sabato 30 settembre 2017

GIALLO SPAGNOLO: tra meno di 24 ore riusciranno i cittadini catalani a votare?




 Comunque vadano le cose Domenica 1 Ottobre, il governo di Mariano Rajoy sta facendo di tutto per dare all’indipendenza della Catalogna quella legittimità che, almeno in base alla carta costituzionale del regno di Spagna, sembra non avere; anche se, pur parlando di indissolubilità della nazione, la costituzione nulla dice a proposito dell’eventuale diritto di altre nazioni – che pure sono parte integrante del Paese – di separarsene, come appunto chiede con questo referendum ai propri cittadini la nazione catalana, riconosciuta come tale dallo Statuto del 1979: “Cataluña, ejerciendo el derecho a la autonomía que la Constitución reconoce y garantiza a las nacionalidades y regiones que integran España, manifiesta su voluntad de constituirse en comunidad autónoma [Catalogna, esercitando il diritto all’autonomia che la Costituzione riconosce e garantisce alle nazionalità e alle regioni che formano la Spagna, manifesta la sua volontà di costituirsi in comunità autonoma] recita il secondo capoverso del Preambolo dello statuto catalano. Che la Catalogna sia riconosciuta come nazione non ci sono dubbi: oltre al Preambolo ne fanno testo la potestà legislativa e gli articoli 3 e 4 dello Statuto che gli riconoscono rispettivamente una lingua autonoma, e dunque una cultura propria, e una bandiera. C’è di più: il terzo comma dell’art.56 riconosce alla Generalità Catalana la possibilità di indire un referendum per la modifica dello Statuto. E il bello è che la Costituzione spagnola non contempla il referendum, o meglio prevede solo quello consultivo, senza peraltro vere e proprie leggi attuative. È vero d’altra parte che qui non si tratta di riformare ma di proclamare eventualmente l’indipendenza. 

 E allora bisogna risalire al 2006, allorché i catalani si videro bocciare il nuovo Statuto dal Tribunale Costituzionale, per effetto della denuncia presentata da alcuni parlamentari del Partito Popolare [di discendenza franchista] che oggi con Rajoy governa la Spagna. Non c’era la possibilità dell’autodeterminazione ma diritti sostanzialmente non differenti da quelli riconosciuti all’Andalusia, la Comunità più povera del Paese e che riceve un robusto sostegno economico, cioè la maggiore solidarietà da parte delle Autonomie e delle Regioni più ricche, come appunto la Catalogna [Il contributo allo Stato calcolato da Artur Mas, allora presidente della Generalità, era nel 2012 di 16.409 milioni di euro]. Cosa c’era di tanto rivoluzionario nello Statuto del 2006 bocciato dalla Corte Costituzionale, rispetto allo Statuto precedente? Una più forte sottolineatura dell’autonomia, con una maggiore intraprendenza finanziaria e, pur nella sostanziale parità col castigliano, l’obbligo di apprendere il catalano e di utilizzarlo come lingua di uso normale e da preferirsi per le amministrazioni pubbliche della Catalogna e nell’insegnamento. Dalla bocciatura del nuovo Statuto – che pure era stato approvato a norma di legge dal Parlamento spagnolo, da quello catalano e dal referendum dei cittadini – i governi di centrosinistra e di centrodestra non hanno più prestato attenzione alle rivendicazioni catalane. Secondo El País, uno dei più diffusi quotidiani spagnoli, dichiaratamente unionista, oltre a queste ragioni contingenti, ci sarebbero poi altri motivi [dieci] avanzati dagli indipendentisti. Il giornale li elenca e li smonta uno per uno. Mi soffermerò solo sul primo, di carattere storico, perché tutti gli altri mi sembrano più che altro valutazioni opinabili sia da parte degli indipendentisti che da quella dei loro avversari. La rivendicazione storica riguarda la guerra di successione spagnola del XVIII secolo che per i nazionalisti catalani fu una sfortunata guerra di indipendenza della Catalogna contro la Spagna. Mentre in quello stesso secolo gli americani si liberarono dalla corona inglese, la Catalogna fu sottomessa dagli spagnoli, sostengono gli indipendentisti. In realtà – osserva El País – la guerra fu una lotta tra due candidati alla corona di Spagna: Filippo V di Borbone appoggiato dalla Francia [in quanto nipote di Luigi XIV re di Francia] e dalla Castiglia e Carlo d’Austria sostenuto dall’Inghilterra e dalla Catalogna.

 Tutto ciò premesso, la politica messa in campo dal governo spagnolo, prima per essersi sottratta al confronto con la Generalità Catalana – persino negli ultimi due anni, dopo la celebrazione del referendum consultivo del 2015 che avrebbe dovuto rappresentare un campanello d’allarme e che invece ha portato a pretendere da Artur Mas, allora presidente della Generalità catalana, la multa di 5 milioni di euro – ora in prossimità della celebrazione del referendum con una politica che, come registra anche il New York Times, ha fatto parlare di “regressione democratica”, con l’arresto di 14 funzionari catalani, chiusura di siti web, mobilitazione della Guardia civile e della polizia catalana [Mossos] per sequestrare urne e schede e per impedire l’accesso alle sedi elettorali da parte dei cittadini, sanzioni  sino a trecentomila euro per chi presiede ai seggi e per chi si reca a votare, la chiusura dello spazio aereo su Barcellona, l’irruzione di questa notte di agenti della Guardia Civile nella sede del Centro di Telecomunicazioni e Tecnologia delle informazioni di Catalogna per sospendere i servizi informatici, impedendo ogni informativa sul referendum e l’eventuale voto telematico, la denuncia fatta contro Google e tante altre misure che limitano fortemente la libertà di espressione. Fin dove si spingerà ancora il governo di Madrid per fare in modo che Rajoy mantenga la parola data e cioè che i cittadini catalani non voteranno il referendum?

 Personalmente, come ho già detto in altri post [vedi in proposito Catalogna al referendum per l'autodeterminazione, Spagna permettendo e anche “L’Editoriale di El País sulla strage di Barcellona”, cliccando sui titoli per leggere], ritengo anacronistico che si parli di nuovi stati nazionali in un’Europa che avrebbe bisogno di più unità politica ed economica, di più democrazia e libertà, ma la questione catalana, per come è stata gestita dai governi spagnoli, per l’autoritarismo liberticida messo in mostra dagli eredi del franchismo, sta di fatto trainando la società civile catalana verso l’indipendenza, aumentando le adesioni a CUP [Candidatura d'Unitat Popular], la formazione politica che più di ogni altra spinge per la sovranità catalana e che raccoglie al suo interno militanti ex socialisti del PSAN [Partit Socialista d'Alliberament Nacional], repubblicani e forze di sinistra anche estreme. Comunque vadano le cose, sia che domani i catalani riescano a votare, oppure no, sia che il voto sia soltanto parziale, la democrazia spagnola si sarà dimostrata incapace di affrontare la questione catalana. Occorreranno nuove elezioni politiche generali e una nuova maggioranza al governo di Madrid –  auspicabilmente formata dal Partito socialista e da Podemos – per aprire una vero dialogo con la Generalità Catalana.



sergio magaldi







sergio magaldi

giovedì 28 settembre 2017

Istanbul degli ultimi decenni in un romanzo di Pamuk

ORHAN PAMUK, LA STRANEZZA CHE HO NELLA TESTA, Einaudi Super Et,pp.594 


  Ancora un grande romanzo di Orhan Pamuk, pubblicato di recente nella collana Super Et di Einaudi. Scritto tra il 2008 e il 2014, s’intitola  Kafamda Bir Tuhaflik, letteralmente “Stranezza nella testa”, reso in italiano con La stranezza che ho nella testa. Narra le vicende di Mevlut, un venditore di boza, e della sua numerosa famiglia. La boza è un’antica bevanda asiatica a base di grano fermentato, densa, profumata e a basso tasso alcolico. Le botteghe di boza sopravvissero sino al 1923, anno della fondazione della Repubblica Turca ma – specialmente nelle strade di Istanbul – gli ambulanti continuarono a venderla e Mevlut, ereditando la tradizione di famiglia, ne farà il proprio mestiere principale, alternandolo con la vendita di yogurt, di gelato e di riso con i ceci. Il girovagare notturno per le strade della capitale, gridando “Booo-zaaaaa”, diverrà per lui qualcosa di più di un semplice mezzo di sostentamento, rappresentando innanzi tutto un’esigenza di libertà.

 La tecnica narrativa utilizzata da Pamuk – peraltro già sperimentata con varie modalità da altri scrittori contemporanei – si basa sul far parlare di volta in volta in prima persona i vari personaggi, anche i minori, permettendo così di confrontare tra loro i diversi punti di vista rispetto alla medesima circostanza o in merito ad uno stesso avvenimento. Ai pensieri e alle osservazioni dei protagonisti, si aggiunge talora anche un breve commento.

 Chi è esattamente il bozaci [venditore di boza] Mevlut Karataș? Nato e cresciuto in un villaggio povero dell’Anatolia Centrale, a 12 anni si traferisce ad Istanbul per aiutare suo padre nella vendita ambulante di boza. A 21 anni, nel 1978, alle nozze di suo cugino Korhut, s’innamora al solo sguardo della bellissima e giovanissima sorella di Vediha, moglie di Korhut, e per anni, complice Süleyman, fratello di Korhut, farà recapitare le sue lettere alla ragazza, senza naturalmente ottenere risposta ma consapevole, secondo quanto gli riferisce il suo mentore, di averne suscitato l’interesse. Dopo quattro anni di corrispondenza, grazie ancora a suo cugino Süleyman, Mevlut organizzerà il rapimento della ragazza, ma avrà la sorpresa di constatare che la rapita consensualmente non è Samiha, la donna di cui è innamorato  e alla quale ha scritto per tanto tempo lettere piene di passione, bensì è Rayiha, sua sorella maggiore, di lei sicuramente meno bella.

 Le vicende narrate da Pamuk occupano un arco che va dagli anni Ottanta del secolo scorso sino al 2012 e seguono la crescita inarrestabile di Istanbul, il suo ingrandirsi fino ad inglobare la periferia, come i villaggi poveri sulle colline di Duttepe e Kültepe, con le loro catapecchie costruite abusivamente, e dove Mevlut trascorre la propria giovinezza aiutando suo padre nella vendita della boza e frequentando il liceo maschile Atatürk di Duttepe, senza però terminare gli studi.

 Con distacco e non senza garbata ironia, Pamuk osserva lo sviluppo tumultuoso di Istanbul, a metà strada tra occidente e medio oriente, dove al colpo di stato  militare dell’autunno del 1980 – al quale è costretto a partecipare attivamente anche Mevlut che sta ultimando il servizio militare – si susseguono giri di vite delle libertà personali, disconoscimento dei diritti umani, abusivismo edilizio, corruzione dei funzionari pubblici, familismo di veri e propri padrini come Hamit Vural il Pellegrino: “La moschea alla fine – è lui a parlare – rese felici tutti. I nullatenenti e gli squattrinati di Duttepe e Kültepe […] in quel giorno santo si misero in fila per baciarmi la mano” [p.107].   
 Mevlut, nel candore e nella semplicità del suo vivere, è il personaggio “chiave” del romanzo. Egli accetta di buon grado ciò che il destino gli riserva, senza mai ribellarsi alla sorte e questa arrendevolezza gli sarà imputata a merito. Dagli dei olimpici e sino alle religioni monoteistiche chi vive in umiltà e non si macchia di ubris è ricompensato. Dagli eventi inaspettati o dalle avversità Mevlut trae piuttosto come un senso di colpa, attribuendone la responsabilità alla stranezza che sente di avere nella testa. La stranezza di vivere – sembra suggerire Pamuk dietro le quinte – in un mondo sempre più incomprensibile e colpevole. Così è quando, di leva,  Mevlut è sorpreso dal golpe militare: “Dalle strade deserte al di là dei muri della guarnigione Mevlut si rese conto che in città stava accadendo qualcosa di insolito. L’esercito aveva proclamato lo stato d’assedio e il coprifuoco in tutta la Turchia […] Le strade, che prima erano gremite di contadini, commercianti, disoccupati e schivi connazionali, adesso si erano svuotate, ma per Mevlut era come se tutto questo fosse una stranezza della sua testa […] I militari non maltrattavano più di tanto i ricchi accusati di corruzione. Ai prigionieri politici, in genere comunisti dipinti come «terroristi», invece, praticavano la falaka. Le urla  dei giovani che, dopo essere stati prelevati dalle loro baracche nel corso di un raid della polizia, venivano torturati durante l’interrogatorio, se il vento tirava da quella parte si sentivano perfino alla guarnigione e Mevlut avanzava in silenzio verso la caserma, lo sguardo basso per il senso di colpa” [pp.192-194]. Gioverà ricordare che la falaka è una pratica di tortura tradizionale in Turchia e non solo, consistente in reiterate percosse sulla pianta dei piedi. Una diecina di anni fa, la Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo ha condannato la Turchia per la pratica della falaka nelle carceri.
 E lo stesso atteggiamento Mevlut mantiene quando scopre che la ragazza rapita non è la sua innamorata. Egli non pensa a vendicarsi dell’inganno e sposa volentieri Rayiha che non può rimandare alla casa dei genitori, non tanto per una questione d’onore ma per umana sensibilità. Sarà felice con lei già dal primo momento e ne rispetterà il pudore sino al giorno delle nozze: Mevlut e Rayiha si comportarono come due estranei costretti a dividere la stanza in un motel di provincia: si tolsero i vestiti senza farsi vedere l’una dall’altro e indossarono l’una la camicia da notte, l’altro il pigiama. Fecero in modo di non incrociare gli sguardi, spensero la luce e si coricarono l’uno a fianco dell’altra, lasciando però un po’ di spazio in mezzo […] Quando si svegliò nel cuore della notte, Mevlut era completamente avvolto dall’odore di fragole che emanava la pelle di lei, e dal profumo di biscotti che promanava dal suo collo. Erano sudati per il caldo e in balia delle zanzare. I corpi dei due giovani si abbracciarono con naturalezza. Mevlut, che dalla finestra vedeva il cielo pervinca sopra la città e i neon sugli edifici, pensò per un attimo che fossero volati da qualche parte al di là del mondo, e che fossero tornati alla loro infanzia, in un vuoto privo di forza di gravità.
-Non siamo ancora sposati, - disse Rayiha, e lo respinse” [pp.217-218].

 Sempre fedele a se stesso, Mevlut non cercherà di arricchirsi come i suoi cugini, traendo profitto da fortunate e disinvolte speculazioni protette da politici e padrini, egli  lavorerà tutto il giorno ma solo per mantenere se stesso e la propria famiglia. Mevlut non si occuperà di politica – mentre in poco meno di dieci anni, tra il 1994 e il 2003 Recep Tayyip Erdoğan sarà prima sindaco di Istanbul, poi fondatore del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo [AKP: Adalet ve Kakinma Partisi] e infine presidente del Consiglio – e la sua fede islamica, senza essere un praticante ortodosso, sarà sempre caratterizzata da equilibrio, semplicità e stupore: “- L’uomo è il frutto più alto dell’albero dell’universo, - disse l’anziano uomo dai capelli bianchi, dopo averlo ascoltato con interesse. Non parlava come se mormorasse una preghiera tra sé e sé, come fanno i religiosi anziani. Il fatto che lo guardasse dritto negli occhi come un vecchio amico e gli parlasse in maniera forbita, come a uno studente, piacque a Mevlut […] Esistono due tipi di intenzioni -disse. Mevlut lo sentì chiaramente, memorizzandolo all’istante: LE INTENZIONI DEL CUORE e LE INTENZIONI DELLE LABBRA. Le intenzioni del cuore erano quelle che contavano. Era questo il fondamento di tutto l’Islam” [p.348 e 478]. Del resto, Mevlut ricordava bene quanto aveva detto Ibni Zerhani: solo in paradiso le intenzioni del cuore e quelle delle labbra coincidono.

 Il romanzo di Pamuk si conclude con una settima parte: siamo nel tardo autunno del 2012 e tutto sembra cambiato ad Istanbul, ma Mevlut continua a vendere la sua boza e il suo cuore non è mutato, mentre osserva come siano diverse le forme della città dagli anni della sua giovinezza: “Ciò che voleva dire alla città, che voleva scrivere sui muri, gli era appena venuto in mente. Proveniva da dentro di lui, ed era tutto intorno a lui, era un’intenzione sia del cuore che delle labbra:«Ho amato Rayiha più di ogni altra cosa a questo mondo», disse Mevlut tra sé e sé” [p.575].

sergio magaldi




venerdì 8 settembre 2017

Catalogna al referendum per l'autodeterminazione, Spagna permettendo




 Il braccio di ferro tra governo spagnolo e autonomia catalana sta forse per giungere all'ultimo atto. Il Parlamento catalano ieri notte ha approvato la legge che istituisce il referendum per l’autodeterminazione, annunciandone la celebrazione per il prossimo 1 Ottobre. La legge si compone, oltre che delle disposizioni finali e di  un preambolo per giustificare le ragioni del referendum, di 34 articoli, suddivisi in VI Titoli, l’ultimo dei quali comprende 3 sezioni che disciplinano l’ambito elettorale.

 Ad approvare lo storico provvedimento sono stati i soli partiti indipendentisti del Parlamento catalano che peraltro detengono la maggioranza. I deputati del Partito Popolare, di Ciudadanos e del Partito socialista hanno abbandonato l’aula al momento delle votazioni, mentre gli 11 rappresentanti catalani di Podemos [Catalunya Sì que es Pot] sono rimasti nell’aula e si sono astenuti. La protesta delle opposizioni riguarda innanzi tutto la procedura – definita antidemocratica – imposta dalla presidente del Parlamento, Carme Forcadel, che ha concesso soltanto due ore per dibattere la legge, laddove le opposizioni avevano in mente tempi più lunghi: giorni, forse addirittura qualche settimana.

 Nell’esposizione dei motivi che giustificato il varo di questa legge con procedura d’urgenza si legge tra l’altro in lingua catalana:

 Els Pactes sobre Drets Civils i Polítics i sobre Drets Econòmics, Socials i Culturals, aprovats per l’Assemblea General de Nacions Unides el 19 de desembre de 1966, ratificats i en vigor al Regne d’Espanya des de 1977 - publicats en el BOE, 30 d’Abril de 1977- reconeixen el dret dels pobles a l’autodeterminació com el primer dels drets humans […]. (I patti sopra I Diritti Civili e Politici e sopra i Diritti Economici, Sociali e Culturali, approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre del 1966, ratificati e in vigore nel Regno di Spagna dal 1977 – pubblicati nel BOE, il 30 aprile del 1977 – riconoscono il diritto dei popoli all’autodeterminazione come il primo dei diritti umani […] ).

 La questione non è di poco conto e già su El País di questa mattina interviene nel merito Mariola Urrea Corres, docente di diritto pubblico e direttrice del Centro di Documentazione Europea dell’Università di La Rioja. Dopo aver riconosciuto come “legittima aspirazione politica” la vocazione indipendentistica, la docente sottolinea come la spendibilità giuridica di questa rivendicazione si leghi strettamente alle procedure intraprese per renderla effettiva. Affermazione quanto meno sofistica, considerando che la costituzione spagnola recepisce al suo interno solo il referendum consultivo, tant’è che il governo nazionale, a proposito della legge varata ieri notte dal Parlamento catalano, parla di “illegalità”, “attacco alla democrazia”, “incostituzionalità”, “colpo di stato”. Quali sarebbero dunque le procedure adeguate per promuovere il diritto del popolo all’autodeterminazione? Non lo sapremo mai. Ma la docente così prosegue il proprio ragionamento: “Cataluña no tiene un derecho de autodeterminación en virtud de lo establecido en la Carta de las Naciones Unidas […] El derecho de libre determinación de lo pueblos […] encuentra su razón de ser en el proceso de descolonización o en los supuestos de pueblos anexionados por conquista, dominación extranjera, ocupación o pueblos oprimidos por violación masiva y flagrante de sus derechos. Ninguna de estas circunstancias describe la realidad catalana […]”. (Catalogna non ha un diritto all’autodeterminazione in virtù di quanto stabilito nella Carta delle Nazioni Unite […] Il diritto di libera determinazione dei popoli […] ha la sua ragione d’essere nel processo di decolonizzazione o nel caso di popoli annessi mediante conquista, dominazione straniera, occupazione o di popoli oppressi dalla violazione massiccia e costante dei propri diritti. Nessuna di queste circostanze descrive la realtà catalana […]”.

 Bene, è vero, la Catalogna non è una colonia e neppure vede conculcati i propri diritti, occorre tuttavia tener presenti tre ordini di fattori. Il primo riguarda la storia di questa terra che già nel X Secolo rivendicò e ottenne la propria indipendenza dall’Impero carolingio, che dal XII al XIV Secolo, benché unita al Regno d’Aragona, mantenne sempre un proprio particolarismo legislativo, che fu Principato e poi Generalidad autonoma dal 1365, che per 10 anni, dal 1462, fu attraversata da una guerra civile per rivendicare  la propria indipendenza, che nel 1640 si sollevò contro Aragona e Castiglia unificate. Per non parlare dei secoli successivi, quando si mantenne sempre vivo in questa terra il concetto di popolo-nazione, sino alla strenua e sfortunata lotta in prima linea per la libertà e contro il franchismo. Il secondo fattore riguarda la politica dei governi spagnoli, sorda da sette anni all’approvazione del nuovo statuto catalano. Infine, il terzo fattore riguarda un principio più generale: è chiaro come nessuna costituzione preveda il referendum per l’autodeterminazione [naturalmente posso sbagliarmi], essendo le costituzioni degli stati, così come le conosciamo, soprattutto un patto per unire e non per dividere popolazioni contigue, anche se diverse per lingua, cultura e tradizioni. Resta da chiedersi se questo principio sia giusto e se non sia più democratico prevedere il diritto all’autodeterminazione di un territorio che abbia dalla sua una tradizione secolare di autonomia e un suo Parlamento. Jean Jacques Rousseau ci ha insegnato che il patto sociale non è irreversibile e che la sovranità popolare costituisce il fondamento stesso della democrazia. Questa alienazione della sovranità di ciascuno, non importa se a beneficio di un solo uomo o di molti, di un monarca o di un’assemblea, che si giustifica solo con la semplice promessa di assicurare la convivenza civile, rappresenta per Rousseau l’ennesima mistificazione delle oligarchie del potere, in quanto ratifica lo status quo. In altri termini, se la maggioranza dei rappresentanti eletti dal popolo catalano approva una legge per verificare se esiste ancora da parte dei cittadini la volontà di continuare a far parte del Regno di Spagna o se invece detta popolazione preferisca costituirsi in Repubblica autonoma, questa manifestazione di sovranità popolare dovrebbe essere consentita, senza parlare di attentato alla costituzione o addirittura di colpo di stato e senza perseguire penalmente, come invocano i governanti spagnoli, i responsabili del gesto considerato proditorio: nella fattispecie il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, la presidente del Parlamento, Carme Forcadel e pochi altri. Dal canto suo, il presidente del governo Mariano Rajoy è stato molto esplicito nel dichiarare che questo referendum non si farà [“Faremo il necessario, senza rinunciare a nulla per evitarlo”, ha detto minaccioso] ed ha già promosso ricorso di incostituzionalità, che sarà accolto sin da questa sera. D’altra parte, la legge approvata la scorsa notte per indire il referendum si presenta formalmente corretta, ancorché non sia contemplata dalla Costituzione spagnola vigente. Ne presento di seguito solo qualche estratto nell’originale catalano:

 TÍTOL I. Objecte de la llei  [Oggetto della legge]

Article 1 
Aquesta Llei regula la celebració del referèndum d’autodeterminació vinculant sobre la independència de Catalunya, les seves conseqüències en funció de quin sigui el resultat i la creació de la Sindicatura Electoral de Catalunya. [Questa Legge regola la celebrazione del referendum di autodeterminazione, vincolante sull’indipendenza della Catalogna, sulle sue conseguenze in funzione del risultato, nonché la creazione della Sindacatura Elettorale di Catalogna]

TÍTOL II. De la sobirania de Catalunya i el seu Parlament [Della sovranità della Catalogna e del suo Parlamento]

Article 2 
El poble de Catalunya és un subjecte polític sobirà i com a tal exerceix el dret a decidir lliure i democràticament, la seva condició política. [Il popolo di Catalogna è un soggetto politico sovrano e come tale esercita il diritto a decidere legalmente e democraticamente sulla propria condizione politica]
Article 3 
1. El Parlament de Catalunya actua com a representant de la sobirania del poble de Catalunya. [Il Parlamento di Catalogna agisce come rappresentante della sovranità del popolo catalano]
2. Aquesta Llei estableix un règim jurídic excepcional adreçat a regular i a garantir el referèndum d’autodeterminació de Catalunya. Preval jeràrquicament sobre totes aquelles normes que hi puguin entrar en conflicte, en tant que regula l’exercici d’un dret fonamental i inalienable del poble de Catalunya. [Questa Legge sancisce un regime giuridico eccezionale volto a regolare e a garantire il referendum di autodeterminazione della Catalogna. Prevale in via gerarchica su tutte quelle norme con le quali possa trovarsi in conflitto, nel momento stesso che regola l’esercizio di un diritto fondamentale e inalienabile del popolo catalano]

TÍTOL III. Del referèndum d’autodeterminació [Sul referendum di autodeterminazione]

Article 4 
1. Es convoca la ciutadania de Catalunya a decidir el futur polític de Catalunya mitjançant la celebració del referèndum en els termes que es detallen. [È convocata la cittadinanza catalana per decidere sul futuro politico della Catalogna concernente la celebrazione del referendum nei termini che seguono]
2. La pregunta que es formularà en el referèndum serà: "Voleu que Catalunya sigui un estat independent en forma de república?" [La domanda che sarà formulata nel referendum è la seguente: “Volete che la Catalogna diventi uno stato indipendente di forma repubblicana?”]
3. El resultat del referèndum tindrà caràcter vinculant. [Il risultato del referendum avrà carattere vincolante]

TÍTOL IV. De la data i convocatòria del referèndum [Della data di convocazione del referendum]

Article 9 
1. El referèndum se celebrarà el diumenge dia 1 d’octubre de 2017, d’acord amb el Decret de Convocatòria. [Il referendum si celebrerà domenica 1 ottobre 2017, in conformità con il Decreto di Convocazione]

Disposició final [Disposizione finale]

Primera.- Les normes de dret local, autonòmic i estatal vigents a Catalunya en el moment de l’aprovació d’aquesta Llei es continuen aplicant en tot allò que no la contravinguin. També es continuen aplicant, d’acord amb aquesta Llei, les normes de dret de la Unió Europea, el dret internacional general i els tractats internacionals. [Primo.- Le norme di diritto locale, dell’autonomia e dello stato, vigenti in Catalogna al momento dell’approvazione di questa Legge, si continuano ad applicare per tutto ciò che non contravviene alla Legge stessa. Si continuano anche ad applicare, compatibilmente con questa Legge, le norme di diritto dell’Unione Europea, il diritto internazionale generale e i trattati internazionali]
Segona.- D’acord amb allò que disposa l’article 3.2, les disposicions d’aquesta Llei deixaran de ser vigents una vegada proclamats els resultats del referèndum llevat el que determina l’article 4 quant a la implementació del resultat. [Secondo.-In conformità con quanto dispone l’articolo 3.2, le disposizioni di questa Legge cesseranno di essere vigenti una volta proclamati i risultati del referendum, secondo quanto stabilisce l’artcolo 4, relativamente alla proclamazione dei risultati]

Entrada en vigor [Entrata in vigore]

Aquesta Llei entrarà en vigor el mateix dia de la seva publicació oficial. [Questa Legge entrerò in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione ufficiale]


sergio magaldi 

martedì 5 settembre 2017

L'Italia del pallone alla riscossa



 Tra poco più di un’ora l’Italia del pallone torna in campo contro Israele per giocarsi la qualificazione al campionato del mondo del 2018 o, meglio, dopo la brutta figura rimediata Sabato scorso al Bernabeu di Madrid contro gli spagnoli, per cercare di mantenere i punti di vantaggio sulla terza classificata del girone e garantirsi almeno il diritto a disputare lo spareggio decisivo per andare a Mosca.

 Non che la sconfitta contro la Spagna sia giunta inaspettata, ancorché le sirene mediatiche nostrane proclamassero alla vigilia: “Gli spagnoli si accorgeranno di che pasta è fatto Belotti” o “Ventura ce la può fare”. Non era invece prevedibile [ma solo fino ad un certo punto] una resa incondizionata di quelle proporzioni, con una squadra che si è limitata a veder correre gli avversari, cercando solo di limitare il numero dei goal nella propria porta. D’altra parte, Tavecchio, che ora paventa l’apocalisse se l’Italia sarà esclusa dalla fase finale del campionato del mondo, cosa si aspettava? Affidando la nazionale ad un tecnico che ignora sistematicamente il gioco di centrocampo, e che utilizza un 4-2-4 che ha reso problematiche anche le vittorie contro nazionali di gran lunga meno tecniche di quella spagnola, pensava davvero che l’Italia avrebbe vinto il proprio girone precedendo la Spagna?

 La formazione schierata al Bernabeu era già l’annuncio di una sconfitta, con i soli De Rossi e Verratti a contrastare l’avanzata degli spagnoli, il primo palesemente fuori condizione, il secondo – che le maggiori squadre europee di club si contendono a colpi di milioni – schierato in una posizione non sua [arretrato di almeno trenta metri] a fare da interditore puro, lui che più che altro è un regista di centrocampo e che sarebbe tornato utile in quel ruolo se l’Italia di Sabato sera un centrocampo lo avesse avuto. Con Insigne a fare il trequartista [?!], con Candreva che gioca sempre più per conto suo, con Immobile lasciato vagare per il campo ad acchiappare farfalle, con Belotti abbandonato a se stesso, con Balotelli che avrebbe dato un po’ di fisicità a questa squadra, lasciato per l’ennesima volta a Nizza, forse perché sgradito ai veterani di questa squadra e non solo. Per non parlare dei cambi, operati dal nostro CT dopo circa 70 minuti di gioco [secondo consuetudine degli allenatori], come un normale avvicendamento [sostituendo Belotti, il solo ad aver tirato nella porta avversaria con qualche pericolosità] e come se tutto sino ad allora fosse andato discretamente.  In queste condizioni, si spiega anche – ma solo in parte – il cattivo comportamento della difesa, a cominciare da Buffon, apparso in serata negativa e parzialmente responsabile sui due goal che hanno fatto parlare la stampa spagnola di Isco come di un grande campione, per continuare con Bonucci, in ritardo di forma, e non ancora al livello dello scorso anno, neppure nella nuova squadra di club.

 Insomma, oltre alla tattica e ad una elementare organizzazione di gioco, agli italiani è mancata anche la condizione fisica. Si sa, siamo ai primi di Settembre e il campionato è appena iniziato, ma questo vale anche per i nostri avversari.  C’è solo da chiedersi perché i calciatori spagnoli corrono tanto, mentre quelli italiani camminano.

 Comunque sia, si può stare certi che se questa sera, come sembra probabile, arriverà una vittoria [magari di stretta misura], tutto sarà dimenticato e si tornerà a parlare dei nostri campioni e del buon lavoro del nostro tecnico, nonché della determinazione che ci accompagnerà sino alla vittoria dello spareggio per andare a Mosca.


sergio magaldi