giovedì 30 maggio 2019

LA TERZA MOSSA DEL SISTEMA





Fallita la prima mossa – che il sistema di potere esistente in Italia e gradito a Eurogermania aveva tentato con una legge elettorale in stile democristiano, varata appositamente per le elezioni del 4 marzo dell’anno scorso, e che nelle intenzioni avrebbe creato le premesse di una alleanza stabile tra Partito Democratico e Forza Italia – la seconda mossa, consistente nello scatenare i gialli contro i verdi a poco più di un mese dalle elezioni europee di qualche giorno fa, si può dire solo parzialmente riuscita.

Come era facile prevedere, infatti,  [vedi il post LE ELEZIONI EUROPEE E IL VOTO ITALIANO], a beneficiare della polemica aspra dei pentastellati contro la Lega, sempre più demonizzata agli occhi dell’opinione pubblica (e forse proprio per questo Salvini in più di una occasione ha avuto il cattivo gusto di invocare la madonna e sbandierare il rosario), non è stato il Movimento Cinquestelle, bensì il Partito Democratico che è passato dal 18% dei consensi delle ultime elezioni politiche a circa il 23% , realizzando il sorpasso dei grillini, crollati  dal 32 al 17% . Anche se c’è chi ha capito tutto e proclama candidamente che proprio in forza di questa ritrovata fermezza di Di Maio e soci, si sarebbe evitato un crollo maggiore. Resta da chiedersi se chi fa queste affermazioni sia davvero in buona fede o sia semplicemente guidato da un antico disegno: creare le premesse di una nuova maggioranza, formata da M5S e PD, numericamente possibile in Parlamento, sebbene divenuta politicamente impraticabile… almeno per il momento.

Questa seconda mossa fallisce tuttavia nel tentativo di favorire il recupero del voto cosiddetto moderato da parte di Forza Italia ai danni di una Lega che fino a qualche mese fa tutti i sondaggi davano con una percentuale di voti superiore al 30% e che nelle ultime settimane – anche approfittando della confusione creata nei cittadini dal solito vergognoso divieto di diffondere l’esito dei sondaggi –  si dava in vistoso calo, naturalmente non rispetto alle politiche, ma a quel fatidico 30% dei sondaggi “legali”. Si diceva che la Lega si sarebbe fermata al 25-26%, e che di conseguenza la maggioranza di governo non avrebbe raggiunto il 50% dei consensi di cui disponeva dopo le elezioni politiche dello scorso marzo. E, invece, è accaduto il contrario, perché oggi, pur nel ribaltamento dei rapporti di forza tra le due compagini di governo, il gradimento elettorale dell’esecutivo è salito a circa il 52%.

L’analisi del voto italiano a 14 mesi dalle elezioni politiche mostra una verità sin troppo evidente. Il 4 marzo l’elettorato manifestava a maggioranza la volontà di affidarsi ai Cinquestelle, nella speranza che da questa nuova forza politica potesse venire il cambiamento. Era premiata anche la Lega, ma solo con un modesto  travaso di voti da Forza Italia, non più in grado di rappresentare il ceto medio, ma sempre al servizio di un moderatismo non bene identificato (difesa dei privilegi?), in una contingenza economica che a tutto può spingere, tranne che a soluzioni “moderate”.

Nasceva così il nuovo governo Cinquestelle – Lega, dopo il rifiuto del Partito Democratico, ancora intestato a Renzi, di farne parte. Quel che è accaduto dopo fa parte dell’attualità, ancorché malamente intesa. Perché in pochi mesi si è rovesciato il rapporto di forza tra Lega e Cinquestelle? Non certo per i motivi che la solita narrazione interessata vorrebbe far credere. Non è questione della maggiore personalità di Salvini rispetto a Di Maio, né del fatto che i pentastellati sarebbero stati remissivi nei confronti dei leghisti e che il capo della Lega l’avrebbe fatta da padrone. La maggior parte dei provvedimenti  sin qui approvati fa parte del programma dei pentastellati, mentre la Lega del suo programma elettorale ha realizzato solo tre obiettivi. Proprio questo è il punto: la nuova politica per l’immigrazione, la quota 100 (che peraltro era un progetto comune ad entrambi i partiti di governo) e il decreto sicurezza hanno risposto, nel bene e nel male, alle richieste prevalenti dei cittadini, mentre i tanti provvedimenti del Movimento Cinquestelle hanno avuto scarsa presa per come sono stati realizzati (tra tutti il reddito di cittadinanza), non erano forse ai primi posti nelle esigenze dei cittadini o, infine, non sono stati sufficientemente propagandati, sempre che abbiano apportato reali vantaggi. Se si aggiunge l’eccessiva prudenza nell’ambito degli investimenti produttivi, mostrata dai pentastellati che controllano i ministeri del lavoro, la Presidenza del Consiglio e 13 ministeri su 18, nonché la ormai triennale conduzione del governo di Roma, con l’eco di una deriva che dalla capitale si diffonde in tutta Italia e non solo, si comprende bene come l’elettorato abbia inteso premiare la componente del governo mostratasi più intraprendente e determinata.

Ed ecco pronta la terza mossa del sistema. Da qualche giorno gli addetti ai lavori dell’opposizione e le vestali della comunicazione, da sempre asservite alle élite e costantemente attive sui grandi giornali e nei talk show, non fanno che dare per certa e più o meno imminente la crisi di governo. In caso contrario – si dice – per una nuova pressione interessata nei confronti del M5S, i pentastellati diverrebbero lo “zerbino dei leghisti”, e Di Maio il “maggiordomo” di Salvini. Il capo politico del Movimento viene ridicolizzato e quello della Lega rappresentato come il leader dell’estrema destra che si avvierebbe a dominare il Paese. Il tutto corroborato dal solito catastrofismo, al quale stanno dando una mano i soliti noti del sistema Europa, con l’aumento dello spread, al grido di “Sono i mercati che lo vogliono!”, e inviando in tutta fretta una lettera ultimatum al governo italiano perché nel giro di 48 ore dia una risposta esauriente su come abbassare il debito pubblico (nello specifico il deficit creato dal governo Gentiloni), pena la minaccia di una procedura di inflazione e di una multa di 3,5 miliardi di euro (!).

Bene ha fatto Beppe Grillo a prendere alla sua maniera le difese di Luigi Di Maio. Intanto perché il giovane leader campano non può essere ritenuto il solo responsabile di una sconfitta che appartiene ad un collettivo di cui Di Maio è solo il portavoce, poi perché il M5S – che non dispone di un’organizzazione territoriale con proprie sedi – è un movimento di opinione che soffre le elezioni amministrative, regionali ed europee (dove molto contano le clientele e le alleanze locali), e che ha sempre ottenuto i migliori risultati nelle elezioni politiche generali. Il monito di Grillo dovrebbe servire a rilanciare l’azione dei pentastellati e non a staccare la spina come si chiede da più parti. Certo, a questo scopo, il Movimento deve rivedere il proprio atteggiamento. Non lasci solo alla Lega il merito di realizzare ciò che vogliono gli italiani, giocando in difesa, ma passi all’attacco e faccia finalmente proprio un programma che, oltre alla tutela degli emarginati, si proponga la ripresa dei ceti medi e la crescita del lavoro e dei consumi.

Dal canto suo, Salvini è atteso da un compito arduo. Chiamato a rappresentare dagli italiani, dopo Renzi e dopo i Cinquestelle, la speranza di un reale cambiamento della politica, dovrà dimostrare di esserne capace. Molto dipenderà da come saprà giocare la partita con la governance europea che il voto recente ha solo scalfito ma non colpito. Il sistema lo aspetta al varco e disegna un progetto che, oltre alla crisi di governo, prevede anche il suo fallimento di fronte all’incalzare dell’esercito al soldo del capitalismo finanziario che già Marx definì come una specie dell’accumulazione capitalistica in epoca di crisi, allorché si riduce la produzione industriale per effetto della sovrapproduzione dei beni e, contestualmente, cresce l’emissione dei titoli del debito pubblico. Quanto al fatto di essere rappresentato come il leader dell’estrema destra, occorre osservare che il capo della Lega non si è mai proclamato tale, anche se a un certo punto deve essersi reso conto che l’immagine finiva col giovargli sul piano elettorale. Vent’anni fa Salvini scelse per sé l’etichetta di “comunista padano”, oggi dichiara apertamente che la distinzione tra destra e sinistra non ha più ragione di essere e che ci sono solo problemi da risolvere per il lavoro, l’occupazione e la sicurezza dei cittadini. Di certo una verità parziale, perché non si possono dimenticare i lager nazifascisti né le responsabilità storiche della destra, ma almeno una verità attuale se si guarda alle politiche messe in atto negli ultimi decenni dalla cosiddetta sinistra.

sergio magaldi


venerdì 24 maggio 2019

LE ELEZIONI EUROPEE E IL VOTO ITALIANO





A quarantotto ore dall’apertura delle urne per il voto europeo, ci si può chiedere se il bisticcio prolungato tra Cinquestelle e Lega avrà implicazioni significative sul piano del risultato elettorale.

L’assurdo divieto di far circolare liberamente l’esito degli ultimi sondaggi – mentre élite e gran parte degli addetti ai lavori ne sono a conoscenza – segna il punto più basso della vita democratica, sottolineando ancora una volta il consueto disprezzo nei confronti dei cittadini, trattati alla stregua di fanciulli ignoranti di cui si teme l’influenzamento degli uni con gli altri. Ma ignoranza e pathos hanno lo scopo di tenere alta la tensione e al tempo stesso alimentano proprio il contrario di ciò che a parole ci si propone di evitare: la circolazione di voci incontrollate per cui sarebbero in atto, dall’ultimo sondaggio consentito, veri e propri ribaltamenti della volontà popolare. Così, la narrazione più accreditata di queste ore è la risalita dei grillini, per aver virato a sinistra e costretto la Lega – anche in virtù di recenti provvedimenti giudiziari abilmente sfruttati a livello propagandistico – a occupare l’estrema destra dello schieramento politico.


La ferita inferta al sistema con le elezioni del 4 marzo dello scorso anno deve essere risanata. Paventando il pericolo, già prima delle elezioni si era intervenuti con una legge elettorale assurda che avrebbe garantito la conservazione grazie all’alleanza tra Partito Democratico e Forza Italia, respingendo gli attacchi dei cosiddetti populisti e sovranisti. I calcoli si mostrarono sbagliati perché i cittadini finalmente chiamati alle urne negarono la possibilità di una simile maggioranza. Il rifiuto di Renzi di condividere in posizione subordinata il governo con i Cinquestelle – divenuto il primo partito politico italiano con oltre il 32% dei consensi – determinò la nascita del nuovo esecutivo gialloverde. Da allora, il sistema di potere dominante nulla ha lasciato di intentato pur di mettere in evidenza inefficienza, velleitarismo, indebitamento crescente e rischi di fallimento da parte dei nuovi soggetti politici, e non si può negare che i sottoscrittori del contratto per governare ci abbiano messo del loro per accreditare quelle voci.

Intanto, però, la maggiore determinazione nei confronti dell’Unione Europea, la mutata politica nei confronti dei migranti, la promessa del reddito di cittadinanza, della quota cento per il pensionamento, della flat tax e di altre misure annunciate, faceva salire il consenso per i gialloverdi, ma in una prospettiva rovesciata che, almeno nei sondaggi, invertiva i rapporti di forza tra Lega e Pentastellati, assegnando alla prima una percentuale tra il 30 e il 35% dei votanti, dal 17,37% delle elezioni politiche, e ai secondi  una percentuale di circa il 22%, rispetto al precedente 32%. L’elettorato, almeno nelle intenzioni, manifestava il proposito  di premiare la compagine  mostratasi più intraprendente e determinata, e di ridimensionare un movimento più incline a parlare che a fare.

Dall’allarme dei sondaggi ha inizio la strategia dei Cinquestelle per colmare la distanza ipotetica dal suo alleato e il fatto nuovo della politica italiana è rappresentato dal progressivo avvicinamento di una delle componenti dell’autoproclamatosi “governo del cambiamento” al sistema di potere che con la complicità dei media ha guidato negli ultimi decenni il processo di sottomissione a Eurogermania e il relativo depauperamento del nostro Paese.

L’opposizione al governo gialloverde – di cui i partiti politici rappresentano solo la minima parte – non chiedeva di meglio: usare la componente pentastellata del governo come un cavallo di Troia per abbattere l’altra parte, additata da mesi all’opinione pubblica come il demonio, nonostante i goffi tentativi di Salvini di chiamare in soccorso la madonna. Con il rischio per i Cinquestelle di svegliarsi il mattino del 27 maggio con la sorpresa di vedere, non una loro rimonta, ma quella del nuovo Partito Democratico di Zingaretti e, sia pure in misura minore, di Forza Italia del neocandidato europeo Silvio Berlusconi, pronto a recuperare da una posizione di centrodestra moderato molti dei voti volatilizzatisi dopo le elezioni del marzo dello scorso anno.

Se l’operazione dovesse riuscire, con la conseguente riduzione virtuale della maggioranza parlamentare, dall’attuale 50% ad una percentuale apprezzabilmente inferiore, il significato politico sarebbe inequivocabile e, anche al di là della reale volontà dei contraenti dell’attuale patto di governo, le premesse di una crisi sarebbero inevitabili. Con o senza nuove elezioni politiche, una nuova coalizione di governo su basi paritetiche, tra PD e M5S, diverrebbe probabile o, in alternativa, anche in considerazione del difficile cammino che attende l’esecutivo nei prossimi mesi, si farebbe strada la solita alternativa, cara a Bruxelles, di un governo tecnico per “salvare” il Paese.

Pure, occorre riconoscere che il governo gialloverde – nonostante le “grida” e gli allarmismi di un sistema di potere minimamente scalfito dall’azione dei nuovi governanti – non ha operato peggio rispetto agli esecutivi che l’hanno preceduto negli ultimi decenni. Forse addirittura meglio, se si considera che bene o male (forse più male che bene) alcune promesse elettorali sono state mantenute. Anche se l’inutile e puerile contrapposizione degli ultimi mesi tra Lega e Cinquestelle a fini elettorali, con il relativo immobilismo politico, la continuità con le politiche dei precedenti governi nel varare misure impopolari, come la decurtazione delle pensioni medio-basse dal prossimo mese di giugno, la farsa della cedolare secca estesa dagli affitti delle abitazioni anche a quelli di negozi e studi commerciali, ma solo futuri, la cosiddetta flat tax  limitata alle partite IVA, hanno generato più di una disillusione nei cittadini che avevano sperato in un reale cambiamento nella gestione della “cosa pubblica”.

sergio magaldi


lunedì 20 maggio 2019

SOCIALISMO LIBERALE E DEMOCRAZIA, parte V



Testo della relazione presentata al Convegno organizzato il 3 maggio 2019 dal Comune di Milano e dal Movimento Roosevelt:

“Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara e contro la crisi della democrazia in Italia, Europa, Africa e a livello globale”


SEGUE DA:





 Conclusioni

L’assassinio politico non è mai casuale, per quanto le sue narrazioni postume cerchino di ricondurlo sempre ad un mero incidente della Storia che nulla ha a che fare con le forze che determinano la realtà sociale e non solo.

Il riformismo socialista, liberale e democratico, può spingersi sin dove lo permettano le esigenze dell’economia di mercato. Quando il capitalismo ricerca altre strade e sviluppa nuove strategie, allora i partiti tradizionali della sinistra diventano impotenti, con l’aggrapparsi a formule ormai vuote e riducendo il proprio impegno al frazionismo o aderendo a programmi di sviluppo economico neoliberista. Non basta, perché con loro entra in crisi anche la democrazia: quella politica – dove il Parlamento, del tutto scollegato dai bisogni dei cittadini e interamente subordinato alla volontà di poteri sovranazionali, diventa luogo dove si lotta per entrare unicamente in funzione dei privilegi che assicura –, quella sociale, con il progressivo svuotamento del Welfare State, e quella economica con le politiche dell’austerità, la globalizzazione, la delocalizzazione delle imprese, la precarietà dell’occupazione, la riduzione del costo del lavoro, il licenziamento dei lavoratori.

È  il fenomeno che stiamo vivendo non solo in Italia, ma in tutta l’Europa e nel mondo intero. Certo, diventa tanto più grave quanto più debole è lo sviluppo economico di un paese, la corruzione della classe politica, la rete di privilegi assicurata alle corporazioni che contano, la cosiddetta forbice salariale, il ruolo della delinquenza organizzata.

La conseguenza – come è accaduto in Italia –  è spesso il crollo dei partiti tradizionali, la nascita di nuove formazioni o la crescita di altre già esistenti che, rinnovando se stesse, si propongano agli elettori per una politica del cambiamento dello stato di cose esistenti. Questi nuovi o rinnovati soggetti politici cercheranno di ridare fiato e sostanza almeno alla democrazia politica, vagheggiando forme di democrazia diretta o rivendicando la sovranità nazionale, in grado di ridare nerbo al capitalismo dei piccoli imprenditori ma, al di là delle velleità e delle promesse, nulla potranno fare per ristabilire in concreto la democrazia sociale e soprattutto la democrazia economica.

Pure, il fenomeno delle strategie sempre ricorrenti del capitalismo non è nuovo. Peccato, avere così in fretta accantonato Marx, come lo stesso Carlo Rosselli auspicava non accadesse. Scrive Marx nel ventisettesimo capitolo del III Libro del Capitale:

“[…] la soppressione del modo di produzione capitalistico in seno allo stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si elimina da sola, che ‘prima facie’ appare come un semplice momento di transizione verso una forma di produzione nuova […] Ripristina una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti […] tutto un sistema di truffe e di imbrogli che riguarda fondazioni di società, emissione e commercio di azioni[1]

La speculazione finanziaria non è che una specie dell’accumulazione capitalistica, allorché si riduce la produzione industriale per effetto della sovrapproduzione dei beni e, contestualmente, cresce l’emissione dei titoli del debito pubblico. Si crea, a questo punto, la finta contrapposizione tra capitalismo industriale e capitalismo finanziario, con la concentrazione delle risorse nelle mani di holding che, attraverso il controllo di istituti di credito, di imprese industriali e commerciali, governano la globalizzazione e influenzano, se non addirittura determinano, le politiche degli Stati, saltando a piè pari il processo democratico di formazione della volontà dei cittadini, sempre più relegati al ruolo di sudditi.

Così, non resta che chiederci: quali politiche per un movimento che, richiamandosi allo spirito del socialismo liberale, voglia fronteggiare la crisi di democrazia globale che stiamo vivendo?

sergio magaldi






[1] Karl Marx, Il Capitale, a cura di Eugenio Sbardella, avanzini e torraca editori, vol. V, p.408


mercoledì 15 maggio 2019

SOCIALISMO LIBERALE E DEMOCRAZIA, parte IV






Testo della relazione presentata al Convegno organizzato il 3 maggio 2019 dal Comune di Milano e dal Movimento Roosevelt:

“Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara e contro la crisi della democrazia in Italia, Europa, Africa e a livello globale”


SEGUE DA:






Già un anno dopo la nomina a Presidente da parte del Consiglio Nazionale della Rivoluzione, e quando era ormai iniziata la sua febbrile azione riformatrice, Thomas Sankara aveva reso noto al mondo il suo pensiero con un discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 4 ottobre del 1984.

Esordì col dire di non essere lì per annunciare dottrine di verità, ma per parlare in nome del suo popolo e del “grande popolo dei diseredati” del cosiddetto Terzo mondo. Da cristiano, osservò che questo popolo, per troppo tempo, ad ogni schiaffo ricevuto aveva porto l’altra guancia; da marxista, annunciò che questo stesso popolo aveva finalmente aperto gli occhi alla lotta di classe: “Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giustoHanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno occidentalizzato, mentre per noi aveva un significato di liberazione universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi”.

Non meno risoluto, egli si mostrò nei confronti di quelli che chiamò “ciarlatani di tutti i tipi” che, nei tanti forum e seminari, sbandieravano soluzioni miracolose per la crisi del Terzo mondo, e neppure risparmiò la piccola e istruita borghesia africana per le sue complicità: “l’istruita piccola borghesia africana – se non quella di tutto il Terzo mondo – non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano all’altezza degli assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse”.

Continuò, denunciando la cosiddetta politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale, responsabile ai suoi occhi di aver aumentato la disorganizzazione e generato di fatto la schiavitù permanente dei popoli oppressi. Annunciò a grandi linee, il suo programma politico: “Respingere l’idea di una mera sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne dalla paralisi e dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società, aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità collettiva, per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per ricostruire una nuova immagine di dipendente statale; fondere il nostro esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un potenziale criminale”.

Si avviò alla conclusione del suo intervento, ribadendo di non parlare solo in nome del suo paese, ma di tutti i sofferenti di sempre, e in particolare delle donne, ovunque fossero sfruttate da un sistema di potere maschilista. Da ultimo, tracciò un ponte ideale tra la rivoluzione liberale e i principi del 1789 e la rivoluzione socialista del 1917: “Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto […] Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta […] La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti. Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne […] Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessman dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati dai sistemi politici o dai moderni mercanti di schiavi

L’impegno riformatore di Thomas Sankara, si caratterizzò per la costruzione in soli otto mesi di una ferrovia che collegava tra loro le due maggiori città del paese, con il favorire la nascita di piccole imprese autogestite, dando impulso al commercio all’interno e all’esterno del paese, con il rilancio dell’artigianato tessile, lo sfruttamento delle risorse agricole, con piani di emancipazione per le donne e di alfabetizzazione rurale, uno speciale programma per il reinserimento nella vita sociale delle prostitute che lo desiderassero, una nuova politica sanitaria e soprattutto con la costruzione di numerose scuole in tutto il paese. Nella speciale classifica dei paesi più poveri, in qualche anno, il Burkina Faso risalì dal centoquarantatreesimo al settantottesimo posto.

Thomas Sankara fallì invece nel tentativo di convincere gli altri paesi africani a rifiutarsi di riconoscere il grande indebitamento nei confronti dell’Occidente. Nel luglio del 1987, intervenendo ad Addis Abeba alla riunione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), egli cercò invano di chiarirne le ragioni. Il risultato fu quello di provocare lo sconcerto di una parte dei delegati, evidentemente collegati a doppio filo al sistema di potere del neocolonialismo di alcuni paesi occidentali, primo tra tutti la Francia.

Si dice che la sua proposta sia stata determinante, tre mesi più tardi, nell’armare la mano dei suoi assassini, ma naturalmente per spiegare le ragioni di questo delitto politico si fecero altre ipotesi: la lotta aperta contro l’apartheid del regime sudafricano, l’ostilità manifesta delle potenze occidentali che continuavano nello sfruttamento economico e strategico del territorio africano, la rivalità dei militari che erano stati suoi compagni nell’insurrezione che l’aveva portato al potere, ed altro ancora, come sempre avviene in simili circostanze, nell’intento di diversificare le piste atte a confondere l’opinione pubblica.

Noi pensiamo che il debitoaveva detto con molta chiarezza Thomas Sankara, nel corso dell’Assemblea di Addis Abeba –  si analizza prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo […] Signor presidente, sentiamo parlare di club – club di Roma, club di Parigi, club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei cinque, dei sette, del Gruppo dei dieci, forse del Gruppo dei cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire oggi che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma al contrario intenzioni fraterne. Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”.

[ S E G U E ]


sergio magaldi

sabato 11 maggio 2019

SOCIALISMO LIBERALE E DEMOCRAZIA, parte III






Testo della relazione presentata al Convegno organizzato il 3 maggio 2019 dal Comune di Milano e dal Movimento Roosevelt:

“Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara e contro la crisi della democrazia in Italia, Europa, Africa e a livello globale”


SEGUE DA:





Già all’esordio come primo ministro, Olof Palme intervenne con efficacia nello sciopero dei cinquemila minatori della regione del Norbotten, che, oltre agli aumenti salariali, chiedevano soprattutto un miglioramento delle condizioni di sicurezza. La soluzione del neo primo ministro svedese fu nel fare approvare un programma di riforme che modificava sensibilmente, a vantaggio dei lavoratori, le norme sul diritto del lavoro. Un anno più tardi, dopo le nuove elezioni che videro una diminuzione dei consensi per la SAP, determinato dall’elettorato di destra del partito, non esitò ad associare nella maggioranza di governo i 17 deputati del partito comunista. Nel 1971 varò una legge a tutela dei lavoratori più anziani e, tra il ’72 e il ’76, nuove leggi furono approvate dal Parlamento su richiesta del suo governo: la rappresentanza dei dipendenti nel consiglio di amministrazione delle aziende, la revisione della normativa sulla sicurezza nel posto di lavoro, la legge contro i licenziamenti arbitrari e sul diritto dei lavoratori al congedo per motivi di studio, la legge sui delegati sindacali e quella che affiancava i lavoratori agli imprenditori nell’organizzazione aziendale.

Contestualmente, in questi stessi anni, Olof Palme indirizzò la sua politica all’ampliamento del welfare, con misure in favore dei pensionati, della salute pubblica e della famiglia, e chiamò a raccolta il partito nella battaglia per la parità dei sessi, che soprattutto andava resa evidente con l’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna, sul mercato del lavoro. La mobilitazione in favore dei diritti delle donne, fu chiaramente da lui sostenuta in un intervento al congresso della Sap del 2 ottobre del 1972:

[…]L’aspirazione all’uguaglianza tra i sessi deve fondarsi sul mondo del lavoro. Dobbiamo rivendicare il diritto delle donne all’occupazione. La società deve essere organizzata sulla base di una divisione del lavoro rispettosa dell’uguaglianza fra uomini e donne. Ciò richiede il potenziamento dell’assistenza all’infanzia, servizi sociali e un maggior peso dello spirito comunitario nell’organizzazione della società. Oggi la società è caratterizzata da valori che sotto molti aspetti discriminano le donne, le ostacolano nel loro processo di liberazione […]”[1]

Nell’ambito della politica internazionale, Olof Palme non si fece scrupolo nel condannare la guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, in particolare dopo il bombardamento americano di Hanoi che egli definì alla radio svedese - attirandosi l’ira del presidente Nixon - come una delle maggiori atrocità della storia. Così come, con altrettanta energia, si sarebbe pronunciato più tardi contro l’apartheid del regime razzista sudafricano di Pieter Botha.

Nel 1982, nel corso di un dibattito televisivo – riprendendo l’azione di capo del governo, interrotta nel 1976, e che concluderà circa quattro anni dopo, nel giorno del suo assassinio – Olof Palme si diceva orgoglioso di essere un socialista democratico: “È con orgoglio e con gioia che sono un socialista democratico […] Lo sono con orgoglio per ciò che questo socialismo democratico ha realizzato nel nostro paese, lo sono con gioia perché so che abbiamo davanti a noi compiti importanti, dopo gli anni di malgoverno borghese”.[2]

Eppure, nonostante questa fiducia nel futuro, in un’intervista di anni prima, egli non aveva mancato di sottolineare, con sorprendente lungimiranza, i pericoli per la democrazia, rappresentati dalla crisi del capitalismo: “Sono dell’opinioneaveva dettoche il capitalismo stia attraversando una sorta di crisi di lunga durata. Se guardiamo a come vanno le cose nei paesi capitalistici, la situazione non appare proprio tanto promettente […] Sono ottimista per quanto riguarda il futuro del socialismo, perché esso si rivelerà necessario. Il rischio tuttavia e che il capitalismo, trovandosi sulla difensiva, diventi duro, brutale e repressivo, finendo così per diventare pericoloso”.[3]

Olof Palme aveva lottato per la completa affermazione dei tre capisaldi della libertà e del socialismo: la democrazia politica  inaugurata in Svezia nel 1918 con il suffragio universale, e da lui ampliata favorendo una maggiore presenza delle donne nelle istituzioni e nei quadri dirigenziali del partito e del sindacato –, la democrazia sociale – con l’estensione del welfare in ogni campo della vita civile – e la democrazia economica – con le conquiste progressive del movimento operaio sul mercato del lavoro.


Thomas Sankara: le riforme sociali e la lotta contro il neocolonialismo

Nel continente africano, Thomas Sankara non è da meno di Olof Palme e  di Carlo Rosselli, tanto che anche la sua sorte, alla fine, è identica a quella degli altri due. Profondamente diverse erano state però le condizioni di partenza, non solo quelle personali, ma anche e soprattutto quelle territoriali: la nascita in un paese tra i più poveri dell’Africa, l’Alto Volta, colonia francese, indipendente dal 1960, a nord dell’omonimo fiume e ai confini del deserto. Eppure, Sankara, si considerò sempre un privilegiato, prima sopravvivendo alla diffusissima mortalità infantile, poi potendo studiare nelle missioni religiose, infine intraprendendo una carriera militare che lo affrancò dalla miseria e gli consentì di recarsi in Europa per essere addestrato.

Più tardi, come Olof Palme, Sankara si trovò a guidare la politica del suo paese, al quale cambiò il nome in Burkina Faso (Terra degli intrepidi), per meglio segnarne la distanza dal passato coloniale. Il suo mandato di Presidente durò all’incirca quattro anni, come il secondo incarico di governo del primo ministro svedese e, in entrambi i casi, fu l’assassinio politico a causarne la fine: il 28 febbraio del 1986 per Olof Palme e nemmeno un anno dopo, il 15 ottobre del 1987, per Thomas Sankara.

Per comprensibili ragioni ambientali e sociali legate al sottosviluppo, alle malattie endemiche, all’analfabetismo pressoché totale della popolazione, alla presenza di sei milioni di contadini poveri su sette milioni di abitanti e all’indebitamento di epoca coloniale, le riforme del leader africano non rientravano negli schemi classici del socialismo democratico europeo. Nello spirito, si rifacevano a Marx, e alla lotta di classe – nella fattispecie identificata nel conflitto tra sfruttatori e sfruttati – e alle figure leggendarie di combattenti comunisti come Che Guevara; nella sostanza, furono introdotte nel Burkina Faso, nel pieno rispetto della libertà individuali, solo indulgendo al licenziamento di circa diecimila quadri dirigenziali compromessi con il passato regime coloniale.

[S E G U E]

sergio magaldi


[1] Tra utopia e realtà: Olof Palme e il socialismo democratico, antologia di scritti e discorsi a cura di Monica Quirico, Editori Riuniti, University press, novembre 2009, p.115
[2] Op.cit., pp.157-158
[3] Ibid., p.90

giovedì 9 maggio 2019

GIUDA ISCARIOTA E GESU'




Akèldama. Il campo di Giuda
Fulvio Canetti
Prefazione di Sergio Magaldi
Postfazione di Edoardo Recanati
Tipheret euro 10


“E’ più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” Albert Einstein


E’ rivolto ai pellegrini di Terra Santa l’ultimo lavoro che Fulvio Canetti, medico-chirurgo proveniente da una famiglia di origini sefardite, dedica a Giuda Iscariota, uno dei dodici discepoli che secondo la versione dei vangeli Sinottici tradì Gesù per trenta denari e per questo passato alla storia come l’uomo simbolo del tradimento. Se nel precedente saggio “Amare Israele” l’autore, sulla base dello studio di testi canonici e cristiani, confuta la tesi infondata del “deicidio” di Gesù che secondo gli evangelisti sarebbe da ascrivere agli ebrei, in quest’ultima opera pubblicata dalla casa editrice Tipheret con il titolo “Akèldama” (termine aramaico per “campo di sangue”) analizza con rigore storico la figura di Giuda, il cui nome significa lode mentre per Iscariota si intende uomo di Kariot, un villaggio situato nelle vicinanze di Gerusalemme. Personaggio chiave per la comprensione della storia di Gesù accaduta a Gerusalemme durante il governo di Ponzio Pilato, uomo spietato e non debole o opportunista come ritratto dagli evangelisti, Giuda, additato nel corso dei secoli come il paradigma del popolo ebraico, rappresenta agli occhi degli antisemiti il trait d’union fra il deicidio operato dagli ebrei e l’immagine dell’ebreo falso e traditore. Uno stereotipo che alimenta pregiudizi in ambito cristiano e non solo duri a morire. Tuttavia il ritrovamento del vangelo di Giuda negli anni Settanta e la successiva pubblicazione nel 2006 - la cui importanza storica è enorme perché oltre ai rapporti fra Giuda e Gesù getta luce sugli sviluppi delle Comunità cristiane, prima sconosciuti – ha contribuito a riconsiderare la figura del tesoriere tra gli apostoli di Gesù. Chi era dunque Giuda Iscariota? Partendo dalla prospettiva dell’innocenza di Giuda l’autore offre al lettore uno spaccato storico minuzioso della vita dell’uomo che Gesù scelse come tesoriere “per la sua ponderatezza e capacità nell’amministrare il denaro comune”, del legame con il Maestro, dell’ambiente in cui è vissuto, del suo percorso umano e politico, del presunto tradimento e della sua morte restituendoci l’immagine di un personaggio ben diverso da quello ritratto dagli evangelisti, accolto e propagandato dal mondo cristiano. Giuda che amava profondamente Gesù lo convinse a salire a Gerusalemme per affrontare il potere politico-religioso che calpestava la libertà in modo che il popolo lo acclamasse Messiah, trovando così il movente per ribellarsi a Cesare. Come ricostruisce Canetti il piano di Giuda, concordato con il suo stesso Maestro, consisteva nel far sì che Gesù venisse arrestato nel giorno precedente la Pasqua ebraica quando molti pellegrini ebrei confluivano a Gerusalemme per celebrare la festività e che il popolo, a quel punto, insorgesse contro Roma e la classe sacerdotale corrotta e collaborazionista. Un disegno utopico, un atto di sfida che portò alla sconfitta totale. L’ingenuità di Giuda - che aveva in comune con Gesù la militanza zelota e che lo aveva portato a credere che il popolo guidato da un capo carismatico come Gesù si sarebbe ribellato ai Romani - fu anche l’origine del rimorso che lo indusse al suicidio nel campo del Vasaio, consapevole di aver provocato la morte del Maestro. Dopo un accurato quadro storico analizzando la figura di Giuda nell’immaginario cristiano l’autore argomenta come le allusioni alla cupidigia e all’avarizia di Giuda, identificato dai padri della Chiesa con i Giudei, abbiano creato nella mente dei fedeli cristiani uno stereotipo ebreo che sarà il motore principale dell’antisemitismo fino ai giorni nostri. Canetti prosegue con una riflessione originale sul rapporto fra messianesimo zelota del tempo di Gesù e moderno messianesimo laico noto come Sionismo evidenziando un programma comune seppur con esiti diversi: “il messianesimo sionista, razionale-laico, nonostante il contrasto con gli ambienti religiosi ha conseguito il successo politico di ricostruire la Nazione ebraica, mentre il messianesimo dei zeloti, a causa della sua tenace utopia, ha ignorato i rapporti di forza esistenti, conducendo Gesù sulla croce…”. Solo verso la metà del XIX secolo, Giuda si emancipa dai Vangeli canonici per la progressiva separazione fra Chiesa e Stato venendo tuttavia “riciclato nella dimensione dell’antisemitismo razziale, che conquisterà tutta l’Europa”. Nel capitolo “Ripensare Giuda” rivolgendosi direttamente al pellegrino che visiterà Israele non manca un interessante richiamo all’attualità. Ricordando la visita del 2014 di papa Bergoglio l’autore stigmatizza il silenzio del pontefice sul terrorismo arabo sdoganato con la sua visita pastorale a Betlemme alla barriera difensiva eretta da Israele e sulla precarietà della vita dei cristiani nei territori palestinesi. Canetti conclude questo capitolo auspicando che il pellegrino in visita in Terra Santa possa trarre dal suo studio su Giuda una valutazione scevra da pregiudizi e una conoscenza storica più corretta di questo personaggio biblico perché, scrive l’autore – “Ogni cristiano dovrebbe benedire il tradimento fraterno di Giuda, in quanto preludio alla realizzazione delle potenzialità messianiche, presenti nel messaggio ebraico di Gesù. La vita di Giuda era legata a quella del suo Maestro-Rabbino, che trovò la morte sulla croce di Roma, perché acclamato dal popolo Messiah Re d’Israele. Due ebrei zeloti lasciavano il mondo, sconfitti nelle loro aspirazioni di libertà”. Corredato dal Vangelo di Giuda, con un esaustivo commento, e da un’interessante indagine statistica sul personaggio di Giuda Iscariota effettuata sia in ambito ebraico che cristiano, il saggio di Fulvio Canetti è uno studio prezioso che illuminando la figura di questo personaggio biblico, per molti ancora controverso, ci offre un’opportunità unica per liberare la mente dai pregiudizi, dall’odio verso il popolo ebraico e la loro Patria e, attraverso la conoscenza, “far vincere la verità sull’invenzione malintenzionata che vuole, in definitiva, la sparizione dalla storia del Popolo Eletto”. Non possiamo dimenticare che senza la reiterata propaganda del tradimento di Giuda e della falsa accusa di deicidio, messa in atto dalla narrazione antigiudaica del cristianesimo, l’odio antisemita che ha invaso tutta l’Europa dall’800 in poi non avrebbe trovato un terreno tanto fertile per opprimere e perseguitare con ogni mezzo il popolo ebraico.



Giorgia Greco [Recensione pubblicata il 9 maggio 2019 su www.informazionecorretta.com ]


mercoledì 8 maggio 2019

SOCIALISMO LIBERALE E DEMOCRAZIA, parte II





Testo della relazione presentata al Convegno organizzato il 3 maggio 2019 dal Comune di Milano e dal Movimento Roosevelt:

“Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara e contro la crisi della democrazia in Italia, Europa, Africa e a livello globale”


SEGUE DA:



Il Primo Manifesto del Liberalsocialismo esordisce rivendicando a proprio fondamento il concetto della “della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo”, per poi continuare, in 12 strabordanti paragrafi, con l’approfondire il senso di questa ragione ideale:

“Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e in ogni avvenire, si è sempre misurata e si misurerà sempre, l’umanità e la civiltà: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio. Nell’ambito di questa universale aspirazione etica, liberalismo e socialismo si distinguono solo come specificazioni concomitanti e complementari.
Così il liberalismo vuole l’uguaglianza e la stabilità dei diritti e delle leggi, senza distinzioni dipendenti da religione, razza, casta, censo, partito; vuole la derivazione di ogni norma giuridica dalla volontà dei cittadini, espressa secondo il principio della maggioranza; vuole l’ordinata partecipazione dei cittadini al governo, comunque specificato, delle cosa pubblica; vuole la libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di partito, quale fondamento dell’esercizio del reciproco controllo e dell’autogoverno, e quale premessa e manifestazione a un tempo di ogni perfezionamento del costume politico; vuole la libertà di religione, che permetta ad ognuno di adorare in pace il suo Dio. Parallelamente, il socialismo vuole che nella coscienza morale degli uomini s’impianti energicamente il principio, che, anche sul piano della ricchezza, l’ideale è quello cristiano e mazziniano della giustizia e dell’uguaglianza[…]”


La critica del socialismo scientifico e del revisionismo marxista

Diversamente da un discorso basato unicamente sugli ideali, Carlo Rosselli muove da un presupposto che troverà rispondenza nel secondo comma del terzo principio fondamentale della Costituzione italiana del 1948[1], ancorché se ne attenda ancora la sua concreta attuazione. Egli afferma che “La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma[2]. La conseguenza è che il movimento socialista è l’erede concreto del liberalismo, il suo punto di approdo, la sola forza pratica capace di realizzarne compiutamente i principi.

Carlo Rosselli giunge alla formula del socialismo liberale, dopo un’attenta analisi critica sia del socialismo scientifico che del revisionismo marxista di destra e di sinistra. Del primo sottolinea l’insanabile contraddizione tra determinismo e volontarismo: l’impossibile conciliazione tra la fatalità del crollo del capitalismo e la teoria della lotta di classe, intesa come la guerra costante che il proletariato organizzato deve condurre contro la borghesia.
Del secondo, contesta il progressivo svuotamento della dottrina marxista: da destra, col rifiutare la teoria del valore, il materialismo storico, la necessità dell’avvento del socialismo  e persino la lotta di classe e, nel riproporre “la natura e le tendenze spirituali dell’uomo”, con il risultato di cancellare per sempre la soluzione socialista e di trasformare di fatto il revisionismo marxista in un neoliberalismo; da sinistra, nel puntare tutto sulla volontà e sull’attivismo della classe operaia.

Ciò non significa, d’altra parte, l’accantonamento di Marx:

Al contrario – osserva Carlo Rosselli - Nessuno può sognarsi di patrocinare un totale quanto assurdo rinnegamento di Marx, per un ritorno all’utopismo, o a correnti solidaristiche, o a teorie storiografiche, giustamente obliate per il loro formalismo. L’esperienza secolare del moto proletario non si cancella. Il figlio si emancipa, ma non può rinnegare il proprio padre […] In fondo il più vero trionfo di Marx sta proprio qui: nell’aver permeato del suo pensiero, del suo prepotente realismo tutta quanta la scienza sociale moderna […] Fatte le debite proporzioni, si può dire che egli occupi nella scienza sociale il posto di Kant nella filosofia. Come dopo Kant, così dopo Marx talune posizioni sono superate per sempre e l’indirizzo degli studi subisce una svolta decisiva. Ma c’è più uno storico che possa scrivere di storia senza tener sempre presenti e le forme della produzione, e il grado della tecnica, e i rapporti economici, e la struttura della classe; cioè senza rintracciare, oltre gli aspetti politici, morali,religiosi, quella che Marx chiamava la struttura economica? E c’è più un politico che possa prescindere dalla sua visione realistica e dialettica della vita sociale, e veramente illudersi di chiudere, col sussidio di declamazioni solidaristiche e di repressioni poliziesche, le cateratte della lotta o delle lotte di classe? […] Il problema vero per i socialisti non consiste dunque nel rinnegare Marx, ma nell’emanciparsene”[3]


Olof Palme e il Partito Socialdemocratico

La lezione di Carlo Rosselli  sarà raccolta più tardi, in Svezia, dal Partito Socialdemocratico dei Lavoratori [SAP: Socialdemokratisca  Arbetare Partiet], nella persona di Olof Palme, primo ministro dall’ottobre del 1969 all’ottobre del 1976 e, successivamente, dall’ottobre del 1982 al 28 febbraio 1986, cioè fino al giorno in cui fu assassinato.

Molte le illazioni sui mandanti e sulle motivazioni del delitto. Un fatto è tuttavia certo: nessun partito del socialismo liberale europeo ha mai realizzato, nella sua azione di governo, le riforme di cui furono capaci i governi di Olof Palme. Spesso e al contrario, infatti, soprattutto nell’epoca della guerra fredda, le socialdemocrazie europee furono le stampelle dei partiti della conservazione al potere, limitando il proprio ruolo unicamente in funzione antisocialista e anticomunista. E se questo significò per alcuni paesi sottrarsi positivamente alla sfera d’influenza dell’Unione Sovietica dello stalinismo e del post stalinismo, per altri versi comportò, da parte del cosiddetto socialismo democratico, la rinuncia a qualsiasi autentica azione riformatrice, con l’accantonamento delle istanze più avanzate di democrazia sociale ed economica, e la cristallizzazione subalterna della democrazia politica alle segreterie dei partiti.

Olof Palme mostrò invece come il corretto sviluppo del sistema capitalistico non è in contraddizione con l’autentico funzionamento della democrazia rappresentativa, potendone addirittura rappresentare il presupposto. Per contro, quando il capitale entra in crisi, per la minore accumulazione dovuta alla caduta tendenziale del saggio di profitto o per altre cause - come per esempio la crescita abnorme del capitalismo finanziario -  allora, alla distorsione del mercato si accompagna  anche il progressivo svuotamento di significato degli istituti della rappresentanza popolare e la vita democratica di un Paese è sottoposta a limiti e restringimenti.

Naturalmente, c’è anche un altro aspetto nel rapporto tra democrazia ed economia di mercato. Le riforme in senso democratico possono addirittura rivelarsi benefiche per l’andamento del mercato stesso, incentivando i consumi e favorendo la crescita produttiva; quando tuttavia il riformismo pretenda di spingersi troppo oltre, c’è il rischio che entri in conflitto con le esigenze di egemonia del capitale e allora c’è bisogno che in qualche modo sia fermato. Dopo l’assassinio di Olof Palme, che ne è oggi in Svezia del piano Meidner, che coinvolgeva direttamente i lavoratori nella gestione delle imprese, gettando le basi di una futura socializzazione dei mezzi di produzione? 

Olof Palme esordì giovanissimo in politica: segretario del primo ministro Tage Erlander, poi capo di gabinetto, quindi ministro delle comunicazioni  e successivamente ministro dell’educazione. In tale veste, il 24 maggio del ’68 fu invitato a confrontarsi con gli studenti che avevano occupato l’Università di Stoccolma. Nell’occasione, egli ebbe modo di parafrasare lo slogan del maggio francese che da Parigi era rimbalzato in tutte le università occupate del continente: “Siamo realisti: vogliamo l’impossibile!” e Olof Palme lo trasformò in un più realistico: “Il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. E a tale affermazione – divenuto un anno dopo primo ministro – egli si attenne costantemente.

[ S E G U E ]

sergio magaldi



[1] Recita il 2° comma del 3° principio fondamentale della Costituzione italiana: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta` e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
[2] Carlo Rosselli, op.cit., p.437
[3] Ibid., pp.419-420