lunedì 19 marzo 2018

LO STALLO PREMEDITATO DELLA POLITICA ITALIANA




  Quando fu approvata la nuova legge elettorale c’era sicuramente un piano A ma già prendeva forma anche un piano B. I sondaggi davano allora il PD sopra il 25% e il Centrodestra tra il 38 e il 39%, con Forza Italia in vantaggio di 3 o 4 punti sulla Lega. L’idea era dunque un governo di larghe intese tra Renzi e Berlusconi al quale, a certe condizioni, forse avrebbe finito con l’accodarsi anche Matteo Salvini, uscito sconfitto dal confronto con il leader di Forza Italia ma con lui alleato in diverse amministrazioni comunali e regionali. Insomma, con tutta probabilità ne sarebbe uscita una maggioranza in grado di governare comodamente per i cinque anni successivi, relegando il M5S all’opposizione ma soprattutto decretandone il progressivo sfaldamento. La chiave, per comprendere la logica di questa dissennata legge elettorale, era riposta nella certezza che le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra [ben poca cosa alla fine si sarebbe rivelata quest’ultima] prendessero un voto in più del M5S che correva da solo e addirittura nella speranza che il PD prendesse un voto in più del movimento guidato da Di Maio. In altri termini, il “Rosatellum” faceva propria la richiesta di Berlusconi [senza di che l’anziano leader non avrebbe dato il suo appoggio alla nuova legge elettorale] di consentire la presenza delle coalizioni nei collegi uninominali, garantendo al centrodestra il primato ma non anche la possibilità di formare un governo che sarebbe spettata in ogni caso al PD, sia che questo si fosse affermato come primo partito, sia che fosse stato il secondo dopo i pentastellati, ma nella prospettiva di essere il solo in grado di promuovere un governo di larghe intese. Un piano in apparenza ben congegnato, che tuttavia aveva quattro punti deboli: 1) l’ipotesi che il M5S non sarebbe andato oltre il 27-28% e che il PD si sarebbe avvicinato a questa percentuale o l’avrebbe addirittura superata, 2) la convinzione che il centrodestra non avrebbe raggiunto il 40% dei voti e dunque ottenuto probabilmente la possibilità di governare da solo, 3) uno sguardo poco attento della realtà da parte del PD nel fare il calcolo di chi avrebbe potuto vincere realmente in ciascuno dei collegi uninominali, anche per la presenza di LEU e considerando la compattezza degli elettori di Lega e Forza Italia al nord e la forte disoccupazione e il malcontento dei cittadini al sud 4) la probabile affermazione, fidandosi dei sondaggi, di Forza Italia sulla Lega.

 Considerando che dei quattro punti, solo il secondo è stato intuito correttamente, sembra lecito chiedersi se Renzi, proponendo o almeno condividendo il “Rosatellum” per le elezioni del 4 marzo ’18 [si veda in proposito il post La scelta elettorale del 4 marzo, cliccando sul titolo per leggere] non abbia messo in campo la stessa ingenua spregiudicatezza utilizzata per il voto referendario del 4 dicembre del 2016: allora sfidando con il suo 22 % [al netto della percentuale di chi avrebbe dato vita a LEU], il 78% dell’elettorato gestito dai partiti del No, ora facendosi schiacciare da una parte dal M5S, dall’altra dalla coalizione di Centrodestra. E non si venga a parlare di personalismo: anzi, fu proprio l’aver personalizzato il referendum che gli valse il 40% di a fronte di un potenziale 22%. Questa volta, infatti, senza personalizzazioni, stando alle parole stesse del suo segretario, il PD si attesta tra il 18 e il 19 %. Si possono rimproverare a Renzi alcuni errori nella gestione del governo, altri nel rapporto con le minoranze e con i padri nobili del suo partito, ma ciò che decide della sua trasformazione da leader nazionale in cui la gente aveva creduto e sperato, in un comune politico dagli orizzonti regionali, sono appunto le scelte che sono alla base del voto referendario e della legge elettorale. 

 Eppure, una battuta paradossale di Michele Emiliano fa riflettere: il PD è il vero vincitore delle elezioni, attenzione, il partito, non Matteo Renzi. Già, perché il PD diventa l’ago della bilancia di questa legislatura. Schiacciato tra M5S e Centrodestra, resta indispensabile per il governo. E qui veniamo al piano B: astuzia di quel tanto di sangue democristiano che continua a circolare nel partito democratico, un paracadute pensato non da Renzi ma dagli Zanda, i Rosato, i Letta, i Franceschini ecc… Se tutto fosse andato male [come poi è stato] il Partito democratico avrebbe comunque raggiunto cinque obiettivi fondamentali: 1) liberarsi una volta per tutte del mancato enfant prodige, 2) ricompattare il partito tra minoranza e maggioranza, forse addirittura riassorbendo i fuoriusciti di Leu, 3) essere comunque decisivo per la formazione di qualsiasi governo, 4) mantenere il più a lungo possibile il governo Gentiloni, sia pure per la cosiddetta “normale amministrazione”, che intanto gli ha consentito di mettere a segno la riforma penitenziaria e che presto potrebbe fargli avere voce in capitolo nella nomina dei grand commis di stato. Bastando a questo fine rivendicare il diritto di stare all’opposizione e lasciando (ipocritamente) ai vincitori (M5S e Lega) il compito di governare, ben sapendo che l’introduzione del reddito di cittadinanza (M5S), che comporta l’inevitabile e ulteriore salasso fiscale delle classi medie, mal si concilia con la flat tax (Lega) con la quale, al contrario, ci si propone di tagliare le tasse soprattutto a vantaggio delle imprese, 5) tranquillizzare l’Europa e i mercati con uno stallo premeditato della politica italiana che di fatto impedisce iniziative “pericolose” di qualsiasi segno, come dimostra il fatto che sino ad oggi, al di là delle preoccupazioni espresse dal valletto della Merkel, i mercati non si siano mossi.

 Teoricamente, si dà un solo caso in cui il piano B potrebbe fallire: qualora si decidesse di tornare a votare prima dell’estate. Ipotesi improbabile perché sul Colle spira ancora la brezza democristiana e tutti i partiti confidano nella saggezza del presidente della Repubblica, il quale prendendosi un po' di tempo e muovendosi con circospezione e passo felpato alla fine saprà trovare la giusta soluzione alla crisi, laddove per correttezza non ha speso una sola parola per impedire il varo di una legge elettorale a dir poco machiavellica. Così, mentre il governo Gentiloni resterà in carica, sia pure sminuito nelle sue funzioni (ciò che non dispiace ai mercati), la politica italiana si aggirerà dalle parti del Quirinale per un lungo periodo e senza praticamente occuparsi di altro, con l’alibi che ai tedeschi sono occorsi sette mesi per varare un nuovo governo e che perciò se agli italiani ne occorresse anche qualcuno di più non si potrebbe certo gridare allo scandalo. Certo, alla fine, una soluzione bisognerà trovarla e qui le ipotesi sono almeno tre: 1) un governo di “larghissime” intese per tornare alle urne con una nuova legge elettorale, ma non prima di un anno o addirittura due: il tempo giusto perché la situazione decanti e perché l’elettorato del sud, disilluso dalla mancata introduzione del reddito di cittadinanza, scelga rapidamente un altro cavallo come ha sempre fatto in passato: in massa democristiano, poi con Forza Italia, quindi con l’Ulivo, ancora col Centrodestra del PDL, poi con il PD di Renzi nel voto europeo del 2014, ora con il M5S, 2) un governo del PD con uno dei due contendenti [M5S o Centrodestra], reso possibile dalla rinuncia all'opposizione, dopo diversi mesi, per l’appello del Capo dello Stato, per spirito di sacrificio e magari in cambio di ministeri “chiave”, 3) un governo M5S e LEGA per qualche minuta riforma e per varare una nuova legge elettorale in tempi brevi. 

 Poco probabili le soluzioni 1 e 3 non fosse altro per la difficoltà di trovare una nuova legge elettorale con premio di maggioranza, l’unica che consentirebbe il governo del Paese. A chi dovrebbe andare il premio, alle liste o alle coalizioni? Problema insolubile perché con il premio alle liste vincerebbe il M5S, con il premio alle coalizioni a vincere sarebbe il Centrodestra. In particolare poi, la soluzione n.3 appare anche più improbabile perché la Lega, rompendo ogni legame con le altre forze del Centrodestra, si consegnerebbe di fatto nelle mani dei pentastellati e difficilmente da sola potrebbe raggiungere una percentuale di voti superiore a quella del M5S. E nell’eventualità che anche Berlusconi finisse per assecondare Salvini nell’alleanza a scopo elettorale con i Cinquestelle, si ripresenterebbe intatta la questione: premio di maggioranza alle liste dei singoli partiti o alle coalizioni? In conclusione, tutto lascia pensare alla soluzione n.2, anche se l’esperienza di scuola democristiana insegna che le vie del potere sono infinite.


sergio magaldi

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