domenica 31 dicembre 2017

NOTE SULLA QABBALAH: parte III, astrologia cabbalistica



 

 

SEGUE DA:


NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia  (clicca sul titolo per leggere)

 

Avvertenza: per leggere le lettere ebraiche occorre il font hebrew

 

 ASTROLOGIA CABBALISTICA


 Il Dragone o Telì o Asse del mondo riveste una grande importanza nelle speculazioni cabbalistiche: nel Sèpher Yezirah è detto che ‘il Dragone è nell’Universo come un re sul suo trono’(S.Y.,6:3). Telì è per molti cabbalisti l’occhio immaginario attorno al quale ruotano i cieli, il luogo dove tutto è appeso, dalla radice Talah (appendere). I due punti in cui l’orbita di un pianeta interseca il piano dell’eclittica sono detti capo (nodo ascendente) e coda (nodo discendente) del Dragone. La caratteristica dei due nodi è di formare un Asse (Axis Mundi) che appunto è Telì. Secondo Abulafia[1] la testa del Telì significa merito, mentre la coda significa responsabilità e rappresentano entrambi il punto d’incontro del mondo fisico col mondo spirituale. Per gli Esseni, in particolare, Telì consente di rivelare le caratteristiche della natura umana, giacché  ogni essere umano possiede 9 parti di spirito buono e 9 di spirito malvagio (i 7 pianeti + i 2 nodi lunari). In ogni uomo c’è una mistura dei due: nel più favorito predomina lo spirito buono e viceversa. Osservando lo zodiaco di ciascuno è possibile rintracciare queste parti di luce e di tenebra presenti in lui, considerando che sopra l’orizzonte si trova la luce e al di sotto le tenebre. Gli Esseni,[2] nel tracciare gli oroscopi, davano molta importanza ai nodi lunari che insieme ai 5 pianeti, al Sole e alla Luna, formavano le cosiddette ‘nove parti’. Il pronostico, fatto sul tema di nascita, era favorevole quando la luce prevaleva sulle tenebre, quando cioè le ‘nove parti’ erano in prevalenza nel cosiddetto emisfero di luce, individuato al di sopra dell’orizzonte. Nessun uomo, naturalmente, era interamente nella luce o interamente nelle tenebre perché il nodo lunare nord (testa del Drago) si trova di necessità sopra l’orizzonte e il nodo lunare sud (coda del Drago) sotto l’orizzonte. Il più puro o ‘illuminato’ era dunque colui che aveva ‘sette parti’ (oltre alla testa del Drago) sopra l’orizzonte, il più impuro quello che aveva le ‘sette parti’, cioè i 5 pianeti e i due luminari oltre alla coda del Drago) al di sotto.

 Uno specifico interesse per l’astrologia fu presente anche nelle prime scuole di Qabbalah storica. Alcuni scolari del grande Isacco se ne occuparono particolarmente: Azriel di Girona, Nachmanide suo discepolo e autore fra l’altro di un commento del Pentateuco, e i meno noti Ezra di Girona, forse fratello di Azriel, e Jacob ben Sheshet. Nei suoi commentari, Azriel sviluppa la tesi che l’uomo saggio e pio può correggere ciò che nel suo destino è sfavorevole, mentre l’uomo malvagio finisce con l’annullare ciò che il destino gli ha riservato di favorevole. Egli sottolinea l’interrelazione dei destini umani e ritiene che per coloro che si siano pentiti durante lo Yom Kippur, o giorno di espiazione e di purificazione, si danno due possibilità: se, dopo il pentimento, cadono nuovamente nel peccato, ciò che di positivo c’era nel loro destino si realizza ugualmente senza tuttavia che possano approfittarne. Se, invece, non si sono pentiti nel giorno stabilito (Yom Kippur) ma lo fanno successivamente, ciò che di negativo c’era nel loro destino si verifica ma per loro non produce effetti malefici.

 Il discepolo di Azriel, Nachmanide si occupa di astrologia nel Commentario del Deuteronomio, 18:9, riconoscendo che per volontà divina gli astri esercitano la loro influenza sugli uomini e che agli angeli è assegnato il compito di regolare tale influenza. Egli raccomanda comunque di tener conto delle indicazioni di astri e costellazioni e soprattutto di fare penitenza nei giorni cosiddetti sfavorevoli. Di un anonimo cabbalista è il Sepher Halevana o ‘Libro della Luna’, citato da Nachmanide e dove sono esaminate le 28 dimore della Luna, quelle favorevoli e quelle sfavorevoli, nonché i relativi talismani.

 Il rapporto angeli-astri è invece ripreso da Jacob ben Sheshet il quale sostiene che il destino di ognuno è simbolicamente descritto nel suo tema natale e che gli angeli eseguono il volere di Dio, scritto negli astri sin dai giorni della creazione. Gli angeli, tuttavia, nell’eseguire la volontà divina, possono sfumare i significati del destino perché se gli astri garantiscono l’ordine dell’universo e rappresentano, usando il linguaggio aristotelico, la ‘Potenza’ di ciò che deve accadere, gli angeli sono gli strumenti della Provvidenza e gli artefici del passaggio dalla ‘Potenza all’Atto’. Nel commentario al trattato talmudico Moed Katan, Jacob ben Sheshet sostiene che se il giusto può annullare o modificare il decreto degli astri, su tre cose tuttavia gli riesce difficilmente intervenire: sul numero dei figli, sulla lunghezza della vita e sulla ricchezza. Può solo sperare di modificarle supplicando e moltiplicando le sue preghiere, in aggiunta all’osservanza dei Mitzvoth e al merito personale.

 In diversi passi dello Zohar è ripresa la problematica talmudica sull’astrologia, in particolare per ciò che riguarda la discendenza di Abramo. Nel trattato Lekh Lekha 78a la questione è risolta al modo di Filone di Alessandria[3] e in Pinhas (Numeri) 216b è detto chiaramente che il destino di Abramo fu modificato dall’aver egli cambiato di residenza (le ‘migrazioni’ di cui parla Filone) e dall’aver aggiunto la lettera He al suo nome, perché tale lettera simboleggia i 5 libri del Pentateuco e della Torah. Analogamente, se, in passato, il numero dei figli, la durata della vita e la ricchezza erano determinati dagli astri, da quando Israele ha ricevuto la Legge tutto ciò è stato modificato.

 Nel trattato Vayéshev 180b è detto che i nati nel giorno della Luna nuova –  allorché il luminare scompare dal cielo e Ghevurah-Rigore si impone nell’universo –  dovranno sopportare povertà e ogni genere di sofferenza e ciò prescindendo dal fatto che siano giusti o empi. Tuttavia, la preghiera potrà migliorare la loro sorte. Al contrario, chi nasce di Luna piena godrà di ogni bene, di figli e di buona salute. Il rapporto angeli-astri è invece contenuto in un altro trattato zoharico (Teroumah, 171b-172b), col dire che ogni stella, pianeta o costellazione ha il suo angelo in grado di governare gli eventi e il destino.

 Infine, in Jethro, 76a-b è detto che gli astri lasciano sul viso e sul corpo dell’uomo i segni del destino, proprio come nel firmamento: “Così come nel firmamento sono incisi gli astri e altri segni leggibili ai saggi, sulla pelle che ricopre ogni uomo sono incise rughe e linee che non hanno segreti per i saggi, soprattutto rughe e linee del viso…”. La Fisiognomica o arte di individuare le caratteristiche psichiche e morali delle persone dal loro aspetto fisico, è oggetto di specifica trattazione nello Zohar, come si vedrà nel seguito con gli ampi riferimenti di Federico Pignatelli.

 Lo stesso Sepher Yetzirah offre ai cabbalisti dell’area provenzale e sefardita più di uno spunto per occuparsi di astrologia, tant’è che Maimonide, che vede nell’astrologia una forma di astrolatria, se ne lamenta in una lettera ai rabbini di Provenza del 1194, rimproverando le comunità ebraiche del Mediterraneo di praticare diffusamente l’astrologia oraria. [4] Nel  Sepher Yetzirah [1:8] si fa riferimento, oltre che alle dieci Sephiroth che molti cabbalisti considerano in analogia coi pianeti, alle Hayot o ‘creature viventi’ della visione di Ezechiele, che Ibn Ezra considera in analogia coi segni zodiacali. In 2:4, in relazione alle 231 Porte della Conoscenza di cui accennerò subito dopo, è nominata la ruota dello Zodiaco o Galgal e da 4:7 a 4:14 si parla dei sette pianeti. In 5:4 sono citate le 12 costellazioni dell’universo (i cui nomi corrispondono ai 12 segni zodiacali). Inoltre, sempre a partire dal Sepher Yetzirah, con una semplice operazione, che consiste nell’ unire ciascuna delle tre lettere madri alle lettere di ciascun segno zodiacale, è possibile conoscere le caratteristiche di ogni segno. Abbiamo così, unendo la Alef a alle lettere dei tre segni di Aria: Az  z a (Gemelli) che significa ‘allora’, El l a (Bilancia) che è uno dei nomi di Dio, Atz  x a (Acquario) che significa ‘affrettarsi’. Unendo poi la lettera Shin c alle tre lettere dei segni di Fuoco: h c Sheh (Ariete) che è il capo del gregge e il cui valore numerico, 305, forma significative ghematrie: Or Tzach: j x r w a ‘Luce ripulita’ e Orlah  h l r u ‘Prepuzio’. Dall’unione delle lettere corrispondenti agli altri due segni di fuoco abbiamo: f c Shat (Leone) che significa ‘ribelle’ e s c Shas (Sagittario), le cui due lettere rappresentano Shishah Sidrey (‘Sei ordini’), cioè l’abbrevazione dell’intero Talmud e la cui principale ghematria, con valore di 360, è Sikhli ‘intellettuale’  y l k c. L’unione della Mem m con le lettere della triplicità di Acqua forma rispettivamente: \ j Cham (Cancro) che significa ‘caldo’, } m  Min (Scorpione) cioè ‘sesso’ o ‘specie’ e  q m  Mem-Quf (Pesci) radice che indica lo ‘stare in piedi’, il ‘sostenere’. Infine, l’unione della stessa lettera madre, la Mem, con le lettere della triplicità di Terra forma: w m Mu (Toro) cioè il suono onomatopeico dell’animale, y m  Mi (Vergine) che significa ‘Chi?’ e bene indica la curiosità dei nativi di questo segno zodiacale, e ancora: \ u Am Capricorno) che vuol dire ‘popolo’.






[1] Abraham Abulafia (1240-1291?) Cabbalista itinerante, fu in Grecia dove forse subì l’influenza dell’Esicasmo cristiano, in Israele, in Italia, a Capua dove gli fu maestro Rabbi Hillel di Verona, in Catalogna, in Castiglia dove ebbe numerosi e importanti discepoli e, infine, in Sicilia dove, con molta probabilità terminò la sua vita. Famoso il suo tentativo di incontrare il Papa Niccolo III nel 1280 presso il castello Orsini di Soriano, nonostante le minacce papali di rogo. Il Papa che si era rifiutato d’incontrarlo e che lo aveva minacciato di morte, morì all'improvviso.  Abulafia conobbe l’ostilità tanto dell’ambiente ebraico–cabbalistico quanto di quello cristiano. L’ossessione, per così dire, che egli manifesta per l’Uno e per l’Unità (Ichud) lo porta a polemizzare aspramente col concetto cristiano di Trinità, mentre, sul versante cabbalistico, lo induce al conflitto con la cosiddetta Qabbalah delle Sephiroth, di fronte alla quale, sulla scia di Isacco il Cieco, ripropone con forza la Qabbalah del nome di Dio e delle ventidue lettere dell’alfabeto con cui Dio formò il mondo. Abulafia è ritenuto, l’iniziatore di una Qabbalah estatica o profetica. Ma, a parte la considerazione che molti dei temi da lui trattati erano stati già affrontati da Isacco il Cieco e dalla sua scuola, la stessa pratica della concentrazione e della meditazione non era mai venuta meno nella tradizione ebraica. Già la preghiera era sempre stata uno strumento di meditazione (soprattutto L’Amidà e lo Shemà Israel), come pure l'uso di prendere un versetto della Bibbia come oggetto di meditazione, la concentrazione per la conoscenza del sé o hitbonenuth (già utilizzata da Maimonide) che può prendere a riferimento una pietra, una foglia, un fiore, un'idea ecc...ma che ha lo scopo la comprensione di se stessi alla luce degli altri oggetti della manifestazione. Noto era anche l’uso del mantra (Ribbonò shel Olàm, ‘Padrone dell'Universo’, il più importante) per il mantenimento della concentrazione. L’originalità di Abulafia, tuttavia, consiste nell’aver saputo distinguere tra contemplazione semplice e concentrazione capace di condurre sino alla visualizzazione. L’esperienza mistica della visione dei colori ( per esempio, i cinque colori che si sprigionano dal lume di una candela o da una lampada ad olio: biancogiallorosso neroazzurro) è da lui considerata la più semplice tra quelle consentite dalla Qabbalah, ma è di grande importanza perché rappresenta lo stadio iniziale di ogni ulteriore e più complessa visualizzazione. Il valore numerico di Machazeh, visione è 60, con lo stesso valore di: Kli  recipiente (uno dei 72 nomi di Dio), Ganaz nascondere, Hineh  ecco! Halakhah  regola di vita, Gaon  sapiente. In Abulafia è anche frequente la ghematria ha Machazeh (65) la visione con Adonai (65), terzo tra i nomi correnti di Dio, dopo il Tetragramma ed Elohim. La meditazione vera e propria, per Abulafia, è tuttavia quella che si esercita attraverso la contemplazione delle lettere dell’alfabeto, a cominciare dalle tre lettere madri: Alef  Mem  Shin e dal nome di Dio di quattro lettere (Tetragramma), anche ricorrendo alla tecnica della permutazione o temurah. La meditazione sul Tetagramma può cominciare dalla consapevolezza di uno dei suoi significati: la prima lettera, la Yud è la moneta  o la vita, la seconda, la He  è la mano divina che dona la vita, la terza lettera o Waw è il braccio che si tende per donare, la quarta lettera, infine, o seconda He e la mano di chi riceve. Un’altra meditazione raccomandata da Abulafia è quella su Ayn, nulla, alla quale si può accedere fingendo di contemplare ciò che si vede dietro la nostra testa, oppure mettendo in relazione Ayn, nulla con Anì, io. Sulla vita, l’opera, il pensiero cfr. M. Idel, L’Esperienza mistica in Abraham Abulafia, trad.it., Jaca Book, Milano, 1992. Di rilevante interesse su Abulafia anche il IV capitolo di G.G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Mondadori, Milano, 1965, edizioni il melangolo, Genova, 1990. Su Telì e i nodi lunari cfr. A. Kaplan, Sefer Yetzirah, commento, ediz. Spagnola, Edit., Mirach, S.L., Madrid, 1994, pp. 265-274

[2] Setta ebraica di ispirazione ascetica (II sec. A. C – I sec. d.C) che risiedeva a Qumran sulla riva occidentale del Mar Morto. La comunità essenica conosceva una rigida organizzazione sociale e si caratterizzava per gli ideali di purezza con cui cercava di vivere la fede ebraica.

[3] Filone, vissuto tra il 13 a.C e il 54 d.C nell’ambiente ebraico ellenizzante di Alessandria, coglie il significato simbolico della ‘doppia’ migrazione di Abramo: una prima volta dalla Caldea, una seconda da Haràn che significa ‘caverna’. L’uscita dalla Caldea, con riferimento al Genesi, significa l’abbandono dell’astrologia. Infatti – scrive Filone –  “I Caldei, più degli altri popoli, sembrano aver praticato l’astronomia e l’arte di fare oroscopi, connettendo i fenomeni terrestri con quelli atmosferici e i fenomeni celesti con quelli che riguardano la superficie della terra. In tal modo hanno dimostrato attraverso rapporti musicali la perfetta armonia del tutto, in forza del (principio della) comunanza reciproca e della simpatia delle parti, le quali, se risultano separate dal punto di vista spaziale, non lo sono certo dal punto di vista dell'affinità sostanziale. Costoro hanno ipotizzato che il nostro mondo di fenomeni sia il solo essere che è veramente, ossia che esso è Dio, oppure che in sé include Dio, (inteso) come l’anima del tutto. E (per ciò stesso), avendo divinizzato il fato e la necessità, hanno riempito la vita umana di una molteplice empietà, insegnando che al di fuori dei fenomeni non c’è nulla, che non c’è alcuna causa, ma che sono i movimenti del sole, della luna e di tutti gli altri astri a dispensare a ciascuno degli esseri i beni e i loro opposti (…) Né il cosmo, né l’anima del mondo sono Dio in senso eminente; e neanche gli astri e i loro movimenti sono le cause originarie delle vicende umane, ma tutto questo, nella sua totalità, è tenuto insieme dalle Potenze invisibili che l’Artefice ha disteso dagli estremi lembi della terra fino ai confini del cielo, provvedendo saggiamente che esse restassero come legami indissolubili; e, effettivamente, le Potenze sono i legami saldissimi del tutto (…) o gente stravagante, com’è che vi siete così d’improvviso alzati da terra e, sospesi ad altezze strabilianti, al di là del cielo, vagate per l’aria a studiare da vicino i moti del sole, i corsi della luna e le danze armoniose e musicali di tutti gli astri? Queste cose sono più grandi delle vostre menti e la condizione che esse hanno in sorte è certo più felice e divina. Scendete, dunque, dal cielo e, una volta scesi, non tornate ad esaminare la terra, il mare, i fiumi e le specie animali e vegetali. Piuttosto studiate voi stessi e la vostra natura, non abitando in altro luogo che dentro di voi. Esaminando le cose di casa vostra – a quale parte di essa spetta il comando, a quale l’essere sottomessa, qual è la parte animata e quella inanimata, quella razionale e quella irrazionale, la parte mortale e immortale, migliore e peggiore – , subito avrete con chiarezza la scienza di Dio e delle Sue opere.” Cfr.,Filone di Alessandria, De Migrat. Abr., XXXII:178-179 e 181, XXXIII:184-185 Rusconi, Milano, 1988, p.395-396.  La maggiore polemica di Filone è però diretta, nel De Providentia, contro la Genetliologia (anticipazione della cosiddetta astrologia giudiziaria). Più che mai – osserva Filone –  il giudizio degli astri nei confronti dei singoli non si addice al popolo ebraico: la circoncisione, l’osservanza della Legge, lo Shabbat, l’alimentazione kasher e tanto altro ancora sono la scelta comune di tutto un popolo, come ciò – egli si domanda – può interferire con i differenti destini individuali proposti dalle tecniche genetliologiche? Un medievalista insigne come Emile Bréhier osserva, tuttavia, che Filone tratta l’astrologia con molta benevolenza tanto da sembrare di averla addirittura praticata lui stesso e un altro studioso, il Wendland, sottolinea l’interesse di Filone per l’astrologia allorché si tratta di interpretare le undici stelle del sogno di Giuseppe in analogia con altrettanti segni zodiacali e del dodicesimo (cioè il segno dei Pesci) simbolicamente rappresentato dallo stesso Giuseppe. La verità è che Filone nega agli astri di essere ‘cause prime’ ma gli riconosce il merito, in quanto opera di Dio, di fungere da segnali dotati di quel certo potere che Dio stesso gli ha concesso. E’ abbastanza comprensibile che la concezione degli astri come segni della volontà di Dio abbia poi avuto fortuna in ambiente cristiano e talora goduto di più di un apprezzamento  anche tra i maghi-filosofi del Rinascimento.

[4] Cfr., J. Halbronn, Le mond juif et l’astrologie, ed., originale francese, Arché, Milano, 1985, pp.237 e ss.

mercoledì 27 dicembre 2017

NOTE SULLA QABBALAH: parte II, antecedenti storici dello Zohar





 SEGUE DA “NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia [clicca sul titolo per leggere]

 

 ANTECEDENTI STORICI DELLO ZOHAR


 Se Isacco il Cieco (1160-1235) fu il primo grande maestro delle scuole storiche di Qabbalah che operarono in Provenza e in Catalogna, in un clima di grande sviluppo culturale delle comunità ebraiche, l’antesignano fu comunque suo padre Abraham ben David (1125-1198) di Posquières (Narbonne), autore di scritti in polemica con Maimonide, di commenti sul Talmud e che fondò un’accademia talmudica, dove ben presto si praticò la kavvanah (concentrazione), lo studio della Torah e la lettura del  Sepher Yetzirah e del Sepher Bahir. Di qui si formarono diversi circoli di asceti o perushìm. Il più noto fu, in un primo tempo, il gruppo di Jacob Hanazyr dedito in particolare alla meditazione sulle sephiroth, concetto centrale del Sepher Yetzirah o Libro della Formazione. Di questo libro, essenziale per le successive speculazioni dei cabbalisti, si era già occupato Yehudah ben Semu’el ha-Lewi (1086-1141), medico, poeta, teologo e filosofo castigliano. Nella Parte Quarta del suo Il re dei Khazari, scritto in arabo, poi tradotto in ebraico, Yehudah si sofferma prima sui nomi di Dio, per poi dedicare diverse pagine al Sepher Yetzirah:“[…] composto – egli scrive – da nostro padre Abramo, libro molto profondo che richiede lunghe spiegazioni; esso insegna la deità e l’unità per mezzo di cose che sono varie e molteplici da una parte, però d’altre sono unite e concordanti; e la loro concordia deriva da quell’Uno che le ha ordinate; esse sono: Sephar, Sippur e Sepher [misura, parola e scrittura]”.[1] Di un certo interesse quanto Yehudah scrive sui nomi di Dio, in particolare sulla distinzione tra Elohim e il Tetragramma, di cui tornerò a parlare più avanti:

“Elohim è un epiteto o attributo che significa dominatore di qualcosa, o giudice; qualche volta si intende in senso assoluto, quando vuol dire il Sovrano che domina tutto il mondo; altre volte [è usato] in particolare, quando denota alcune potestà o virtù celesti, o qualcuna delle nature, o qualche giudice umano e questo nome ha forma plurale, perché si usava fra le nazioni che facevano immagini, e credevano che in ciascuna di esse, risiedessero alcune virtù delle sfere celesti, e cose simili a queste; e consideravano ognuna di esse come dio, e tutte in generale chiamavano dèi, e giuravano per essi, come se questi [dèi] dominassero su di loro; ed erano molti […] Quegli era il Creatore del mondo, e lo designò per mezzo di parole e di attributi, e Lo chiamò YHWH”.[2]   

 I perushìm provenzali studiavano quasi senza interruzione, praticando digiuni e astenendosi dalla carne e dall’alcool. Si reclutavano tra i primogeniti e preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi. Huqe ha-Torah, un documento provenzale, descrive la vita che si svolgeva in questi centri (devozione al maestro, piccoli gruppi di studio, diversificazione dei livelli di apprendimento, massima stimolazione per facilitare la libera espressione e il dibattito tra i discepoli, ecc…). Ashèr ben Davìd, nipote di Isacco, fu l’anello di collegamento tra i cabbalisti di Provenza e il centro cabbalistico di Girona, in Catalogna, il più rinomato tra il 1210 e il 1260 per gli studi di Qabbalah.

 Isacco detto il Chassid (il pietoso), il Cieco (possedeva un ‘eccesso’ di luce), il Parush o il Sagghì-nahòr (ricco di luce), l’Avì ha-qabbalah (l’eminente nella Qabbalah) fu per unanime riconoscimento autorità indiscussa in ambito cabbalistico per diverso tempo e con lui si venne affermando l’idea di considerare la Qabbalah come la dottrina esoterica degli ebrei. La lettera di Isacco ai rabbini di Girona[3]attesta del carattere esoterico della scuole da lui ispirate, ma anche della riservatezza che il grande Chassìd voleva mantenere sulle speculazioni cabbalistiche e che invece, per responsabilità dei suoi scolari [tra questi, probabilmente Ezrà e Azrièl di Girona], a suo giudizio, erano finite per essere profanate nelle strade e nei mercati:

 «Ero stato preso da una grande inquietudine, allorché avevo visto sapienti, gente colta e chassidìm abbando­narsi a lunghi discorsi e trattare presuntuosamente, ne loro libri e nelle loro lettere, grandi e sublimi argomenti [di Kabbalà]. Ora, ciò che è scritto, non lo si può conservare nell'armadio; spesso, queste cose si perdono, o i loro possessori muoiono, e questi scritti pervengono in mani di stolti o di beffeggiatori, e il nome del Cielo è cosi profanato. Ed è appunto ciò che è capitato a loro. Quando ero ancora con loro, durante un periodo della mia vita, li avevo spesso messi in guardia contro questa tendenza, ma dopo che da essi mi sono separato sono divenuti causa di sventura. E ad un'altra cosa [cioè di non dire o scrivere niente su argomenti di Kabbalà a cui, per ciò che mi riguarda, sono stato abituato, poiché Ì miei padri erano, certamente, i più nobili del paese e maestri della Torà in pubblico, ma non usciva mai una parola dalla loro bocca, e si comportavano con essi [i non iniziati], come con gente non versata nella saggezza, e ciò l'ho visto presso di loro e ne ho tratto profitto. Inoltre [a parte le lettere citate prima di Nachmanide] ho pure sentito dire dalle regioni che voi abitate e da gente di Burgos che si diffondono apertamente a proposito di queste cose, per i mercati e per le strade, in discorsi confusi e sventati, e dalle loro parole chiaramente risulta che il loro cuore s’è allontanato dall’Altissimo [min ha-’elyonà] e che essi commettono devastazioni nei frutteti [È l’espressione – annota lo Scholem – usata dopo Isacco da tutti i kabbalisti per gli errori relativi tra le sefiròth e Dio; (…) cfr. Chaghigà, 14b], mentre le cose sono unite come la fiamma è legata al carbone, poiché il Signore è unico e non ha, al suo fianco, un secondo, e che cosa conti tu davanti all’Uno [Tutti questi modi parlare – annota ancora lo Scholem – sono attinti dal cap.I del Sèpher Yetzirah] “davanti all’Uno”, è il grande nome che è unito a tutte le dieci [sefiròth].»[4]

 Isacco anticipò il tema della trasmigrazione delle anime, che sarà ripreso più tardi dai cabbalisti di Safed, limitandolo a tre ritorni, come è scritto in Giobbe 33:29 ‘Tutto ciò Dio la fa tre volte in un uomo: ricondurre l’anima dalla sua putrefazione, affinché essa brilli nella luce della vita’ (È  ciò che i cabbalisti chiamano Ghilghul  l w g l g = 72 come i nomi di Dio e come la sephirah Chesed). Egli si occupò di indagini sul nome di Dio, di preghiere, delle Sephiroth dell’Albero della vita e dei 32 Sentieri, di Kavanah (meditazione) e di Deveqùth (communio), della catena degli esseri, di simpatia universale, dei cicli cosmici (shemittoth) del Sepher Temunà (con riferimento anche alla trasmigrazione animale) e del tema della luce e delle tenebre contenuto nel Sepher Iyyùn (luce e le tenebre scaturiscono dall’Oscurità primordiale) che ebbe particolare risonanza in tutto l’ambiente cabbalistico. Si occupò anche del  problema del male, da lui collegato alla frattura del Nome, che ritorna incompleto dopo l’uscita degli ebrei dall’Egitto, così com’era prima della creazione dell’uomo [una delle sue prime speculazioni riguarda il nome divino: “Il giorno in cui (YHWH) Elohim fece il cielo e la terra (Genesi 2:4), il nome non era intero, sinché l’uomo non fu creato a immagine di Dio e il Sigillo non fu completo.”]. Il riferimento è in  Esodo,17:7 Vedremo se il Signore è con noi o no’. Dopo l’uscita dall’Egitto venne Amalek, capo degli Amaleciti, beduini del sud di Canaan: ‘la mano di Amalek si levò sopra il trono di Y(a)h’ e Isacco descrive la lotta di Mosè contro l’Arcangelo di Amalek: ‘Mosè dovette ricorrere all’elevazione delle mani per lottare contro l’Arcangelo e respingere le sue mani dalla sephirah Ghevourah’. Aron e Chur sostengono le mani di Mosè e Israele può vincere, ma il male si è generato. Il Nome non potrà più essere pronunciato e le inevitabili conseguenze saranno la distruzione del Tempio, l’esilio e il ritrarsi delle sephiroth superiori in ‘Alto’. ll Nome ormai impronunciabile troverà posto nel cuore dei cabbalisti.

  Nel collegare la ‘parola perduta’ del vero Nome di Dio alla rottura dell’equilibrio delle sephiroth dell’Albero della vita, piuttosto che al peccato di Adamo, nel divieto di indagare su Ein Soph, Deus absconditus o Infinito, la qabbalah storica di Isacco il cieco denota una sostanziale laicità. Del resto Isacco il Chassìd soleva affermare che la ‘diversità ebraica’ consisteva nella pratica di una filosofia esoterica basata sullo studio e sulla conoscenza piuttosto che su una religione unicamente ispirata dalla fede e dal sentimento. Isacco scrisse il Perush Sepher Yetzirah un commento in sei capitoli del Sepher Yetzirah o Libro della Formazione, circa 70 frammenti sulla mistica della luce e sui segreti (sodot) della Torah, e qualcuno gli attribuì anche il Sepher Bahir. Sotto la spinta di Isacco, nel 1230 sorge a Girona la Chaburah qedoshah o Associazione Sacra, vero e proprio punto di riferimento per la diffusione dell’ebraismo e della Qabbalah in tutto il Mediterraneo.


IL SEPHER YETZIRAH

 Nel suo stile stringato ed essenziale, il Sepher Yetzirah[5] costituisce per così dire il “nucleo metafisico” della Qabbalah. Il Sepher Yetzirah si ispira al Ma'aseh Bereshith della tra­dizione talmudica, essendo innanzi tutto un approfondimento del I° Capi­tolo del Genesi. Non c'è testo della complessa letteratura cabbalistica, dal  Sepher Bahir al Sepher ha-Zohar  che non ne abbia ripreso i concetti sotto forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha comportato spesso uno stravolgimen­to di senso, con interpolazioni dottrinarie suggerite dalle condi­zioni storiche e ambientali, senza riuscire, tuttavia, ad intacca­re quello che appare come il nucleo essenziale della Qabbalah. Guardando a questo nucleo e ai suoi svol­gimenti più maturi contenuti nello Zohar, ci si accorge dell'infon­datezza della tesi condivisa da autorevoli studiosi contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby. La tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabbalah ora al pen­siero mitopoietico degli gnostici ora al neoplatonismo, con conseguente allontanamento dalla più autentica tradizione ebraica, fondata sulla Torah e sul Talmud. Esaminerò  ora il Sepher Yezirah o 'Libro della formazione' in alcune sue parti, senza tuttavia ten­tarne una trattazione più ampia, come sarebbe necessario, di quella che ci si propone in tale contesto.

  “L’indicibile”, colui del quale non è dato pronunciare il no­me, neppure nella forma del Tetragramma, ha formato tutto con il numero, con la lettera e con la parola. Egli ha innanzi tutto posto le condizioni del molteplice che si fonda sui primi dieci numeri. Sephiroth  o numeri “beli-mah”, cioé senza ulteriori determinazioni, per produrre il molteplice e l'uno viene dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle condizioni possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni sono già esaurite con il numero nove,  il dieci altro non essendo che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di misura  - fonte di ogni possibile numero -  bensì come la forma estrema in cui è dato cogliere il molteplice. Non a caso, nel dieci, all'uno si affianca lo zero, cioè il termine delle possibili radici della molteplicità. D’altra  par­te, dopo il dieci noi possiamo seguitare a contare all’infinito, perché infinito è il molteplice, anche se le forme della manife­stazione sono finite: i numeri che servono per contare all'in­finito sono solo i primi dieci e nel numero dieci, insieme alla ri­proposizione dell'unità, appare lo zero come nullificazione contin­gente dei fenomeni. Lo zero-nulla, dunque, non e il presupposto dell’esserci dell'Es­sere, perché, al contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne.

 Sephiroth è stato spesso tradotto con ‘emanazioni’, facendolo derivare dall’etimologia greca, con ciò stabilendo un collegamento tra Qabbalah e neoplatonismo. Più corretta è la derivazione dall’ebraico  Safor che significa contare e che delle sephiroth fa dunque i numeri primordiali della creazione, ben distinti dai misparim o numeri ordinari. Le sephiroth sono perciò ‘luci’ primordiali o, riservandogli la terminologia di cui si serve Kant per descrivere spazio e tempo, ‘forme pure a priori’ del molteplice. Nella tradizione cabbalistica, le sephiroth si dispongono sui tre pilastri dell’Albero della vita. Ad ogni sephirah è attribuito un nome. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether, 6 Tiphereth, 9 Yesod, 10 Malchuth. Alla colonna di destra: 2 ‘Hochmah , 4 ‘Hesed, 7 Netzach. Alla colonna di sinistra: 3 Binah5 Gheburah, 8 Hod.

 I trentadue prodigiosi sentieri di sapienza con cui all’inizio del Sèpher Yetzirah è detto che Dio formò il mondo e che convergono verso la sephirah centrale dell’Albero sephitotico sono quelli formati dalle dieci sephiroth e dalle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico: 1°Kether-Corona, 2°Hockmah-Sapienza o Origine dell’esistenza, 3°Binah-Intelligenza o Ritorno, 4°Hesed-Grazia o Misericordia, 5°Ghebourah-Giudizio o Rigore, 6°Thiphereth-Armonia o Bellezza o Equilibrio, 7°Netzach-Eternità o Vittoria, 8°Hod-Splendore, Maestà o Potenza, 9°Yesod-Fondamento o Alleanza, 10°Malkouth-Regno, Terra o Pelle; ai quali si aggiungono gli altri sentieri secondo le attribuzioni, che talora differiscono tra i vari studiosi, delle 22 lettere: 11° Kether-Hockmah, 12° Kether-Binah, 13° Kether-Thiphereth, 14° Hockmah-Binah, 15° Hockmah-Thiphereth, 16° Hockmah-Hesed, 17° Binah-Thiphereth, 18° Binah-Ghebourah, 19° Ghebourah-Hesed, 20° Hesed-Thiphereth, 21° Hesed-Netzach,22° Ghebourah-Thiphereth, 23° Ghebourah-Hod, 24° Thiphereth-Netzach, 25° Thiphereth-Yesod, 26° Thiphereth-Hod, 27° Netzach-Hod, 28° Netzach-Yesod, 29° Netzach-Malkuth, 30° Hod-Yesod, 31° Hod-Malkuth, 32° Yesod-Malkuth.

[S E G U E]

Sergio Magaldi




[1] Yehudah ha-Lewi, Il re dei Khàzari, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p.223
[2] Ibid., pp. 191 e 193.
[3] Girona è la denominazione corretta, in catalano, di questa città della Catalogna. È  Gerona e si pronuncia “Gherona” in castigliano che è la lingua ufficiale della Spagna.
[4] Brano della lettera che Isacco il Cieco invia alla comunità di Girona attorno al 1235, cioè poco prima di morire, tratto da  Gershom Scholem, Le Origini della Kabbalah, trad., dall’edizione francese, di Augusto Segre, EDB, Bologna, 1990, pp.488-489.
[5] Attribuito miticamente al patriarca Abramo, la sua data di composizione, secondo gli studiosi, oscilla tra il II e il VI secolo d.C., e qualcuno si spinge addirittura sino al VII e VIII secolo.  

mercoledì 20 dicembre 2017

NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia

Regno Occitano-Catalano

Avvertenza: la lettura delle poche parole ebraiche presenti nel testo richiede il font hebrew

QABBALAH  STORICA


 Non è mia intenzione entrare nel merito della questione riguardante l'origine mitica della Qabbalah[1]: se faccia parte della cosiddetta ‘rivelazione primordiale’ concessa ad Adamo o se magari costituisca la parte esoterica della Legge che Mosè ricevette sul Sinai. La Qabbalah ufficialmente fa il suo ingresso nella storia nella seconda metà del XII secolo, con gli scritti di dotti ebrei sefarditi che vivono sulla sponda occidentale del Mediterraneo, tra le comunità ebraiche di Linguadoca, una terra tanto fiorente nel commercio quanto progredita nel vivere civile e nella tolleranza da essere, per quei tempi, certamente esemplare. E' vero, d'altra parte, che la nascita medievale della Qabbalah non esclude una sua origine più antica, collegata alla riflessione e all'approfondimento della religione biblica, del Talmud e della tradizione rabbinica, sia attraverso la parola scritta, sia più diffusamente attraverso la comunicazione bocca-orecchio. Non è un caso, infatti, che nel suo esordio storico, sia in Provenza, sia soprattutto in Catalogna, la ricerca dei perushìm si orienti per un verso sull'Opera della Creazione o Ma’asè Bereshit e per altro verso sull'Opera del Carro o Ma’asè Mercavah. Con la prima intendendo le speculazioni cosmogoniche e cosmologiche sull’opera della Creazione e il commento del Genesi o Bereshit. Con la seconda, le meditazioni a sfondo mistico sull’opera del Carro o Ma’asè Merkavah delle visioni di Ezechiele.

 In Genesis and the Big Bang del 1990, il fisico e teologo Gerald L.Schroeder ritiene che Scienza e Bibbia siano d’accordo su un punto fondamentale e cioè che nulla si possa dire su ‘prima’ del principio. Il concetto è frutto di una prima e tradizionale speculazione cabbalista: la prima lettera del Bereshith è una Bet, una lettera aperta solo sul davanti secondo la modalità di scrittura dell’ebraico che va da destra a sinistra:  t y c a r b . Ciò significa che solo gli eventi accaduti dopo il ‘principio’ sono accessibili all’indagine umana.


QABBALAH PRATICA: LA TEURGIA


 Nei primi scritti dei cabbalisti di Provenza una particolare importanza  è attribuita alla teurgia [che costituisce una parte non secondaria della qabbalah pratica], tanto che la stessa speculazione ne è influenzata ed è strettamente collegata all’azione teurgica. L’orientamento prevalente è quello di riferirsi alla teologia della tradizione sinaitica, piuttosto che alla teologia reale che privilegia la conquista e le promesse fatte da Dio ai patriarchi. La teurgia ebraica si distingue dalla magia, pure praticata in ambiente giudaico, perché il suo quadro di riferimento è la religione biblica e il rispetto di un rituale unico e predeterminato. Inoltre, a differenza della magia, la teurgia non opera mai a vantaggio personale ma sempre a gloria di Dio e per il bene dell’umanità, anche se questa umanità si identifica spesso con quella del popolo eletto.

 Mopsik[2] individua cinque forme di azione teurgica negli scritti dei primi cabbalisti storici: un’azione cosiddetta instauratrice, in cui si instaura una sorta di patto tra l’uomo e Dio e da cui ne deriverà un reciproco vantaggio. Così è per esempio in Genesi 28:20-22, dove è l’uomo che promette qualcosa a Dio:
20 Giacobbe fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, 21 se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio.22 Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai io ti offrirò la decima». [CEI]
Oppure è Dio che promette qualcosa all’uomo, come in Levitico 26,3-13:
3 Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica, 4 io vi darò le piogge alla loro stagione, la terra darà prodotti e gli alberi della campagna daranno frutti. 5 La trebbiatura durerà per voi fino alla vendemmia e la vendemmia durerà fino alla semina; avrete cibo a sazietà e abiterete tranquilli il vostro paese.
6 Io stabilirò la pace nel paese; nessuno vi incuterà terrore; vi coricherete e farò sparire dal paese le bestie nocive e la spada non passerà per il vostro paese. 7 Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. 8 Cinque di voi ne inseguiranno cento, cento di voi ne inseguiranno diecimila e i vostri nemici cadranno dinanzi a voi colpiti di spada.
9 Io mi volgerò a voi, vi renderò fecondi e vi moltiplicherò e confermerò la mia alleanza con voi.
10 Voi mangerete del vecchio raccolto, serbato a lungo, e dovrete metter via il raccolto vecchio per far posto al nuovo.11 Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. 12 Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. 13 Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta.[CEI]
Oppure, come ancora in Esodo 29:42-46, dove il Signore rivendica per sé l’olocausto e il sacerdozio per aver fatto uscire il suo popolo dalla terra d’Egitto:

42 Questo è l’olocausto perenne di generazione in generazione, all’ingresso della tenda del convegno, alla presenza del Signore, dove io vi darò convegno per parlarti.
43 Darò convegno agli Israeliti in questo luogo, che sarà consacrato dalla mia gloria. 44 Consacrerò la tenda del convegno e l’altare. Consacrerò anche Aronne e i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio per me. 45 Abiterò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. 46 Sapranno che io sono il Signore, loro Dio, che li ho fatti uscire dalla terra d’Egitto, per abitare in mezzo a loro, io il Signore, loro Dio.[CEI]

 C’è poi un’azione teurgica detta restauratrice, tesa cioè a ripristinare una condizione antecedente, venuta meno per colpa degli uomini. È il caso del Signore che parla a Noè subito dopo il diluvio, Genesi 8,18-22:

18 E Noè uscì con i suoi figliuoli, con la sua moglie, e con le mogli dei suoi figliuoli. 19 Tutti gli animali, tutti i rettili, tutti gli uccelli, tutto quel che si muove sulla terra, secondo le loro famiglie, uscirono dall’arca. 20 E Noè edificò un altare all’Eterno; prese d’ogni specie d’animali puri e d’ogni specie d’uccelli puri, e offrì olocausti sull’altare. 21 E l’Eterno sentì un odor soave; e l’Eterno disse in cuor suo: "Io non maledirò più la terra a cagione dell’uomo, poiché i disegni del cuor dell’uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. 22 Finché la terra durerà, sementa e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai".

 C’è ancora un’azione teurgica conservatrice - di cui l’Antico Testamento  ci offre numerose esempi - con la quale si cerca di conservare la grazia del Signore attraverso le offerte e i sacrifici e c’è una teurgia amplificatrice che serve ad accrescere la potenza (Gevourah) del Signore, a cominciare dalla formula sempre ripetuta quando ci si riferisce a lui: “Benedetto il suo nome…”, per continuare con l’elencazione dei suoi nomi straordinari. Un certo intento teurgico di amplificazione i cabbalisti lo condividono con la stessa tradizione rabbinica. Oltre a coloro che ritengono impossibile per l’uomo aumentare la potenza divina, c’è anche chi sostiene che un comportamento umano conforme alla Legge, lo studio della Torah, l’osservanza dei Mitzvoth (precetti) etc… possano accrescere la sfera di influenza di Dio nel mondo. C’è infine un’azione teurgica cosiddetta attrattiva per attirare la presenza di Dio [Shekinah] nel mondo, come, per esempio in Esodo, allorché è lo stesso Signore a dettare a Mosè con minuziosa precisione come arredare il Santuario [Casa o Tempio] dove risiederà per essere in mezzo al suo popolo [Esodo, 25:8], oppure per attirarla nella relazione tra l’uomo e la donna: “Nel possedere una donna – è scritto nella Lettera sulla Santità – non farlo contro la volontà di lei, e non usarle violenza, giacché se l’unione carnale avviene senza tanta passione, senza amore né desiderio, la Shekinah non vi assiste…”. [Igueret ha-qodech o “Lettera sulla santità”, piccola ma preziosa opera attribuita ora a Nachnmanide ora a Gikatilla, probabilmente di un anonimo cabbalista, apparsa nella Spagna del XIII secolo]. Le norme dettate a Mosè per l’arredamento del Tempio occupano diversi capitoli di Esodo e talora sembrano manifestare una “pignoleria” o “un capriccio” di Dio, ma a guardar bene non è così, perché sono a vantaggio degli esseri umani, ancorché in apparenza siano volte a ricordare la presenza del Signore e a manifestarne la grandezza. Si prendano per esempio le norme dettate per la costruzione del candelabro o Menorah, Esodo 25,31-40:


LA  MENORAH



31 Farai anche un candelabro d’oro puro; il candelabro, il suo piede e il suo tronco saranno lavorati al martello; i suoi calici, i suoi pomi e i suoi fiori saranno tutti d’un pezzo col candelabro.
32 Gli usciranno sei bracci dai lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro;
33 su l’uno de’ bracci saranno tre calici in forma di mandorla, con un pomo e un fiore; e sull’altro braccio, tre calici in forma di mandorla, con un pomo e un fiore. Lo stesso per i sei bracci uscenti dal candelabro.
34 Nel tronco del candelabro ci saranno poi quattro calici in forma di mandorla, coi loro pomi e i loro fiori.
35 Ci sarà un pomo sotto i due primi bracci che partono dal candelabro; un pomo sotto i due seguenti bracci, e un pomo sotto i due ultimi bracci che partono dal candelabro: così per i sei bracci uscenti dal candelabro.
36 Questi pomi e questi bracci saranno tutti d’un pezzo col candelabro; il tutto sarà d’oro fino lavorato al martello.
37 Farai pure le sue lampade, in numero di sette; e le sue lampade si accenderanno in modo che la luce rischiari il davanti del candelabro.
38 E i suoi smoccolatoi e i suoi porta smoccolature saranno d’oro puro.
39 Per fare il candelabro con tutti questi suoi utensili s’impiegherà un talento d’oro puro.
40 E vedi di fare ogni cosa secondo il modello che t’è stato mostrato sul monte.

La Menorah è citata in numerosi passi biblici: in Esodo 37:17-24 per dire che Betzalel, l’artista designato da Dio in persona, ha costruito il candelabro esattamente come l’aveva progettato il Signore. Sempre in Esodo, 30:27 per raccomandare che il candelabro, insieme ad altri oggetti del Tabernacolo, sia unto con olio sacro. Ancora in Esodo il candelabro è citato tre volte: quando il lavoro è ultimato e portato a Mosè (39:37), allorché il Signore ne ordina a Mosè la collocazione nell’Abitazione o ‘Tenda dell’incontro’ a lui consacrata (40:4) e Mosè esegue (40:24). In  Levitico (24:3) per precisare a chi è concesso accenderlo. In Numeri, la Menorah è citata due volte: (3:31) per ribadire che l’accensione del candelabro è riservata ai leviti e (8:24) per la raccomandazione del Signore a Mosè che le sette lampade illuminino la parte anteriore del candelabro. Nel Libro di Daniele, il candelabro è citato (5:5) per ricordare il banchetto del re Baldassar, figlio di Nabucodonosor, durante il quale, apparve una mano di fronte al candelabro e scrisse parole che solo Daniele riuscì a interpretare. Nel  I Libro dei Re (7:49) e nel II Libro delle Cronache (4:7) per predisporre 10 candelabri all’interno del Tempio: 5 a destra e 5 a sinistra del santuario.  Ancora nel II Libro delle Cronache (13:11) si ricorda che l’accensione delle lampade è un obbligo verso il Signore. Nel I Libro dei Maccabei (4:49-50) il candelabro è utilizzato per la riconsacrazione del Tempio, mentre in Siracide (26:17) ha la funzione di metafora poetica: la lampada che brilla sul candelabro è paragonata a un bel volto di donna sopra un corpo grazioso. Infine, in Zaccaria (4:1-12), il candelabro fa parte della quinta visione del profeta:

  “L’angelo incaricato di parlarmi venne a scuotermi come si fa con uno che dorme.
Mi domandò: ‘che cosa vedi?’ Io risposi: ‘vedo un candelabro d’oro, con in cima un recipiente per l’olio. Il candelabro a sette lucerne e sette beccucci per dare olio a ogni lucerna.
Vicino al recipiente ci sono due ulivi, uno a destra e l’altro a sinistra.’
E domandai all’angelo: ‘che significa tutto questo,  mio signore?’
Allora l’angelo mi spiegò: ‘Le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che osservano tutta la terra…”

 Sembra interessante osservare che Betzalel, il nome dell’artista prescelto dal Signore per la costruzione della Menorah e di parte del Tabernacolo, ha valore numerico 153 (leggendo le lettere da destra a sinistra l a l x b  [2+90+30+1+30 = 153], ossia il triangolo di 17. “Il 17 – osserva Nadav Eliahu – è un numero importantissimo in Cabalà poiché è il numero che indica il bene (Tov). Non a caso è la Ghematria di due dei 72 Nomi di Dio, il 1° e il 49°. Anche questi numeri non sono casuali, in quanto si riferiscono alle Cinquanta Porte dell’Intelligenza, le più importanti delle quali sono la prima dall’alto e la quarantanovesima dal basso. Ed ecco che 17 è anche il valore di EGOZ (noce), un frutto molto esoterico, studiando il quale il re Salomone derivò delle importanti considerazioni sulla struttura degli universi paralleli  (vedi il Cantico dei Cantici, al versetto ‘Sono sceso al giardino delle noci’) ”. Il 17, inoltre, è anche il valore di Hagadah e osserva ancora Nadav Eliahu: “ Il nome HAGADAH (leggenda) si riferisce a tutta quella parte della tradizione orale dell’Ebraismo che contiene racconti e descrizioni basate soprattutto sul funzionamento tipico dell’emisfero cerebrale destro. Il valore 17 allude all’intrinseca bontà di questa parte, a volte ingiustamente trascurata o minimizzata dagli ebrei razionalisti.”[3]

 Nella Qabbalah medievale, i sette bracci della Menorah sono associati alle sette sephiroth inferiori: da ‘Hesed a Malkuth. Nel Sepher Temunah o Libro della figura, [4]il candelabro puro d’un sol pezzo lavorato a martello’ è identificato con Binah, la sephirah dell’intelligenza, e i sette bracci, con le sette sephiroth inferiori che da lei provengono. Mentre i 49 tra calici e boccioli che sono tutto un pezzo col candelabro, come è scritto in Esodo, formano le 49 porte dell’intelligenza cioè della sephirah Binah che ne è la Cinquantesima e che neppure a Mosè, come è detto nel Talmud, fu dato oltrepassare [5]

   Nel Pardes Rimmonim o Giardino dei Melograni, il cabbalista Moshé Cordovero fa corrispondere ai sei bracci della Menorah le sephiroth comprese tra la quarta (‘Hesed ‘Grazia’) e la nona (Yesod ‘Fondamento’) mentre l’asse centrale del candelabro è rappresentato dalla Alef, prima lettera dell’alfabeto ebraico e da Kether  ‘Corona’, la sephirah più alta. Alla base del candelabro c’è poi la sephirah più bassa: Malkuth  Terra o Regno. [6]

   La Menorah o candelabro a sette braccia, oltre che simbolo cosmico, è l’effettiva rappresentazione degli elementi primordiali, dei pianeti, dei segni zodiacali e dell’alfabeto ebraico, le cui tre lettere madri [Aleph, Mem e Shin], simboli rispettivamente di Aria, Acqua-Terra e Fuoco, sono collocate sul tronco del candelabro, delle sette lettere doppie [Beth, Daleth, Ghimel, Caph, Phe, Resh e Taw], collocate sulle sette lampade a indicare la loro doppia polarità planetaria, delle dodici lettere semplici [He, Vaw, Zain, Chet, Thet, Jud, Lamed, Nun, Samech, Aiyn, Tzadè, Qoph], collocate sui tre bracci della Menorah a indicare i dodici segni zodiacali. Il candelabro permette anche di calcolare la divisione delle stagioni nonché gli equinozi e i solstizi. Accesa ritualmente,[7] la Menorah spiega il significato della sequenza dei primi sette giorni descritti nel Genesi. Contiene il Tetragramma o nome essenziale del Dio manifesto e le possibili permutazioni del nome divino. Attraverso la rotazione dei bracci della Menorah, gli ebrei conoscevano le fasi della luna e il “calendario perpetuo” [8].

[S E  G  U  E]



[1] Come Giulio Busi ed altri studiosi uso il termine Qabbalah e non Kabbalah o Qabalah o Cabala o Cabbala, come pure fanno altri, perché mi sembra la traslitterazione più fedele. La parola si scrive in ebraico da destra a sinistra con le lettere Qoph-Bet-Lamed-He (in italiano Q-B-L-H aspirata). Dopo l’intervento dei masoreti, il daghesh o punto inserito nel corpo della Bet, che distingue la b dalla v, è preceduto da vocale breve (il pàtah sotto la Qoph) e dunque raddoppia la b nella traslitterazione italiana:    קַ בָּ לָ ה
[2] Sull’intera questione della teurgia nella Qabbalah, cfr. C.Mopsik, Les Grands Textes de la Cabale, Verdier, Paris,1993, pp.18-71.
[3] cfr. Nadav Eliahu, Misparei Ha-Sod. I numeri del segreto, Milano, 1990, pp. 29-30.
[4] Il testo del Sepher ha-Temunah tradotto in italiano (con una breve introduzione circa la data presunta di composizione e il relativo contenuto), si trova in Mistica Ebraica.Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo a cura di G. Busi ed E. Loewenthal, Einaudi, Torino, 1995, pp.243-346
[5] Cfr. Talmud, bRo’sh ha-shanah 21 b,  bNedarim 38a.
[6] Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp. 219-221.
[7] Scrive Ivan Mosca [Luz,Trimestrale di Studi Tradizionali,  Har Tzion, n.3, Autunno 1999, pp.13-14]: “[…] si accende prima la lampada del Sole, pronunciando sottovoce: ‘ Yom Rishon ’ (primo giorno) e sentendo interiormente il comando trasmutatorio affinché l’Orgoglio si tramuti in Umiltà; poi la lampada della Luna, pronunciando sottovoce: ‘ Yom Sheni ’ (secondo giorno) perché la Forza faccia scomparire la Pigrizia; indi si accende la lampada di Marte: ‘ Yom Shilishi ’ (terzo giorno), perché la Speranza dia il posto all’Ira; poi la lampada di Mercurio: ‘ Yom Revi’i ’ (quarto giorno), perché l’Invidia si trasformi in Carità; successivamente la lampada di Giove: ‘ Yom Hamishi ’ (quinto giorno), affinché la Gola diventi Temperanza; successivamente la lampada di Venere: ‘ Yom Shishi ’ (sesto giorno), perché la Lussuria si tramuti in Giustizia; infine la lampada centrale o di Saturno, pronunciando a voce più alta: Shabbat (settimo giorno o Giorno del Riposo), perché la Prudenza prevalga sull’Avarizia.
[8] Per uno studio completo sulla Menorah, si veda il già citato e pregevole articolo di Ivan  Mosca pp.1-21.

domenica 10 dicembre 2017

IL COME E IL PERCHE’ DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO






 L’esigenza di lanciare un nuovo soggetto politico, a pochi mesi di distanza dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento nazionale, può apparire come una delle tante operazioni che in questi giorni si susseguono – a destra come a sinistra – per approfittare di una legge elettorale che testimonia dell’impotenza di un’intera classe politica e che sembra fatta apposta per favorire la frammentazione, impedire il primato di una solo partito, formare una maggioranza – se mai sarà possibile realizzarla – attraverso le coalizioni dei soliti noti che renderanno ancora più debole, di quanto non sia già oggi, il governo del Paese. E il bello [o il drammatico, secondo i punti di vista] è che gli addetti ai lavori della politica, pur essendo consapevoli di tutto ciò, corrono incontro alla ingovernabilità, lieti di avere finalmente qualcosa da fare per il presente e per il futuro, che non sia risolvere i problemi dei cittadini. Tutto ciò non impedirà ai “signori della politica” di lamentarsi del crescente astensionismo dal voto, forse ormai l’unica arma rimasta in mano agli elettori, consapevoli al tempo stesso: a) di non contare nulla, b) di non poter cambiare nulla.

 Più di dieci anni fa la questione del “non voto” o del “voto bianco” era stata posta con ironia e sarcasmo dal grande scrittore portoghese José  Saramago in Ensajo sobre a lucidez [“Saggio sulla lucidità”] del 2004, ripubblicato dall’ “Universale Economica Feltrinelli” nel 2011.

 Il segno che qualcosa di grave stia per accadere è già nella pioggia torrenziale che si abbatte sulla capitale all’alba del giorno fissato per le elezioni. I rappresentanti dei tre partiti in lizza, presenti nel seggio elettorale quattordici, si scambiano le proprie opinioni in merito:

 Sarebbe stato preferibile rinviare le elezioni” è l’osservazione del rappresentante del p.d.m. [Partito di mezzo o di centro], mentre il rappresentante del p.d.d. [Partito di destra] si limita ad annuire e quello del p.d.s. [Partito di sinistra], se non fosse stato trattenuto dall’improvviso arrivo di un membro del seggio, “c’è da presumere – osserva Saramago – che non avrebbe mancato di esprimersi sulla linea di un chiaro ottimismo storico, con una frase come questa, per esempio, I votanti del mio partito sono persone che non si intimoriscono per così poco, non è gente da restarsene a casa per quattro misere gocce d’acqua che cadono dalle nuvole”.[pp.11-12]

 La pioggia passa, gli elettori sia pure in misura ridotta cominciano a recarsi ai seggi ma, al termine dello scrutinio il risultato è imbarazzante, con meno del 25% di voti validi. La ripetizione della tornata elettorale non ha miglior esito, con la percentuale dei votanti che si ferma al 17%:

Il primo ministro riconobbe che la gravità della situazione era estrema, che la patria era stata vittima di un infame attentato contro i fondamenti basilari della democrazia rappresentativa”[p.39].

 A nulla era valso ricorrere allo stadio d’assedio, con l’esercito ad occupare strade, stazioni e aeroporti per impedire la diffusione del contagio, il diffondersi della propaganda a favore del partito della scheda bianca. Il convincimento del presidente della repubblica, del primo ministro e del governo fu quello di ricorrere ad altri metodi meno appariscenti e più utili. Primo fra tutti, quello di infiltrare agenti dei servizi speciali in seno alle masse e nei gangli più sensibili della società. Inutile sperare, come aveva fatto sino ad allora il ministro della difesa, di convincere “i degenerati, i delinquenti, i sovversivi della scheda bianca a riconoscere i propri errori e implorare la misericordia, al pari della penitenza, di una nuova tornata elettorale alla quale, nel momento designato sarebbero accorsi in massa a purgare i peccati di un delirio che avrebbero giurato di non ripetere mai più”[p.57].

 La questione posta da Saramago, per quanto paradossale possa sembrare [sempre meno paradosso e sempre più realtà, se si considerano le recenti elezioni siciliane con una percentuale di votanti del 46% o quelle di Ostia, X municipio di Roma, con il 36%] pone inquietanti interrogativi sull’esercizio del potere in una democrazia rappresentativa. Un “partito dell’astensione” del 70-80% forse non è ipotizzabile perché, se lo fosse, significherebbe che la maggioranza dei cittadini ha preso coscienza che la democrazia si è trasformata in partitocrazia, il regime democratico in una dittatura oligarchica e tirannica, e tale presa di coscienza sarebbe forse già l’anticamera di una rivoluzione. La questione che interessa è però un’altra: in simili circostanze qual è la risposta che uno stato democratico deve dare per evitare che il partito delle schede bianche impedisca il retto funzionamento delle istituzioni democratiche, gettando il paese nell’anarchia e nel caos? La risposta non è certo quella che Saramago, descrive nel libro con ironia e pungente sarcasmo, anche se non è difficile immaginare che in una situazione concreta sarebbe l’unica ad essere adottata nelle nostre democrazie occidentali, più rispettose delle forme che della sostanza della democrazia. Chi ricorda più “il contratto sociale”? Chi, lo spirito liberale che è alla base della rinuncia alla sovranità individuale? L’unica risposta possibile di fronte ad una forma così vasta di dissenso, è quella che il potere si faccia da parte per riscrivere da capo le regole del patto tra i cittadini. 

 Il lancio di un’assemblea costituente per la nascita di un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista – almeno a giudicare dalle intenzioni dei proponenti – non si muove nell’ottica di aggiungere l’ennesimo raggruppamento alla fitta schiera di partiti, partitini e movimenti che si apprestano a dividersi la magra fetta elettorale alle prossime elezioni politiche. L’ambizione è diversa anche se consapevolmente orientata per una lunga prospettiva: rifondare la grammatica e la sintassi di un discorso politico che si va inaridendo sempre più e che sembra ormai aver messo da parte ogni argomento che ne giustifichi l’ascolto da parte dei cittadini. Come già annotavo in precedenti post, di cui di seguito ripropongo la sintesi, l’offerta politica del costituendo PDP si basa su una lettura semplice della realtà: le forze piccole o grandi che si richiamano al centrosinistra e persino alla sinistra denunciano sempre più, con il frazionismo che le caratterizza, la sostanziale accettazione del modello di sviluppo proposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le forze che si richiamano al centrodestra si dividono tra quanti ostentano vecchie e mai mantenute misure demagogiche per mascherare la logica dello sviluppo selvaggio e quanti, animati di fervore popolare, vagheggiano di ritagliarsi uno spazio regionale e/o nazionale, con politiche neoprotezionistiche e prospettando l’uscita dall’euro o addirittura dall’Europa. Infine, il Movimento Cinque Stelle – al quale occorre riconoscere il merito di aver cercato di opporsi alla deriva del centrosinistra e del centrodestra – denuncia sempre più la mancanza di una classe politica all’altezza della situazione, l’isolamento e la vaghezza di un progetto politico che si limita ad alcune rivendicazioni sociali, senza tuttavia affrontare alla radice il problema del modello di sviluppo che intende perseguire.

 Secondo il Partito Democratico Progressista, il rovesciamento dell’attuale prospettiva politica, con la conseguente subordinazione dell’economia al modello di società che si intende realizzare, diventa possibile attraverso una triplice sfida: 1) l’introduzione di “politiche economiche di carattere fortemente espansivo” ispirate dalla grande tradizione keynesiana, opportunamente modificata dalle esigenze contemporanee, 2) la riappropriazione del “patto sociale” da parte dei cittadini e la formazione di una classe politica incorruttibile, 3) la piena occupazione, con la reale applicazione del 4° Principio Fondamentale della Costituzione Italiana: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilita` e la propria scelta, una attivita` o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa`.

  I punti fondativi che saranno portati al dibattito dell’assemblea costituente sembrano coerenti con l’idea di democrazia e di progresso che costituisce la divisa di questo costituendo nuovo soggetto politico: dal ripristino del potere monetario dello Stato, alle misure concrete per valorizzare, finalmente e dopo tante inutili chiacchiere dei partiti tradizionali, “il patrimonio artistico e culturale del nostro Paese, non solo a testimonianza della storia di un popolo antico e della sua inesauribile creatività, ma anche al fine di realizzare – attraverso una moderna ed efficiente gestione pubblica – la creazione di nuovi posti di lavoro”; ad una politica che metta la Scuola, l’Università e la Ricerca “al centro degli interessi strategici dello Stato”, con la rivalutazione sociale, professionale ed economica del ricercatore e del docente di ogni ordine e grado; ad un sistema sanitario nazionale finalmente efficiente; ad un credito che sappia distinguere tra banche d’affari e banche per il sostegno delle famiglie e delle imprese; al diritto al lavoro sancito dal 4° principio fondamentale della Costituzione, all’effettiva applicazione del concetto di “sovranità popolare”, attraverso l’introduzione di forme sostanziali di democrazia e così via.

 Nonostante una certa rigidità dei principi fondamentali di questo nuovo Manifesto Politico, occorre riconoscere la liberalità con cui si guarda alla futura Assemblea Costituente, dando mandato agli iscritti, individui e gruppi, di elaborare lo statuto e un reale programma di governo. Si legge infatti al termine dei 21 punti fondativi: “Iscriversi all’Assemblea Costituente del PDP significa – per singoli cittadini delusi dall’inconsistenza dell’offerta politica corrente, per gli aderenti a gruppi, movimenti e partiti politici che si sentano alternativi agli ormai logori e insignificanti “centrodestra” e “centrosinistra” tradizionali, per gli stessi militanti, attivisti, dirigenti e rappresentanti istituzionali di quelle forze politiche che hanno deluso gli interessi degli italiani dal 1992 in avanti – partecipare alla costruzione di una nuova, inedita e solida Casa Comune. Tutti i costituenti, individualmente o organizzati legittimamente in correnti (in quanto magari aderenti in blocco come membri di associazioni, movimenti o partiti pre-esistenti) avranno la stessa titolarità e sovranità nel discutere, determinare la confezione e l’approvazione dello Statuto PDP e nell’elaborare un preciso programma di governo per l’Italia e i suoi territori”.

 La novità più grande tuttavia – che qualifica l’offerta per tutti i cittadini e in particolare per quanti siano stanchi e annoiati dalla politica e delusi dalla costatazione che ogni scelta dei politici di professione continui a passare sopra le loro teste – è rappresentata dalla proposta contenuta nel 21° principio fondativo che il PDP intende sottoporre all’attenzione della futura Assemblea Costituente. Non ancora resa esplicita in modo conclusivo, per lasciarne la cura definitiva alla sovranità dell’Assemblea, tale proposta – è detto - si richiama ad “alcune innovative integrazioni costituzionali, nell’interesse del popolo sovrano e della sostanzialità dei processi democratici e della divisione dei poteri”. Ci si riferisce in particolare a forme semplificate di referendum abrogativo e propositivo e soprattutto all’introduzione della democrazia stocastica che prevede il sorteggio qualificato per l’elezione dei membri della Camera dei deputati.

 La necessaria difesa della Costituzione Repubblicana non va scambiata con l’immobilismo, e la giusta rivendicazione della sua piena attuazione deve farci consapevoli che, se in circa settanta anni di vita molti dei suoi principi non hanno trovato concreta attuazione, ciò significa che erano forse suscettibili di varia interpretazione, secondo uno spirito di parte e in base alla volontà dei governi che nel tempo si sono succeduti. Al contrario, più di una modifica in senso peggiorativo è stata introdotta sbrigativamente nel testo che i padri costituenti ci hanno consegnato nel lontano 1948. In questa ottica, nel Convegno del Movimento Roosevelt, tenutosi a Roma presso il Teatro Anfitrione lo scorso 4 novembre, sono state individuate proposte di modifica e di integrazione del dettato costituzionale che saranno portate all’attenzione della futura Assemblea Costituente del PDP.

 Occorre rammentare che alcuni articoli della Costituzione sono da considerarsi immodificabili: l’art. 138 che sottopone le procedure di riforma costituzionale ad una precisa e complessa normativa, l’art.139 che istituisce la forma repubblicana, gli articoli 2, 13-26, 24 e 27, in quanto attengono al diritto di libertà e ai diritti inviolabili dell’uomo, l’art. 5 che sancisce l’unità e l’indivisibilità della Repubblica. Sarebbero inoltre immodificabili, secondo la giurisprudenza costituzionale, ma non in base ad un preciso dettato, anche tutti i primi 12 articoli, perché ritenuti i Principi Fondamentali che«appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Così, per esempio, l’art. 1 sarebbe intangibile in quanto sancisce che tutto l’ordinamento dello Stato si basa sul principio della sovranità popolare. Il che significa che una modifica dell’art. 1, che declini in modo più ampio e significativo il concetto di tale sovranità, debba ritenersi possibile.  

 E in effetti la riforma dell’art. 1 della Costituzione, proprio in questo senso, è contemplata nelle proposte presentate al Convegno del Teatro Anfitrione di Roma, divenendo una sorta di “cervello” di tutto il restante corpo costituzionale, con l’avvertenza che qualora la giurisprudenza, per motivi politico-giuridici più che sostanziali, valutasse l’articolo immodificabile, tutto il suo contenuto troverebbe comunque legittimamente posto in altri articoli della carta costituzionale, opportunamente modificabili in base alle procedure previste dall’art.138. Altre proposte di modifica riguardano, almeno per il momento, gli articoli  49, 56, 67, 75 e 81, la cui formulazione è di seguito riprodotta, utilizzando il neretto per ciò che viene mantenuto, il blu per ciò che si intende cancellare e il rosso per ciò che si propone di inserire. L’art.49 aggiunge un secondo e un terzo comma per meglio regolare la vita interna dei partiti e garantirne un tasso più elevato di democrazia. Con gli articoli  56 e 67 è introdotta l’innovazione di maggiore portata, al fine di rendere sostanziale un concetto di democrazia sempre più formale e di rendere il cittadino – richiesto periodicamente solo di un voto rituale che sancisca le decisioni delle segreterie dei partiti e al quale egli finisce sempre più per sottrarsi, apprezzandone l’inutilità – vero protagonista della vita politica e delle scelte che lo riguardano nel quotidiano. Con l’art. 75 si propone, per rendere meno aleatorio il concetto di sovranità popolare, una normativa semplificata del referendum. Infine, con l’art.81 si demanda allo Stato la tutela del benessere sociale dei cittadini e si cancella la norma sul pareggio di bilancio, introdotta proditoriamente e di recente da tutti i partiti politici, con la sola eccezione del Movimento Cinque Stelle, i cui rappresentanti non erano ancora presenti in Parlamento.

 Il nome di questo nuovo soggetto politico: Partito Democratico Progressista [PDP] fa pensare quasi ad una rifondazione dell’esistente Partito Democratico, alla reintegrazione di quanto di recente s’è venuto formando dalla sua costola, richiamandosi a vaghe idee di progresso, all’inclusione persino di tutte quelle articolazioni che da tempo si agitano e si spezzettano all’infinito e senza alcun costrutto alla sua sinistra. Niente di meno vero. La connotazione di “progressista”, checché ne pensi il senso comune, non caratterizza necessariamente le formazioni della sinistra, tant’è che vi si richiamano ancora oggi nel mondo, e indifferentemente, partiti e movimenti politici liberali, di centro, di destra e di sinistra. Ciò premesso, la qualifica di “progressista” che caratterizza questo costituendo soggetto politico attiene ad un concetto di progresso ben  determinato e specifico su cui vale la pena di soffermarsi allo scopo di coglierne le differenze con l’idea generica di progresso, presente tanto nel Manifesto dei valori del Partito Democratico, al momento della sua fondazione [2008], quanto negli attuali e sedicenti campi progressisti, come il recentissimo Liberi e uguali che unifica piccoli raggruppamenti della sinistra [MDP, Possibile e Sinistra italiana] nel nome, ritenuto accattivante, del presidente del Senato, ma che ha come unico programma la reintroduzione della tassa sulla casa di abitazione degli italiani nonché dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, limitandosi una concezione della politica che non si distingue da quella governativa per ciò che riguarda il pareggio di bilancio e l’austerità.

 Quali le ragioni del fallimento dei governi di centrodestra e di centrosinistra che hanno governato l’Italia nell’ultimo quarto di secolo, trascinandola sull’orlo dell’abisso, e che rendono impensabile per i cittadini affidarsi nuovamente a loro? Un identico modo di gestire il potere: clientelismo, corporativismo, spreco, incompetenza, corruzione generalizzata e un’identica propensione, nonostante le tante promesse elettorali, a non risolvere i problemi della gente, limitandosi alla mala gestione dell’ordinario e alla cura individuale del carrierismo politico. Ciò che ha reso impalpabile agli occhi di molti la differenza tra destra, sinistra e centro che pure storicamente e idealmente esiste e non può non esistere! Ma la notte della politica italiana, in cui “tutte le vacche sono nere” e i partiti intercambiabili fra loro, ha radici sociologiche ben precise, determinate dal reclutamento delle classi dirigenti negli ultimi decenni, accomunate non solo e non tanto dalla stessa estrazione sociale, quanto piuttosto da formazione politica inadeguata, scarsa onestà e mancanza di immaginazione.

 E ancora: non è che destra e sinistra siano la stessa cosa, ma ciò che ha caratterizzato centrodestra e centrosinistra nei governi degli ultimi decenni è stata, come dicevo, l’identica sostanziale accettazione del modello di sviluppo imposto dall’egemonia del capitale finanziario. Le uniche differenze sono state le misure effimere adottate per rendere tale modello più digeribile al proprio elettorato di riferimento. Così è stato e così sarà per il futuro, se i cittadini non prenderanno coscienza di essere i soli titolari della sovranità che legittima lo stato democratico. Pur tra conclamati obiettivi diversi, le coalizioni che hanno governato il Paese negli ultimi decenni, hanno finito per adottare le stesse politiche e oggi le ripropongono anche per il futuro: il centrodestra attraverso l’amalgama tra i sedicenti moderati e i cosiddetti populisti e con l’unico scopo di mantenere i privilegi dello status quo, il centrosinistra mediante un contenitore più disinvolto che ha finito con alimentare il frazionismo, il velleitarismo e l’impotenza. Quanto al Movimento Cinque Stelle, al netto delle considerazioni di cui sopra, l’attenzione con cui i pentastellati  hanno riguardato i cittadini emarginati dalle scelte che li riguardano, creando nel Paese le condizioni di un massiccio voto di opinione in loro favore, non deve essere trascurata e induce a riconoscere – finalmente senza pregiudizi di bandiera – la bontà di molte intuizioni alle quali purtroppo è mancata la concretezza dell’azione politica. Il fenomeno fa anche riflettere sull’esistenza di uno spazio che può essere colmato da un soggetto politico nuovo, capace non tanto di cavalcare lo scontento, ma di preparare una classe dirigente che si dimostri all’altezza di coniugare insieme la domanda di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica con la progettazione di autentiche misure di riscatto e di trasformazione sociale.

 Al Partito Democratico va invece riconosciuto di essere nato con ben altre aspirazioni, come si legge nella relazione con la quale Piero Fassino aprì il processo costituente:

  “Diamo vita al Partito Democratico non per un'esigenza dei DS o della Margherita o di un ceto politico. No. Il Partito Democratico è una necessità del Paese, serve all'Italia. Vogliamo dare vita ad un soggetto politico non moderato o centrista, bensì progressista, riformista e riformatore. Un partito che faccia incontrare i valori storici per cui la sinistra è nata e vive - libertà, democrazia, giustizia, uguaglianza, solidarietà, lavoro - con l'alfabeto del nuovo secolo: cittadinanza, diritti, laicità, innovazione, integrazione, merito, multi-culturalità, pari opportunità, sicurezza, sostenibilità, sopranazionalità. E per questo dovrà essere un partito del lavoro, dello sviluppo sostenibile, della cittadinanza e dei diritti, dell'innovazione e del merito, del sapere e della conoscenza, della persona e della laicità, della democrazia e dell'autogoverno locale, dell'Europa e dell'integrazione sopranazionale, della pace e della sicurezza”.

 Belle parole, ma destinate subito a restare sulla carta, perché già il Manifesto del PD, approvato il 16 febbraio del 2008, rende evidente il carattere astratto e velleitario di formulazioni generiche – fatte più per la coesistenza e il compromesso tra ceppi antichi e diversi [che il Manifesto chiama “grandi tradizioni”], in passato spesso ostili tra loro – che per essere effettivamente realizzate. Il Manifesto si articola in sette punti:

 1. Le ragioni del Partito Democratico”, individuate: a) nella necessità di fare un “Italia nuova” ricollocandola “negli inediti scenari aperti dalla globalizzazione del mondo”, b) nell’obiettivo di un “profondo rinnovamento della società italiana” e nella “formazione di una nuova classe dirigente”, c) nella volontà di “dare adeguate risposte ai grandi problemi del presente e del futuro”.

2. Un partito aperto nel mondo globalizzato”, che dichiara solennemente: a) di battersi per l’universalità del sapere, considerata come “un grande progetto di democrazia della conoscenza“, b) di riconoscere “la centralità e l’universalità dei diritti umani”.

3. Nel solco della Costituzione: etica pubblica e laicità”, dove si ribadisce il valore della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza antifascista, e la necessità di realizzarne la piena attuazione e l’aggiornamento “nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise”.

4. Un’Italia più libera, più giusta e più prospera”, con il quale si annuncia tra l’altro di volere “un’Italia più libera, più giusta e più prospera […] una società aperta che consideri le persone in base alle loro qualità, rimuovendo gli ostacoli economici e sociali, e premiando il merito e non i privilegi. Vogliamo che a ciascuno sia garantita la libertà di realizzarsi secondo i suoi talenti e le sue inclinazioni”.

5. Il pluralismo sociale, per una comunità forte e solidale”, dove, a tutela della famiglia, si annuncia il “bonus bebè”, si considera l’accoglienza dei migranti più un’opportunità che un problema e si proclama la valorizzazione e la promozione delle autonomie locali, “la cultura della sicurezza e della legalità”, la lotta contro “il degrado urbano e sociale […], la corruzione e la criminalità organizzata”.

6. L’educazione, la formazione, la ricerca scientifica”, con la proclamata centralità della scuola dove – è detto – “si pongono le premesse della cultura democratica indispensabile alla convivenza in una società sempre più plurale e multiculturale”, con “un sistema scolastico pubblico, imperniato sulla valorizzazione del ruolo educativo degli insegnanti” e il pieno sostegno “della libertà della ricerca scientifica”.

7. La speranza della pace: la storia non è finita”, dove si enfatizza l’aver tratteggiato “il profilo di un partito nuovo” e si prospetta l’elaborazione di “una nuova idea di progresso”.

 Come si vede, il Manifesto dei valori del Partito Democratico contiene già in nuce i segni della retorica, del velleitarismo e dell’ impotenza. Se si eccettua il riferimento al noto “bonus bebè”, una sorta di mancia elettorale che non ha certo risolto i problemi delle famiglie italiane, tutti i solenni propositi contenuti nei sette punti in cui il Manifesto si articola non sono sostenuti dall’indicazione, non dico di misure, ma almeno di proposte per la loro effettiva sostenibilità e realizzazione. A guardar bene, anzi, si direbbe che la società vagheggiata astrattamente dai fondatori del Partito Democratico, sia venuta evolvendosi proprio in senso contrario alle grandi affermazioni di principio contenute nel citato Manifesto. E l’astrattezza dei valori non è soltanto imputabile all’opportunismo politico che determinò la nascita di questo partito, ma al fatto che il Partito Democratico fu soprattutto un’unione di vecchie sigle e vecchie nomenklature, poco di cittadini intenzionati a dar vita ad una nuova e diversa formazione politica e animati dal desiderio di cambiare davvero le cattive abitudini di cui la classe dirigente, già nel passato, aveva fornito prove eloquenti.

 Alla generica idea di progresso presente nel Manifesto dei valori del Partito Democratico, alla sua corruzione e inconcludenza nell’azione politica, al velleitarismo dei cosiddetti movimenti e campi che rivendicano la patente di progressisti, unicamente perché si collocano alla sinistra del PD, dopo averne sempre condiviso le peggiori scelte politiche ed economiche, all’Europa dell’austerità e dei summit franco-tedeschi, alle promesse di risanamento sociale e nazionale, mai mantenute, dei sedicenti moderati del centrodestra, alle lusinghe antieuropeistiche dei loro alleati, destinate ad emarginare il Paese dal processo produttivo mondiale e a far girare al contrario la ruota della Storia, ai pronunciamenti rivoluzionari del Movimento Cinque Stelle, non suffragati nella realtà dal governo di alcune città metropolitane, allo splendido isolamento che ne rappresenta insieme il punto di forza e il limite, alla vaghezza di una proposta politica, ad una classe dirigente impreparata a gestire l’ampio consenso ricevuto da milioni di cittadini, il costituendo Partito Democratico Progressista oppone un progetto di un’autentica trasformazione sociale, basato su un’idea di progresso, né generico né velleitario, ma orientato su alcuni temi specifici che si riferiscono:

1) Al concetto di democrazia: l’istituto della democrazia rappresentativa e quello della democrazia diretta, limitati alla delega, al referendum abrogativo e alle leggi di iniziativa popolare con procedure complesse e farraginose che ne scoraggiano l’utilizzo e che per di più non sono ammesse per alcune materie fondamentali, va rivisto nella direzione di un progressivo allargamento che contempli: a)forme più snelle di partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica da parte dei cittadini, b)l’introduzione della democrazia stocastica [sorteggio qualificato per l’elezione dei deputati], c)le primarie, sancite per legge e limitate agli iscritti, per scegliere le cariche interne dei partiti e i relativi candidati per ogni tipo di elezione, dove sia in gioco la rappresentanza politica dei cittadini.

2) Alla manifestazione della sovranità popolare che progressivamente abbandoni ogni riferimento astratto, e si concretizzi in forme sempre più reali ed efficaci.

3) Alla pratica della delega in bianco, quale si manifesta attualmente per ogni tipo di elezione, e che una visione progressista non può che rimuovere, perché fa dei membri del Parlamento i rappresentanti della nazione e non dei cittadini, praticamente inamovibili – se non per reati comuni e attraverso complesse procedure – e che dunque rende gli eletti disponibili per ogni genere di trasformismo.

4) Alla piena, progressiva attuazione dei diritti civili, politici e sociali contenuti nella Costituzione Italiana e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

5) Alla riaffermazione della sovranità monetaria dello Stato per rendere progressivamente ed effettivamente possibile l’attuazione del 2° comma del 3° articolo della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 

6) Al progressivo raggiungimento della piena occupazione, sancito ma sempre disatteso dalle attuali politiche, volte a perseguire l’austerità e il pareggio di bilancio e non già il dettato del 4° principio fondamentale della Costituzione italiana, il quale recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

7) Ad un benessere sociale, non più pensato come esclusivo appannaggio di determinate classi, ma  destinato progressivamente ad includere il maggior numero possibile di cittadini.

8) Ad una progressiva liberazione dell’Europa, non più schiava delle oligarchie finanziarie e dell’egemonia tedesca con i suoi lacchè francesi.

 In conclusione, mi sembra di poter dire che gli obiettivi del PDP siano concreti, perché indicano già dei percorsi effettivi per la loro realizzazione. Ciò non significa che il cammino sia semplice e occorrerà anche sciogliere alcuni nodi contenuti nei principi fondativi da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente. Bisognerà poi risvegliare molte coscienze addormentate o ancora assopite e preparare una nuova classe dirigente. In questa prospettiva il Movimento Roosevelt - che resta una realtà politica ma non partitica – è chiamata a svolgere una funzione determinante in fatto di informazione, cultura e pedagogia. Perché è abbastanza evidente che nulla potrà mai cambiare veramente se i tanti delusi dal linguaggio e dall’agire della politica non coglieranno l’opportunità di una rivoluzione copernicana che rovesci il tradizionale rapporto stato-cittadini: lo stato non più concepito come un’entità astratta che impone i propri comandamenti, attraverso inamovibili oligarchie, ma finalmente inteso come il risultato di un patto sociale nel quale i cittadini si possano riconoscere. 

sergio magaldi