domenica 22 ottobre 2017

LA CRISI CATALANA E L'USO ELETTORALE DELLA RAGIONE

La  risposta della piazza di Barcellona alle misure repressive di Rajoy


 Applicando alla lettera il primo comma dell’articolo 155, nei giorni scorsi Rajoy aveva inviato a Puigdemont, presidente della Generalità Catalana, un “requerimiento”, cioè una richiesta per sapere se nel fatto era stata proclamata

Artículo 155


Articolo 155
1.Si una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general.


1. Ove la Comunità Autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa richiesta al Presidente della Comunità Autonoma e, ove questa sia disattesa con l'approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie por obbligarla all'adempimento forzato di tali obblighi o per la protezione di detti interessi.
2.Para la ejecución de las medidas previstas en el apartado anterior, el Gobierno podrá dar instrucciones a todas las autoridades de las Comunidades Autónomas.


2. Il Governo potrà dare istruzioni a tutte le Autorità delle Comunità Autonome per l'esecuzione delle misure previste nel comma precedente.

l’indipendenza della Catalogna, nel qual caso – specificava la missiva di Rajoy – il governo avrebbe deliberato e poi sottoposto all’approvazione del Senato la sospensione dell’autonomia catalana. Nella risposta, Puigdemont – che in un precedente intervento pubblico davanti all’Assemblea catalana aveva già dichiarato sospesa l’indipendenza – lamentava il silenzio di Rajoy di fronte alla sua offerta di dialogo e l’escalation della repressione con l’arresto di due esponenti indipendentisti: Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, rispettivamente presidenti di ANC [Assemblea Nacional Catalana] e Omnium Cultural. Puigdemont aggiungeva poi, implicitamente rispondendo a Rajoy, che continuando la repressione, la mancanza di dialogo e ove il governo spagnolo avesse applicato il dettato dell’art. 155, il Parlamento catalano avrebbe potuto decidere di sottoporre a votazione la dichiarazione formale di indipendenza. Dunque una repubblica di Catalogna  non c’è mai stata, per il semplice motivo che, secondo l’interpretazione dello stesso Puigdemont, la sua proclamazione spetta unicamente al Parlamento catalano. Sino all’ultimo momento, il presidente spagnolo aveva a disposizione due strade: la prima era accettare il dialogo offerto da Puigdemont, sia pure proponendolo alle sue condizioni e non a quelle del presidente della Generalità; la seconda era quella di convocare il Consiglio dei ministri in applicazione dell’art.155 che prevede in casi eccezionali la revoca delle autonomie comunitarie. Naturalmente, Rajoy ha scelto questa seconda strada e lo ha fatto sulla base di precise considerazioni, nessuna delle quali farà il bene della Spagna. Forte del fatto che numerose imprese e banche catalane hanno trasferito la sede legale dalla Catalogna a diverse località della Spagna, che può contare sull’appoggio non solo di Albert Rivera, presidente di Ciudadanos – un partito costruito ad arte dai popolari del centrodestra per rispondere a Podemos – ma anche di Pedro Sánchez, segretario generale del PSOE [Partido Socialista Ovrero Español], che Filippo VI, re di Spagna, è al suo fianco con un secondo e insulso discorso e che soprattutto l’elettorato spagnolo si attende una risposta risoluta, Mariano Rajoy ha varcato, per così dire, il Rubicone, fiducioso di trarne vantaggi nelle prossime elezioni politiche generali per il suo PP [Partito Popolare, di derivazione neofranchista], anche in considerazione che attualmente il governo monocolore del PP sopravvive con pochi voti di maggioranza. Lo stesso calcolo elettorale deve aver fatto il socialista Sánchez che a differenza di Alicia Romero del PSC [Partito Socialista Catalano, versione catalana dello stesso PSOE] – la quale ha dichiarato ufficialmente: “né il 155, né la dichiarazione di indipendenza” – ha scelto di appoggiare Rajoy nel brandire l’art.155, augurandosi ipocritamente, prima della riunione del Consiglio dei ministri, che l’intervento contro l’autonomia catalana si fosse limitato a convocare elezioni politiche anticipate in Catalogna. Altrettanto ipocritamente, l’ex ministra socialista Carmen Calvo ha dichiarato che sarebbe stato stupendo se Puigdemont avesse convocato nuove elezioni spontaneamente e prima del mese di gennaio.

 Per la verità, le misure annunciate da Rajoy al termine del Consiglio dei ministri, in applicazione dell’art. 155 e che prima di diventare esecutive dovranno essere approvate venerdì 27 ottobre dal Senato, sono persino peggiori di quanto ci si potesse attendere, tant’è che ieri a Barcellona sono subito scesi in piazza più di 450.000 cittadini e Podemos, benché contrario all’indipendenza, parla di un vero e proprio attentato alla democrazia e i socialisti che avevano parlato di “applicazione minimalista del 155” sono divisi tra di loro. Infatti, al di là dell’affermazione incredibile che non viene sospeso l’autogoverno della Catalogna, all’autonomia  sono tolte tutte le prerogative. Destituiti il presidente e la giunta,  ogni potere passa nelle mani del governo di Madrid: dalla TV al sequestro delle risorse economiche, dal comando dei mossos [polizia] alla gestione di nuove elezioni, non più previste per gennaio, come sembrava essere stato concordato con il PSOE, ma nell’arco di sei mesi.

 Non c’è dubbio che l’arma risolutiva fornita a Rajoy per fronteggiare a modo suo la crisi è stata la defezione di alcune banche e di oltre mille imprese che lasciano la sede legale catalana, e sotto questo profilo, occorre riconoscere che neppure Puigdemont e i suoi hanno fatto buon uso della ragione. Prima di gettarsi in questa avventura e arrivare al referendum indipendentista del 1:O, avrebbero dovuto assicurarsi la tenuta di banche e imprese, se non l’hanno fatto è stato per mero calcolo elettorale e oggi devono anche fare i conti con la borghesia catalana, molto sensibile alle questioni di denaro. È vero però che le misure adottate dal governo di Madrid, se soddisfano l’opinione pubblica spagnola, decisamente unionista, non solo non risolvono, ma addirittura inaspriscono il conflitto tra Spagna e Catalogna nella prospettiva di risvolti oggi  ancora impensabili. Se avesse davvero voluto venire a capo della questione, Rajoy avrebbe dovuto lasciare da parte i calcoli elettorali e magari dare ascolto a quanto suggeriva qualche giorno fa il New York Times: accettare il dialogo offerto da Puigdemont per arrivare ad una soluzione concordata che, in cambio della rinuncia alla secessione, ridava ai catalani almeno lo statuto del 2006 che, regolarmente approvato dal Parlamento spagnolo, fu poi revocato a seguito della denuncia presentata alla Corte Costituzionale da parte di alcuni deputati del Partito Popolare di Rajoy, lo stesso partito che ieri ha imposto la repressione dura.

sergio magaldi

  

giovedì 19 ottobre 2017

Il "deicidio" impossibile del popolo ebraico




Fulvio Canetti, Amare Israele, AltroMondo editore, Vicenza, Ottobre 2017



 Una nuova edizione del libro “Amare Israele”, di Fulvio Canetti, pubblicata in questi giorni da AltroMondo Editore. L’autore si batte da tempo per dimostrare che l’accusa di “deicidio” nei confronti del popolo ebraico è alla base dell’antisemitismo di sempre. Non fu il Sinedrio a condannare a morte Gesù – non si stanca di ribadire Fulvio Canetti – bensì Ponzio Pilato, e la versione evangelica di un governatore che se ne “lava le mani” per lasciare la decisione prima al Sinedrio poi alla folla è una tarda ricostruzione antiebraica volta a corroborare la tesi del deicidio commesso dal popolo ebraico. Scrive in proposito Edoardo Recanati nella prefazione del libro: “Dopo faticosi studi di alcuni testi canonici cristiani, valutate le loro discordanze e la loro cecità davanti all’evidenza, Canetti dimostra che fu il governatore Ponzio Pilato ad usare l’inflessibile diritto romano della condanna capitale per i nemici dell’impero, Gesù compreso. Leggere e commentare i Vangeli in chiave anti-ebraica è stato un grosso sbaglio commesso dai cristiani, che hanno voluto ignorare le radici ebraiche di Gesù. Tutto questo ha generato l’antisemitismo religioso del Medio Evo, l’antisemitismo legato alla razza nel XIX secolo e oggi l’antisemitismo connesso con la presenza della Nazione ebraica”.

 Che il “deicidio” sia alla base dell’antisemitismo storico non c’è dubbio, ma come in ogni guerra di religione bisogna chiedersi “chi c’è dietro”. Agitare davanti alle folle il fantasma di un popolo che si macchia del delitto di un uomo riconosciuto come Dio da milioni di credenti è un abile espediente per far breccia nella mente e nell’animo di chi, per le condizioni di ignoranza e di fanatismo in cui è tenuto, non fa uso della ragione. Perché, anche ammettendo per un momento che il Sinedrio e la folla siano i responsabili del “deicidio”, non si vede come questa colpa possa ricadere nei secoli sul popolo ebraico, con ben più valide argomentazioni sarebbe come sostenere che gli americani sono e saranno per sempre razzisti perché hanno avuto il ku klux kan o che i tedeschi, dopo Hitler, siano tutti e per sempre nazisti. Analogamente, se a macchiarsi del cosiddetto deicidio fu Ponzio Pilato, uomo malvagio e governatore di Roma, sarebbe come dire che tutti i romani ne sono i responsabili in eterno. Allora, se il motivo dell’antisemitismo delle folle è giustamente riconducibile al “deicidio”, le vere ragioni dell’odio contro gli ebrei alimentato dalle élite dominanti, quelle che fanno la Storia e non la subiscono, tanto per intenderci, va ricercato altrove. Ma ciò che a Fulvio Canetti interessa è proprio smantellare l’antisemitismo fanatico generato dal pregiudizio, ritenendo dal proprio punto di vista che, se si riesce a demolire questo tragico muro, cadranno anche i presupposti di un odio usato strumentalmente – aggiungerei io – da chi controlla le leve del potere.

 Così, l’autore di Amare Israele porta numerosi argomenti a sostegno della propria tesi: non solo il Sinedrio non era legittimato ad emettere una condanna a morte che spettava solo al governatore romano, ma al suo interno era diviso circa la condotta da adottare. Com’è noto, per esempio, Giuseppe di Arimatea influente membro del Sinedrio era dalla parte di Gesù. Inoltre, Ponzio Pilato aveva i suoi buoni motivi per fare uccidere Gesù, assai vicino – secondo una delle tante possibili ricostruzioni storiche di questo periodo – agli zeloti, tra i più accaniti nemici di Roma e sostenitori dell’indipendenza della Giudea. Scrive Canetti nell’introduzione: «Sulla vita di Gesù sono stati scritti tanti libri, ma pochi, si sono occupati del suo processo nel Tribunale romano di Gerusalemme, condotto da Ponzio Pilato. I fatti accaduti meritano di essere approfonditi, per cercare di far luce sulle circostanze storiche, che hanno prodotto questo evento tanto drammatico, conosciuto nel mondo cristiano come la Passione di Gesù.
Gesù venne condotto di fronte a Pilato, che gli chiese: “Sei tu il re dei Giudei?” “ Tu lo dici” -rispose Gesù- senza negarlo. I Vangeli (Mt 27, 11; Mc 15,2; Lc 23,3; Gv18, 37) concordano unanimi su questo punto fondamentale del processo. La dichiarazione fatta da Gesù di fronte a Pilato, era un atto cosciente di ribellione verso l’Impero. Soltanto Roma poteva nominare un Re nella provincia della Giudea e Pilato non aveva altra scelta che infliggere all’imputato la pena capitale, come previsto dal diritto romano».

 E ancora, entrando nel merito della narrazione, a proposito dei poteri del Sinedrio, Canetti annota: «Il Sinedrio, che amministrava la Giustizia sulla popolazione ebraica, non aveva nessuna facoltà giuridica per emettere una condanna capitale, essendo questa di pertinenza esclusiva del Governatore romano. “A noi (Sinedrio) non è consentito mettere a morte nessuno’’[ Gv18,31]. Lo storico Giuseppe Flavio a riguardo scrive: “Essendo stato il territorio della Giudea, ridotto a provincia di Roma, vi fu mandato un Governatore, investito da Cesare anche del potere di condannare a morte”. Le ragioni di questa scelta da parte romana erano evidenti. Impedire qualsiasi clemenza nei confronti dei ribelli zeloti nemici dell’impero, clemenza che, con un tribunale ebraico, si sarebbe potuta verificare» [p.20].

 L’analisi di Fulvio Canetti è condotta con rigore logico e indubbia oggettività. Così, per esempio, quando ammette la responsabilità della maggioranza del Sinedrio, sotto l’impulso di Caifa, nell’aver voluto consegnare Gesù ai Romani, per timore di rappresaglie imperiali: «La scelta di Caifa fu eloquente: “È meglio che un uomo solo perisca, piuttosto che tutto il popolo” [Gv 11,50]. Caifa credette in questo modo di aver risolto il problema dell’occupazione romana della Giudea, ma il nodo scorsoio si ripresentò circa 40 anni dopo, il cui risultato fu la distruzione di Gerusalemme. L’impero di Roma non faceva sconti a nessuno, come in modo errato aveva creduto l’aristocrazia ebraica del Tempio, venduta e collaborazionista» [ibid.].

 Giustamente osserva l’autore che «Autoproclamarsi Messiah non è affatto una “bestemmia’’ per la legge ebraica, come sostenuto dalla narrazione evangelica», mentre lo è di sicuro dichiararsi “Figlio di Dio”, per l’infinita distanza che nella religione ebraica deve essere mantenuta tra l’uomo e il suo Creatore. Autoproclamarsi “re dei Giudei” è invece la testimonianza della pericolosità di Gesù, amico dei zeloti, per la pax romana e l’ordine sociale accettati da quella che Canetti chiama “l’aristocrazia ebraica del Tempio”. Il sospetto è  che questa aristocrazia “venduta e collaborazionista” non abbia inteso o non abbia voluto intendere con quale spirito Gesù affermasse di essere figlio di Dio, nel senso cioè che lo è ogni essere umano. Quanto alla denominazione di “re dei Giudei” sembra piuttosto attribuzione di altri, amici o nemici che fossero di Gesù. Insomma, comunque siano andate le cose, Fulvio Canetti analizzando momento per momento il processo a Gesù, giunge ad una conclusione opposta a quella di una tradizione più accreditata e malevola verso gli Ebrei: non fu Ponzio Pilato a “lavarsene le mani”, bensì il Sinedrio, per timore dei Romani, mentre della condanna a morte di Gesù il solo responsabile fu il governatore di Roma: «Dopo questi avvenimenti, Gesù venne messo nelle mani di Pilato. La città di Gerusalemme era alla vigilia della Pasqua ebraica (Pesah). Il popolo, affaccendato nei preparativi per la festa imminente, era preso dai propri impegni e lontano dagli avvenimenti, che si stavano svolgendo in modo drammatico. Un momento ideale per celebrare un processo. La stanza del tribunale detta “Secretarium”, era un luogo vietato al pubblico. Le guardie ebraiche, non ebbero difatti il permesso di entrarvi. Un processo senza “testimoni”  […] I soldati romani, che avevano crocefisso Gesù, si divisero le sue vesti, tirando a sorte. Era una consuetudine, per la quale il vincitore prendeva per sé le vesti del condannato. Al tramonto, il facoltoso fariseo Giuseppe di Arimatea, membro del Sinedrio, si recò da Pilato a richiedere il corpo di Gesù per la sepoltura nella sua tomba di famiglia. Ora, tale circostanza, offre due spunti interessanti di riflessione sull’andamento del processo, che conferma le nostre certezze. La prima fa pensare che Gesù fosse tra gli ispiratori della rivolta contro Roma, per le sue “connivenze” con personalità ebraiche influenti, come Giuseppe di Arimatea, membro del Sinedrio. La seconda chiarisce l’andamento del processo. Gesù non ricevette la condanna capitale dal Sinedrio come sostenuto dalla narrazione evangelica»[pp.20 e 25].

 Dopo la ricostruzione del processo, Fulvio Canetti affronta nei capitoli successivi la questione delle conseguenze storico-politiche dell’accusa di “deicidio” nei confronti del popolo ebraico. Sotto questo profilo fu determinante la divisione della Chiesa di Gerusalemme tra Giacomo, fratello di Gesù, che raccomandava agli adepti cristiani l’osservanza dei precetti ebraici e Paolo di Tarso che costruì poco a poco un cristianesimo in funzione antigiudaica con tutto ciò che ne sarebbe derivato per gli ebrei: ghettizzazione, pogrom, campi di sterminio. L’auspicio dell’autore è la continuazione del dialogo ebreo-cristiano e che, pure nella diversità, si possa amare Israele.

sergio magaldi







Fulvio Canetti, Amare Israele, AltroMondo Editore, Vicenza, ottobre 2017
Prezzo:
€ 10,00
ISBN:
9788899658892
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sabato 14 ottobre 2017

Cos'è IL PARTITO DEMOCRATICO PROGRESSISTA, cosa vuole essere?






 Un nuovo soggetto politico si aggira per la rete, o meglio ciò che per ora si lascia intravedere è solo una “cosa” con molto di nuovo, ma ancora “in nuce” e sottoforma di futura Assemblea Costituente. Si tratta del Partito Democratico Progressista [PDP], www.partitodemocraticoprogressista.it [per partecipare all’Assemblea Costituente basta entrare nel sito ed iscriversi], una neoformazione che a prima vista sembra la sintesi dei due partiti attualmente esistenti di centrosinistra. Sembra, ma non è così, se appena si dà uno sguardo ai 21 punti fondativi che saranno sottoposti all’Assemblea Costituente. Vi si coglie, innanzi tutto, la necessità di un rovesciamento di prospettiva, con l’affermazione del primato della politica sull’economia: le scelte politiche non vanno subordinate alle teorie economiche neoliberiste, com’è purtroppo nello spirito e nella prassi di tutti i partiti del panorama politico italiano. Il neoliberismo, infatti, si mostra sempre più funzionale al modello di sviluppo del capitalismo finanziario e delle élite internazionali con la globalizzazione selvaggia, la delocalizzazione delle imprese, la riduzione delle tasse per i grandi monopoli e la decurtazione dei salari e delle retribuzioni, per una politica che impone ai governi l’austerità, la progressiva eliminazione del welfare e il pareggio di bilancio, con la costante emarginazione sociale e l’impoverimento di strati crescenti di popolazione e con l’arricchimento abnorme di ristrette oligarchie. 

 L’offerta politica del costituendo PDP si basa su una lettura semplice della realtà: le forze che si richiamano al centrosinistra e persino alla sinistra denunciano sempre più, con il frazionismo che le caratterizza, la sostanziale accettazione del modello di sviluppo proposto dall’egemonia del capitale finanziario, differenziandosi solo circa le misure effimere da adottare per rendere tale modello maggiormente digeribile a quello che si ritiene essere l’elettorato tradizionale di riferimento. Le forze che si richiamano al centrodestra si dividono tra quanti sostengono apertamente la logica dello sviluppo selvaggio e quanti, animati di fervore popolare, ritengono di potersene liberare semplicemente ritagliandosi uno spazio regionale e/o nazionale, con politiche neoprotezionistiche e vagheggiando l’uscita dall’euro o addirittura dall’Europa. Infine, il Movimento Cinque Stelle – al quale occorre riconoscere il merito di aver cercato di opporsi alla deriva del centrosinistra e del centrodestra – denuncia sempre più la mancanza di una classe politica all’altezza della situazione, l’isolamento e la vaghezza di un progetto politico che si limita ad alcune rivendicazioni sociali, senza tuttavia affrontare alla radice il problema del modello di sviluppo che si intende perseguire. Con in più il rischio dell’accerchiamento, come dimostra la nuova legge elettorale, per aver lasciato cadere il cosiddetto modello tedesco e prima ancora per non aver avuto la lungimiranza politica di prevedere, a suo tempo, ciò che era abbastanza prevedibile e cioè che una volta cancellato l’italicum – la legge elettorale maggioritaria che avrebbe favorito il governo del partito più votato e dunque con ogni probabilità il Movimento Cinque Stelle – le forze concorrenti di centrodestra e di centrosinistra avrebbero fatto di tutto per vedere assottigliata, nelle prossime elezioni politiche generali, la rappresentanza parlamentare del Movimento.  

 Secondo il Partito Democratico Progressista, il rovesciamento dell’attuale prospettiva politica, con la conseguente subordinazione dell’economia al modello di società che si intende realizzare, diventa possibile attraverso una triplice sfida: 1) l’introduzione di “politiche economiche di carattere fortemente espansivo” ispirate dalla grande tradizione keynesiana, opportunamente modificata dalle esigenze contemporanee, 2) la formazione di una classe politica incorruttibile, 3) la piena occupazione, con la reale applicazione del 4° Principio Fondamentale della Costituzione Italiana: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilita` e la propria scelta, una attivita` o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa`.

 A differenza di altre formazioni politiche, qui almeno le idee sono chiare e anche le parole con cui sono espresse. Restano tuttavia diversi interrogativi: come si può essere certi che “politiche economiche di carattere fortemente espansivo” siano in grado di dare i risultati auspicati e cioè la crescita economica e la progressiva realizzazione della piena occupazione? E ancora: dando per scontata la bontà di queste teorie, sulla base di precedenti storici e di politiche simili messe in campo nel presente e con successo da paesi a sovranità monetaria, come sarebbe possibile introdurre i principi del keynesismo, sia pure aggiornato, in un paese che fa parte di un’Europa dominata dalla moneta unica, dalla Germania e dalle teorie neoliberiste? Il rischio dell’isolamento e del boicottaggio economico sarebbe dietro l’angolo. E se anche fosse possibile esportare tale modello di sviluppo in altri paesi dell’Unione Europea, per quale motivo le élite finanziare internazionali dovrebbero stare a guardare, rinunciando ad un progetto di egemonia a lungo coltivato e realizzato con scientifica determinazione? È auspicabile che l’Assemblea Costituente del nuovo partito sciolga questi nodi, ma intanto occorre sottolineare il coraggio di una costituenda forza politica che invita i cittadini a passare all’azione per evitare che il cerchio si chiuda in una sorta di neofeudalesimo sociale.

 Un altro interrogativo è presente nell’affermazione di voler realizzare “una classe politica incorruttibile”. Anche su questo punto occorrerà fare chiarezza, indicando esplicitamente le misure che si intendono adottare per raggiungere l’obiettivo, diversamente c’è il rischio di una dichiarazione di principio non troppo dissimile dal grido “Onestà…onestà” che si sente risuonare nelle adunate del Movimento Cinque Stelle, con il quale, almeno su questo punto, varrebbe la pena di incontrarsi e di confrontare le idee.

 Lasciano infine perplessi i punti che si richiamano all’Europa, per la quale si auspicano l’unità politica, forse federativa, e una costituzione largamente condivisa “con l’obiettivo di tutelare democrazia, sovranità popolare, stato di diritto e giustizia sociale”, ma si ammette addirittura la possibilità, per così dire, di un passo indietro qualora non si realizzi l’ideale: “In alternativa, provvisorio ritorno alla sovranità nazionale per realizzare i medesimi obiettivi. Essendo inoltre la nuova “Unione Europea” - o i futuribili Stati Uniti d'Europa - non un fine, ma un mezzo per affermare i valori democratici di sovranità popolare, giustizia sociale e stato di diritto, noi del PDP riterremmo inevitabile uscire da questa confederazione di Stati qualora non fosse più possibile portare avanti i valori fondanti della società europea all’interno dell'attuale UE. Tale uscita sarà giustificata dalla necessità e dall'opportunità di realizzare i suddetti valori e principi a livello nazionale, in attesa di tempi migliori, e sarà comunque accompagnata dall’avvio di un nuovo processo federativo e costituzionale che possa garantire un progetto politico europeo comune. Un progetto di cui la sovranità popolare e monetaria dei popoli del vecchio continente sia presupposto irrinunciabile”.

 Tutti gli altri punti fondativi sembrano coerenti con l’idea di democrazia e di progresso che costituiscono la bandiera di questo nuovo partito: dalle misure concrete per valorizzare, finalmente e dopo tante inutili chiacchiere dei partiti tradizionali, “il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, non solo a testimonianza della storia di un popolo antico e della sua inesauribile creatività, ma anche al fine di realizzare – attraverso una moderna ed efficiente gestione pubblica – la creazione di nuovi posti di lavoro”; ad una politica che metta la Scuola, l’Università e la Ricerca “al centro degli interessi strategici dello Stato”, con la rivalutazione sociale, professionale ed economica del ricercatore e del docente di ogni ordine e grado; ad un sistema sanitario nazionale finalmente efficiente; ad un sistema bancario in grado di distinguere tra banche d’affari e banche per il credito alle famiglie e alle imprese; all’effettiva applicazione delle norme costituzionali, con l’introduzione di forme sostanziali di democrazia diretta e così via.

 Nonostante una certa rigidità dei principi fondamentali di questo nuovo Manifesto Politico, occorre riconoscere la liberalità con cui si guarda alla futura Assemblea Costituente, dando mandato agli iscritti, individui e gruppi, di elaborare lo statuto e un reale programma di governo. Si legge infatti al termine dei 21 punti fondativi: “Iscriversi all’Assemblea Costituente del PDP significa – per singoli cittadini delusi dall’inconsistenza dell’offerta politica corrente, per gli aderenti a gruppi, movimenti e partiti politici che si sentano alternativi agli ormai logori e insignificanti “centrodestra” e “centrosinistra” tradizionali, per gli stessi militanti, attivisti, dirigenti e rappresentanti istituzionali di quelle forze politiche che hanno deluso gli interessi degli italiani dal 1992 in avanti – partecipare alla costruzione di una nuova, inedita e solida Casa Comune. Tutti i costituenti, individualmente o organizzati legittimamente in correnti (in quanto magari aderenti in blocco come membri di associazioni, movimenti o partiti pre-esistenti) avranno la stessa titolarità e sovranità nel discutere, determinare la confezione e l’approvazione dello Statuto PDP e nell’elaborare un preciso programma di governo per l’Italia e i suoi territori”.

 In definitiva, al di là della comprensibile diffidenza con cui è legittimo osservare la nascita di una nuova formazione politica, occorre riconoscere al costituendo Partito Democratico Progressista la capacità di mettere al centro del dibattito politico tutta una serie di questioni per dare ai cittadini nuova consapevolezza e fiducia nella gestione della cosa pubblica.

sergio magaldi



mercoledì 4 ottobre 2017

Il DISCORSO DI FILIPPO VI alimenta il fuoco catalano




 Il discorso di Filippo VI denuncia un atteggiamento persino più duro di quello di Rajoy, senza una parola per le violenze governative del giorno del voto e senza nessuna apertura di dialogo con la Catalogna. La Corona di Spagna ha fatto la sua scelta.

S.M.

lunedì 2 ottobre 2017

LEGGE E MAZZATE NON FERMANO IL VOTO CATALANO



 In una scena di Le voci di dentro di Eduardo, Carlo Saporito chiede al brigadiere cosa possa capitare al fratello Alberto che ha denunciato la famiglia Cimmaruta di aver commesso un delitto e che ad un certo punto non è più sicuro se il fatto l’ha visto o lo ha soltanto sognato:

CARLO Brigadie', ma la famiglia Cimmaruta, diciamo... oltre al fatto che possono prenderlo a mazzate, legalmente possono far niente?
ALBERTO O legalmente o a mazzate, non è che possono fare tutte e due le cose!

 La LEGGE o le MAZZATE precisa Alberto a suo fratello prima che il brigadiere risponda e la precisazione, ancorché susciti l’ilarità del pubblico, ha una sua razionalità intrinseca. Quella razionalità di cui Mariano Rajoy, presidente del governo spagnolo, non ha fatto tesoro nell’affrontare la questione del referendum catalano. Prima si è servito della legge per farlo dichiarare incostituzionale, poi ha mandato la Guardia Civile con le pallottole di gomma, i gas lacrimogeni e i manganelli per evitarne la celebrazione. Con la conseguenza che ci sono stati più di 800 feriti e che le scene di violenza contro gente inerme, anche anziana, sono apparse su tutte le televisioni del pianeta. Con il risultato che circa due milioni e mezzo di cittadini catalani sono riusciti ugualmente a votare pronunciandosi per il Sì all’indipendenza della Catalogna al 90 per cento.

 

 In un recente post, prima del voto [vedi “GIALLO SPAGNOLO: tra meno di 24 ore riusciranno i cittadini catalani a votare?” e clicca sul titolo per leggere], sostenevo che l’atteggiamento tenuto negli ultimi anni dal Partito Popolare di Rajoy nei confronti della Catalogna - un partito che “raccoglie” al suo interno ex-gerarchi del franchismo e che governa la Spagna con una sorta di monocolore che si sostiene con l’astensione del Partito Socialista (PSOE) - rischiava di dare legittimità alla causa dell’indipendenza catalana. Dopo i fatti di ieri in cui si è esercitata una violenza inutile, non solo la Catalogna si allontana sempre di più dalla Spagna ma aumenta nell’opinione pubblica mondiale la simpatia verso questo popolo che ha dato prova di coraggio e di determinazione. È vero che in rete si aggirano i soliti dietrologi e complottisti, pronti a sostenere con disinvoltura che la crisi spagnola è voluta dall’Unione Europea e magari dagli USA,  che sarebbero allarmate dal recente sviluppo e benessere della Spagna e/o che dietro la rivendicazione dell’indipendenza e del patriottismo si cela in realtà il disegno di ricche oligarchie che vogliono pagare meno tasse e soprattutto che non vogliono condividere le proprie risorse con le regioni più povere e che a questo fine chiamano il popolo “bue” alla rivoluzione. Qualche altro sostiene poi che dietro ci siano anche Putin e i cinesi e perché no anche gli extraterrestri e gli elohim? Se in buona fede, queste tirate dimostrano scarsa conoscenza del presente e della Storia. In Spagna, è vero, c’è stata una certa ripresa, ma il Paese è fortemente indebitato con il Fondo Monetario Internazionale, la disoccupazione è maggiore che in Italia, le pensioni per legge non possono superare i 2500-3000 euro, i posti di lavoro sono sempre più precari e mal retribuiti, la corruzione è alta. Quanto alla Catalogna, la questione dell’indipendenza non è di questi anni e non può essere attribuita al progetto di “ricche oligarchie”, perché risale all’epoca dell’impero carolingio, passa per la guerra di successione spagnola, giunge sino alla lotta antifranchista e così via, ma di questo ho già parlato in altri post [vedi sopra].

 

 Cosa accadrà ora? L’impressione è che il braccio di ferro tra Madrid e Barcellona continuerà ancora. Ciudadanos, il partito di centrodestra, appendice populista del PP, per bocca della sua leader Inés Arrimadas ha chiesto a Rajoy di applicare l’articolo 155 della Costituzione spagnola per poi procedere a nuove elezioni politiche in Catalogna che sottraggano la maggioranza ai partiti indipendentisti. Misura grave e niente affatto sicura dopo il referendum e i fatti di ieri.  


Artículo 155


Articolo 155
1.Si una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general.


1. Ove la Comunità Autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa richiesta al Presidente della Comunità Autonoma e, ove questa sia disattesa con l'approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie por obbligarla all'adempimento forzato di tali obblighi o per la protezione di detti interessi.
2.Para la ejecución de las medidas previstas en el apartado anterior, el Gobierno podrá dar instrucciones a todas las autoridades de las Comunidades Autónomas.


2. Il Governo potrà dare istruzioni a tutte le Autorità delle Comunità Autonome per l'esecuzione delle misure previste nel comma precedente.

 Dal canto suo, il Presidente della Generalità Catalana, Carles Puigdemont, potrebbe già da Mercoledì prossimo dichiarare l’indipendenza e avvalersi della Legge di Transitorietà Giuridica e Fondativa della Repubblica approvata dal Parlamento catalano il 7 di settembre u.s., in previsione della vittoria del Sì nel referendum. Vi si dice tra l’altro che la Catalogna sarà “una repubblica di diritto, democratica e sociale”, che negozierà il suo debito con la Spagna, che i cittadini catalani potranno conservare anche la nazionalità spagnola, che saranno tre le lingue ufficiali: catalano, castigliano e aragonese, che si terranno elezioni costituenti e che il nuovo Parlamento si trasformerà in Assemblea Costituente per dare una nuova costituzione alla Catalogna, che il capo di Stato della Repubblica sarà il Presidente dell’Amministrazione della Generalità.

 Le previsioni? Rajoy applicherà l’art. 155 con nuove elezioni politiche in Catalogna per liberarsi del Presidente e della giunta indipendentista. La soluzione più razionale? Quella proposta dal leader di Podemos: dimissioni di Mariano Rajoy e una maggioranza diversa per negoziare con il parlamento catalano un nuovo statuto, così da preservare l’unità della Spagna.


sergio magaldi