mercoledì 27 gennaio 2016

RICORDARE LA SHOAH





 Oggi è il giorno della memoria, per chi vuole ricordare e per chi vuole dimenticare la barbarie nazifascista che si è abbattuta sull’Europa nella prima metà del secolo scorso. Non per retorica, né per conoscere la Storia, ma per la consapevolezza di quanto grande possa essere la crudeltà degli esseri umani. Il brano che segue è tratto da un romanzo autobiografico: Tell Me Another Morning [“Raccontami un altro mattino”] di Zdena Berger:



Zdena Berger, Raccontami un altro mattino, Baldini Castoldi Dalai editore, trad. Marina Premoli, Milano, 2008, pp.315


 Siamo in fila davanti all’ultima baracca. Ci hanno detto di uscire ed eccoci lì. Vedo gli uomini sull’altro lato della strada, immobili e silenziosi. Oggi non lavorano alla strada. E la parola è ripetuta molte volte, la sento sospesa nell’aria, gonfia come un pallone: una parola sola, e occupa tanto spazio.
 Selezione… selezione.
 […]
 Ora entrano le prime. Rumore di zoccoli di legno sull’assito. È una grande sala, del tutto vuota. Siamo noi l’unico arredamento.
 […]
 Poi la voce di uno di quelli in grigioverde, che ordina di fare silenzio. E nel silenzio della stanza la sua voce trasmette due parole: «Spogliarsi! Completamente!»
 La stanza si stira in alto, una selva di mani sopra la testa, abiti grigi sospesi un attimo verso il soffitto prima di ricadere, poi la stanza si china, ginocchia che si divincolano, gli abiti tanti fagotti grigi ammucchiati alle caviglie.
 Mentre comincio a spogliarmi, la mamma è già nuda, le braccia conserte sul seno, e sembra troppo bianca e troppo nuda. Mi tiro giù le mutande e penso a quante volte ho immaginato di spogliarmi per la prima volta davanti al mio primo uomo –
 […]
 Si apre la porta. Rumore di tacchi che sbattono, e quelli in grigioverde si portano la mano alla fronte rosea. Davanti a loro, un uomo alto, il cranio biondo rasato. La sua uniforme sembra più verde delle altre, gli stivali più scuri. In mano, un frustino da cavallerizzo. Sotto le stellette e le foglie di quercia, un distintivo con un bastone e due serpenti attorcigliati. Il distintivo dei medici. Noi non siamo malate. Io non sono malata.
 […]

 Le donne in fila per uno, nudi corpi in lento movimento verso quell’uomo. Lui non dice niente. Ma il frustino nero si muove ogni volta. Sinistra, destra. Vedo già due gruppi. Sinistra, destra. Destra. Destra. Sinistra. A volte la mano si ferma, il frustino alzato a mezz’aria in un momento d’immobilità. Poi si muove rapido: sinistra, destra. Posso quasi sentire il suo movimento. [Op.cit.,ed. mondolibri, pp.106-108]

sergio magaldi

domenica 24 gennaio 2016

Amore e Morte in LA CORRISPONDENZA di Giuseppe Tornatore

Giuseppe Tornatore, La Corrispondenza, Italia 2016, 116 minuti



  “Forte come la morte è l’amore”, ‘azzah kammawet ‘ahabah, recita il Cantico de’ Cantici [Shir Hashirim]. La trasfigurazione poetica lancia una sfida alla morte nella dimensione dell’eternità.

 Nel momento più alto del loro amore, ciascuno degli amanti è convinto che il suo amore sia “per sempre” e che neppure la morte abbia il potere di spezzare il legame. Il mito di Alcesti e Admèto esprime lo stesso concetto [Nel Cantico, così come nel mito greco,  si sta parlando dell’amore tra un uomo e una donna]: per amore, la donna muore al posto dello sposo predestinato. Commosso dal sacrificio, Eracle andrà nell’Ade a riprendere Alcesti e ricondurla alla vita.








 Eros e Thanatos, amore e morte, più che antagonisti sono in realtà aspetti complementari di un’unica legge di natura. Sulla scia di Empedocle, Sigmund Freud, nel suo saggio del 1920 “Jenseits des Lustprinzips”, Al di là del principio del piacere, riduce queste forze primordiali a pulsioni  originali, presenti nell’essere umano e dunque destinate a coesistere pur nell’apparente antagonismo: accanto al desiderio di vita che ci spinge a raggiungere il possesso dell’oggetto amato, c’è un desiderio di morte che tende a inibire l’appagamento e a ricondurci verso una forma di esistenza inorganica. Per Freud, dunque, amore e morte, sono sempre e in qualche modo connessi tra loro ed esprimono la cifra del conflitto psicologico presente in ogni persona.

 Thanatos, morte, è contenuta in Eros, amore, per quel tanto o poco che serve ad inibire gli istinti - come afferma Herbert Marcuse in Eros e Civiltà - mentre Eros è un aspetto di Thanatos, perché solo l’amore è in grado di guidare l’anima nei territori impervi delle ombre [Cfr. Il mito dell’analisi di James Hillman].

 La profonda relazione che intercorre tra amore e morte non è solo un’intuizione della psicologia e dalla psicoanalisi, né è solo un’esaltazione romantica celebrata drammaticamente nel mito, nell’arte, nella poesia e nella tragedia antica. Il binomio è innanzi tutto frutto di un vincolo genetico che appartiene alla biologia. C’è morte perché c’è amore nella biosfera: gli organismi monocellulari, come batteri e protozoi, la cui riproduzione è asessuata, sono praticamente eterni; gli organismi pluricellulari, come gli esseri umani e non solo, che si moltiplicano attraverso la riproduzione sessuale, sono inevitabilmente destinati alla morte per esaurimento di energia e il loro sogno di immortalità, a certe condizioni ambientali e comportamentali favorevoli, si sposta dall’individuo alla specie.

  La Corrispondenza, il film di Giuseppe Tornatore uscito in questi giorni sugli schermi, è al tempo stesso il racconto di una grande passione tra un professore e la sua alunna, l’impossibilità dell’amore “per sempre” e il tentativo di utilizzare la tecnologia contemporanea per prolungare indefinitamente l’illusione di un amore eterno.




 La vicenda di Ed [Jeremy Irons], docente di astrofisica, consapevole di non aver mai amato con tanta intensità, e di Amy [Olga Kurylenko] la sua innamorata studentessa, colpisce favorevolmente la mente e il cuore dello spettatore. Non c’è impedimento umano [Ed ha moglie e tre figli, Amy è assai più giovane di lui] che possa sconfiggere un amore “vero” e senza neppure che i due decidano di vivere insieme. Si vedono solo di tanto in tanto, quando è possibile, ma sarà “la corrispondenza” tra di loro a misurare la cifra di un grande amore. Proiettati nell’infinto, dal comune interesse per l’astrofisica, coltiveranno grazie alla complicità delle stelle, l’illusione dell’eternità.

 Pure, entrambi sono consapevoli dell’intreccio inesorabile di vita e di morte: Amy – che Ed chiama dolcemente kamikaze – si mantiene agli studi facendo la stuntwoman per cinema e televisione e rischiando ogni volta di morire. Per bisogno di espiare il senso di colpa, retaggio di una tragedia familiare di cui si sente responsabile? Certo! Eppure il regista ci lascia immaginare qualcosa di più, come a voler affermare che vita e morte sono le facce di una stessa medaglia. Senza contare che allo spettatore minuzioso viene da chiedersi se dietro l’amore per un uomo molto più grande di lei, la donna non nasconda il complesso di Elettra [l’equivalente al femminile del complesso di Edipo]. Ed, dal canto suo, lavora alacremente e con pignoleria a rendere la propria morte un episodio della vita, impotente a separarlo definitivamente dalla donna che ama e dalla quale si sente riamato. Impresa votata allo scacco? Non direi, a giudicare da una delle tante chiavi di lettura di questo ottimo film che Giuseppe Tornatore – regista, sceneggiatore e ideatore del soggetto – ha inteso proporre:

 “La Corrispondenza è una storia d’amore ai tempi di Internet. Emozioni e sentimenti a confronto con le tentazioni e le insidie del virtuale. E le storie d’amore, anche quando si concludono male, hanno sempre un lieto fine. Per il solo fatto di essere esistite”. 

sergio magaldi

mercoledì 13 gennaio 2016

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Settima]

Kandinsky, Composizione V







 L'esemplificazione del paradosso insito nel pensiero sapienziale della Qabbalah ebraica, consistente nel tentativo di pervenire a una totale identificazione di pensiero sapienziale e di pensiero teleogico,  si trova forse - come è stato messo in evidenza da Gershom Scholem, Martin Buber, Karl Grozinger e tanti altri - nell'universo letterario di Kafka. Addirittura G.Scholem soleva dire che per capire veramente la Qabbalah bisognerebbe prima aver letto i libri di Franz Kafka.

 Nei romanzi dello scrittore praghese si disegna infatti, contemporaneamente, la speranza teurgica propria della Qabbalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla sua ‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per Giobbe, non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti, secondo il fortunato ma per me errato giudizio di Remo Cantoni.

 La Qabbalah nell'accennare al progetto divino del mondo, individua nella teurgia lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia e questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo, dove è il Rebbe, lo Zaddik, ad intercedere per la comunità.

 L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio del Castello si rivela illusorio quando non addirittura fuorviante. Eppure, questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo e della Qabbalah, e neppure è vissuto da Kafka con angoscia. 'L’angoscia intollerabile' di cui parlò André Gide s’impadronisce piuttosto dei lettori e deve servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su…, bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang: “Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto -in termini teologici- che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino”. (Cfr.in W.Benjamin, Angelus Novus, tr.it., Milano,1965,p.292).

A sostegno di tale interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka contenuti negli “Otto quaderni in ottavo”, a cominciare dal più breve di tutti: Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato.

 L’En Soph, il Nulla che fa disperare i discepoli di Isacco il Cieco perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano pensieri nichilistici, pensieri di suicidio. C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo avvocato (il dottor Bucefalo) per la trasposizione romanzesca del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di Luria, chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul? Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce per essere, fatalmente, la modalità umana, inconsapevole e sapienziale, di vivere il sacro. Ma ci sono altri esempi: la fisiognomica o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., nel romanzo di Kafka, può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra. Il lettore, anche quello meno distratto, non si sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabbalah, egli è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato.

 Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto “Davanti alla legge”, ripreso anche nelle ultime pagine del “Processo”, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “ Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo.’ (F.Kafka, Racconti, tr.it., Feltrinelli, VI Ed., Milano, 1965, pp.137-139)

 Il cabbalista fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar assegna simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Al contrario, la donna nella tradizione rabbinica è talora vista come immagine di Lilith. La stessa ambivalenza c'è nelle donne dei romanzi di Kafka, egli, tuttavia, non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto.

 Il primo ‘aiuto’ di Leni, la segretaria dell'avvocato Huld nel Processo, è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio, l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo introduce nello studio dell’avvocato ed è ancora lei a suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo: ‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore, non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ (Ibid., p.104). Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima, tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange. Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” (Ibid. pp.105-106)

 Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo. La verità è che nessun aiuto è efficace né per giungere sino al Signore del Castello né per mitigare la sentenza del Giudice del Tribunale. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte. Ne sa qualcosa Giobbe nel gridare a Dio il suo dolore: "Signore perché dai importanza all'uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova ? (Giobbe,7, 18)

 In conclusione, dunque, vorrei dire che il pensiero sapienziale della tradizione occidentale, pur nelle continue interferenze col pensiero religioso, appare in grado di rivendicare una propria peculiare elaborazione anche e nonostante la presenza del divino, la cui imperscrutabile lontananza - come nel monoteismo ebraico - e la cui costante presenza - come nel politeismo greco - nulla possono sulla libertà umana e sull'umano sapere.


sergio magaldi

mercoledì 6 gennaio 2016

MASSONERIA E RELIGIONE [Parte Sesta]





 Pur tenendo presente l'osservazione di Yosef Colombo, circa la natura sostanzialmente religiosa di ogni manifestazione ebraica, non si può disconoscere alla Qabbalah, quale dottrina esoterica degli Ebrei, un'autonomia di indagine, un approccio concettuale e simbolico ai temi che ne fanno una forma originale e unica di pensiero sapienziale. Tant’è che la Massoneria, non solo accoglie e custodisce al suo interno, gran parte di questa tradizione, così come fa con la maggior parte delle tradizioni sapienziali, ma nella sua ritualità ne utilizza ampiamente il simbolismo [Cfr., LE RADICI ESOTERICHE DELLA MASSONERIA. L’Arca Vivente Dei Simboli, a cura di M.Bianca e N.M. di Luca, prefazione del Gran Maestro del Goi, Gustavo Raffi, Atanòr, 2001, pp.238]







  Non è mia intenzione, peraltro, entrare nel merito della questione riguardante l'origine mitica della Qabbalah, se sia cioè, per così dire, una 'rivelazione primordiale' concessa ad Adamo o magari 'la parte esoterica' della Legge che Mosè ricevette sul Sinai, come suggerisce Gershom Scholem. La Qabbalah nasce storicamente nel XII secolo, sulla sponda occidentale del Mediterraneo, tra le comunità ebraiche di Linguadoca, una terra tanto fiorente nel commercio quanto progredita nel viver civile e nella tolleranza da essere, per quei tempi, certamente esemplare. E' vero, d'altra parte, che 'la nascita medievale' della Qabbalah non esclude una nascita sua più antica, derivando i suoi contenuti dalla riflessione e dall'approfondimento della religione biblica e della tradizione rabbinica, sia attraverso la parola scritta, sia più diffusamente attraverso la comunicazione bocca-orecchio, sicuramente non esclusiva dell'esoterismo ebraico.

 Quel che è certo è che, nel suo esordio storico, sia in Provenza, sia soprattutto in Catalogna, nella celebre scuola di Girona, Isacco il cieco insegni che occorre tralasciare ogni speculazione con riguardo tanto all'Uno quanto al Nulla. Non è a caso che la ricerca dei perushim - gli studiosi di Qabbalah - si limiti per un verso all'Opera della Creazione o Ma’asè Bereshit e per altro verso all'Opera del Carro o Ma’asè Mercavah. Con la prima intendendo il libero commento del Genesi o Bereshit per il quale è noto a tutti che la lettera Beit, con cui ha inizio la narrazione, è una lettera aperta solo da un lato a significare che unicamente gli eventi accaduti dopo il Bereshit o Principio sono accessibili all’indagine umana. Con la seconda, mediante la cosiddetta discesa nella Mercavah, facendo riferimento al viaggio nella propria interiorità, alla ricerca di quei centri 'sottili' di consapevolezza detti Hekalot o Palazzi, assai simili, peraltro ai Chakras dell'induismo e ai 'soffi vitali' descritti nelle Upanisad. Sono centri 'sottili' e tuttavia hanno una corrispondenza nel corpo umano. Se si permette all’energia spirituale di scorrere e di soffermarsi su ciascuno di loro, non solo se ne trarrà motivo di benessere fisico e di purificazione ma sarà anche possibile accedere a visioni di esperienza non ordinaria.

 Tutto ha inizio con il primo Palazzo. In lui è racchiuso, secondo il Sepher ha Zohar (41a) - il libro più complesso e più famoso della letteratura cabbalistica - 'il mistero dei misteri'. Luz, con riferimento biblico è detto il suo luogo, 7 il valore numerico delle lettere che compongono la parola (Lamed 30 +Waw 6 +Zain 7 =43=7) ad indicare che sette sono i centri di consapevolezza dell’essere umano. Nel corpo, corrisponde al coccige, dove la colonna vertebrale termina nel punto più lontano dalla testa o dove inizia nel punto più vicino alla terra.

 Livnat ha Sapir, Mattone di zaffiro, è il nome del primo mattone. Dove il mattone è appunto simbolo della materia, cioè della densità della costruzione di luce e di energia che viene dall'alto. L' opera della Merkavà o opera del Carro non può che iniziare di qui, dove la prima manifestazione di luce e il principio stesso della luce si trovano insieme racchiusi nella densità della materia. Non a caso il suo nome in sanscrito, Muladhara, significa radice. Una concentrazione su questo centro produce immediatamente calore. Un suo funzionamento squilibrato produce eccesso di cibo e di sesso, avidità, diffidenza, aggressività, paura e insicurezza, debolezza fisica e disturbi della circolazione sanguigna periferica.

 Se la scuola di Isacco il cieco prima, e l'apparizione dello Zohar alla fine del XIII secolo, al di là degli antecedenti metastorici della Qabbalah, rappresentano i momenti di maggiore originalità e di più intensa affermazione del pensiero sapienziale e simbolico degli Ebrei sefarditi, occorre ricordare che fu soprattutto con Yizhaq Luria, nel XVI secolo, che la Qabbalah venne progressivamente affrancandosi dall’interpretazione ortodossa del testo biblico e dalla lezione rabbinica, reclamando sempre più un'autonoma e peculiare capacità di analisi, rielaborazione e approfondimento. E fu principalmente merito del movimento chassidico, sviluppatosi nella prima metà del Settecento tra gli ebrei aschenaziti dell'Europa centrale e orientale, se la Qabbalah, da movimento prevalentemente speculativo, magico e devozionale venne via via privilegiando la dimensione psicologica e la finalità iniziatica, nel senso cioè di rappresentare un cammino interiore di rettificazione e di progressivo perfezionamento da realizzarsi sia privatamente sia in seno alla comunità (devoti, chasidim) guidata da un giusto o zaddiq.

 Emerge tuttavia una continuità tra la Qabbalah di Isacco il cieco e quella del Chassidismo. In entrambe si direbbe quasi che il pensiero oscilli di continuo tra devozione religiosa e nihilismo, tra ricerca impossibile di giungere sino all'Uno nel tentativo almeno di cogliere il significato più autentico dell'azione divina e la consapevolezza di chi conosce in anticipo l'inutilità e la nullificazione di ogni azione umana votata in tal senso. E qui il paradosso si spiega con il tentativo di una radicale conciliazione tra pensiero sapienziale e pensiero teologico. La pretesa di pervenire ad un tale assoluto è per principio destinata allo scacco. Pur intrecciandosi di continuo, infatti, le due vie [quella perseguita dalla Massoneria e quella battuta dalla Religione], restano comunque distinte e separate. [Segue]

sergio magaldi