martedì 20 settembre 2016

Sì e No al REFERENDUM nella disputa GIACHETTI-D'ALEMA

Foto tratta da Huffington Post



   Un plauso all’inziativa di La7 che trasmette in diretta il confronto Giachetti-D’Alema sul tema del referendum costituzionale, tenutosi lo scorso Venerdì al Festival dell’Unità di Roma. Moderatore Enrico Mentana, direttore del TG, talora in vena di battute che fanno sorridere solo lui, nel tentativo di stemperare il clima spesso aspro creatosi nel Partito Democratico, tra i sostenitori del “Sì” e quelli del “No”.

L’impressione è che “nessuno abbia convinto nessuno” e che, almeno a giudicare dagli applausi e dalle voci di dissenso, tra i presenti fisicamente al confronto, non sia cambiato il numero dei fans dell’uno e dell’altro schieramento. Non solo perché l’informazione, come sempre avviene in questi casi, si è rivelata modesta, ma anche perché c’è purtroppo nella disputa una pregiudiziale di fondo: con Renzi o contro Renzi.

Diversamente può essere andata la cosa per i tanti telespettatori che hanno seguito il dibattito televisivo. Da una parte un Giachetti che rivolgendosi al suo più prestigioso interlocutore, seguitava a chiamarlo confidenzialmente “Massimo”, dall’altra un D’Alema freddo e ieratico che, nelle rare volte in cui si volgeva direttamente a lui, lo appellava semplicemente “Giachetti”. E se l’emozione e un cattivo microfono hanno talora impedito di cogliere appieno il significato di certi concetti espressi da Giachetti, nondimeno è apparsa a tutti la sincerità e la bontà dei suoi convincimenti e, nell’appello finale agli elettori, il suo messaggio è stato chiarissimo: il voto per il “Sì” alla riforma costituzionale, ancorché questa possa apparire criticabile in alcuni punti, non solo pone fine allo strapotere delle regioni e diminuisce sensibilmente il numero dei parlamentari stipendiati dallo Stato, ma copre un vuoto che dura da trent’anni, in cui tutte le aspirazioni riformatrici si sono infrante contro la volontà politica di non cambiare nulla, neppure il tanto deprecato da tutti “bicameralismo paritario” che rallenta se non addirittura impedisce il processo legislativo, con grave pregiudizio anche per gli investitori che infatti preferiscono rivolgersi altrove.

Dal canto suo, Massimo D’Alema, tra il consueto e reiterato intercalare “diciamo”, ha espresso concetti altrettanto chiari e semplici per ribadire il suo “No”. Modificata in ben 47 articoli, la Costituzione così riformata, anche in virtù della nuova legge elettorale, si presenta come un vero e proprio attentato alla democrazia del nostro Paese, perché il potere legislativo, nelle mani di una sola Camera, finirebbe per l’appiattirsi su quello esecutivo, gestito da un partito che, rappresentando magari solo un quarto dei voti espressi dai cittadini, grazie all’istituto del ballottaggio e del premio di maggioranza, otterrebbe ben oltre il 50% dei deputati. Con una battuta, sempre in grado di fare effetto sulle “anime belle”, D’Alema ha affermato che la governabilità non può essere ottenuta a spese della democrazia e ha concluso dicendo che il “No” al referendum è in realtà un “Sì” ad una riforma seria della Costituzione da articolare in 3 o 4 punti [includendo l’abolizione del “bicameralismo paritario” e la riduzione del numero dei parlamentari] e che si potrebbe approvare in brevissimo tempo.

Facile su questo punto la replica di Giachetti: con chi si dovrebbe approvare ora questa miniriforma costituzionale, visto che in trent’anni di discussioni tra i vari partiti non se n’è fatto niente? Quanto alla questione dell’attentato alla democrazia, su cui insiste tutto il fronte del “No” [un “fascio” che va dall’estrema destra all’estrema sinistra], va detto una volta per tutte che l’Italicum è in realtà una legge elettorale proporzionale che limita soltanto la rappresentanza dei partiti che non raggiungano almeno il 3% dei voti e che per vedersi assegnare il “premio di maggioranza”, una lista - cioè un solo raggruppamento con un solo simbolo e un solo candidato premier - deve raggiungere il 40% dei voti espressi, ciò che in Italia oggi è praticamente impossibile, vista la compresenza di tre forze politiche in grado di aggiudicarsi ciascuna circa un quarto dei voti dell’elettorato. A questo punto, il tanto deprecato ballottaggio, diventa l’unico istituto a sostegno della governabilità e della democrazia, ad evitare i  soliti “governi delle larghe intese”, e a rilanciare la partecipazione dei cittadini, mettendoli di fronte alla scelta definitiva di chi, tra le due liste che hanno ottenuto il maggior numero di voti nel primo turno, debba governare.

Sul finire del dibattito, Mentana, arbitro della contesa, segnala un “fallo da rigore” commesso da Giachetti, per aver il vicepresidente della Camera dei deputati ricordato il cosiddetto “Patto della crostata”, all’epoca in cui, con D’Alema presidente della Bicamerale, nel salotto buono di Gianni Letta si era raggiunto un accordo [poi saltato, per questioni riguardanti la magistratura, come ha osservato D’Alema] con Berlusconi e tanti altri sulla riforma della Costituzione. Il fallo in realtà non c’era, perché l’aver richiamato il famoso patto [anche se la crostata non fosse stata presente, come ha inteso chiarire l’ex Presidente del Consiglio] era solo un modo per rispondere a D’Alema che aveva sottolineato come i tentativi di accordo sulla riforma costituzionale fossero allora avvenuti nella sede naturale del Parlamento e non all’ombra del Nazareno.


sergio magaldi

ALLEGRI PERDE IL DERBY D'ITALIA




   “QUESTA L’HA PERSA ALLEGRI” titola a tutta pagina Tuttosport di ieri. Come dargli torto, vista la tattica suicida con cui l’allenatore della Juve ha messo in campo la squadra contro l’Inter? La questione è semmai quella di chiedersi se le responsabilità di Allegri non siano cominciate già con la prima partita di Champions pareggiata in casa per 0-0 contro il Siviglia o addirittura con l’eliminazione dalla scorsa edizione della Champions, a una manciata di secondi dalla fine del doppio confronto con il Bayern, quando i bianconeri sembravano già qualificati ai quarti di finale. Infatti, anche se la Juve delle recenti uscite contro Siviglia e Inter poteva disporre di un parco giocatori accresciuto in qualità e quantità rispetto a quello dello scorso anno, grazie all’ottimo mercato della società bianconera – ciò che peraltro peggiora il quadro della situazione e delle responsabilità – resta il denominatore comune del difensivismo ad oltranza. Per questa analisi, comunque, rimando a quanto già scritto nel post di una settimana fa [LA JUVE E LA CHAMPIONS, clicca sul titolo per leggere].

Quanto alla partita persa contro l’Inter, non solo Allegri non fa tesoro degli errori commessi contro il Siviglia, ma addirittura li esaspera, per la scelta dei ruoli e degli  interpreti: Higuain fatto entrare a 12 minuti dalla fine, Pjanic spostato davanti alla difesa nel ruolo che fu di Pirlo [ruolo nel quale non ha mai brillato neppure nelle rare volte in cui per esigenze di organico la Roma ha dovuto impiegarlo], Dybala costretto per l’ennesima volta a fare il mediano più che il trequartista, Cuadrado ancora assente dal campo, Asamoah tenuto in campo per 94 minuti anche quando era evidente a tutti che aveva finito la benzina, Lemina tenuto fuori dalla contesa, lui che nelle precedenti uscite aveva mostrato di essere un ottimo sostituto di Marchisio. 

Il risultato è quello di uno schieramento che va a San Siro come una qualsiasi provinciale, nel tentativo di non prenderle e nella speranza che capiti l’occasione del goal di rapina. Ma, esattamente come una provinciale alla quale capiti di segnare un goal insperato contro una grande, la Juve segna e si rilassa e subito ne incassa due, perché il difensivismo a oltranza paga di rado e, soprattutto, quando hai tanti campioni nel tuo organico e non li utilizzi a dovere, diventa una tattica suicida. La Juve è ormai una Ferrari e non può essere guidata come una Cinquecento. D’altra parte, Allegri sembra voler riproporre, mutatis mutandis, il copione dell’anno scorso, quando nelle prime dieci disastrose giornate di campionato impiegò Dybala e Cuadrado col contagocce, salvo poi vedersi attribuire il merito della riscossa bianconera allorché l’argentino e il colombiano furono utilizzati con regolarità, avendo ormai assimilato i suoi preziosi insegnamenti di calcio. Ma Higuain ha qualcosa da imparare da Allegri?


sergio magaldi 

sabato 17 settembre 2016

INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA QABBALAH [Parte Quinta]





Segue da:

Clicca su ciascun titolo per leggere.


I termini in grassetto rappresentano altrettante voci del glossario essenziale per lo studio della Qabbalah.



CALICE [KOS]

Per Ghematria, Kos [Calice] corrisponde a Elohim, uno dei nomi di Dio. Infatti Kos è formato dalle lettere ebraiche Caf [valore 20]-Waw [6] - Samech [60] = 86. Lo stesso numero di Elohim, formato dalle lettere Alef [1] - Lamed [30] – He [5] – Yud [10] – Mem [40] = 86. La sacralità del calice è descritta in un passo del libro dello Zohar, il trattato più voluminoso e ricco della Qabbalah: “È stato stabilito che il calice deve essere sciacquato e lavato, cioè deve essere sciacquato fuori e lavato dentro. Il significato segreto è che l’oggetto deve essere fuori esattamente come dentro. Colui che aspira all’anima superiore che proviene da questo calice deve cioè avere un’anima pura sia interiormente che esteriormente” [Zohar III,245b]. La differenza tra il “lavare di fuori” e lo “sciacquare di dentro” è solo apparente, perché lo spirito che discende da Elohim è più puro dell’anima che lo accoglie. Il calice, tuttavia - sempre per lo Zohar - può essere un calice di luce e di vita o un calice di morte, contenente tre gocce amare. Il cabbalista Hayyim Vital, che ebbe il merito di diffondere la Qabbalah lurianica, utilizzò il simbolismo del calice per spiegare “la caduta” di Adamo ed Eva: “… bevvero di quel vino [pieno di feccia] una coppa di stordimento, porzione delle forze esterne, denominata 'parte della morte', e per questo si resero colpevoli e attirarono su di loro la morte” [’Eș hayyim (l’albero della vita) VI,38].

CASA [BAYIT]

Se non è il Signore che costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori [Salmo 127.1] … e cioè il Santo, sia Egli benedetto, creò e ornò con tutto quanto era necessario questo mondo che è la casa” [Zohar II,226a]. Nella concezione cabbalistica, la casa assume un duplice significato: è la rappresentazione della manifestazione divina e al tempo stesso è la realizzazione dell’anima superiore nell’essere umano [Neshamah]: “Quando un uomo comprende il mistero della sapienza e si rafforza in esso, si ha il compimento del versetto: 'Edifica la tua casa [Proverbi, 24.27]' che equivale all’anima superiore nel corpo umano, di cui egli si è ornato così da diventare un essere completo” [Zohar I, 141b].

CHAYAH

Rappresenta il quarto livello dell’Anima, ma non può essere raggiunto e concepito individualmente, bensì solo per rapporto a qualcosa che ci unisce e che al tempo stesso ci trascende. L’esperienza di Chayah è dunque soltanto provvisoria per l’essere umano.

CHESED

Quarta sephirah dell’albero delle sephiroth, Chesed [Hesed] è collocata nella manifestazione sul lato destro dell’albero, a rappresentare la clemenza, la misericordia e la grazia. La sua funzione è di bilanciare il lato sinistro dell’albero, dove il rigore, la potenza e la forza sono rappresentate dalla sephirah Gevurah.  Per la sua capacità di mitigare il male è detta anche Ghedullah, grandezza. Isolata dalla sua collocazione superna – destinata all’equilibrio della bilancia – e discesa sul piano materiale, Chesed può generare pensieri legati alla lussuria e alla gola. In tal caso, consapevole di ciò, lo studente della Qabbalah deve saperla riportare alla sua sede originaria.

CHOKMAH

Seconda sephirah dell’albero delle sephiroth, occupa il lato destro in perfetta polarità con Binah, la sephirah del lato sinistro che la segue immediatamente sui sentieri dell’albero. Rappresenta tutta la Sapienza della manifestazione, il passaggio dal Nulla all’Essere, la Yud originaria, il punto di luce [Aur-Or] da cui tutto discende. “Poiché la yud rappresenta Chokmah, mentre la prima he del Tetragramma simboleggia Binah, la metafora della penetrazione dell’una nell’altra allude a quella fase del processo di emanazione in cui  l’occulta forza divina si slancia, attraverso il passaggio di Binah, nel dominio della manifestazione [Zohar, I,13b]. A questo proposito, non a caso Binah è anche detta porta dell’incarnazione.
Chesed è la sola sephirah che ha un contatto, un canale diretto con Keter, la corona suprema dell’albero, e rappresenta anche il termine oltre il quale il pensiero umano non può andare. Scrive in proposito Mosè Nachmanide, commentando il Sepher Yetzirah: “Sapienza: è la fine di ciò che l’essere umano può comprendere col pensiero. La tradizione, su questo punto, procede per allusioni, poiché la corona suprema, sia Ella benedetta, riempie più di quanto il cuore possa intuire della sua gloria. Contrasse l’essenza della gloria secondo le sue capacità […] Dalla fonte del tutto si diffuse poi la luce fulgida detta sapienza”. [Segue]

sergio magaldi




giovedì 15 settembre 2016

LA JUVE E LA CHAMPIONS




 La squadra vista ieri sera a Torino contro il Siviglia ha qualche possibilità di vincere la Champions di quest’anno? Non direi, se la Juventus continuerà a schierarsi in Europa come rattrappita, con il solito modulo che è forse sufficiente per il nostro campionato, ma poco convincente in Europa, soprattutto quando è addirittura peggiorato nella scelta degli interpreti. Con quel 3-5-2 che nel fatto diventa un 5-3-1-1, relegando Dybala a fare il trequartista e più spesso il mediano e lasciando il peso dell’attacco al solo Higuaín, quasi mai rifornito di palloni, come è avvenuto nella partita di ieri, soprattutto nel primo tempo.

Eppure la società bianconera non ha sbagliato nulla del mercato estivo, nell’intento di allestire una squadra in grado di lottare per vincere, dopo tanto tempo, la sua terza Coppa dei Campioni. Solo un eufemismo per dire che il suo mercato è stato quasi perfetto e che con l’aggiunta di un centrocampista  come Sissoko o Matuidi, sarebbe stato addirittura perfetto. Ottima, tra l’altro, la scelta, dopo lunga trattativa, di rinnovare il prestito di Cuadrado [anche se, dopo una delle tante brillanti prestazioni del colombiano, da Marotta ne era stato promesso l’acquisto già nella scorsa stagione] che, insieme a Dybala, è stato uno dei principali artefici del riscatto bianconero in campionato. Resta il mistero di non averlo utilizzato contro il Siviglia, soprattutto quando si è percepito che la Juve, così com’era messa in campo, sarebbe difficilmente andata a rete. La squadra andalusa, che pure ha vinto le ultime tre edizioni di Europa League, è in realtà una squadra modesta ma dotata di grande organizzazione, con ottime capacità di interdizione e in grado di mettere sino a quattro giocatori sul portatore di palla avversario in qualsiasi zona del campo.

La verità è che la squadra schierata ieri sera da Allegri non era molto diversa da quella vista in Champions nei due anni della sua gestione, non solo per il modulo, ma persino nella qualità degli interpreti: con Higuaín e Dani Alves in più, è vero, ma senza Morata e Pogba e con un Dybala arretrato che finisce con lo sfiancarsi correndo a tutto campo.

D’altra parte, la convinzione dell’allenatore bianconero - per sua stessa ammissione - è che la squadra fosse già competitiva per tentare di vincere negli anni passati: due anni fa raggiungendo la finale, l’anno scorso con la precoce eliminazione da parte del Bayern Monaco, a pochi secondi dalla fine del doppio confronto. Quel che Allegri non dice è che “il sorteggio intelligente”dell’Europa calcistica, governata allora da Platini, regalò alla Juve avversari non irresistibili e che l’unica impresa per raggiungere la finalissima fu rappresentata dal doppio confronto con il Real Madrid. Non dice altresì che l’eliminazione di quest’anno, già negli ottavi di finale, col Bayern, è dipesa quasi esclusivamente dai suoi errori: prima di tutto per aver perso proprio a Siviglia per 1-0, con una tattica di gioco simile a quella adottata ieri sera [dopo aver vinto la partita di Torino per 2-0, ciò che non è avvenuto quest’anno con un gioco scarso e con uno squallido 0-0], finendo così al secondo posto del girone, dopo aver battuto per ben due volte il Chelsea che le passò davanti, incontrando negli ottavi avversari meno agguerriti del Bayern. Poi, per aver perso la qualificazione ai quarti contro i tedeschi negli ultimi istanti, in virtù del solito schieramento pavido e difensivista ad oltranza.

Non vorrei che Allegri commettesse ora il suo terzo errore, vanificando quanto di eccezionale la società bianconera ha fatto nel mercato appena concluso. Va bene Lemina [che personalmente giudico persino più efficace del sopravvalutato Pogba] nel ruolo di sostituto del convalescente Marchisio, va bene Pjanić dietro le punte, ma non davanti ai difensori o come “salvatore della patria” [l’ex romanista è grande solo quando tutta la squadra gira a dovere], non va bene Dybala arretrato o come regista, non va bene tenere fuori Cuadrado [non penso proprio che si voglia lesinare sul suo impiego, per evitare che raggiunga il numero di partite oltre il quale la Juve ha l’obbligo di riscattarlo], né va bene considerarlo un sostituto di Dani Alves, bensì va impiegato sovrapponendolo al brasiliano; non va bene soprattutto il 3-5-2 in campo europeo e, in alternativa all’impiego di Cuadrado, potrebbe andar bene il 4-3-3 con Dybala, Higuaín, Mandžukić o Pjaca. Infine, quando uno dei tre grandi difensori [Barzagli, Bonucci e Chiellini] accusa sintomi di stanchezza o di rilassamento, vuoi anche per legittimi motivi personali [leggi: il Bonucci di ieri sera] va bene sostituirlo con Benatia. Solo così l’enorme potenziale che la dirigenza bianconera ha messo quest’anno a disposizione dell’allenatore avrà il suo giusto utilizzo, diversamente il tifoso bianconero si limiterà, almeno in Europa, a compiacersi che la propria squadra abbia una panchina tanto prestigiosa, senza però vincere nulla.

sergio magaldi


domenica 11 settembre 2016

LA QUESTIONE ROMANA E I CINQUE STELLE


 Pur ammettendo qualche errore [leggi: “Cazzata”] nell’affrontare il difficile compito di dare alla capitale un’amministrazione decente, Beppe Grillo, sceso finalmente in campo, sventola la vetusta bandiera del complotto per spiegare l’incredibile situazione in cui versa la giunta capitolina guidata dall’ineffabile Virginia Raggi. Intendiamoci: qualcosa di vero c’è nella tesi di Grillo e dei suoi. Non tanto perché ci sia stato davvero un complotto nei confronti della sindaca romana, quanto perché di fronte all’insipienza fin qui mostrata dai pentastellati, s’è scatenata la muta degli oppositori, cioè di tutti coloro che, almeno nell’ultimo ventennio, hanno contribuito a fare carne di porco della città eterna.

 Intanto, la vicenda romana mostra almeno due verità: che la cosiddetta società civile sempre evocata dal Movimento Cinque Stelle non è migliore dei governi che la rappresentano e che, nonostante i tanti milioni di voti, il M5S non è stato capace di creare quadri intermedi competenti e credibili, dovendo ricorrere ad “esterni”, già compromessi con le precedenti amministrazioni, per tentare di dare un governo alla capitale. E non basta, perché dopo la scomparsa [purtroppo!] di Casaleggio e la parziale uscita di scena di Beppe Grillo, lo stesso gruppo dirigente del Movimento mostra tutta la sua inadeguatezza nel leggere la realtà, persino nei due “cittadini” più acclamati e più noti: Di Battista nel percorrere in moto la penisola per diffondere il verbo del “No” alle riforme costituzionali, Di Maio nel calarsi in un’attività diplomatica, almeno prematura, e nell’occultare verità scomode che immancabilmente si sono volte contro il Movimento. E con ciò ogni altra entità politica, partitica o meta partitica, già nata [leggi: Movimento Roosevelt] o che dovesse nascere, è avvertita: senza selezionare una classe dirigente preparata, onesta e disinteressata alle carriere personali, ogni ipotesi di cambiamento della società e dei governi è puramente velleitaria e illusoria.

 La vittoria di Virginia Raggi con oltre il 67% di voti nelle amministrative di Roma non è stato il successo di una singola persona, ma quello di un intero Movimento ed è stato subito chiaro che non si trattava semplicemente della conquista di una città, ma di una prova generale di governo del Paese, dal cui successo o fallimento, sarebbe dipeso il futuro politico dei Cinque Stelle. Di Battista e Di Maio avevano perciò il dovere, già all’indomani della vittoria di Roma, di porre tutte le proprie energie al servizio del governo capitolino, senza che ciò significasse un’ingerenza nell’autonomia del primo cittadino. Il punto è che forse non ne hanno avuto la forza e/o che mancavano le condizioni di cui parlavo sopra, l’esistenza cioè di quadri opportunamente selezionati per competenza, onestà e affidabilità. Più facile, dunque, per i due leader provare a “rafforzare” la propria immagine, con viaggi nazionali e internazionali.

 Purtroppo, ora, come si suole dire “tutti i nodi vengono al pettine”. La giunta capitolina stenta a nascere nella sua compiutezza e soprattutto non è ancora in grado di governare. Persino il Vaticano [così innocente rispetto ai governi che nel passato hanno distrutto la città?!] si unisce al coro delle opposizioni, i sondaggi elettorali, per quello che valgono, parlano già di due punti persi e c’è di più: Renzi, sulla scia dell’ex presidente della Repubblica, questa volta sembra davvero intenzionato a cambiare la legge elettorale. Un palese tentativo per esorcizzare il “No” alle riforme costituzionali, accogliendo le indicazioni proposte dalla sinistra interna e sperando in un tacito accordo con il centro-destra: il “Sì”, anche se non esplicitamente dichiarato, alle riforme in cambio di una legge elettorale che sposti il premio di maggioranza dalle liste alle coalizioni o, peggio ancora, che reintroduca il sistema proporzionale, tagliando fuori da ogni possibilità di vittoria il M5S e prospettando un nuovo governo “di larghe intese”. I pentastellati – nonostante l’accanimento con cui sostengono il “No” alle riforme costituzionali – naturalmente si oppongono al cambiamento della legge elettorale e se ne comprende bene il motivo: il sogno di governare da soli dopo la vittoria al ballottaggio contro il PD, sembra andare in frantumi. Davvero l’ingenuità del Movimento Cinque Stelle arriva sino a questo punto? Di credere che con la vittoria del “No”, l’attuale legge elettorale rimarrebbe invariata? Non ci credo! Il calcolo deve essere un altro: abbattere Renzi e poi si vedrà. Non si spiegherebbe altrimenti l’accanimento per il “No”, insieme a Freccero, Quagliarella, Brunetta, Gasparri e tanti altri nobili “padri della patria” preoccupati che il bicameralismo perfetto possa scomparire dal pianeta [giacché l’Italia è ormai l’unico paese che lo mantiene nel proprio ordinamento costituzionale].

 Comprendo bene, d’altra parte, che il M5S non avrebbe potuto in nessun modo sostenere il “Sì”, salvo snaturarsi politicamente a sinistra come a destra, ma la difesa dell’attuale legge elettorale, con il premio di lista, avrebbe dovuto portare al saggio consiglio di astenersi almeno dalla motocicletta di Di Battista. Questo, se il Movimento Cinque Stelle ha come obiettivo di governare l’Italia. Ma i pentastellati vogliono davvero governare Roma e l’intero Paese?


sergio magaldi