sabato 19 dicembre 2015

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Quarta]








 La felice apparente commistione tra pensiero sapienziale e pensiero religioso che traspare dal genio dei Greci, non deve trarci in inganno. In realtà, abbiamo già visto, a proposito di Socrate e dei sofisti, la scarsa tolleranza religiosa della società ateniese. La città antica è “totalitaria” nel senso che non distingue tra l’obbedienza che si deve alle leggi e quella dovuta agli dei. Unica eccezione fu forse Roma, tollerante e persino rispettosa del pantheon finché una religione non pretese di imporsi su tutte e addirittura di sostituirsi allo stato.

 Tuttavia la religione dei Greci non conosce né dogma né libro sacro, risolvendosi dunque in una formale adesione agli dei della città, nei sacrifici, nei riti e nelle feste, peraltro assai frequenti, che si devono celebrare per ingraziarsi la divinità e assicurare il benessere di tutti.

 Accanto a questa religione per così dire, conformista, superstiziosa e popolare, che peraltro è il tratto caratteristico ed esteriore delle religioni di ogni età, si sviluppano in Grecia, in perfetta concordia con la religione ufficiale, le cosiddette religioni misteriche che non chiedono di sostituire una divinità con l’altra, e bensì promettono agli adepti una individuale salvezza, cosa alquanto impensabile e rara nella società antica.

 Così, per esempio, l’iniziato dei piccoli come dei grandi Misteri Eleusini possiede un sapere indicibile e segreto che non deve essere rivelato ai profani. E per quanto questo sapere sia legato al culto di Demetra e di Persefone e dunque si avvalga di un pensiero sostanzialmente religioso, nondimeno occorre riconoscere che da queste due divinità, collegate al ciclo del grano e della vegetazione, si levi una sapienza antica e tradizioni più arcaiche, in parte andate perdute e in parte gelosamente custodite dalla Massoneria. A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la distinzione tra pensiero sapienziale [Massoneria] e pensiero teologico [Religione] non consiste tanto in quel che si sa, ma del modo in cui lo si sa e più ancora nella spiegazione che si dà del pretendere di saperlo…

 Più arduo ancora distinguere, almeno a prima vista, tra pensiero sapienziale e pensiero religioso all’interno di quella che si può ben definire la seconda radice della civiltà occidentale: l’ebraica. La specificità della dottrina sapienziale degli Ebrei, infatti, è di presentarsi e di svilupparsi in stretta relazione con il Dio della Rivelazione. Ma vi sono al suo interno almeno tre aspetti che possono facilitarci il compito.

 Il primo e il più importante è costituito dall’infinita ‘lontananza’ che corre tra l’uomo e Dio, sebbene il Dio del Vecchio Testamento si annunci straordinariamente talora ai sapienti d’Israele. A differenza del Dio cristiano, Egli non s’incarna, a differenza del dio pagano Egli non si trasforma assumendo ogni sembianza. Pure, questo insondabile vuoto che dimora tra l’uomo e Dio deve essere colmato. E per quanto l’ebreo viva costantemente nel pensiero e nel timore di Dio, egli sa che, per ridurre la distanza incolmabile che separa l’umano e il divino, deve contare unicamente sulle proprie forze, sperando solo che la Shekinah sia su di lui.

 In tale prospettiva, si delinea anche il secondo aspetto: l’importanza che riveste per l’ebreo l’elaborazione di una dottrina sapienziale, lo studio e l’approfondimento della Legge o Torah, il ruolo carismatico della tradizione.

 Il terzo aspetto è appunto costituito dalla Qabbalah o Tradizione nella quale confluiscono speculazioni di pensiero talora estranee se non addirittura ostili alla dottrina rabbinica, e per la quale si è persino parlato di ‘pensiero laico’ e di ‘esoterismo’ degli Ebrei.

 Insomma, contro quel che comunemente si pensa, l’ebreo è costretto a vivere ‘come se Dio non ci fosse’, pur sapendo in cuor suo che Egli c’è.

 Sotto questo riguardo, il più significativo tra i libri sapienziali del Vecchio Testamento, è certamente Qoelet. 'Tutto è vanità' vi si legge all'inizio e 'tutto è vanità' si ripete quasi alla fine del libro. Nulla di nuovo sotto il sole: una generazione va e l'altra viene, il sole sorge e tramonta sempre allo stesso modo, infinito è il numero degli stolti e i malvagi mai si correggono; inutilmente ci si applica nello studio o ad acquistar ricchezze perché dove aumentano la conoscenza e il denaro si moltiplicano le inquietudini e gli affanni. In questo deserto descritto nel I Capitolo di Qoelet, dove non c'è traccia del nome di Dio e dove tutto si ripete con regolarità sconcertante, nulla sfugge alla vanità e all'afflizione dello spirito. Il tema è ripreso con forza nei capitoli successivi e per quanto si faccia menzione di Dio, si commenta amaramente:

 "... la morte dell'uomo e delle bestie è la stessa, è uguale la condizione di ambedue: come muore l'uomo così muoiono le bestie; uguale è il soffio di vita per tutti, e l'uomo non ha nulla di più della bestia. Tutto è soggetto alla vanità." (III, 19)

 Una incolmabile lontananza dimora tra l'uomo e Dio, perché 'Dio è nel cielo e tu sei sulla terra' è detto all'inizio del V Capitolo e l'uomo, benché sapiente, non troverà nessuna spiegazione dell'operare di Dio, è detto alla fine dell'ottavo. Così, "vi sono dei giusti cui toccano i mali, come se avessero operato da empi, e vi sono degli empi, tanto tranquilli, come se avessero operato da giusti"(VIII, 14). Lo stesso concetto si ripete e si completa nel IX Capitolo(2-3):

 "Tutto è incerto nel futuro, perché tutto avviene ugualmente al giusto e all'empio, al buono e al cattivo, al puro e all'impuro (...) L'onesto e il peccatore, lo spergiuro e chi giura il vero sono trattati allo stesso modo. Questa è la cosa peggiore di quelle che avvengono sotto il sole: l'accadere a tutti le medesime cose..."

 Dunque, il tema della retribuzione, così altrimenti caro al pensiero sapienziale ebraico non preoccupa minimamente l'autore o gli autori di Qoelet. L'intento sembra essere piuttosto quello di descrivere l'infelice condizione umana, prescindendo da Dio e dai suoi imprescutabili disegni. Il legame tra l'uomo e Dio, se proprio lo si vuole rintracciare, si sostanzia unicamente nel concetto di prova alla quale Dio chiama, chiamando alla vita. Ma, diversamente che nel libro di Giobbe, dove il rapporto uomo-Dio, tra ragione e sragione, assurdo e paradosso si colora infine di senso, qui il mistero permane rigidamente sigillato e la lontananza diviene assoluta. Tant'è che l'ultimo consiglio di Qoelet sembra ispirarsi al Carpe diem di Orazio e dei filosofi greci:

 "Va' dunque e mangia allegramente il tuo pane, e bevi con allegria il tuo vino (...)
 In ogni tempo siano candide le tue vesti e non manchi l'unguento al tuo capo. Godi la vita con la moglie diletta, per tutto il tempo della tua vita fugace, per quei giorni che ti sono dati sotto il sole, per tutto il tempo della tua vanità; questa è la tua sorte nella vita e nelle tue fatiche che ti affannano sotto il sole. Tutto quello che puoi fare con i tuoi mezzi, fallo presto, perché né attività né pensiero, né sapienza, né scienza hanno luogo nella regione dei morti dove tu corri." (IX, 7 - 10).

 E non v'è dubbio che il pensiero sapienziale dei Greci aleggi qui e finanche la concezione dell'aldilà rammenti in modo ancora più radicale quella descritta da Omero nell'Odissea dove, almeno, le ombre dei morti hanno rimpianti… [Segue]

sergio magaldi


2 commenti:

  1. Ho letto con piacere l'articolo ed è una mia opinione che una volta tanto sarebbe interessante considerare lo sviluppo religioso da un punto di vista psicologico e non soltanto storico. Se greci ed ebrei hanno metabolizzato in forme laiche il dio, la spiritualità è diventata sempre più difficile da vivere nella psiche dei singoli uomini. Gli dei greci castigano soltanto (ricordiamo il mito di prometeo), il dio ebreo poi cristiano invece scaccia adamo ma non pretende nessuna restituzione della scienza del bene e del male, permettendo così che nella sua evoluzione l'uomo di qualunque estrazione fosse non potesse più accettare che i misteri siano cosa buona. La bibbia per porre un limite all'uomo ha posto più norme che saggezza. Ciò ha portato al rischio oggi rivelatosi realtà di una società laica ma senza limiti. Nell'apprendista stregone di Luciano di Samosata il protagonista si diverte a fare magia disinteressandosi dei limiti della magia intesa come conoscenza, e cercando solo i suoi scopi egoistici e banali diventino realtà.Ossia ieri come oggi l'uomo è psicologicamente impreparato a porsi dei limiti, ogni trascendenza spirituale è distrutta. Sembra che alla fine si dovrebbe discutere più di un dualismo natura-cultura piuttosto che una discussione tra classi sociali più o meno elitarie, ossia riprendere in considerazione l'uomo come psiche e stretto da un sovraffollamento intellettuale e da una dimenticanza delle necessità del corpo e della natura. Ossia alla fine non basta considerare solo le conoscenze della tradizione ma tutto un vissuto interpersonale-intrapersonale di tutti gli uomini. In politica è facilmente evidenziabile come i problemi sorgano proprio dal considerare una classe politica al di fuori della necessità ma anche del costo psicologico delle singole scelte sull'uomo. Costo che rimane nel vissuto sia materiale che inconscio della società tutta rallentando la sua evoluzione.

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  2. "....riprendere in considerazione l'uomo come psiche e stretto da un sovraffollamento intellettuale e da una dimenticanza delle necessità del corpo e della natura." Un sovraffollamento intellettuale che non sempre viene tradotto in esperienza di vita senza la quale, la scienza insegna, non v'è progresso, né materiale, né culturale, né tantomeno spirituale. Per cui abbiamo continuato a procedere confondendo progresso con sviluppo, perseguendo il secondo, anche con il supporto della tecnica, in modo insensato e contro natura.

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