutte le sue domande, le disse il segreto della pietra, la sua natura, il suo modo di agire, e anche altri misteri, che non è necessario riferire. La pietra rimase così nelle mani del re… [29]

 La stretta associazione tra Salomone e la pietra filosofale sarebbe anche attestata, a giudizio di Raphael Patai, ‘dal fatto che la materia prima della pietra era talvolta rappresentata con i due triangoli intrecciati del sigillo di Salomone, che sopravvive ancor oggi nell’emblema nazionale ebraico noto come Maghen David o Stella di Davide’ [30]

 Rispetto poi alla collocazione di Hiram per entro il ciclo di Salomone e della costruzione del Tempio, c’è da osservare che Michael Maier, il noto autore dell’Atalanta Fugiens, pubblicò nel 1620 a Francoforte la Septimana Philosophica, un libro - egli dice - in cui ‘gli aurei segreti di tutti i tipi di natura, del più saggio di tutti i re degli israeliti, Salomone, e della regina di Saba, nonché di Hiram, principe di Tiro, sono presentati e spiegati a turno alla maniera di una conversazione[31]

 Se, a tutto ciò, si aggiunge che l’altro Hiram, l’artigiano figlio di una vedova, è detto essere un valente fonditore di metalli, forse il migliore dell’epoca sua, si comprende che deve esserci un nesso, per entro il ciclo di Salomone, tra costruzione del Tempio, fonditura dei metalli e possesso della pietra filosofale.

 Come mai, inoltre, la figura di Hiram s’intreccia spesso con quella di Noè? E perché lo stesso Anderson dichiara, nelle Costituzioni, che la Massoneria o Arte reale aveva potuto raggiungere la perfezione ‘per l’intervento di Dio nella costruzione dell’Arca dell’Alleanza e del Tempio di Salomone’? Perché, in fondo, Hiram e Noè esprimono lo stesso concetto, travestono la medesima allegoria.

 Tutto l’episodio biblico di Noè, come ho già sottolineato, parla il linguaggio ermetico. A cominciare dall’Arca che troppo ricorda l’Atanòr, per continuare con i primi animali che Noè fa uscire dall’Arca: il corvo, seguito dalla colomba, secondo la massima ermetica, anch’essa scolpita sulla Porta Ermetica di Piazza Vittorio sotto il simbolo di Saturno: Quando in tua domo nigri corvi parturient albas columbas tunc vocaberis sapiens, cioè: ‘Quando nella tua casa negri corvi partoriranno bianche colombe allora sarai chiamato saggio’.

 E ancora: col ramoscello d’ulivo simbolo della prima viridescenza, poi con l’arcobaleno che, nella varietà dei suoi colori è l’annuncio della bontà dell’Opera e perciò dell’alleanza con Dio e della trasformazione, per finire con la vigna di Noè e il suo vino.

 Ove ci siano ancora dubbi sulla circolarità che accomuna Salomone, la leggenda di Hiram, la pietra filosofale e il Tempio, conviene guardare al Genesi che al versetto 28:22 dice: e questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà la casa di Dio. E di questa pietra, ancora nello Zohar, Rabbi Juda ci dice che ‘è la pietra fondamentale’, ‘il radicamento del mondo’, ‘la pietra sulla quale il Tempio è stato costruito’[32]

 Naturalmente, anche la ‘via ermetica’ è solo una delle tante strade di ricerca per far luce sulle fonti e sul significato della leggenda di Hiram…


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[24] Cfr. U.G. Porciatti, op.cit., p.169
[25] Cfr. J. Campbell, Le figure del mito, trad.it., Mondadori, Milano 1991, pp.15-31
[26] Cfr. N.Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, I Dioscuri, Genova, 1987, p.101
[27] Cfr. Max Guilmot, Iniziati e Riti iniziatici nell’antico Egitto, trad. it., Mediterranee, Roma 1999, pp.92 e ss.
[28] Ruach Elohim in base al valore numerico di ciascuna lettera ebraica, cominciando da destra a sinistra è il seguente: 200+6+8+1+30+5+10+40 = 300. Ruach Elohim è dunque la ghematria della lettera Shin.
[29] Cfr. in R. Patai, Alchimisti ebrei. Storia e testi, ECIG, Genova, 1997, p.123
[30] Ibid., p.55
[31] Ibid., p.53
[32] Cfr. Sepher ha-Zohar, 72a


 P.S.
     Di seguito la risposta alla domanda di Davide Crimi, rivoltami in data 22 Novembre u.s. sul Gruppo Facebook “Massoneria Democratica”.

DOMANDA:

[Davide Crimi]: C'è una variante, non a caso elaborata in ambito scozzese, e in special modo templare, che attribuisce la morte di Hiram a S., per la contesa di gelosia per la Regina di Saba. Da quanto ho scritto, si capirà ciò che ne penso. Mi piacerebbe conoscere il pensiero di Sergio Magaldi su questo delicato e controverso aspetto.

RISPOSTA:

  Sì, certo, le varianti della leggenda sono tante. C’è quella da te ricordata che vede in Salomone –  geloso dell’ammirazione che la regina di Saba aveva manifestato per il grande architetto del tempio – il vero mandante dell’assassinio di Hiram. E ce ne sono altre: da quella che attribuisce la responsabilità al Gran Sacerdote, preoccupato che le conoscenze segrete di Salomone e di Hiram, potessero nuocere alla religione monoteista, a quella che considera lo stesso Salomone complice istigato dal Gran Sacerdote nell’ordinare il delitto. E, più “sottile” e malevola di tutte, quella che narra di  tre personaggi, Re Salomone, Re Hiram di Tiro e Hiram Abiff architetto e decoratore, a conoscenza di una parola segreta – che avrebbe permesso di ultimare l’edificazione del tempio e di avere un potere simile a quello del Demiurgo – di cui ognuno possedeva solo una sillaba. Senza il  “mattone” custodito e noto solo a Hiram Abiff, non sarebbe stato possibile pronunciare la parola. Fu allora che Salomone - presentato da questa versione della leggenda come un tiranno assetato di potere - volendo conoscere la sillaba che avrebbe completato il nome della parola, ordinò a tre operai di estorcerla ad Hiram Abiff. Com’è noto, Hiram custodì il segreto anche a costo della vita e la parola andò persa.

 Tale versione distorce ad arte la narrazione massonica, secondo la quale Hiram Abiff aveva diviso i lavoratori  in tre livelli, assegnando a ciascun livello una parola segreta per riscuotere il salario [B… per gli apprendisti, J… per gli operai e Je… per i maestri]. Fu allora che quindici operai meditarono di ottenere dal Gran Maestro la parola che li avrebbe resi maestri e capaci di riscuotere un salario più alto. Mentre però dodici di loro desistettero, tre dei più violenti tesero un’imboscata ad Hiram Abiff e, vista l’impossibilità di raggiungere il loro scopo, lo massacrarono. Sarà poi Salomone a ritrovare le spoglie del maestro morto e ad organizzare una spedizione per catturare gli assassini. Il Rito Scozzese [R.S.A.A.] dedica più di un terzo dei suoi 33 gradi per illustrare la vicenda di Hiram e di Re Salomone. Quel che è certo è che tutte le varianti della leggenda che fanno di Salomone un despota e un assassino sono più o meno dichiaratamente antimassoniche, per ciò che tendono a colpire la leggenda stessa su cui si basa la fondazione della Massoneria di ogni Ordine e/o Rito.


sergio magaldi

martedì 24 novembre 2015

CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM? [Parte Terza]






 Restando nell’ambito di una interpretazione che vede nell’Hiram biblico la fonte principale della leggenda, di un certo interesse è la posizione assunta dal Goons, membro della Philalethes Society, che, dopo aver dichiarato che la storia della costruzione del Tempio di Salomone fu allargata, a partire dal racconto biblico, in modo libero e fantasioso sino a diventare un’allegoria, finisce con l’azzardare l’ipotesi, recando numerose prove, che Hiram re di Tiro sia stato membro operativo della potente gilda dei muratori fenici i quali, com’è noto, parteciparono in modo rilevante alla costruzione del Tempio di Salomone [15]. Conforta in tal senso – secondo il Goons – sia l’ambizioso programma di costruzioni che, secondo storici come Menandro, Giuseppe Flavio ed Erodoto, avrebbe contraddistinto il regno di Hiram, sia la concreta realizzazione a Tiro e nello stesso periodo, di molte opere, secondo ne scrive il Dizionario di lingua inglese per l’interpretazione della Bibbia:

 “Fu Hiram, contemporaneo di David, che portò Tiro alla fama. L’antica Tiro sulla terraferma, egli la fortificò fortemente con mura sviluppanti quindici miglia di circonferenza. Ora Hiram costruisce la nuova Tiro includendo le isole sparse per un mezzo miglio sul mare fino a comprendere un’area di due miglia e mezzo di circonferenza. All’estremità nord due moli di pietra di circa cento piedi a parte, si estendevano a est e a ovest per settecento piedi. Questi con la linea costiera abbracciavano un’area (il porto di Sidone) di 70.000 yarde [16] quadrate. A sud un porto simile (l’Egiziano) di 80.000 yarde quadrate era racchiuso da un vasto lungo 200 yarde e da un frangiflutti largo 35 piedi e lungo quasi 2 miglia. I due porti erano uniti da un canale che attraversava l’isola. La città crebbe in file di case, giardini, frutteti e vigne e fu abbellita dal nuovo e splendido tempio di Melkarth [17], dal palazzo reale e da una grande piazza per le assemblee nazionali…[18]

 In base ad altre fonti, peraltro meno documentate – osserva il Goons – in questo stesso periodo sarebbero state costruite, oltre ad elevate fortificazioni, case di abitazione ancora più alte di quelle dei Romani e per giunta dotate di riscaldamento a vapore, e ancora: depositi d’acqua, fognature, e un tempio della dea Astarte [19] che servì di modello alla costruzione del Tempio di Gerusalemme. Inoltre, secondo il Goons, ancora oggi sarebbe visibile uno dei grandiosi moli del porto costruito da Hiram.

 Da tutte queste premesse il Goons trae la convinzione che Hiram potesse far parte della gilda dei costruttori e che magari suo padre, il re Abibaal, lo avesse messo a mestiere nella corporazione dei muratori, il solo luogo dove avrebbe potuto ricevere un’educazione degna di questo nome. Infatti, in questa età della storia, solo la gilda dei costruttori deteneva conoscenze di matematica, di geometria, di meccanica e di topografia. Del resto, egli osserva:

“[…] contrariamente a ciò che credono alcuni scrittori di storia, nessun faraone egiziano o satrapo persiano, ancor meno il capo di una piccola città-stato, poteva arbitrariamente ordinare od obbligare a dei lavori una gilda potente… si deve supporre perciò che (Hiram) il principe coronato fosse un capo tra i costruttori, un maestro progettatore?… ”  [20]

 A giudizio del Goons la risposta alla domanda non può che essere affermativa, altrimenti Hiram, divenuto re di Tiro, non avrebbe potuto mandare prima a David poi a Salomone operai specializzati per la costruzione del Tempio, ciò che invece avrebbe potuto come maestro della corporazione di Tiro. A dir la verità, la tesi del Goons mi convince poco, vuoi per la sua spregiudicatezza, vuoi per l’impostazione illuministica che la sorregge.

  In tutt’altra prospettiva, che non sia quella di rintracciare le fonti della leggenda di Hiram nel racconto biblico, si colloca Flavio Barbiero, archeologo e autore, tra l’altro, di La Bibbia senza segreti edito da Rusconi. Premessa di tale diversa interpretazione sono le ricerche archeologiche da lui effettuate sulla montagna di Har Karkom:

 “Har Karkom è una montagna sacra situata tra il deserto del Negev e il deserto Paran nel Sinai israeliano. Migliaia di strutture abitative, innumerevoli luoghi di culto, 40.000 incisioni rupestri ed altre strutture sacre e profane, per un totale di oltre 1200 siti archeologici, testimoniano oltre ogni possibile dubbio che questo monte era un luogo sacro nell'’età del bronzo, quella dell’Esodo biblico. (…) Nei circoli scientifici ed esegetici, nonostante comprensibili resistenze (…) si sta facendo ormai strada la convinzione che si tratti proprio del biblico monte Sinai (…) Le ricerche ad Har Karkom si effettuano con in mano la Bibbia e stimolano di rimando ricerche sul significato della Bibbia stessa, se sia cioè un’opera storica o un’opera essenzialmente allegorica, come vorrebbe l’esegesi moderna (…) Inizialmente tale analisi era intesa ad approfondire le vicende del popolo ebraico maturate all’ombra del monte sacro. Ma ben presto si è focalizzata sulle vicende di una famiglia che di questo monte si riteneva la legittima proprietaria e che non cessò mai di frequentarlo in segreto, impedendone l’accesso a chiunque altro: la famiglia sacerdotale di Gerusalemme.[21]

 Forte di questa prima scoperta, il Barbiero se ne concede subito un’altra riguardante le origini stesse della Massoneria e della leggenda di Hiram. A suo parere, la tesi, più accreditata in ambito scientifico, circa l’origine della Massoneria da corporazioni di scalpellini e muratori non ha né fondamento razionale né base storica. [22] Tutti i rituali massonici – egli osserva – da quelli della Massoneria azzurra a quelli del Rito scozzese, cominciando dalla leggenda di Hiram, non trovano riscontro nelle vicende bibliche, né appare verosimile che tali rituali siano la libera invenzione, in epoca moderna, di fatti reali descritti nella Bibbia. Pure, egli ammette, in tutti questi rituali si trova sempre qualcosa che con la Bibbia sembra avere autentica familiarità. La spiegazione è semplice: la storia della Massoneria altro non è per lui che la storia della famiglia sacerdotale di Gerusalemme:

 “La Bibbia racconta la storia del popolo ebraico. I rituali massonici si riferiscono a tutt’altra storia. Essi riportano soltanto avvenimenti che avevano rilevanza per la famiglia sacerdotale di Gerusalemme e la cui descrizione in nessun modo poteva essere ricavata dalla Bibbia stessa. Si tratta di episodi che si inseriscono in maniera appropriata nella storia biblica e che spesso vi sono citati espressamente, ma nei rituali sono narrati con una quantità di informazioni che non sono presenti nella Bibbia e soprattutto con un’ottica strettamente unilaterale, interna alla famiglia sacerdotale (…) Questa convinzione è rafforzata dal fatto che ci sono molti paralleli tra le tradizioni massoniche e i testi apocrifi del Vecchio Testamento, libri di autori ignoti, ma certamente appartenenti alla classe sacerdotale della Gerusalemme dal terzo al primo secolo a.C.[23]

 Al momento della distruzione del secondo Tempio, la famiglia sacerdotale di Gerusalemme era al culmine del suo splendore. Dal canto suo, lo storico ebreo Giuseppe Flavio, anche lui appartenente alla classe sacerdotale, elenca diversi membri di famiglie di sommi sacerdoti cui Tito risparmiò vita e averi. Accusata di tradimento dalla comunità ebraica e anche di aver consegnato ai Romani il tesoro del Tempio, la classe sacerdotale, dopo di allora, entrò nella clandestinità. Così, la storia della famiglia sacerdotale di Gerusalemme continuerebbe da allora attraverso i rituali massonici.

 Tutta la tesi porta l’autore a concludere che, così riguardata, la Massoneria ha svolto un ruolo di primo piano nel mondo, influenzando profondamente il pensiero moderno e la struttura stessa delle democrazie occidentali. Ma, per quanto suggestiva sia l’idea di una Massoneria che, dagli antichi sacerdoti di Gerusalemme, si dispieghi nello spazio e nel tempo sino ai nostri giorni, appare poco verosimile sostenerla con qualche credibilità in base alla documentazione di cui è dato disporre, soprattutto se, come spesso traspare dalle argomentazioni dell’autore, lo si fa per scongiurare l’origine più modesta, ma scientificamente più attendibile e altrettanto nobile, della derivazione della Massoneria dalle corporazioni di muratori e di scalpellini. [segue]

sergio magaldi



[15] Cfr. C.W. Goons, ‘Re e uomo dell’arte?’ in Rivista massonica, vol. LXV, n.10, Erasmo, Roma, dicembre 1974
[16] Yard: unità di misura inglese pari a 0,9144 m.
[17] Melkarth o Melqart o Milqart significa ‘Re della città’. Questa divinità fenicia è anche chiamata Ba’al Shor, cioè ‘Signore di Tiro’. Nel  mondo greco Melkarth era spesso identificato con Eracle o Ercole. Il suo nome compare per la prima volta in una iscrizione aramaica del IX secolo. Un tempio in suo onore, secondo gli storici, sarebbe stato innalzato a Tiro dal re Hiram nel X  Secolo. 
[18] Cfr. C.W.Goons, cit.
[19] Astarte o Ashtart dea fenicia e semitica della fecondità, dell’amore e anche della guerra. Nella Bibbia è definita ‘dea del popolo di Sidone’. Finirà con l’essere assimilata alla dea greca Afrodite.
[20] Cfr. C.W. Goons, cit.
[21] Cfr. F. Barberio, Il significato dei riti. Storia o simbolismo? in www.dipmat.unipg.it, pp.1-2
[22] Ibid., p.2
[23] Ibid., p.4


domenica 22 novembre 2015

CHI E' E CHE SIGNIFICA HIRAM? [Parte Seconda]





(Segue da CHI E’ E CHE SIGNIFICA HIRAM? [Parte Prima], cliccare sul titolo per leggere)

 Esistono naturalmente molte versioni della leggenda di Hiram [12], senza che ciò determini sostanziali variazioni di significato. Mi limiterò perciò a considerare quelle riportate nel Manoscritto e nelle Costituzioni, cercando, ove possibile, di armonizzarle tra loro sinteticamente.

 Narra, dunque, la leggenda che Hiram ogni giorno, dopo la pausa del pranzo, solesse ispezionare i lavori. Il Tempio era prossimo ad essere ultimato, ma era intanto scoppiata una controversia fra i manovali e i muratori per la differenza del salario percepito. Per tacitare la lite, Salomone e Hiram promisero che tutti sarebbero stati pagati allo stesso modo, ma poi diedero ai muratori un segno che i manovali non conoscevano e che significava maggior salario, ritenendo che fosse più giusto che ognuno fosse retribuito secondo il merito e non secondo un astratto principio di uguaglianza. Fu così che tre manovali si nascosero nel Tempio per aggredire Hiram ed estorcergli la parola segreta, con cui si poteva chiedere e ottenere un salario più alto. Ma Hiram si rifiuto di rivelare la parola segreta e tentò di fuggire. Inseguito sino alla terza porta del Tempio, dopo essere stato colpito anche presso le altre due, egli fu infine ucciso. Gli assassini nascosero provvisoriamente il maestro morto sotto i calcinacci. A mezzanotte lo recuperarono, per dargli sepoltura su una collina poco distante. Salomone, impensierito per l’assenza del suo architetto, incaricò quindici ‘buoni Fratelli’ di cercarlo. Quando infine – continua la leggenda – il corpo di Hiram fu ritrovato, a chi l’aveva afferrato per sollevarlo dalla fossa, come già era avvenuto per Noè, restò in mano la carne che ormai si veniva staccando da quel corpo in decomposizione, finché un altro fratello pensò bene, di sollevare Hiram nella maniera corretta e iniziatica.

 Così stando la leggenda, pur con tutte le sue varianti, appare comprensibile rintracciarne la fonte direttamente nel racconto biblico, magari unificando le due figure di Hiram nell’unica figura di Hiram architetto di re Salomone o, più semplicemente, come nel Manoscritto di Graham, finendo per privilegiare l’artigiano e figlio di una vedova della tribù di Neftali, cioè di un discendente di Giacobbe e di Bila sua schiava, così come fa il Vaillant, che in proposito scrive:

 “La tradizione massonica che si ricava dai rituali adottati da tutti i riti al terzo grado è ebraica (…) Nel secondo libro dei Paralipomeni, il re di Tiro fa dire a Salomone che Hiram è un uomo intelligente, abilissimo; che ha servito suo padre, che sa lavorare l’oro, l’argento, il bronzo, il ferro, le pietre, il legno e perfino la porpora, il giacinto, il fine lino e lo scarlatto; egli sa ancora incidere tutte le immagini e inventare quello che occorre per ogni lavoro. Ecco, senza dubbio, ciò che gli è valsa la denominazione di architetto nelle tradizioni ebraiche e tra i Liberi Muratori, malgrado le asserzioni rispettabilissime che non vogliono vedere in lui che un fonditore di metalli.” [13]

 Sarebbe dunque inutile cercare al di fuori ciò che è già ampiamente contenuto nel racconto biblico. E quanto all’episodio del tradimento degli operai, anche questo si troverebbe nella Bibbia, essendo niente altro che la trasfigurazione dell’episodio della ribellione dei tre levìti, durante il passaggio degli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto.L’episodio della ribellione di Core, Dathan e Abiron si sostanzia, infatti, delle parole che, nella Torah, Mosè rivolge ai ribelli:

 “Non vi basta il fatto che il Signore, il Dio d’Israele, ha scelto voi fra tutti gli altri israeliti? Vi concede di avvicinarvi a Lui, per prestare servizio nella sua Abitazione e per celebrare il culto in nome di tutta la comunità d’Israele. Il Signore ha permesso a te, Core, e a tutti i fratelli levìti di avvicinarvi a lui e voi ora pretendete anche il sacerdozio?”.[14]

 Analogamente, i tre operai della leggenda massonica che, pure, hanno il privilegio di lavorare alla costruzione del Tempio, pretendono la maestria senza averne diritto e la loro avidità e superbia li spinge al delitto.[Segue]


sergio magaldi
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[12] Cfr. i testi della leggenda di Hiram, citati in Giuseppe Abramo, Appunti sulle origini (pp.111-120), in Hiram, n.5, Maggio 1992, Erasmo Edit., pp.116-117
[13] Cfr. A.Vaillant, I  tre gradi della Libera Muratoria, Bastogi, Foggia, 1994, rist. anast., Milano, 1959, pp.163 e 169. Sulla questione della ‘matrice egizia’ comune sia alla Massoneria che alla tradizione ebraica, cfr. Ibid., l’intero cap. V, pp.163-186.
[14] Cfr. Numeri, 16,  9-10


sabato 21 novembre 2015

SARTRE e HEIDEGGER: Essere e Nulla

 


 Scrive Ottavio Plini in merito ai post, Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah [Prima Parte] e Essere, Nulla e Manifestazione nella metafisica occidentale e nella Qabbalah [Seconda Parte] (clicca su ciascun titolo per leggere):

 Credo di aver attentissimamente riletto la pregevolissima meditazione di Sergio Magaldi intorno alla Qabbalah, ai contenuti della metafisica occidentale, all’Essere e il Nulla: ma, pur riconoscendole intuizioni raffinate (che non mancherò assolutamente di sottolineare, come si noterà), quantunque ristrette con abilità ineguagliabile nello spazio di due articoli, nutro l’impressione che, anche nel caso in esame, l’heideggeriano oblio dell’Essere continui ad essere perpetrato – in tal modo pongo ex abrupto un punto. Inducono a pensarlo passaggi come “Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfondo di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza […]” o “non solo essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica (!) dell'essere sul nulla”. È stato precisato anche come in tali passaggi si cerchi di rendere il pensiero di Sartre, ma non a caso questi venne strigliato da Heidegger per esempio nella Lettera sull’Umanismo; tuttavia, certo, la questione ora non è di porsi a favore dell’uno o dell’altro, quanto di suscitare alcune eventuali e, per quanto possibile, stimolanti meditazioni.
 In estrema sintesi, secondo il pensiero heideggeriano, l’Essere è obliato in quanto confuso con l’Ente. Dire dell’Essere implica soluzioni del linguaggio al limite dell’evocativo (“L’Essere sussiste”, “risuona”, financo “fa cenno”), ed esso non va confuso con la presenza dell’Ente: con la dimensione ontica caratterizzata dalla presenza. In certo qual modo, allora, Essere e Nulla coincidono secondo una ben chiara prospettiva, vale a dire in quanto figure del nascondimento rispetto all’Ente qui-presente – calcolabile (nella tecnica) e vivibile (nell’esperienza): tecnica ed esperienza vissuta sarebbero infatti l’ultimo livello dell’oblio dell’Essere, già maturato nell’evoluzione della metafisica occidentale, ora manifesto nelle sue conclusioni più estese e comuni. Nei Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) §129 Heidegger si esprime sul Nulla: “La determinazione <> del <>, riferita al concetto oggettivo di <> in tal modo più generale e più vuoto, è certamente <> e nei cui confronti chiunque è subito e facilmente maldisposto. […] E se invece l’Essere stesso fosse ciò che si sottrae e si presentasse essenzialmente in quanto rifiuto? […] Coloro che temono e disprezzano il <> devono essere sempre interrogati sul loro <>. E allora spesso si vede come di quel loro <> essi stessi non siano affatto sicuri”, o, più in breve, §269 “L’Essere non ricorda <>, tantomeno <>”. Va presumibilmente chiarito che nel pensiero del secondo Heidegger l’Essere si vela nell’Ente, ma, in un gioco chiaroscurale, diastolico-sistolico diremmo, vi si svela in altro modo: come nel caso della verità greca, a-lezeia, la quale risulta negazione, tramite l’alfa privativo, del coprire: s-coprimento.

 Tutto ciò per dire che, nell’umile parere di chi scrive, l’Essere non parrebbe ciò che riempie una stanza con una presenza, né il Nulla ciò che la svuota rendendo la presenza assente. Piuttosto, siamo adesso forse in grado di intuire alcune di quelle suggestioni esoteriche che, estremizzando in senso opposto ed esasperato il geniale chiaroscuro evocato da Heidegger, identificano nel Nulla la pienezza dell’Essere, in quanto distacco dagli Enti.
Ma veniamo ora a un altro punto che almeno io reputo di grande interesse. Magaldi scrive che “L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant]”: tuttavia, sul terreno del noumeno kantiano occorrerebbe procedere cauti, anche perché il grande meticoloso di Köninsberg, mentre offre enunciazioni limpide, cristalline, intorno a cosa intendere per fenomeno, nonché naturalmente intorno a molte altre cose, fornisce definizioni meno puntuali, o finanche molteplici, di noumeno (forse, azzardiamo, per lui coerentemente, avendolo asserito inconoscibile), rendendo l’enucleazione di tale concetto controversa. Tuttavia, con puntiglio invece esemplare, egli si sofferma sulle Idee della Ragione e sulle antinomie di cui sono informate: vi sono tre Idee che la Ragione, nella sua tensione verso l’Assoluto, pone nella condizione di essere lecitamente pensate, ma in assenza di una possibilità di corredarle di contenuto, ed esse sono l’Anima, il Mondo e Dio. Precisamente, senza dilungarci, tali Idee si vorrebbero definite sulla base delle categorie di qualità, quantità, relazione e modalità, tuttavia, per l’appunto, antinomiche. (Chi fosse interessato approfondisca la sezione della Dialettica trascendentale, in Critica della ragion pura.) Quel che piacerebbe sottolineare è che proprio su questo punto si inizino a notare delle corrispondenze con la meditazione di Sergio Magaldi: mi prenderei infatti l’estrema libertà di asserire che le tre Idee, pensabili ma non definibili, s’istituiscano su una funzione unificante – quantunque molto probabilmente in un modo molto diverso rispetto a ciò che Magaldi intende con tale enunciazione. Ad ogni modo la suggestione kantiana si rivelerà troppo potente, al punto che l’Idealismo tedesco, pur formalmente scaturito da input kantiani, si sforzerà di recuperare le antinomie, in modo tale da dimostrare che dei punti in questione invece si possa dire: Fichte porrà l’Io assoluto, statuente il non-Io, Schelling la Natura, sforzandosi di spiegare come l’Anima sia da cogliere in una intuizione immediata; Hegel, nell’intento di mediare tra quello che definiva l’idealismo soggettivo del primo e quello oggettivo del secondo, porrà la Storia (occidentale), e, nella convinzione di aver così forgiato, peraltro con sottigliezza e maestà rare, un idealismo assoluto, si consegnerà, mi si passi l’espressione, ad essa in catene – sorte bizzarra, per chi si reputava ab-solutus (libero-da). Ad ogni modo, è già qui intuito, com’è chiaro, che il Tre sia il principio dell’unificazione, come suggerisce ancora Magaldi. Perché allora non immaginare, con la dovuta riverenza, che dopo hegelismi di destra e di sinistra, la rilettura qui esibita, nella sua completezza e profondità, aggiungerei anche nel suo scrupoloso rifarsi all’inviolabile solidità del sistema cabalistico, non possa in certo qual modo fornire le basi di un hegelismo veramente assoluto (mi si accordi lo spunto)? Ma allora a quali opposizioni, e susseguenti riunificazioni, toccherà ad essa andare incontro?
Ottavio Plini


 Ripropongo di seguito, in breve sintesi, quanto avevo scritto, tra l’altro, nello specifico:

 “ […] Lo zero-nulla, dunque, non e il presupposto dell’esserci dell'Es­sere, perché, al contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne. Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è  nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfon­do di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza. In un certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità contingente del suo manifestarsi. II concetto si trova espresso in L'être et le néant di Jean Paul Sartre :

  “[...] il non-essere non è il contrario dell'es­sere, è la sua contraddizione. Ciò implica una posterità logica del nulla nei confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto, poi negato”(op.cit., trad.it., I1 Saggiatore, Mila­no, 1964, p.50).

[…] In Was ist Metaphysik? (Frankfurt, l929), Heidegger si occupa principalmente del problema del nulla e dell'analisi dell'angoscia rivelatrice di questo nulla: il nul­la non è il di fuori dell'essere, ma la condizione che rende possi­bile, al di dentro dell'essere, la rivelazione dell'essere stesso. In Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che racco­glie le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel I935, il filosofo tedesco traccia in quattro capitoli la storia della metafisica, rilevando come la metafisica classica, tralascian­do deliberatamente il problema del nulla con la motivazione che il nulla    n o n   è    semplicemente, abbia finito con l'occuparsi esclusivamente di ciò che è, snaturando il problema dell'essere in generale, sino a determinarne gradatamente l'oblio e facendo dell'essere niente altro che una nozione ovvia e una parola vuo­ta. Questo oblio del senso dell'essere costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del nostro essere nel mondo: l'essere umano non è altro che un' apertura in direzione di tutto ciò che è.

 Quando parliamo del nulla, dunque, lo facciamo sempre con riferimento all’esperienza sensibile dell’assenza, della mancanza, dell'annientamento. Di esso possiamo dire soltanto che rappresenta una breve in­terruzione nel flusso dell’essere: quella stanza che ho trova­to vuota, presto tornerà ad animarsi di presenze. Di un altro nulla, non siamo autorizzati a parlare, per­ché non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa, convie­ne tacere - ammonisce Wittgenstein. Ecco, persino quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo come il nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yezirah: “E prima dell'uno che numero puoi tu contare?”, si chiede polemicamente al presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero.

In conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica dell'essere sul nulla. Non si può porre, dunque, il nulla come “l'abisso originario donde l'essere nascerebbe”.

[…] Nella dualità maschio-femmina è contenuto il dualismo di tutto ciò che è. L’essere, dunque, non è “la pura indeterminatezza e il puro vuoto”, contrapposto e tuttavia identico al nulla e neppure insieme al nulla è destinato a scomparire nella concretezza del divenire [Hegel]. L’Essere non è il noumeno contrapposto al fenomeno [Kant], né l’eterno e immobile presente [Parmenide]. Il nulla come interrogazione sull’essere al di dentro dell’essere stesso [Sartre] o come trascendenza imperscrutabile [Qabbalah] non si contrappone all’essere ma ne è la naturale conseguenza. In altre parole, l’essere è la manifestazione della dualità, ma la polarità non è rappresentata dal nulla, perché il nulla è semplicemente contenuto in lui e/o è fuori di lui come ciò che non può essere detto ma che può essere pensato nella forma dell’unità [unificazione].L’errore delle religioni è quello di dare voce a questo uno-nulla, di per sé indicibile. Ecco perché la Qabbalah storica delle origini [Isacco il Cieco], pur ispirandosi al monoteismo ebraico, raccomanda di tenersi lontano dalle speculazioni su Ain-Soph, inteso come Unità e Nulla Infinito. La dualità della Manifestazione [il solo Essere che ci è dato conoscere] non può essere ricomposta semplicemente annullando le differenze della dualità radicale, nell’illusione che ci spinge a saltare il fosso nel tentativo impossibile di incontrare l’Uno. Né, d’altra parte, tale dualità può essere accettata fatalmente, al modo degli gnostici, come inevitabile conseguenza del nostro essere nel mondo. Il lavoro per l’essere umano sembra piuttosto quello di unificare ciò che è diviso, con la consapevolezza - come ammonisce lo Zohar - di poter conoscere l’Uno nella sola forma possibile che è quella dell’Unificato.   


 Innanzi tutto ringrazio Ottavio Plini per la qualità e lo spessore del suo commento che mi pare si riferisca più che altro al rapporto Sartre-Heidegger. In definitiva, non nego che, così come è stato da me formulato, questo rapporto abbia potuto generare l’idea di una totale assonanza dei due pensatori rispetto alla questione dell’essere e del nulla. Una semplificazione da parte mia, dettata dalla necessità del trattare in un post [e non in un saggio], la questione che più mi premeva di verificare la tradizione cabbalistica alla luce della metafisica classica.

 Non c’è dubbio che la rappresentazione del nulla fatta da Sartre sia implicitamente criticata da  Heidegger e che, di conseguenza, lo sia anche quella dell’essere. È vero cioè che il nulla al quale fa riferimento il pensatore tedesco non è lo stesso nulla cui si riferisce il francese. “Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfondo di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza […]”, scrive Sartre [L’être et le néant] e Heidegger osserva [Vas ist Metaphysik?]: «Questo stesso nulla “che non c’è” è anche considerato come l’opposto di ciò che c’è, di ciò che esiste ed è oggetto di scienza, ma questo nulla alternativo è fuorviante in quanto si pone al domandare allo stesso modo dell’ente divenendo un qualcosa di argomentabile. In questo senso il nulla diverrebbe un qualcosa, violando il principio di non contraddizione …  questo niente di negazione è posto dall’intelletto, è un niente «immaginario» e non il niente di per sé». Laddove il “nulla originario” si manifesterebbe per Heidegger proprio nella riscoperta del senso dell’Essere, obliato tanto dalla metafisica classica quanto dallo stesso Sartre, per aver confuso l’Ente con la totalità dell’Essere. «In fondo c’è un’essenziale differenza tra il cogliere la totalità dell’ente in sé e il sentirsi in mezzo all’ente nella sua totalità. La prima cosa è impossibile, l’altra accade costantemente nel nostro esserci», osserva ancora Heidegger. Questa consapevolezza – conclude il filosofo di Meßkirch – produce allo stesso tempo lo svelamento dell’Unità-Totalità dell’Essere, ma solo come “Das Unheimliche” [Il Perturbante freudiano: ciò che è avvertito insieme come familiare ed estraneo e che genera angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità], cioè lo Spaesamento che a sua volta ci permette d’incontrare per la prima volta il “Nulla originario”. Con ciò si ritorna alla Scienza della Logica di Hegel e alla coincidenza – sia pure con implicazioni diverse – tra puro Essere e puro Nulla. C’è di più: questo Nulla originario è altrettanto immaginario del nulla cosiddetto difettivo, perché è analogamente concepito nell’inutilizzabilità e/o nella mancanza, nel senso che non posso concepire questo “nulla originario” se non a partire dalla consapevolezza che mi manca la possibilità di cogliere l’Essere come totalità.

 Come osserva giustamente Ottavio Plini, la vera differenza tra Sartre e Heidegger, sembra piuttosto delinearsi con La Lettera sull’ Umanismo (1947), in risposta indiretta a  L’ Esistenzialismo è un umanismo (1946) di Sartre. Tuttavia, a parte il fatto che questo lavoro [frutto di una conferenza di un anno prima, tenuta presso il Club Maintenant di Parigi] fu più tardi in gran parte sconfessato da Sartre, resta da comprenderne l’intento etico-pratico all’indomani di una guerra scatenata dalla barbarie nazista. Quando il poligrafo francese afferma che “l’esistenza precede l’essenza”, il suo scopo è quello di rivendicare la libertà dell’uomo e la sua totale responsabilità in ogni scelta e non già affermare un primato dell’esserci sull’essere che, d’altra parte, sarebbe in contrasto con le note affermazioni contenute in L’être et le nèant: “L’uomo è il nulla dell’essere”, “Questo nulla si annida nell’essere come un verme nella mela”. Quale il senso dell’operazione sartriana? L’universo è insignificante, il silenzio di Dio e la mancanza di valori fondanti obbligano l’uomo a creare da sé i propri fini e significati: “L’uomo non è altro che ciò che egli fa di se stesso”. Insomma,  nell’impossibilità di cogliere la totalità dell’Essere, diversamente da Heidegger, Sartre separa l’ontologia dall’etica. Il pensatore tedesco fa invece di questa impossibilità [«quel che conta – egli scrive – è l'essere, non l'uomo.»] un obbligo per l’uomo di ascoltare l’Essere, in quanto egli non ne è il padrone, ma il pastore. Il rischio, a questo punto, è che questo “ascolto” si traduca di nuovo nel ritorno ad Hegel e allo Spirito che si manifesta nelle sue varie forme [Religione, Arte e Poesia, Filosofia].

 In conclusione, ritengo che non ci sia una reale distinzione tra Sartre e Heidegger sul piano ontologico e che quelle che appaiono come differenze siano piuttosto dovute a una diversa concezione dell’etica.

 Circa l’altra questione, ho scritto effettivamente che l’Essere non è il noumeno kantiano, neppure guardando alla totalità delle idee antinomiche che sembrerebbero riempirlo di contenuto, per il motivo che più che all’Essere [come vorrebbero Sartre e Heidegger], queste idee fanno riferimento ai poteri della ragion pura e poco hanno a che vedere con la complessità del reale inteso come Unità-Totalità. Più che di antinomie, si tratta in realtà di tautologie già insite per definizione nella ragione umana e sono d’accordo con Ottavio Plini per quanto afferma circa il loro “scivolamento” nelle varie forme dell’idealismo assoluto. Non vedo invece come sia possibile ricondurre la questione qui posta, dell’essere e del nulla, sia pure  per rapporto a quella che egli chiama  “l’inviolabile solidità del sistema cabalistico”, nei termini di un “hegelismo assoluto, né di destra né di sinistra” di cui francamente mi sfugge il significato. Prima di tutto perché la Qabbalah non è un sistema, in quanto molte sono le Qabbalah e molti i cabalisti, le cui posizioni, dal lato della metafisica, sono spesso assolutamente divergenti se non addirittura contrapposte tra loro. La Qabbalah alla quale ho inteso riferirmi è quella storicamente più antica, quella che faceva capo a Isacco il Cieco [Provenza, 1160-1235], per il quale ogni trascendenza [Uno e Zero, Essere e Nulla, Assoluto] è indicibile per il semplice motivo che tutto ha inizio con il due e con la manifestazione. Mutatis mutandis, tale argomentazione si ritrova più nell’impostazione di Sartre che in quella di Heidegger e, soprattutto, di Hegel.


sergio magaldi