mercoledì 18 novembre 2015

SUBURRA

Suburra, regia di Stefano Sollima, Italia, Francia, 2015, 130 minuti



 La Roma di Stefano Sollima è il gorgo in cui la bellezza, ancorché decadente, della città dei film di Federico Fellini e di Paolo Sorrentino, sprofonda nella Suburra, il luogo più malfamato dell’antica Roma che, come un mostro fuoriuscito dai confini in cui era costretto, si sia riversato improvvisamente per l’intera urbe.







  La Roma di Fellini, benché mostri con La Dolce vita del 1960 i segni di una decadenza inesorabile e le rughe di un’aristocrazia impegnata nel difendersi dalla noia, si mostra amante partecipe e pietosa, mai indifferente. Ma il tempo è passato tra la Roma vista con gli occhi di un giovane aspirante scrittore, stupendamente interpretato da Marcello Mastroianni, e quella che lo scrittore di un solo romanzo, un Toni Servillo altrettanto bravo, giunto ormai in età avanzata, descrive nelle sue “passeggiate”. Il primo vive nel caos esistenziale la speranza del proprio tempo, nel nuovo che avanza, con il boom economico degli anni Sessanta, ma anche lasciando intravedere la deriva del “mostro” che inesorabilmente si annuncia. Nel finale del film, con la folla che si accalca attorno al cadavere della bestia, ma anche nelle parole che una sorridente e giovanissima Valeria  Ciangottini cerca inutilmente di far ascoltare a Marcello [Dal post del 29 maggio 2013, LA GRANDE BELLEZZA].

 La splendida interpretazione di Toni Servillo non serve a far rivivere “la dolce vita”, ma semmai a rimpiangerla. Le passeggiate romane di Jep Gambardella non ci aiutano a riconoscere una grande bellezza, deturpata dal tempo e dall’incuria dell’uomo, perché Roma non è la grande bellezza, più di quanto non lo siano Atene o Firenze: la natura, l’arte, il sogno, l’amore, forse soltanto il primo amore, e soprattutto la vita sono la grande bellezza che tenta di resistere al nulla, simbolicamente rappresentato dalla città eterna in cui continueranno ad agitarsi, finché potranno, Jep Gambardella e i suoi amici.

 È  il monologo finale a farci consapevoli - semmai ce ne fosse bisogno - che, sotto la veste felliniana, il film di Sorrentino ha poco in comune con il vitalismo di cui fu portatore il grande maestro, e che proprio in questo consiste la sua originalità e la sua bellezza. Mentre la “santa vecchia” s’arrampica con sofferenza e indicibile sforzo lungo i gradini della scala santa, ecco risuonare le parole eloquenti e dimesse di Jep Gambardella:

 “Finisce sempre così… con la morte. Prima però c’è stata la vita… nascosta sotto il bla… bla… bla… bla… bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore… il silenzio e il sentimento… l’emozione e la paura… gli sporadici inconsistenti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile… tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo…” [Dal post del 07 marzo 2014, Omaggio a LA GRANDE BELLEZZA]

 Nel vortice, scompare anche la Roma di Pier Paolo Pasolini, di film come Accattone, Mamma Roma, La ricotta. Persino le borgate, dove pure sopravvive un sottoproletariato senza speranza, si sono dissolte in un massa informe e caotica che non potrà più ricomporsi in forme solide e definite, perché ovunque il serpente dell’Apocalisse “getta acqua dalla sua bocca” [Apocalisse XII, 15].

 L’intento del regista di Suburra è proprio questo. Vivere i sette giorni che preparano l’Apocalisse finale, in una notte continua fatta di pioggia torrenziale che si abbatte sulla città, ma l’intreccio tra criminalità organizzata, corruzione politica e malaffare ecclesiastico, per apparire come il segno dell’avvento dell’Apocalisse e non già come fenomeno consueto e ben noto ai cittadini romani, ha bisogno di uno sfondo ritenuto eccezionale e che in realtà nulla ha di straordinario:la caduta del governo Berlusconi [siamo nel 2011] e le dimissioni di Papa Ratzinger.




C.Bonini-G.De Cataldo, Suburra, Einaudi, Stile libero Big, 2013,pp.488



 Tratto dal libro omonimo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, il film di Stefano Sollima non ne possiede la forza evocativa né si mostra capace di un’analisi di tipo antropologico e sociale altrettanto efficace di quella contenuta nelle pagine del romanzo:

 Ufficialmente denominato «circolo ricreativo», Il Bagatto era quanto di piú simile a un centro sociale la destra estrema romana fosse riuscita a concepire. Ma se il modello organizzativo era copiato dalla sinistra, l’apparato scenografico, dai gagliardetti col fascio littorio ai murales con Gandalf e Frodo, dai posacenere con la croce uncinata ai manganelli con l’anima in ferro che vendevano sottobanco su improvvisate bancarelle, era inequivocabilmente di stampo fascista. Cosí come fascisti erano i giovani cuori dei ragazzi che, dapprima alla spicciolata poi sempre piú numerosi, andavano assiepandosi sulle panche zoppicanti del sottoscala di Monte-sacro, impazienti di ascoltare, in religioso silenzio, il verbo del loro capo spirituale.

   Quella sera erano almeno in quaranta, quasi tutti giovanissimi. Figli delle curve dello stadio Olimpico, divisi dal tifo ma uniti – questo almeno faceva loro credere il Samurai – da una fede comune.

   Le curve. Il futuro di Roma.
   Il Samurai riponeva grandi speranze nei suoi ragazzi. Gente agitata, gente che non aveva niente da perdere e fremeva per prendersi tutto.
   L’ideologia era stata l’esca, ma il progetto andava ben oltre ogni ormai tramontata utopia. Si trattava di costruire una rete a piccole maglie. Dovevano essere forti, determinati, spietati come antichi guerrieri, ma anche astuti come volpi e, all’occorrenza, malleabili e urticanti come meduse. Ciascuno doveva essere impiegato secondo le proprie qualità: cani da strada e professionisti in doppiopetto. E tutti, tutti sarebbero stati fedeli.
   Il Samurai cominciò a parlare. La sua voce era bassa, gradevole, ma s’apriva a improvvisi squarci di energia che accendevano le menti e scaldavano i cuori. Parlò dello stretto, indissolubile legame che avvince la Rivoluzione, che tutti loro sognavano, e la vita della strada. Spiegò che ciò che per il borghese è crimine, per il guerriero può essere, a certe con-dizioni, il gesto perfetto che non tollera né il meschino piagnisteo del debole né l’acre censura di un’imbelle giustizia. Perché il gesto trova in sé stesso la propria giustificazione, etica, estetica e religiosa, e tanto deve bastarvi.
   Parlò e parlò, arricchendo l’orazione di parabole esemplari,
finché non ebbe la certezza di averli, come sempre, in pugno. E allora, all’improvviso, quando si aspettavano la rivelazione definitiva, tacque, e con un mezzo sorriso li congedò tutti.
   – Ora andate. Che ciascuno di voi mediti su quanto ha appena ascoltato. Ci rivediamo il mese prossimo.
   I ragazzi sciamarono via, scambiandosi commenti entusiasti ma a mezza voce, per non disturbare la concentrazione del Samurai, che, a occhi chiusi, si massaggiava le tempie, come prostrato dallo sforzo oratorio.
    – Maestro? Permetti una parola?
   Il Samurai aprí gli occhi con un sospiro.
   E si ritrovò a dieci centimetri dalla canna di una semiautomatica.
   Mise a fuoco un volto franco, due occhi profondi e corrucciati, una smorfia di tensione e un tremolio che l’altro faticava a controllare.
  Marco Malatesta. Diciott’anni. Un ragazzaccio di Talenti ricco di cuore, fegato, e, soprattutto, cervello. Uno dei suoi preferiti. Un potenziale erede designato.
   – Se pensavi di stupirmi, Marco, ci sei riuscito. Ora, se volessi spiegarmi...
   – Tu non sei un maestro. Tu sei solo un bastardo!
       Attento, Marco. Stai ragionando come un piccolo-borghese.
– Fanculo alle tue stronzate, Samurai. Tu sei questo!
   Il ragazzo si frugò nelle tasche del giubbotto e gli scaraventò addosso una manciata di pillole multicolori.
   – Valgono un sacco di soldi, – commentò il Samurai, per niente turbato. –  Faresti meglio a raccoglierle.
   – Ah, le riconosci, eh? E certo! Sei tu che spingi l’ecstasy in curva, tu che ci stai intossicando. Sei uno spacciatore, Samurai. No, non uno spacciatore, il capo di tutti gli spacciatori. Ci hai mandato in giro a spaccare le teste degli spacciatori. E l’hai chiamato «atto rivoluzionario». E invece che cos’era, eh? Libera concorrenza?
   – Ragazzo mio, se vuoi sparare a qualcuno, prima togli la sicura.
   Marco abbassò d’istinto lo sguardo.
   Il Samurai sorrise, poi agí, fulmineo. In un istante, la pistola era finita tra le sue mani.
   Marco si avventò, il sangue agli occhi. Il Samurai scartò appena di lato, evitò l’assalto e, con il calcio dell’arma, vibrò un colpo secco alla base della nuca. Il ragazzo si abbatté mugolando. Il Samurai scarrellò. Poi si chinò su Marco, lo costrinse a voltarsi, gli montò su a cavalcioni, puntò l’arma al centro della fronte.
   – Dovrei ripagarti con la stessa moneta, Marco Malatesta.
E non ti servirebbe a niente chiedere pietà.
   – Io non chiedo pietà a un pezzo di merda! Io ci credevo in te, Samurai, credevo nelle cose che dicevi. Cambiare questa città, cambiare questo mondo marcio, la nuova morale. A te questo mondo marcio va benissimo, tu ci sguazzi dentro, tu sei il traditore!
   – Io non sono un traditore. Semmai, un cattivo maestro. Non sono riuscito a insegnarti niente. Per questo sono molto piú colpevole di te. E la mia punizione sarà di lasciarti in vita”[Op.Cit. pp.15-18].


 Il merito che Marco Travaglio, su Il Fatto Quotidiano, attribuisce al film di aver “capito tutto prima di Mafia Capitale” senza avere “sottomano le intercettazioni” di cui disponiamo oggi, non solo non appare sufficiente a far decollare il film, ma non è neppure un merito, alla luce di una semplice intuizione di vecchia data da parte dei cittadini, sgomenti di fronte a una gestione del potere che ha portato il comune di Roma a un debito pubblico di 8 miliardi e mezzo di euro.

 Tutto nel film appare scontato e prevedibile, in una sparatoria continua e nello stereotipo di personaggi interpretati da attori spesso a disagio nella parte ritagliata per loro, come nel caso dell’onorevole del centrodestra o in quello del cardinale minacciato di finire nel Tevere. Con scene di sesso che dovrebbero evocare la perversione e il dramma e che inducono a pensare che siano state girate da troupe amatoriali. Resta la grande interpretazione di Claudio Amendola nella parte di “Er samurai” che, quasi da sola, giustifica la visione del film.

sergio magaldi

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