domenica 29 maggio 2016

IL PROPORZIONALE COME AMICO DEI GOVERNI CENTRISTI E CONSERVATORI




  Non voglio entrare sulla questione del referendum costituzionale del prossimo ottobre, né esaminare, almeno per ora, le ragioni del comitato del no e neppure quelle del comitato dei sì. Mi sembra infatti abbastanza pretestuoso il confronto avviato con largo anticipo e già con così grande eco sulla stampa e sui media. Anche se la spiegazione di questo fenomeno è abbastanza semplice: nell’imminenza di elezioni amministrative, dove i candidati di tutti i partiti non brillano per fantasia nel proporre soluzioni per far fronte alla paralisi delle grandi città [e del resto come potrebbero con buchi di bilancio che solo nella capitale ammontano a oltre 13 miliardi di euro, facendo dei cittadini romani i più tassati d’Italia?], è più conveniente spostare l’attenzione degli elettori sul terreno della politica, piuttosto che su quello del territorio urbano che, per citare solo uno dei tanti problemi, nulla ha da invidiare alle voragini di bilancio.

 Prima ancora del voto referendario di ottobre, dunque, è già con le prossime tornate elettorali del 5 e del 19 giugno, si apre il confronto tra le ragioni del renzismo e quelle dell’antirenzismo. In questo clima abbastanza sconcertante che lascia almeno presagire la totale impotenza dei futuri amministratori e che per così dire la butta in politica, sale il dibattito sulla nuova legge elettorale, concepita in stretta connessione con le riforme costituzionali, infatti ove queste fossero respinte dagli elettori nel referendum di autunno, avremmo il sistema maggioritario alla Camera e il vecchio sistema al Senato, con il risultato dell’ingovernabilità e di dover rimettere mano per l’ennesima volta alla legge elettorale e con molta probabilità si tornerebbe al sistema proporzionale o a qualche ibrido pasticcio come la vigente legge elettorale che ha prodotto il governo delle cosiddette larghe intese. A questo riguardo mi ha sorpreso non poco il post pubblicato sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt, e il suo titolo inquietante: Il maggioritario come nemico della democrazia. Ebbene, l’idea cardine del breve articolo, a firma di uno  tra i più lucidi dirigenti del movimento, verso il quale resta intatta la mia stima personale, è che la panacea di tutti i mali della “cittadinanza” sia il ritorno al sistema proporzionale e che “il punto vero della questione politica è la legge elettorale. Finché non si abbatte il sistema maggioritario e lo sbarramento del 4%, qualsiasi idea innovativa e libertaria è condannata dalla tirannia della maggioranza, dal conformismo mediocre dei padroncini di partito”.

 Premesso che nella nuova legge elettore italiana, che andrà in vigore dal prossimo luglio, lo sbarramento è in realtà del 3%  e che “i padroncini di partito” ci saranno sempre, sia che si voti col maggioritario che col proporzionale, perché non dipendono dal sistema adottato, ma dalla “selezione naturale” all’interno di ciascun partito e in ragione di molte variabili [capacità, astuzia, costume, denaro, clientele e molto altro], resta difficile da comprendere l’affermazione che il sistema maggioritario sia il vero nemico della democrazia. Sarebbe come dire che la democrazia francese e le democrazie dei paesi anglosassoni non sono in realtà vere democrazie, ma – secondo una tesi cara oggi soprattutto a certa destra e a certa sinistra – democrazie puramente strumentali per l’egemonia interna e internazionale. Insomma, sarebbe da sciocchi vedere nelle due rivoluzioni inglesi del XVII Secolo, nella rivoluzioni americana e francese del XVIII Secolo, con il principio della tolleranza religiosa, il riconoscimento della sovranità popolare, della libertà di pensiero, di espressione e di stampa, dei diritti umani fondamentali, i prodromi delle democrazie liberali dei secoli successivi. Infatti, con una legge elettorale fondamentalmente maggioritaria, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia avrebbero introdotto nei loro ordinamenti e nei loro paesi il germe della tirannide. Laddove Spagna, Germania e l’Italia, che hanno conosciuto le peggiori dittature del XX Secolo, sarebbero autentiche democrazie in virtù del sistema proporzionale. La Spagna, grazie alla sua legge elettorale, non riesce a formare un governo ormai da sei mesi, e intanto il “regime” di Rajoy si mantiene saldamente al potere e guadagna tempo e spazio per confermarsi nell’immediato futuro. In Germania, governa la Merkel grazie alla Große Koalition tra democristiani [CDU] e socialdemocratici [SPD]. Grande coalizione, peraltro resa possibile dalla favorevole congiuntura economica, determinata dall’unificazione con l’altra Germania – pagata a caro prezzo dal resto d’Europa – e dall’introduzione della moneta unica (euro) in un mondo globalizzato. E l’Italia? Democristiana per mezzo secolo grazie al sistema proporzionale che storicamente ha sempre favorito i partiti di centro, di volta in volta alleati con partiti piccoli e medi di centrodestra o di centrosinistra; ancora oggi, con l’attuale legge elettorale [un ibrido indecoroso, dove per il Senato vige un sistema prevalentemente proporzionale], per governare se stesso il nostro Paese ha fatto ricorso al governo delle larghe intese, prima con l’alleanza tra il PD e Forza Italia di Silvio Berlusconi, poi con quella tra il PD e il nuovo centrodestra di Alfano. E sin qui siamo al presente. Il futuro potrebbe essere una legge elettorale col sistema maggioritario a doppio turno, cioè con il premio di maggioranza accordato alla lista, e non alle coalizioni dei partiti, allorché la singola lista raggiunga il 40% dei voti espressi e, in caso contrario, il ballottaggio tra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti. Si può ancora discutere se il 40%, tenuto conto del crescente astensionismo elettorale, non sia da elevare sino al 45%, resta la validità di un sistema elettorale semplice e chiaro e sicuramente democratico.

 L’idea che la democrazia sia il luogo “dove uno vale uno” e che tutte le espressioni politiche debbano trovare rappresentanza è, se sostenuta in buona fede, un’idea stupenda. Ma il governo di un Paese non è o non dovrebbe essere altra cosa dalla possibilità che le proposte della maggior parte dei cittadini siano convertite in realtà. Non viene a questo punto il dubbio che il sistema proporzionale, almeno come lo abbiamo conosciuto in Italia e in Europa, col rendere arduo, complesso o addirittura impossibile il diritto-dovere della governabilità di una società civile, finisca col favorire chi controlla la ricchezza, i governi di centro, il trasformismo, la corruzione, i compromessi, l’immobilismo, il ricatto di esigue minoranze, la proliferazione di partitini attratti dalla possibilità di mettere le mani sui finanziamenti pubblici?

sergio magaldi

                  

mercoledì 18 maggio 2016

IL NOACHISMO ALLA FONTE DEI DIRITTI UMANI [2° I precetti noachidi]

Noahide Laws/Noachide Code
  1. Prohibition of Idolatry
  2. Prohibition of Murder
  3. Prohibition of Theft
  4. Prohibition of Sexual immorality
  5. Prohibition of Blasphemy
  6. Prohibition of eating flesh taken from an animal while it is still alive
  7. Establishment of law courts
"Whereas Congress recognizes the historical tradition of ethical values and principles which are the basis of civilized society and upon which our great Nation was founded; Whereas these ethical values and principles have been the bedrock of society from the dawn of civilization, when they were known as the Seven Noahide Laws." -United States Congress


 Oltre a Non uccidere e a Non cibarsi di un animale vivo, dei quali si è già accennato, gli altri quattro precetti noachidi, cosiddetti negativi, perché impongono all’umanità cosa non fare, hanno come i primi due una evidente radice biblica: Non avere rapporti sessuali illeciti discende dalle lettere del Tetragramma – rappresentative dell’origine maschile e femminile di ogni realtà manifesta – e dalla conseguente sacralità del matrimonio tra l’uomo e la donna affermata in Genesi, 2,22-24, allorché nell’ultimo versetto è detto:”Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre [con chiaro riferimento al divieto di accoppiamento all’interno della famiglia, cioè al divieto di incesto] e si unirà alla sua donna e i due diverranno una sola carne”. La sacralità dell’unione non comporta tuttavia l’indissolubilità del matrimonio. Osserva giustamente in proposito Elia Benamozegh [1823-1900] – l’ebreo livornese che molto contribuì alla diffusione del Noachismo – : “Che l’uomo non debba separare quel che il Signore ha unito, è indubbio, ma la questione è di sapere che cosa il Signore ha unito o […] quel che l’uomo può veramente considerare come la sua metà. Se egli la incontrasse sempre e immancabilmente nell’unione coniugale, si dovrebbe dire che sciogliere questa equivarrebbe andare contro la Volontà divina, ma poiché non è necessariamente così, e poiché le coppie non sono sempre bene assortite, si può sostenere che è invece per unire ciò che il Signore ha unito che talvolta è indispensabile ricorrere a questa separazione” [E. Benamozegh, Israele e l’Umanità, trad.it., M.C. Morselli, Marietti, Genova, 1990, p.230. L’opera nell’originale francese fu pubblicata postuma, nel 1914, da Aimé Pallière, allievo di Benamozegh. La prima edizione italiana apparve solo 75 anni più tardi].

 Esemplificativa a questo riguardo è la vicenda biblica di David e Betsabea, ripresa e analizzata dal cabbalista spagnolo Joseph ben Abraham Gikatilla [1248-1325] in Il segreto del matrimonio di David e Betsabea.

 La sacralità dell’unione tra il maschio e la femmina comporta altresì che questo precetto noachide comprenda anche l’obbligo di preservare l’integrità fisica del maschio [sia umano che animale], evitandone la castrazione, come del resto quella della femmina, condannando la pratica di ogni forma di infibulazione.

 Non commettere furti, un’altra delle sette leggi noachide, ha la sua fonte nei versetti 16 e 17 del Genesi, allorché il Signore concede ad Adamo di nutrirsi di tutti gli alberi del giardino, ma gli vieta di accostarsi ai frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Come ogni precetto noachide, anche questo ha un’estensione che include altri divieti. Scrive in proposito Benamozegh [op.cit.,p.235]:”Il furto propriamente detto non è tuttavia la sola forma di appropriazione colpevole che sia interdetta al noachide. Va da sé che ogni rapina o furto a mano armata non è che un’aggravante dello stesso crimine […]. Si renderebbero altresì colpevoli di furto il padrone che rifiutasse di pagare al servitore il salario del suo lavoro, l’operaio che, durante le ore di riposo nelle vigne, mangiasse l’uva del proprietario. Pure il commercio degli schiavi è compreso nel divieto di furto. È superfluo notare quanto sia ammirevole questa formale condanna della schiavitù, in una tale epoca e in tale ambiente”. Vale la pena di specificare che l’ammirazione di Benamozegh, relativa alla condanna della schiavitù, si riferisce al commento talmudico [Sanhedrin, 57b] del precetto noachide.

 Non commettere idolatria è la norma che più di ogni altra trova la sua fondazione nel racconto biblico, perché si basa sui principi stessi del monoteismo e sui comandamenti del Signore ad Adamo, Noè, e Mosè. Ad ogni buon conto, la prima condanna esplicita dell’idolatria compare in Genesi 35,2, nell’esortazione che Giacobbe rivolge a tutti gli uomini del suo seguito: «Togliete gli dei stranieri che sono in mezzo a voi». Ma il tema ricorre in numerosi altri passi biblici: “Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra; non ti prostrare dinanzi a tali cose e non servir loro […]” (Esodo 20, 4-6), “Ma il nostro Dio è nei cieli […] I loro idoli sono argento ed oro, opera della mano dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno naso e non odorano, hanno mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, la loro gola non rende alcun suono […]” (Salmo 115,3-8). L’elenco è ancora lungo, ma conviene soffermarsi su un aspetto del precetto, forse troppo poco considerato. E lo faccio con le parole stesse di Benamozegh: “Ci affrettiamo ad aggiungere tuttavia – egli scrive – che la religione noachide è infinitamente più larga su questo punto rispetto all’ebraismo propriamente detto. Mentre l’unità più esclusiva è rigorosamente imposta ad Israele, senza alcuna possibile associazione di altri esseri divini, perlomeno nell’adorazione, si ritiene invece che il gentile, purché non riconosca e non adori che un solo Dio supremo, non commetta peccato se, nel suo culto, associa al vero Dio altre divinità” [Op.cit., p.225]. Il rovescio della medaglia di questo precetto e insieme di quello che segue rappresenta in nuce il principio della tolleranza religiosa che in Occidente si affermerà sono nel XVII Secolo.

 Con il comandamento di Non bestemmiare termina il discorso sui sei precetti negativi del noachide. È appena superfluo sottolineare che questo divieto si collega al precedente, anche se il Talmud ne fa derivare la fonte da un versetto del Levitico [24,15]:”Ogni uomo che maledirà il suo Dio, porterà la pena del suo peccato”. Ciò significa che la legge noachide proibisce di bestemmiare non soltanto i nomi di Adonai, ma anche quelli delle diverse divinità del passato e del presente, nelle quali è dato comunque rintracciare gli sparsi frammenti del divino.

 Accanto ai precetti negativi, l’unico precetto positivo imposto al noachide è quello di Costituire tribunali, ciò che rappresenta anche la logica conseguenza degli altri sei, ma è anche e soprattutto la garanzia di distinguere la condanna morale da quella giuridica, e di essere giudicati con giustizia ed equità in forza della certezza del reato e non sulla base di semplici prove indiziarie o, peggio ancora, per ragioni faziose e/o politiche. Un principio che a noi pare scontato e che tuttavia scontato non è perché implica l’affermazione dei principi del liberalismo e della democrazia che, com’è noto, trovarono una prima attuazione solo in epoca moderna, con la Petition of Right che nel 1628 il Parlamento Inglese invia al re Carlo I. Promossa da Sir Edward Coke, la Petizione contiene  quattro principi di cui il secondo, ribadendo un’affermazione già contenuta nella Magna Charta, nota come “habeas corpus”, stabilisce che nessuno possa essere imprigionato senza una prova certa. Com’è noto, occorrerà ancora attendere le due rivoluzioni inglesi, l’illuminismo, la rivoluzione americana e la rivoluzione francese perché nella Storia entri a pieno titolo il discorso sui diritti umani e di questa azione riformatrice e rivoluzionaria saranno protagonisti molti massoni illuminati. Si comprende così perché James Anderson, nelle Costituzioni massoniche del 1738, sostenesse che il Noachismo aveva contribuito al perfezionamento dei liberi muratori.

 Nei sei precetti negativi (divieti di bestemmia e idolatria, divieti di natura sessuale, divieti di disporre della vita e della proprietà altrui, divieto di crudeltà nei confronti degli animali) e nell’unico precetto positivo (istituzione dei tribunali di giustizia), di cui si compone il biblico patto noachide, si intravedono, dunque, i principi del moderno giusnaturalismo, fondamento del liberalismo e della democrazia. Se si prescinde dal loro riferimento mitopoietico e teologico, ci si accorge che i precetti noachidi sono innanzi tutto norme di diritto naturale condivisibili per tutte le fedi religiose, semplicemente perché non hanno in se stesse nulla di religioso e persino quel riferirsi al divieto di bestemmia e di idolatria, lungi dal rappresentare una qualche forma di “costrizione” teologica, esprimono piuttosto il principio della tolleranza religiosa e l’invito alla ragione umana di non abbassarsi ad adorare feticci.

 Proprio come i principi del diritto naturale, i sette precetti noachidi si caratterizzano, per così dire, per la loro elasticità e quindi per la loro capacità di evolversi e al tempo stesso restare immutabili, come già ricordava l’ebreo Benamozegh al cattolico e discepolo Pallière. Così, per esempio, dal divieto di uccidere discende il precetto positivo di salvare una, cento, mille vite, come fecero coloro che, a buon diritto, nel triste e funesto tempo dell’olocausto, furono detti giusti tra le nazioni. 


sergio magaldi

sabato 14 maggio 2016

IL NOACHISMO ALLA FONTE DEI DIRITTI UMANI [1°Che cos'è il Noachismo?]




   Anche tra persone di una cosiddetta “certa cultura”, sembra regnare una quasi totale ignoranza su cosa debba intendersi per “Noachismo”. Si va da una generica informazione circa Noè e la costruzione dell’arca per sfuggire al diluvio universale – talora in una rappresentazione mitopoietica per trastullare i fanciulli – sino ad una identificazione di ebraismo e noachismo, considerato quest’ultimo alla stregua di una religione giudaica minore. Equivoco generato da un qualunquismo diffuso ad arte, ma talora alimentato inconsapevolmente anche da fonti che, nell’intento di distinguere la legge mosaica da quella noachide, finiscono per suscitare l’idea di una supremazia ebraica, ancorché gravata di maggiori responsabilità: al popolo eletto è stata data la Torah con i suoi 613 precetti, a tutti gli altri popoli una legge di soli 7 precetti.
 La mia impressione è che la distinzione, operata quasi sempre nella massima buona fede, abbia contribuito non poco alla scarsa diffusione del noachismo. Tant’è che anche tra i più consapevoli, ma pur sempre inclini al pregiudizio, e persino all’interno di un certo laicismo, s’è andata affermando l’idea che la legge noachide altro non sia che una costruzione del Talmud, un’invenzione rabbinica per affermare o riaffermare il primato di Israele. Il Talmud (insegnamento) è una raccolta enciclopedica della tradizione ebraica, compilata durante un periodo di circa ottocento anni, dal 300 a.C. al 55 d.C., in Palestina e in Babilonia. Si compone di norme morali (Halakhah) e di materiale narrativo di genere vario (Haggadah).
 In realtà, i 7 precetti noachidi, come vedremo più avanti, sono tutti contenuti nella Bibbia, pur non ispirandosi ad alcuna religione ma unicamente pretendendo alla fondazione di un’etica universale basata sul diritto di natura e sui principi di civile convivenza. La legge noachide nulla ha a che vedere con la legge ebraica, per il semplice motivo che la sua formulazione precede Mosé, la rivelazione del monte Sinai e la nascita del popolo di Israele con Abramo, Isacco e Giacobbe. E, benché di questi 7 precetti soltanto uno inviti ad agire e i restanti 6 si limitino a vietare, appare chiaramente come dal loro insieme si riveli la fonte dei diritti universali che l’umanità, anche a costo di sangue e di sacrifici, ha progressivamente conquistato nel corso del suo lungo cammino.
  Quando il Signore – narra la Bibbia – vide la malvagità dell’uomo, si pentì di averlo creato e decise di distruggerlo insieme a tutti gli altri esseri che popolavano la terra. Ma Noè, uomo giusto e integro per il suo tempo, “trovò grazia ai suoi occhi” [Genesi 6,8]. Allora il Signore invitò Noè a costruirsi, per scampare al diluvio, un’arca di legno di gofer, parola la cui radice, in ebraico, è la stessa della parola gofrit che significa zolfo. Arca in ebraico è Tebah, formata da una Taw [400], una Beth [2] e una He [5], vale dunque 407, per ghematria lo stesso numero di Or Qadmon che significa “Luce primordiale”. Il termine ghematria è una metatesi della parola greca grammatèia e si fonda sul valore numerico attribuito ad ogni lettera dell’alfabeto. Il valore numerico dato dai cabbalisti a una singola parola o a un’intera proposizione comporta perciò la possibilità di stabilire analogie (sodot o ‘segreti numerologici’) cariche di significato tra parole o intere frasi dello stesso valore numerico.

 Perché il Signore scelse l’acqua e non, per esempio, il fuoco per distruggere l’umanità indegna? Una risposta è contenuta nel trattato Noah [Noè] dello Zohar o ‘Libro dello Splendore’, un vero e proprio corpo completo di letteratura cabbalistica che si compone di 24 sezioni oltre ad alcuni trattati. Il Tetragramma è il nome del Signore nella manifestazione ed è formato da quattro lettere dell’alfabeto ebraico: una Yud iniziale e una Wav, separati da una prima He e da una seconda He finale. Quando sulla terra ogni ordine fu sovvertito, le lettere maschili, Yud e Wav, si ritirarono dalla realtà manifesta e lasciarono le lettere femminili, le due He, da sole: la conseguenza fu che le acque superiori e le acque inferiori, che Adonai aveva separato nei giorni della creazione, si riunissero e distruggessero il mondo.

 Noè ospiterà nell’arca, oltre ai figli e alla moglie, il maschio e la femmina di ogni specie animale. Egli uscirà con i suoi dall’arca dopo circa 12 mesi, una volta che il corvo si sia accertato del calo delle acque e la colomba abbia recato nel becco la prova della nuova viridescenza della terra.

 Il Manoscritto di Graham [1726] – cosiddetto dal maestro venerabile di una loggia londinese che lo redasse e che testimonia dell’interesse della prima Massoneria storica per il noachismo –  ci dice che nell’arca era contenuto un segreto, ma che i figli di Noè non lo trovarono. Tutto l’episodio biblico di Noè, del resto, parla il linguaggio ermetico o segreto. A cominciare dall’arca che troppo ricorda l’atanòr, per continuare con i primi animali che Noè fece uscire dall’arca: il corvo, seguito dalla colomba, secondo la massima scolpita sulla romana porta ermetica di Piazza Vittorio, sotto il simbolo di Saturno: Quando in tua domo nigri corvi parturient albas columbas tunc vocaberis sapiens, cioè: ‘Quando nella tua casa negri corvi partoriranno bianche colombe allora sarai chiamato saggio’.  E ancora: col ramoscello d’ulivo simbolo della prima viridescenza, poi con l’arcobaleno che, nella varietà dei suoi colori è l’annuncio della bontà dell’Opera e perciò dell’alleanza divina e della rettificazione; per finire con la vigna di Noè e il suo vino.

 Il racconto biblico prosegue prima con la descrizione dell’arcobaleno o ‘arco dell’alleanza’ tra il Signore e Noè, poi con la maledizione di Noè contro suo figlio Cam e i discendenti cananiti, forse proprio per aver scoperto il segreto.  Il senso occulto dell'ubriachezza di Noé è appunto da ricercare nel tentativo di entrare nello stesso stato di coscienza di Adamo, ma ancora una volta la bevanda della conoscenza si rivela troppo forte per i limiti umani. Tutto il segreto di Noè, del resto, sembra riassumersi in tre versetti, Genesi 9:20-22, in cui è detto che Noè, uomo di terra, piantò una vigna e che bevuto del vino si ubriacò e si scoprì all’interno della sua tenda mentre Cam, suo figlio e padre di Canaan, vide la sua nudità.

 La tesi di Graham, del resto, trova conferma anche in Zohar (I, 36a) dove è detto che nel giardino di Eden, Eva avrebbe pigiato grappoli d'uva per darli poi ad Adamo, e poco dopo (I,73a) che Noé si sarebbe ubriacato di quel vino non per ripetere il peccato di Adamo ma per desiderio di conoscenza, cioè "per investigare sul peccato che era stato del primo uomo; non quindi per aderire ad esso ma per averne conoscenza e restaurare il mondo. Ma non vi riuscì. Pigiò i grappoli per esaminare quella vite ma quando giunse a quel punto si ubriacò e si scoperse..."

 In altri termini, pur non volendolo, Noè commette lo stesso errore di Adamo e per questo è punito con tutta la sua discendenza, cioè l’umanità intera. Ma il Signore ha promesso che questa volta non ci sarà più un diluvio a distruggere la terra [Gen.9,11].

 Noè si scrive in ebraico con la lettera Nun [valore numerico 50], seguita da una .Heth [valore 8]. In totale, dunque, Noè vale 58, e per ghematria ha lo stesso valore della frase “Cuore del Tetragramma”. Al numero del Tetragramma che è 26 bisogna infatti aggiungere 32 che è il valore di Lev, cuore [Lamed=30, Beth=2]. Il numero 58 è anche il numero di Nogah, il pianeta Venere, che si scrive con la Nun iniziale, la Ghimel [valore 3] e la He [valore 5] cioè: 50+3+5 = 58.

 Sdegnato dal comportamento di tutti gli esseri viventi, il Signore è combattuto tra la volontà di distruggere per sempre uomini e animali e il desiderio di tentare ancora con loro, e sceglie Noè, uomo giusto, e lo fa simbolo della speranza che ripone in una umanità nuova che sarà formata dai “B’nai Noach”, o figli di Noè [Ecco perché Noè è detto “Cuore del Tetragramma”], e affida a lui e ai suoi discendenti il compito di popolare la terra [Gen.9,1]. La ghematria del pianeta Venere sta qui a rappresentare simbolicamente l’eros cosmico.

 Nel rifondare il piano della creazione, Adonai rivede le primitive decisioni e stabilisce una nuova alleanza. Consente, per esempio, agli esseri umani di cibarsi della carne degli animali [Gen. 9, 3], ciò che era stato proibito ad Adamo, quando gli aveva imposto di nutrirsi soltanto di erba verde [Gen.1, 29-30]. Il mutato parere, che peraltro lascia inalterati alcuni dei comandamenti già rivolti ad Adamo, origina dalla consapevolezza che ormai “l’inclinazione del cuore dell’uomo è malvagia sin dalla sua adolescenza” [Gen.8,21], da quando, cioè, dopo la caduta di Adamo ed Eva, gli esseri umani indossano la veste di pelle [Gen.3,21].

 Ma Adonai impone almeno di non cibarsi di un animale vivo, dopo averlo smembrato [Gen. 9,4] e questo divieto costituisce una delle sette leggi noachide. E subito dopo il Signore comanda a Noè e ai suoi discendenti, cioè all’intera umanità, di non spargere il sangue dell’uomo, di non uccidere [Gen. 9, 5-6] e questa è un’altra delle leggi noachide.

[SEGUE]
sergio magaldi


giovedì 5 maggio 2016

LE CONFESSIONI

Le Confessioni, regia di Roberto Andò, Aprile 2016, Italia-Francia, 100 minuti


 Un film sulle dinamiche del potere, scrive Alessandra Peluso in rete su "Affari Italiani". C’era davvero bisogno di Le Confessioni di Roberto Andò per comprenderle? Per sapere che le decisioni che riguardano le condizioni materiali di esistenza [e non solo] di miliardi di individui sono prese dai ministri dell’economia di un ipotetico G8, riuniti in terra tedesca attorno al direttore del Fondo Monetario Internazionale, tale Daniel Roché, interpretato dall’ottimo Daniel Auteuil? Che a tali riunioni è bene invitare autorevoli esponenti della società civile per far finta di garantire l’osservanza dei diritti umani? Nella fattispecie, una scrittrice di libri per l’infanzia, famosa anche per la sua lotta contro le disuguaglianze [Connie Nielsen], un noto cantante [Johan Heldenberg] che dirige una prestigiosa Ong [Organizzazione non governativa a scopo umanitario], un monaco certosino dotato di grande carisma [un Toni Servillo, grande come sempre].

 Se è vero, come lascia chiaramente intendere il film, che tutta la politica si riduce oggi ad economia [ma non è stato sempre così? Qualcosa il buon vecchio Marx ce l’ha insegnata!], perché la narrazione si incentra tutta su un potere di cui non è difficile intuire la strategia e le mosse, mentre nulla lascia trasparire circa i burattinai che dietro le quinte dirigono i pupi di volta in volta prescelti per assicurare l’Ordine [O il Disordine, secondo il punto di vista] Mondiale?

 Paolo Mereghetti osserva giustamente sul Corriere che “Le Confessioni”di Andò non ci fanno scoprire nulla perché “la sceneggiatura (del regista e di Angelo Pasquini) finisce per cadere nella trappola di un generico complottismo moralista, dove non c’è niente da scoprire e la tesi di partenza (i responsabili dell’economia mondiale sono il male, a priori) toglie forza al film perché talmente rigida da non permettere alcuna possibile evoluzione”.

 La mia impressione è che l’intento del film – partendo dal presupposto che le decisioni della politica e dell’economia siano prese a vantaggio di ristrette oligarchie e sempre contro le masse – sia quello di esorcizzare il potere, mostrando “…Di che lacrime grondi e di che sangue…” e portandolo a “confessare” se stesso. Ma i segreti che il direttore del Fondo Monetario e il ministro italiano [Pierfrancesco Favino, ancora una volta poco convincente interprete di ruoli politici] confessano al monaco Salus, come pure l’immancabile tentativo di risolvere il film in un thriller, con la morte inquietante di uno dei protagonisti, non hanno la forza per accendere la curiosità dello spettatore, anche se raggiungono lo scopo di spostare l’attenzione sull’enigmatico religioso.

 Il film si converte così, da una lettura scontata delle dinamiche del potere, in una metafisica del reale a sfondo mistico e magico. Una filosofia che pone l’accento sull’insanabile contrasto tra esercizio del potere e misticismo naturalistico, dal quale ultimo soltanto sembra poter venire la speranza e la salvezza. Una lettura anche accettabile, in fondo, se non fosse che il linguaggio ricorre ad un vocabolario già ampiamente utilizzato, finendo col proporre una sintesi di maniera e talora fuorviante. Il clima – come è stato osservato da più parti – è quello di Toto Modo di Sciascia, portato sullo schermo da Elio Petri con ben altro vigore. La location e il ritmo troppo rievocano, senza neppure sfiorare il modello, le eleganti suggestioni di Youth di Paolo Sorrentino. Il monaco certosino, al di là della bravura di Toni Servillo, è figura costruita tra il Guglielmo di Baskerville di Il nome della rosa e i santi Agostino e Francesco e, perché no – come osserva Maurizio Acerbi su Il Giornale – persino strizzando l’occhio all’attualità di Papa Francesco. L’ambizione di affidare al linguaggio degli uccelli il senso ultimo e trascendente della realtà, il contrasto natura-civiltà, l’apologia del silenzio e della solitudine, fa venire in mente Uccellacci e Uccellini di Totò e Pier Paolo Pasolini. Lì, gli uccellacci erano i falchi, qui sono gli uomini che controllano il potere economico globale. Lì il corvo è l’intellettuale di sinistra che fallisce nel suo compito e verrà divorato. Qui non ci sono uccelli cattivi e neppure moralisti velleitari come il corvo di Pasolini: c’è l’Uirapuru, il passero “sacro”, il cui canto, come un lungo ed armonico fischio, ha il potere di silenziare l’intera foresta amazzonica. La lezione è: se non si fa silenzio dentro di noi e fuori di noi, nessuna impresa è possibile. Ma la solitudine del passero leopardiano o piuttosto la voce del povero del Salmo 101 sono davvero veicolo di salvezza, come vorrebbe far credere con l’esempio il monaco Roberto Salus del film? O non rappresentano la consapevolezza dell’inutilità della lotta, la preghiera e insieme la speranza rivolta unicamente al Signore dell’Universo? Recita il Salmo: Signore, ascolta la mia preghiera, /a te giunga il mio grido di aiuto./ Non nascondermi il tuo volto/nel giorno in cui sono nell’angoscia./Tendi verso di me l’orecchio,/quando ti invoco, presto, rispondimi! / Svaniscono in fumo i miei giorni/e come brace ardono le mie ossa./Falciato come erba, inaridisce il mio cuore;/dimentico di mangiare il mio pane. /A forza di gridare il mio lamento/mi si attacca la pelle alle ossa./Sono come la civetta del deserto,/cono come il gufo delle rovine./Resto a vegliare: sono come un passero/solitario sopra il tetto”.







 Nelle Confessioni di Andò c’è però anche l’Upupa e il misticismo naturalistico si stempera all’improvviso nella magia. Tutta la tradizione rappresenta questo uccello come dotato di grande potere, tant’è che il monaco in una sequenza del film si identifica con lui: scompare di scena mentre parla e nel cielo appare una grande upupa. Compagno inseparabile di Salomone, questo uccello era capace di penetrare con lo sguardo tutta la terra come se questa fosse una sfera di cristallo. È tra i pochi animali ammessi nel paradiso islamico, per Agrippa è il primo dei sette uccelli planetari, per Paracelso è il Saturno degli uccelli e conosce il passato, il presente e il futuro, per Giordano Bruno è il volatile di cui si serve Mercurio per trasmettere i propri messaggi.

 E ancora un altro animale appare nel finale del film: il cane di uno dei potenti. Talora feroce, diviene mansueto grazie al monaco, prende il nome di Bernardo e segue le orme del religioso che si allontana in solitudine. Nel simbolismo degli antichi il cane rappresenta il guardiano della soglia. Di una umanità nuova che si sottrae al disordine erratico della vita precedente e diviene capace di costruire una civiltà altra e diversa? È questo il messaggio del film? La mansuetudine, il silenzio e l’ascolto della natura, la trascendenza e il magismo sono le sole armi da utilizzare contro la sopraffazione dei diritti umani? Se così è, anche al di là dell’intenzione degli autori, e a prescindere dalla discutibilità di una tesi pur sempre rispettabile, resta da osservare che la rappresentazione giunge allo spettatore poco equilibrata, affastellata com’è di simbolismo rudimentale, misto al semplicismo realistico della narrazione.

sergio magaldi