venerdì 29 aprile 2016

PERFETTI SCONOSCIUTI


Perfetti sconosciuti, regia di Paolo Genovese, Italia, 2016, 97 minuti


 Facile comprendere il successo di pubblico di Perfetti sconosciuti, in programmazione ormai da tre mesi nelle sale romane. Un film che rispecchia fedelmente il modo di essere e di vivere di tanta parte della piccola e media borghesia. Sette personaggi [due coppie tra i quaranta e i cinquanta, una coppia più giovane e un single, Peppe, interpretato con la consueta efficacia espressiva da Giuseppe Battiston] riuniti una sera a cena per celebrare il rito del cibo, se non altro cucinato [a buon diritto la location è semplice e senza sorprese, del noto e fortunato filone “Metti una sera a cena…”], tutti pronti a comunicare tra loro con battute della lunghezza di un sms, tant’è che il discorso più lungo lo fa Rocco [Marco Giallini] a sua moglie Eva [Kasia Smutniak], quando si appartano nel bel mezzo della bufera che già infuria tra i convitati: "Non trasformare ogni discussione in una lotta di supremazia. Non credo che sia debole chi è disposto a cedere, anzi, è pure saggio. Le uniche coppie che vedo durare sono quelle dove uno dei due, non importa chi, riesce a fare un passo indietro. E invece sta un passo avanti. Io non voglio che finiamo come Barbie e Ken: tu tutta rifatta e io senza palle".

 Mentre la battuta più drammatica e al tempo stesso comica, perché più di ogni altra suscita il riso del pubblico [ciò che invita a riflettere], è quella che Lele [Valerio Mastrandrea], parlando come a se stesso, in realtà pronuncia per tutti, con l’eccezione della moglie Carlotta [Anna Foglietta] che non può ascoltarla, perché è appena uscita sbattendo la porta di casa degli amici che l’hanno ospitata, e di Bianca [Alba Rohrwacher], la sposa recente di Cosimo [Edoardo Leo], il dongiovanni tassista, che chiusa in bagno tra i singhiozzi, per un miracolo della sceneggiatura, mostrerà poco dopo in realtà di averla udita e interpretata a dovere. So frocio solo da du ore e già m'è bastato…”, era stato il commento di Lele.

 Sono gli stessi personaggi che consumano i propri fasti nelle foto dei tablet e degli smartphone – talora impreziosite dall’apparizione su facebook e instagram e scandite dai tanti reciproci “mi piace” – chiamate a immortalare i momenti topici dell’esistenza: immagini dei paesaggi sublimi delle vacanze, album di nozze, torte di compleanno, pietanze prelibate a esorcizzare il cattivo gusto contemporaneo, animali graziosi o fieri, piante esotiche, fiori multicolori, e persino massime e proverbi in neretto come altrettante perle di saggezza. Sette personaggi che trovano il loro autore in Paolo Genovese, coadiuvato da una sceneggiatura pensata e scritta a cinque teste e altrettante mani, con un cast dignitoso che ha la sua maggiore performance nell’interpretazione di Alba Rohrwacher, come sempre bravissima.



 
You will learn at your expense that in the long journey of life you will encounter many masks and few faces. (Luigi Pirandello, Italian Nobel Prize)


  Se la borghesia medio-alta degli anni Trenta del secolo scorso, per mascherare la propria crisi si esibiva in lunghi discorsi infarciti di filosofemi, trovando in Pirandello il proprio vate, questa borghesia piccola e media cerca di colmare il proprio vuoto e la propria noia con giochi “pericolosi”: perché non posare sul tavolo il proprio cellulare, mettendo il vivavoce per far sentire a tutti che non abbiamo segreti? La proposta viene da Eva che si crede al riparo da ogni sorpresa e che con scarso acume psicologico [lei che è psicoanalista di professione!] la difende quasi con sadismo dal timido dissenso dei maschi, scoprendo così l’opinione che la figlia ha di lei [“la mamma è una stronza” dirà al padre per telefono], dovendo poi fare consapevoli i presenti che presto si rifarà le tette, per tacere di altro, vera ciliegina sulla torta, a completare la figura di quella che è l’unica intellettuale tra le donne del gruppo. 

 E suo marito, Rocco, il chirurgo estetico, nel ruolo del saggio che fornisce a tutti pillole di tolleranza e civile convivenza e che, nel bel mezzo della crisi che ormai investe ognuno dei convitati, pronuncia, indicando il cellulare, la frase che riassume un’intera filosofia di vita e che è anche il leitmotiv dell’intero film: "Qua dentro ci abbiamo messo tutto! Questo qua ormai è diventata la scatola nera della nostra vita!". 

 Poi, il finale imprevedibile solo in apparenza. Che ognuno lo interpreti come crede, purché se ne parli: finzione o realtà? E se di verità si tratta, come induce a pensare la santa trinità della logica aristotelica, quale migliore conclusione che far finta di niente, lasciando che il principio di realtà prevalga sul principio del piacere, il calcolo e la convenienza sull'amore e il sogno, l’abitudine e i compromessi sul desiderio e il bisogno di autenticità?   

 In definitiva, una delle migliori rappresentazioni di certa borghesia italiana dell’era della globalizzazione, una narrazione dell’ovvio e della banalità sublimata e che tuttavia si dipana a pieno ritmo come in un ottimo thriller. Un film che finisce col compiacere lo spettatore che si vede ritratto come in uno specchio, ma dove purtroppo non si percepisce mai “la presa di distanza” degli autori [regia e sceneggiatura].

sergio magaldi

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