martedì 28 febbraio 2017

IL FRAZIONISMO MALATTIA INFANTILE DELLA SINISTRA [Parte seconda:la scissione inutile]





 Se, a questo punto, ci si chiede quali siano le ragioni della nascita di “Democratici e Progressisti”, si rimane perplessi. Non è un divorzio tra le due anime del PD, tra ex cattolici ed ex comunisti e neppure tra epigoni del PCI e della DC, come si è tentato di farlo apparire. Di sicuro è il pronunciamento di parte di una minoranza [che fino a poco tempo fa era maggioranza nel PD] contro il legittimo segretario del partito, un frazionismo impensabile, non tanto nella tradizione della sinistra, ma di sicuro in quella di ispirazione comunista, in cui il dissenso era possibile, ma comportava poi, nel rispetto delle regole democratiche, che ci si conformasse alle scelte della maggioranza. C’è di più, di che si alimenta il dissenso di questa nuova minoranza frazionista? Quali sono gli ideali che la animano? Quali nuove e decisive riforme sta per proporre al governo del Paese, di cui al momento continua a far parte? Quali alleanze prospetta per il futuro? Quale utilità arreca all’Italia con questa scissione? L’unico ideale che accomuna gli scissionisti mi sembra l’antirenzismo. Le riforme proposte in questi giorni vanno dalla scuola, all’abolizione dei voucher, alla messa in stato di accusa del Jobs Act, ai vaghi provvedimenti annunciati in favore della povertà, alla nuova introduzione dell’IMU sulla prima casa. In particolare, gli scissionisti sembrano avere a cuore soprattutto questa misura, peraltro condivisa anche da altri che rimangono nel PD. Nello spazio di 48 ore, Bersani e Rossi [scissionisti], in differenti talk show, hanno condiviso con la Bindi [che resta nel PD] l’esigenza di ripristinare questa tassa per far fronte ai 3,4 miliardi che ci chiede indietro Eurogermania. E Speranza [scissionista], il delfino di Bersani, invoca da mesi la reintroduzione di questa tassa a beneficio dei lavoratori [?!], cioè ancora “un calcio” contro la classe piccola e media che ormai va scomparendo, con una lettura del sociale almeno anacronistica e intrisa di masochismo, perché finirebbe col far precipitare quel che sopravvive ancora di questo ceto nelle bracce della Lega e/o di Cinquestelle. Sui voucher, le posizioni degli scissionisti oscillano tra chi vuole abolirli del tutto e chi vuole riformarli per contenerne l’espansione e mettere un freno al mercato nero, una posizione che non è molto distante da quella del PD, ancorché la dirigenza di questo partito riconosca al voucher, per piccoli lavori non continuativi, un’importanza strategica, utile anche a far circolare “moneta” alternativa all’euro.  Al posto del  renziano Jobs Act, i neoscissionisti chiedono misure alternative per incentivare l’occupazione e la crescita e che, allo stato, non è dato conoscere quali siano. Sulla povertà, sembrano in linea con lo spirito evangelico, piuttosto che animati dalla reale volontà di combattere la crescente emarginazione sociale, quanto alla richiestissima, ennesima riforma della scuola, le proposte per ora si mantengono sul generico appello a poter disporre di una scuola “veramente formatrice”. Circa le alleanze politiche per il futuro, non se ne fa parola ma è facile intuire che potranno esserci con Sinistra Italiana, per tentare di raggiungere una percentuale in doppia cifra oppure, com’è più probabile – in una prospettiva di governo alla quale sono ormai abituati – con lo stesso PD dal quale oggi se ne vanno sbattendo la porta. Utilità per l’Italia? Innanzi tutto rendere difficile la governabilità del Paese, più di quanto già non lo sia, dopo la bocciatura del ballottaggio da parte della Corte Costituzionale, rendere inoltre meno improbabile la vittoria del centrodestra, facendo un regalo prima di tutto a Berlusconi che avrà a disposizione, per così dire, la politica dei “due forni”: da una parte l’alleanza con il PD [anche a prescindere da Renzi], dall’altra quella con Salvini e con la Meloni. Infine fare un regalo anche ai Cinquestelle che di fatto si accingono a diventare il partito di maggioranza relativa e le cui percentuali tornano a salire nei sondaggi, dopo che la Raggi, mascherando al momento tutta la sua debolezza e la perdurante inefficienza, pronuncia il fatidico sì al progetto dello stadio della Roma calcio – opportunamente rimodellato o ingenuamente dimezzato anche nella realizzazione di opere di pubblica utilità, secondo i punti di vista – che ricompatta se non proprio tutta la base, di sicuro la dirigenza romana dei Cinquestelle.

 Con quali credenziali “Democratici e Progressisti” si presentano oggi agli elettori? Al di là dell’introduzione di nuove tasse che è sempre stato il biglietto da visita di tanta parte della sinistra, a cominciare dalla richiesta di reintrodurre l’IMU sulla casa di abitazione principale degli italiani, ciò che parla per loro sono i provvedimenti di cosiddetta macelleria sociale che il PD, allora guidato da Bersani, oggi scissionista, votò a sostegno del governo Monti. E per quanto riguarda la scuola, gli scissionisti rivendicano una verginità che non hanno mai avuto: sin dai decenni passati alcuni dei principali protagonisti della scissione, che parteciparono direttamente o indirettamente, con o senza l’Ulivo, al governo del Paese, permisero che della scuola si facesse il luogo della burocrazia, degli sprechi e della fatiscenza delle strutture; e degli insegnanti, un proletariato intellettuale a basso costo ma ad alto rendimento politico, mediante una politica di assunzioni generalizzate che immise nei ruoli delle segreterie delle scuole di ogni ordine e grado,  bidelli semianalfabeti, e nel ruolo docente, e senza concorso, chi a malapena aveva vissuto nelle aule scolastiche un paio di anni da supplente. Come si può pretendere, oggi, anche solo di parlare di una scuola “veramente formativa”, partendo da queste premesse?

 Quel che resta da chiedersi è verso chi si rivolga la nuova offerta politica rappresentata dai “Democratici e Progressisti”. E una risposta convincente non c’è, perché dai suoi dirigenti, così come li conosciamo da anni, non vengono proposte veramente alternative e si ha netta l’impressione che questa nuova scissione sia la scelta più inutile che il frazionismo di sinistra abbia mai prodotto nel corso della sua storia, non solo perché si è ormai perso qualsiasi collegamento con la classe lavoratrice, con i giovani disoccupati e con l’elettorato d’opinione che ancora oggi si orienta a sinistra, ma soprattutto perché gran parte degli scissionisti sembrano motivati solo da vicende personalissime e dal tentativo di riappropriarsi del potere, una volta che, da maggioranza sono divenuti minoranza all’interno del Partito Democratico, per la manifesta incapacità di preparare nuovi quadri all’altezza della situazione sempre più difficile e complessa che il Paese è chiamato a vivere.


sergio magaldi

lunedì 27 febbraio 2017

IL FRAZIONISMO MALATTIA INFANTILE DELLA SINISTRA [Parte Prima: da Livorno al PD]



 Il frazionismo è la malattia congenita della sinistra italiana sin dalla culla: dalla scissione di Livorno del 1921, con la nascita, da una costola del Partito Socialista, del Partito Comunista d’Italia  [poi PCI] e via via con la fuoriuscita della frazione trotskista con il nome di Partito Comunista Internazionalista [poi “internazionale”] già alla fine della seconda guerra mondiale e la nuova scissione dalla destra del PSI con il Partito Socialista dei lavoratori italiani del 1947. A partire dal 1960 abbiamo: la breve apparizione del Partito Socialista Unitario [PSU], di nuovo separato con la rinascita del Partito Socialdemocratico, Il Partito Socialista di Unità Proletaria [PSIUP] che poi confluirà nel PCI, la scissione dal PCI di alcuni intellettuali che danno vita al Manifesto, la formazione del Partito di Unità Proletaria [PDUP]. Nel 1975 nasce Democrazia Proletaria che unisce insieme i principali movimenti della cosiddetta sinistra extraparlamentare e che, in vita sino al 1991, non raggiungerà mai il 2% dei voti, pur ottenendo sempre rappresentanti in Parlamento, grazie ad un legge elettorale fortemente proporzionale. Dopo gli anni novanta e la trasformazione nominalistica del vecchio PCI, prima in Partito democratico della sinistra [PDS], poi in DS o democratici di sinistra sino alla confluenza nell’attuale Partito Democratico [PD] con la Margherita [ex DC], si assiste a tutta una fioritura di sigle che si richiamano alla tradizione comunista o più in generale a quella della sinistra: Rifondazione Comunista, Comunisti Unitari, Sinistra Ecologia e Libertà [SEL], Sinistra Italiana [SI]. Ho volentieri omesso la vicenda di tanti altri minori frazionismi all’interno della sinistra. Nota a tutti la cronaca delle attuali vicende scissionistiche: da Sinistra Italiana si stacca il gruppo di Arturo Scotto che insieme ai fuoriusciti del PD dà vita ad una nuova formazione politica che, a quanto pare, si chiamerà Movimento dei democratici e dei progressisti, DP [democratici e progressisti] nella sigla speculare al PD [da non confondersi con la stessa sigla che apparteneva a Democrazia Proletaria] e nella quale resta difficile comprendere chi siano i democratici e chi i progressisti.

 Il frazionismo della sinistra italiana ha avuto sempre due componenti: quella personalistica, ineliminabile perché fa parte delle logiche di potere, ancorché si sia sempre sostenuto che nella sinistra contano le idee e le forze sociali e non le persone, e quella legata all’obiettivo della trasformazione sociale, prima con la rivoluzione, poi con le riforme. Il paradosso è che il frazionismo, marginale quando ancora si crede nella rivoluzione, diviene frequentissimo quando si comincia a parlare di riforme. Analogamente, la componente personalistica e di potere aumenta di pari passo col restringersi del campo delle riforme compatibili in una società dominata dal capitalismo finanziario e caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione che, attraverso la delocalizzazione delle imprese, le migrazioni più o meno indotte con la relativa abbondanza di manodopera a basso costo, e i processi di automazione industriale, toglie linfa alla tradizionale dialettica capitale-lavoro, di cui la sinistra si era sempre alimentata. Quando si dice che ormai non c’è più distinzione tra destra e sinistra, si afferma, certo qualcosa di falso – perché le vecchie bandiere, ancorché arrotolate e riposte sono sempre in grado di sventolare di nuovo in difesa di valori  e di diritti fondanti e irrinunciabili – ma si intende sostenere che la realtà nella quale viviamo non è più comprensibile alla luce delle vecchie categorie del secolo scorso. Avviene così che le scissioni a sinistra siano sempre più piccole lotte di potere e che le riforme [quali riforme?!] cui si richiamano gli scissionisti si sostanzino solo di parole, quando addirittura non siano frutto di conservazione e dell’incapacità di cogliere l’attuale dialettica sociale.

 Nei giorni scorsi, con ’annuncio della scissione nel Partito Democratico, si è subito parlato di nuova separazione, per così dire, dei due mazzi di carte [ex PCI ed ex DC] che dieci anni fa furono mescolati assieme nell’intento di dar vita ad una nuova formazione, anche tenendo conto della legge elettorale maggioritaria, allora vigente. Oggi che si profila il voto con una legge proporzionale, l’amalgama mal riuscito non ha più ragione di essere, si sente dire da più parti. L’analisi non mi sembra convincente e prefigura il tentativo di nobilitare l’ennesimo frazionismo di sinistra. Se ne vanno – è vero – Bersani e D’Alema, che facevano parte della vecchia nomenklatura, e con loro se ne va una parte degli epigoni, ma restano nel PD tutti gli altri: ex comunisti o comunque quadri autorevoli degli ex DS.

 Le maggiori scissioni del passato ebbero una loro funzione e si dimostrarono utili, a prescindere dal giudizio soggettivo e di valore, per le lotte dei lavoratori o per la governabilità del Paese. Fu così quando dalla costola di sinistra di un Partito Socialista imbelle e rissoso nacque il Partito Comunista o quando dalla costola di destra dello stesso PSI si formò il Partito socialdemocratico, funzionale all’allenza con la Democrazia Cristiana per governare nel clima della guerra fredda. La nuova scissione dalla sinistra del PSI con la nascita del PSIUP fu la naturale conseguenza dell’alleanza storica tra DC e PSI nel periodo del cosiddetto miracolo economico che avrebbe trasformato l’Italia in una delle maggiori potenze industriali del mondo. I psiuppini furono la risposta con cui si guardò con scetticismo, a torto o a ragione, ad un benessere economico che, appannaggio delle classi dominanti, avrebbe finito col ritorcersi contro i lavoratori. L’utilità del PSIUP, giudicato addirittura più a sinistra del PCI, partito nel quale più tardi finirà per confluire, fu di mantenere aperto, in area socialista, il fronte delle rivendicazioni popolari.

 Le scissioni dagli anni settanta in poi furono determinate dall’avvicinamento tra DC e PCI, dall’idea di compromesso storico di Berlinguer e dai tentativi di Aldo Moro di cementare l’intesa storica tra cattolici e socialisti, allargandola ai comunisti. Il proliferare dei movimenti extraparlamentari fu anche la naturale conseguenza del Maggio francese e delle lotte operaie guidate da avanguardie intellettuali che processarono la società borghese sotto ogni riguardo, determinando in tutta Europa non già una rivoluzione economica, com’era nelle aspirazioni, ma certamente una rivoluzione di costume e di valori. Da allora, i dirigenti dei partiti comunisti tradizionali furono tacciati di essere diventati i difensori dell’ordine costituito e il frazionismo all’interno della sinistra divenne quasi la regola. Dopo la caduta del muro di Berlino e la critica del comunismo sovietico che in Italia era cominciata almeno vent’anni prima, il PCI tolse dal suo nome ogni riferimento alla parola “comunista” e la conseguenza inevitabile fu la nascita di tanti piccoli partiti che quello stesso nome, vuoi per nostalgia dei vecchi ideali, vuoi per ritagliarsi uno spazio elettorale, se lo misero al proprio occhiello, anche se con scarsa fortuna.
[segue]


sergio magaldi

giovedì 23 febbraio 2017

AREA DI TOR DI VALLE: lasciamola così...

Da romapress.us


 Sta per andare in scena, e purtroppo ne avremo forse presto conferma, l’ennesimo spettacolo tragicomico di Roma capitale. Alla vigilia della decisione finale sulla costruzione dello stadio di calcio della A.S. Roma nell’area di Tor di Valle, cresce il fronte del NO che negli ultimi tempi si è andato organizzando con le manifestazioni di una parte dei Cinquestelle perché si giungesse alla revoca della delibera della giunta Marino che classificò il relativo progetto edilizio come “opera di pubblica utilità”, con il comunicato ineffabile della Soprintendenza che, dopo anni di silenzio, proclama ora l’esistenza di un vincolo sulla tribuna dell’ippodromo di Tor di Valle, realizzata per le Olimpiadi del 1960, quasi fosse un monumento storico e non una costruzione fatiscente, priva di norme antisismiche e con coperture di amianto, con le sentenze dei tanti soloni che discettano di ecomostro, di cementificazione, di speculazione edilizia e quant’altro, con il parere dei puri di spirito che lamentano che il progetto non si limiti alla costruzione dell’impianto sportivo, ma pretenda anche di edificare aree e centri commerciali, con il giudizio estetico degli amanti del bello, circa la deturpazione che arrecherebbe al paesaggio l’innalzamento di torri, con le pillole di saggezza dei soliti benaltristi per i quali i problemi di Roma sono ben altro che quelli della costruzione di uno stadio.


Dal sito dell'A.S. Roma



 Premesso che il progetto dello stadio è opera di un noto architetto americano il cui studio ha già realizzato, tra i tanti altri, il Los Angeles NFL Stadium e il Manchester Evening News Arena e che l’area attorno allo stadio sarà costituita da negozi e ristoranti, da un parco pubblico e da tre grattacieli progettati da Daniel Libeskind, uno degli architetti più famosi al mondo, occorre osservare quanto segue: non solo l’attuazione del progetto è interamente a carico di capitali privati, ma addirittura la A.S. Roma realizzerà a proprie spese opere pubbliche per circa mezzo miliardo di euro, quali: 1)Un parco fluviale di 63 ettari con 9000 alberi, 11 chilometri di piste ciclabili e la costruzione di un ponte pedonale sul Tevere per congiungere il parco con la stazione della Magliana. 2)Il prolungamento della metro B. 3)Il restauro della stazione di Tor di Valle. 4)Il collegamento con l’autostrada Roma-Fiumicino. 5)La riunificazione della via Ostiense alla via del Mare. 6)Il potenziamento del Fosso di Vallerano. 7)La messa in sicurezza idrogeologica dell’intera zona che comprende i quartieri di Decima e Tor di Valle. A garanzia, il contratto con il Comune prevede che l’Associazione Sportiva Roma non potrà utilizzare lo stadio se non dopo l’effettiva realizzazione di dette opere. Le previsioni dell’indotto economico generato da tutta l’impresa parlano di crescita del PIL, di riduzione della disoccupazione e di entrate fiscali, complessivamente per il Comune di Roma e per le casse dello Stato, di circa un miliardo e mezzo di euro. Infine, va detto per gli amanti del bello che l’innalzamento delle torri previste dal progetto, in una zona periferica e lontanissima dal centro storico, non costituisce un’offesa del tradizionale paesaggio romano, ma semmai reca un segno di novità e di modernità  in una realtà di massimo degrado urbano dove regnano le discariche, ogni sorta di abusivismo e la prostituzione di strada.

 Viene a questo punto da chiedersi: Cui prodest? A chi giova che tutto questo rimanga solo sulla carta? Chi ha interesse a dire NO alla costruzione dello stadio della Roma alle condizioni di cui si diceva sopra? Chi avrà da guadagnare dal fatto che l’A.S. Roma si costituirà in giudizio per chiedere il risarcimento al Comune di Roma? Può anche darsi che molti siano in buona fede, che parlino e agiscano sulla base di questioni di principio o animati solo da spirito di conservazione, ma dietro di loro non c’è da supporre che vi siano le solite oligarchie più o meno occulte che hanno precisi interessi politici e finanziari, persino sportivi o addirittura inconfessabili, per mandare tutto all’aria, come è lecito supporre che accadrà forse già dalle prossime ore?

 Per la verità, un’altra parte dei Cinquestelle, da Beppe Grillo a Virginia Raggi ai consiglieri capitolini, si era detta problematica sulla vicenda e talora era apparsa favorevole al progetto come se fiutasse nell’aria, oltre all’olezzo di polveri inquinate e di strade e quartieri maleodoranti, la sensazione che questa volta non sarà come per le Olimpiadi: allora i cittadini compresero i rischi di spreco di denaro pubblico e i pericoli di nuove corruzioni, questa volta capirebbero, nel migliore dei casi, di aver mandato al Campidoglio una pattuglia di buoni a nulla, che del resto è il messaggio che la maggior parte dei media, a torto o a ragione, lascia passare da mesi. Alcuni giorni fa Grillo aveva bacchettato quella parte dei suoi intenzionata a bocciare il progetto, è di eri la notizia che si è fatto convincere dai pericoli di esondazione e così pur dicendo di Sì allo stadio della Roma dice di No alla sua costruzione nell’area di Tor di Valle. Un colpo magistrale di teatro: si dice sì ma s’intende no, Grillo non può ignorare che ci sono voluti 5 anni per giungere a questo punto e che per trovare un’altra area edificabile ce ne vorrebbero almeno altrettanti, senza contare le ingenti spese per il nuovo progetto. Ma esiste davvero il pericolo paventato da Grillo e di cui qualcuno deve averlo messo in guardia all’ultimo momento, nell’intento di scongiurare la vittoria del Sì? L’Autorità di bacino del Tevere, l’unica legalmente competente in materia, fa sapere che rischi idrogeologici gravano da sempre sull’intera zona e non soltanto sull’area di Tor di Valle, senza che le autorità comunali, provinciali o regionali siano mai intervenute; con la realizzazione degli impianti sportivi e dell’area commerciale, l’Associazione Sportiva Roma si impegna per l’appunto a mettere in sicurezza l’intera zona.

 A questo punto, nell’interesse non  solo dei romanisti ma dei romani e di tutti gli italiani,  c’è solo la flebile speranza che prevalga il buon senso e che Grillo e i suoi del Campidoglio non si nascondano dietro oscure minacce idrogeologiche, sbandierate proprio quando l’ultima parola sulla fattibilità del progetto di costruzione dello stadio nell'area di Tor di Valle sta per essere pronunciata.

sergio magaldi




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venerdì 3 febbraio 2017

LA NORMALIZZAZIONE DI MATTEO RENZI



 Dopo aver creduto che seminando nel campo dei miracoli i suoi zecchini d’oro [circa il 24% dei voti di cui disponevano insieme il PD e il NCD, al netto dei voti negati dalla sinistra del partito democratico], questi si sarebbero più che raddoppiati [nonostante il 70% dell’elettorato fosse nelle mani di tutti gli altri partiti], consentendogli di vincere il Referendum e di continuare a governare, Matteo Renzi compiva il “bel gesto” [controproducente, rispetto alle intenzioni, lo giudica questa mattina Ferrara su Il foglio] di dimettersi da presidente del consiglio con un compromesso che consegnava il suo governo al fido Gentiloni. Da quel momento, confidando nella fatina azzurra, Renzi lavorava alacremente per andare il più presto alle urne, forte di quel 41% che la semina gli aveva comunque fatto raccogliere. Allo scopo, dimenticando il passato, chiamava a raccolta il gatto e la volpe e con loro lanciava un’opa per andare a votare in primavera. Ma la fatina azzurra non ama gli animali populisti e, un po’ con le buone, un po’ con le cattive, gli intima una volta per tutte di uscire dalla favola e Matteo Renzi sembra prenderne atto e si mostra disponibile a fare marcia indietro.

 Nell’odierna intervista a Massimo Franco sul Corriere della Sera, l’ex sindaco di Firenze lascia infatti trasparire una nuova consapevolezza: la bacchetta magica in questo infelice Paese è saldamente nelle mani del correntone democristiano del suo partito e della ex nomenklatura del partito comunista, entrambi illuminati dal vecchio e dal nuovo inquilino del Colle. Ma soprattutto una cosa sembra comprendere Renzi: se vuole sopravvivere nella politica italiana, deve dismettere quei toni e quegli atteggiamenti da “straordinaria presenza” che gli hanno permesso di scalare il vertice del PD e del governo, e rientrare il più in fretta possibile nella normalità. Solo a questa condizione gli sarà consentito di prendere parte [ma non da protagonista] alla “gestione del nulla” di questa vergognosa classe dirigente che, passo dopo passo, spingerà l’Italia nel baratro. D’altra parte, nella sua coscienza di cattolico, Renzi continua a rimproverarsi di essere stato sconfitto nel Referendum e sente di doverne pagare le conseguenze e non lo sfiora minimamente l’idea laica che a metterlo fuori gioco sia stata in realtà la semina dei suoi “zecchini” nel campo dei miracoli, sperando ingenuamente, e/o accecato da ubris, che raddoppiassero.

 Ma la nota più intrigante e al tempo stesso più comica del giorno è rappresentata dal giubilo che si leva dalle forze trasversali del NO al voto, nell’apprendere che a due mesi di distanza dal Referendum e dopo la sentenza della Consulta, bisognerà ora attendere un altro mese per conoscere le motivazioni della sentenza costituzionale, prima di mettere mano ai “ritocchi” dell’Italicum e del Consultellum, cioè delle sole due leggi attualmente valide per eleggere rispettivamente i rappresentanti del popolo alla Camera e al Senato. Una ammissione di impotenza e una manifestazione di ipocrisia che serve unicamente a: 1) Preservare, almeno per il momento, l’unità del partito democratico. 2) Tenere a bada i Cinquestelle, nell’auspicio che le vicende della Raggi, col passare delle ore sempre più complesse sotto il profilo giudiziario, facciano diminuire il consenso nei confronti del movimento fondato da Grillo e Casaleggio. 3) Consentire alla minoranza del PD di organizzarsi e di trovare nuove alleanze per modo di togliere di mezzo una volta per tutte Matteo Renzi. 4) Ridare fiato a Forza Italia perché recuperi nell’ambito del centrodestra i voti che oggi perderebbe a favore della Lega e di Fratelli d’Italia. 5) Trovare un accordo per spostare il premio di maggioranza dalle liste alle coalizioni, prefigurando così le forze di governo del dopo-voto e spegnendo di fatto ogni velleità di governi “straordinari”, formati anche accidentalmente dai cosiddetti partiti populisti. 6) Permettere agli onorevoli di prima nomina di utilizzare i contributi versati per aggiudicarsi una pensione dopo 4 anni, sei mesi e rotti di lavoro parlamentare.

 Insomma, se gli italiani si aspettavano di andare alle urne in primavera, è quasi certo che nella bella stagione – che prelude ai bagni di sole, di mare e ai viaggi e alle vacanze per quelli che possono permetterselo –troveranno una stangata fiscale per recuperare i 3,4 miliardi di sforamento di bilancio che Eurogermania ci intima di pagare e che il governo italiano, succube della propria tradizionale impotenza, pagherà volentieri, prendendo i soldi dalle nostre tasche e attribuendone la responsabilità a Matteo Renzi per aver distribuito [male e con intenzioni puerili: il Sì al voto referendario] qualche mancia alla popolazione, sottraendola comunque al tritacarne degli sprechi, della corruzione e delle prebende. Con il risultato che, quando tra un anno o poco più si andrà finalmente a votare, lo “straordinario” patrimonio renziano del 41% si sarà ampiamente polverizzato.

sergio magaldi