sabato 27 maggio 2017

Sovranità e democrazia dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau [Parte terza]





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Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della relazione presentata al Convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento Roosevelt e tenutosi a Roma nei giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO: Sovranità e democrazia, dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]


Per entro l’illuminismo, tuttavia, uno spirito si leva su tutti, come riconobbero Kant ed Hegel. Illuminista, così da collaborare all’Enciclopedia di Diderot [1713-1784] e D’Alembert [1717-1783] e di entrare a pieno titolo nel dibattito sul patto sociale che d’après le rivoluzioni inglesi, tenne impegnate le menti più fertili del secolo dei lumi, Jean-Jacques Rousseau [1712-1778] si colloca ben oltre lo spirito del suo tempo che di rado seppe comprenderlo e più spesso lo condannò come sovversivo, relegandolo in una condizione di indigenza e di solitudine. Scrisse di lui il filosofo inglese David Hume [1711-1776]: 

 “È simile a un uomo che si sia spogliato non solo dei suoi vestiti, ma della sua stessa pelle e che, in quelle condizioni, si sia buttato a combattere contro i violenti e tempestosi elementi che perpetuamente agitano questo basso mondo”.

 Nel descrivere la natura umana per quello che è: non solo ragione ma istinto e sentimento; nell’individuare la fonte dei nuovi principi liberali; nell’intuire il vero fondamento della sovranità popolare e le nuove possibili forme di governo, non c’è dubbio che Rousseau fu in realtà un autentico precursore della modernità e della post modernità. Come giustamente osserva Hegel nelle sue lezioni berlinesi [Lezioni sulla Storia della Filosofia, La Nuova Italia, Firenze, 1964, vol.III,2, pp. 259-262], nel porsi il problema della giustificazione dello Stato,  Rousseau introduce nella storia un elemento sino ad allora sconosciuto: il principio della libertà.
 La critica fatta a Rousseau di contrapporre alla società civile, il mito del “buon selvaggio”, in uno stato paradisiaco di natura che non è mai esistito e che mai potrebbe esistere, nonché di sostenere la tesi di come il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a peggiorare i costumi, in luogo di migliorarli, si basa su una lettura superficiale del Discorso sulle scienze e sulle arti [1750] e del Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini [1754], destoricizzata e per di più avulsa dal complessità della sua opera. Il buon selvaggio non è altro che un paradosso da contrapporre all’uomo malvagio di cui aveva parlato Hobbes per giustificare il patto sociale e il potere, così dello Stato liberale come dello Stato assoluto. Insomma, l’uomo primitivo e virtuoso non è altro che un’astrazione utilizzata da Rousseau per valutare la condizione dell’uomo socializzato del suo tempo, come riconosce lui stesso in una lettera del 1762 all’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont: “Quest'uomo non esiste, voi direte. E così sia; ma quest'uomo può esistere come ipotesi, essenziale per giudicare la condizione attuale degli individui nella società”
 In natura, l’uomo non è né buono, né cattivo [Discorso sulle origini…], diverso per costituzione fisica e mentale, egli è però uguale ad ogni altro uomo per istinto di conservazione, per un innato sentimento di pietà verso i propri simili e per l’esigenza di soddisfare i bisogni primordiali. Lungi dall’essere paradisiaco, lo stato di natura si rivela dunque per l’uomo primitivo una condizione di massima precarietà, dalla quale egli cerca di uscire, associandosi con individui che hanno le sue stesse esigenze. Alla finzione del “buon selvaggio”, si aggiunge ora la finzione dell’individuo isolato. Rousseau sa benissimo che tali condizioni forse non sono mai esistite in natura, ma si serve di entrambe per dimostrare: 1)Che la disuguaglianza tra gli uomini ha origine dalla proprietà, quando tra individui anche solo momentaneamente associati per sopperire ai bisogni di tutti, il più scaltro, il più abile, il più forte cominciò a fare della proprietà comune un uso privato: “Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile.” [Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, parte II, inizio]. Con la proprietà privata, nasce anche l’usurpazione della sovranità a vantaggio di pochi, ma ciò non significa affatto che in natura prevalga il diritto del più forte: “Il più forte non è mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, finché non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere”, annota Rousseau nel Contratto Sociale [Libro I, cap.III, inizio]. 2)Che la sovranità – nella società civile esercitata dal monarca, dallo stato o persino dal popolo – trae la sua legittimità unicamente dall’individuo, per il diritto che gli appartiene, in nome della libertà, di governarsi da solo. 3)Che la proprietà, contrariamente a ciò che sostiene Locke, non è un “diritto naturale”, bensì una acquisizione basata su una sopraffazione originaria, a qualsiasi titolo esercitata, o comunque introdotta e alimentata dalla divisione del lavoro. Tutto ciò non significa che bisogna abolire la proprietà o tornare allo stato di natura, ma che occorre pensare ad una società che sappia conciliare l’innato diritto dell’uomo alla libertà e alla sovranità – senza la precarietà dello stato di natura –  con i vantaggi della società civile, ma senza l’egoismo, l’avidità e la corruzione che la caratterizzano. Quanto alla tesi che rafforzerebbe, per i critici di Rousseau, il rimpianto per la  cosiddetta “felice condizione” in cui l’uomo delle origini avrebbe vissuto, prima che si affermasse il progresso delle scienze e delle arti, è abbastanza evidente che si tratti di un altro paradosso. Rousseau ha sotto gli occhi la società francese della metà del XVIII secolo, con il suo regime assolutistico e corrotto, peraltro non più tenuto insieme dal carisma del Re Sole, ma governato dall’imbelle Luigi XV [1715-1774] che affidò il potere nelle mani del suo precettore, il cardinale de Fleury, per una politica di sprechi, di corruttela e di privilegi ad esclusivo appannaggio della nobiltà e del clero. In tale contesto, scienze ed arti erano come “le ghirlande di fiori poste sulle catene” che imprigionavano il terzo stato e il popolo minuto. Quel che sembra, ai malevoli interpreti di Rousseau, un discorso contro il progresso, è in realtà una presa di posizione contro le sovrastrutture che servivano ad abbellire l ’ancien régime.

 Nel suo radicalismo politico, alieno dai compromessi che a suo giudizio finiscono per privare l’individuo della libertà e della sovranità che gli appartengono per natura, Rousseau accomuna in una sola condanna i cosiddeti “contrattualisti”, siano essi Grozio, Pufendorf, Hobbes, Locke, Spinoza, Barbeyrac, Burlamaqui o gli illuministi francesi. Molti di loro non contestavano che la sovranità appartenesse al popolo ma erano tutti convinti, sia pure con diverse sfumature, della necessità di delegare l’esercizio della sovranità ad un organismo capace di garantire per tutti il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Questa alienazione della sovranità di ciascuno, non importa se a beneficio di un solo uomo o di molti, di un monarca o di un’assemblea, che si giustifica solo con la semplice promessa di assicurare la convivenza civile, rappresenta per Rousseau l’ennesima mistificazione delle oligarchie del potere, in quanto ratifica lo status quo delle disuguaglianze sociali e per di più sancisce per sempre la rinuncia all’unico bene che ci fa degni di essere uomini: la libertà. Un patto sociale è necessario, ma deve essere ripensato su basi completamente nuove, occorre cioè – come scrive Rousseau nel Contratto Sociale [1762] – “Una forma di associazione che difenda e protegga, con l’intera forza comune, la persona e i beni di ogni membro, e in cui ognuno, nell’aderire a questa associazione, obbedisca soltanto a se stesso e resti libero come prima”.[Libro I, cap. VI]. Perché ciò sia possibile, l’individuo non può rinunciare all’esercizio della sovranità che è insieme la manifestazione della sua volontà e della sua dignità di uomo libero. La rinuncia, anche se fatta a vantaggio di un’assemblea, è di per sé un atto contro natura, perché – annota ancora Jean-Jacques Rousseau nel Contratto Sociale [libro III, cap.XV] – “La sovranità non può essere rappresentata per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta; essa è la medesima o è un’altra; non c'è una via di mezzo. I deputati del popolo, dunque, non sono né possono essere i suoi rappresentanti; essi non sono che i suoi commissari e non possono concludere nulla in via definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è nulla; non è una legge. Il popolo inglese si crede libero, ma si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso è schiavo, è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, l'uso che ne fa merita invero che la perda. L'idea dei rappresentanti è moderna; proviene a noi dal governo feudale, da quell'iniquo e assurdo governo nel quale la specie umana viene degradata e il nome stesso di uomo era un disonore. Nelle antiche repubbliche e persino nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresentanti: la parola stessa era ignorata […] a Roma, dove pure i tribuni erano sacri, non si è neppure immaginato che essi potessero usurpare le funzioni del popolo […]. Presso i Greci, tutto quello che il popolo doveva fare, lo faceva da sé e si adunava di continuo sulla piazza, in pubblica assemblea”.

 Rousseau non ha mai ignorato le obiezioni – non si sa se più ironiche o più spaventate – dei suoi contemporanei, circa la possibilità di rendere effettivo l’esercizio della democrazia diretta in un grande stato e non più soltanto in una città-stato dell’antichità dove, peraltro, le donne e gli schiavi non godevano dei diritti politici. Nelle Considerazioni sul governo della Polonia del 1772, egli dichiara esplicitamente che in un grande stato “il potere legislativo non può essere esercitato che mediante i deputati del popolo” [cap.VII], alla condizione tuttavia che questi siano cambiati di frequente e che siano unicamente i portavoce di decisioni prese altrove dal popolo e con la massima precisione, al fine di evitare, egli dice, “il male terribile della corruzione”. 
A tale proposito, l'introduzione del vincolo di mandato per i rappresentanti del popolo era considerata sovversiva in una realtà storica, come la Francia prerivoluzionaria della metà del XVIII, dove non esistevano ancora i principi del liberalismo classico, in base ai quali il deputato, promosso al rango di “onorevole”, diventa un rappresentante privilegiato della nazione, absolutus, sciolto cioè da ogni riferimento alla volontà politica dei suoi elettori. Così, analogamente, la proposta di introdurre nella Costituzione italiana il vincolo di mandato, per scongiurare il tradizionale trasformismo delle istituzioni parlamentari, viene respinta con le stesse motivazioni di allora e in più con l’argomentazione che il vincolo di mandato, di matrice marxista-leninista, era presente nelle costituzioni sovietiche e in quelle delle cosiddette democrazie popolari dell’est europeo, dove un regime poliziesco controllava il potere, privando i cittadini di qualsiasi forma di libertà. Non a caso gli argomenti utilizzati ancora oggi contro il pensiero politico di Rousseau riguardano non solo il vincolo di mandato per i parlamentari e l’istituzione della democrazia diretta – ritenuta utopistica e/o improponibile e di cui Rousseau è considerato l’antesignano – ma anche e soprattutto la mancata distinzione dei poteri all’interno dello stato, in nome di una sovranità popolare rappresentata da quella volontà generale che sarebbe alla base dello stato etico e totalitario. Si rimprovera infine a Rousseau la critica che egli fa della Costituzione o legge fondativa di uno Stato.

sergio magaldi [SEGUE]

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