mercoledì 14 dicembre 2016

REFERENDUM: VINCE IL POPOLO SOVRANO O LA PARTITOCRAZIA?




 Il voto referendario è stato esaminato sotto ogni possibile aspetto e significato: i giovani, le regioni meridionali, le periferie, i poveri hanno votato in netta maggioranza per il No; gli anziani, le regioni del nord, i centri storici, i ricchi hanno votato mediamente e in prevalenza per il . Il dato incontestabile, ancorché di vago sapore manicheo, offre diverse riflessioni. La prima, da più parti messa in evidenza, è che non si è votato sulla riforma costituzionale ma sulla condizione sociale in cui versa questo Paese ormai da circa vent’anni, con una oligarchia stabile della ricchezza e del potere, la falcidia premeditata dei redditi medi e bassi in conseguenza dell’avvento dell’euro, la proletarizzazione della classe media, la cinesizzazione del lavoro, la crescente disoccupazione giovanile, la corruzione dilagante, il flusso migratorio inarrestabile e così via.

 Ogni partito politico non rappresentato sui banchi di governo aveva la sua fetta di buone ragioni per invitare i propri elettori a dire un No chiaro e tondo: l’unico modo pacifico per manifestare il dissenso politico e credere di contare ancora qualcosa in questa democrazia malata che non riesce neppure a varare una legge elettorale. Chi si è offerto alla bisogna come capro espiatorio? Diamine! Non poteva che essere  Matteo Renzi, l’ex sindaco di Firenze che da anni, nel bene e nel male [vedi in proposito il post del 22 Giugno 2016: “Gli errori di Matteo Renzi” e clicca sul titolo per leggere], si agita nel tentativo impossibile di muovere le acque chete e torbide di una società ormai alla deriva. Solo un uomo come lui, dotato di grande presunzione e di altrettanta leggerezza, poteva offrirsi per questo rito di espiazione invocato da un’intera classe politica, vera responsabile dell’abisso in cui è precipitato il Paese.

 La cerimonia è perfettamente riuscita e ogni partito politico, compreso il 20% del Pd guidato da Renzi, può rivendicare per sé un qualche merito nell’intestarsi la vittoria del popolo sovrano. In realtà, gli italiani hanno fatto quello che gli stessi partiti – alternatisi al governo negli ultimi vent’anni con i risultati che abbiamo sotto gli occhi [con l’eccezione del M5S, in campo solo da tre anni] – gli hanno chiesto di fare. Ed ecco la riflessione più semplice e meno considerata: più che una vittoria di popolo, come si sente ripetere da destra e da sinistra, è stata una festa della partitocrazia, non solo perché sono popolo sia gli oltre 19 milioni di voti del No che gli oltre 13 milioni di voti del Sì, quanto perché il voto, pur con le motivazioni sociali che lo giustificano, riflette le percentuali attribuite ai singoli partiti dagli ultimi sondaggi elettorali e che, al di là del trasformismo che, in mancanza del vincolo di mandato per gli onorevoli, ha frazionato il Parlamento in 23 gruppi parlamentari, rispecchia mediamente – con l’eccezione del centrodestra dove la Lega ha rovesciato a proprio vantaggio il rapporto con Forza Italia – i risultati elettorali delle ultime elezioni politiche del 2013. I sondaggi del TG di la 7 del 28 Novembre e del 4 Dicembre [non diversamente da altre fonti] attribuiscono ai partiti del No una percentuale oscillante tra il 68,2 e il 68,7 [M5S-Lega Nord-Forza Italia-Fratelli d’Italia-Sinistra Italiana-Pd minoranza] e ai partiti del Sì una percentuale tra il 28,5 e il 28,6 [Pd maggioranza-Ncd-Udc]. Il risultato referendario modifica soltanto in parte le potenzialità elettorali degli schieramenti in campo: circa 9 punti in meno per il fronte del No [59,11%] e circa 12 punti in più per il fronte del [40,89%].

 Nella sostanza, dunque, il popolo italiano, com’è nella sua storia,  si conforma alle indicazioni dei partiti. La riflessione, banale quanto si vuole e per questo poco esercitata dagli addetti ai lavori, non è senza conseguenze. La prima è che il popolo sovrano non ottiene alcun vantaggio da questa “straordinaria” vittoria. La seconda è che neppure un mago avrebbe potuto quasi raddoppiare la percentuale di base di cui disponeva il fronte del Sì e averlo creduto possibile da parte di Renzi non è stato solo un peccato di ubris e di temerarietà, che in fin dei conti riguarda solo il suo destino personale, ma è prima di tutto ciò che ne fa un uomo politico di una ingenuità sconcertante che ha finito col vendere illusioni ai suoi stessi elettori e a quanti avevano creduto di vedere in lui il volto finalmente nuovo della politica italiana. Nulla è per sempre e può darsi benissimo che per il futuro egli faccia tesoro della lezione. La terza è che si parli di grande sorpresa per il risultato da parte di chi [e sono in tanti] non era accecato dal cupio dissolvi del premier. Quando Forza Italia, come sempre inaffidabile per la natura stessa di chi la guida e di chi ne fa parte, lo ha lasciato col cerino in mano – dopo aver fatto parte della maggioranza parlamentare che aveva approvato la riforma costituzionale – saggezza avrebbe voluto che il Referendum fosse “spacchettato” – come avevano proposto i radicali – in tre o quattro quesiti: 1)Superamento del bicameralismo perfetto, togliendo al Senato rimasto elettivo solo l’approvazione delle leggi ordinarie, 2)Soppressione del CNEL, 3)Riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, 4)Riforma sui referendum costituzionali e le leggi di iniziativa popolare.

 Con molta probabilità su tre dei quattro quesiti avrebbe prevalso il Sì, mentre il No avrebbe bocciato la riforma del titolo V perché contraria agli interessi di campanile. Comunque sia, sarebbe stato un voto molto più referendario che politico e il governo non ne sarebbe stato toccato. Ma Renzi ha preferito “tutto o niente” e al sistema partitocratico, giocando la facile partita del “tutti contro uno”, non è parso vero invitare i propri elettori a rispondere “niente”.


sergio magaldi 


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