domenica 25 agosto 2019

LE STELLE CONTRO MATTEO SALVINI





 Per chi guarda all’astrologia, al di là delle valutazioni politiche [vedi in proposito, cliccando sul titolo, il post: PD: l’uovo oggi o la gallina domani?], un nuovo governo sembra in dirittura d’arrivo. Lo si deduce più che altro dai tanti transiti cosiddetti negativi che affliggono e affliggeranno il cielo di nascita di Matteo Salvini per almeno un mese e forse più. Certo, le interpretazioni del linguaggio astrologico sono opinabili e per di più qui si tratta di una deduzione tratta dalla considerazione che astri e pianeti sembrano, nel presente e nell’immediato futuro, tutti congiurare contro il leader della Lega. Tuttavia, poiché se nasce, il nuovo governo nasce soprattutto in funzione anti-Salvini, ci sono discrete probabilità, almeno dal punto di vista delle stelle, che l’avvento di un nuovo governo sia vicino.

Nei prossimi giorni il Sole di transito di Matteo Salvini sarà opposto a quello di nascita.

La Luna, forse proprio in concomitanza con le “decisioni solenni” dei partiti e del capo dello Stato, sarà in opposizione a Giove.

Mercurio esce appena dall’opposizione al Sole, e questo racconta delle difficoltà dialettiche che il leader della Lega ha incontrato di recente in Senato nel difendersi dalle accuse del presidente del Consiglio e nel chiarire le ragioni della crisi di fronte all’opinione pubblica.

Venere e Marte si troveranno presto in opposizione con il Sole.

Giove è in congiunzione con Lilith o luna nera.

Saturno e Plutone congiunti in transito su Marte di nascita.

Urano è congiunto al Discendente.

Nettuno è congiunto al Sole.

E credo possa bastare. Naturalmente, però, la ruota zodiacale continua a girare…

sergio magaldi


venerdì 23 agosto 2019

PD: L’UOVO OGGI O LA GALLINA DOMANI?





 Tutto sembra ormai predisposto per il lancio del nuovo governo M5S-PD-LEU e gruppi misti di varia natura. Un governo di legislatura, con 5  “pilastri” che non sono quelli della fede islamica ma quelli annunciati da Zingaretti perché il partito democratico torni ad occuparsi della cosa pubblica, salvando al tempo stesso il lauto stipendio di tanti parlamentari. Si sostanziano delle solite dichiarazioni di principio e hanno per tema, rispettivamente: la ricollocazione piena e senza riserve dell’Italia in Europa [leggi: ritorno servile sotto Eurogermania], il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa [leggi: nessuna concessione a istanze di democrazia diretta, care ai pentastellati], lo sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale [leggi: niente che significhi qualcosa di serio], la discontinuità nella politica sull’immigrazione [leggi: tutti potranno tornare a sbarcare sui lidi del Belpaese], le ricette economico-sociali per ridistribuire la ricchezza e avviare gli investimenti produttivi [leggi: la solita patrimoniale sugli immobili e un programma generico che presuppone tempi diversi e/o provvedimenti forse in contraddizione tra di loro, come potrebbero esserlo il salario minimo e la contemporanea crescita produttiva delle imprese].
Indisponibile, invece, il segretario del PD ad un governo istituzionale o comunque di breve durata come suggeriva Renzi. E, del resto, Zingaretti avrebbe preferito andare direttamente al voto per una serie di motivi abbastanza comprensibili: disfarsi della massiccia rappresentanza parlamentare controllata da Renzi e recuperare una buona parte dei voti perduti nelle precedenti elezioni a vantaggio dei Cinquestelle. Bisogna tuttavia tener conto non solo di Renzi, ma di Franceschini, Del Rio, Gentiloni, Orlando etc… e anche, naturalmente, di Mattarella e allora, nella ritrovata, apparente unità del partito, il segretario del PD si limita a porre qualche condizione al governo con i pentastellati: che sia di legislatura e che si basi sui 5 pilastri, che prefiguri una lunga e fruttuosa intesa politica tra le due forze [leggi: accordi elettorali nelle elezioni amministrative], che infine rappresenti una discontinuità con il precedente governo, nel nome del presidente del Consiglio, dei ministri più rappresentativi e soprattutto nella cancellazione di alcuni provvedimenti (leggi: quelli sulla sicurezza e non solo).
Ai 5 punti “irrinunciabili” di Zingaretti, Di Maio ne affianca 10, il primo dei quali è la riduzione del numero dei parlamentari e su queste basi si vedranno oggi pomeriggio le delegazioni di PD e M5S. Con quante possibilità di condividere i 15 punti e/o di trovare una sintesi comune? Molte, al di là delle dichiarazioni di principio poco conciliabili ma che sembrano formulate unicamente per incantare i rispettivi elettorati. Lo scoglio più difficile da superare sembra proprio quello sulla riduzione dei parlamentari, ma il paradosso è che proprio su questo punto potrebbero essere gettate le basi per un’intesa politica di lunga durata: riduzione dei parlamentari (non 345 ma in numero minore) nel contesto di una nuova legge elettorale anti-Lega, secondo una prassi già sperimentata con il Rosatellum, concepito per far vincere il PD con l’aiuto di Forza Italia contro il cosiddetto populismo e che invece ha avuto l’effetto di rendere possibile la maggioranza gialloverde.
Sia come sia, il governo M5S-PD-LEU che, a meno di clamorose quanto impensabili sorprese, nascerà la prossima settimana, non può essere definito un “inciucio”, perché è sostenuto da una maggioranza parlamentare altrettanto legittima di quella che ha governato il Paese negli ultimi 14 mesi. Il problema semmai è un altro e riguarda la concezione della democrazia: sostenere come ha fatto Renzi nel suo discorso in Senato (altri lo hanno imitato magari fuori del Parlamento) che andare a votare significherebbe far vincere la Lega di Salvini, denuncia un atteggiamento elitario e oligarchico che nulla ha a che vedere con i principi della democrazia, rappresentativa o diretta che sia.
L’intesa PD-M5S ha molte implicazioni. Renzi controllerà di fatto il nuovo esecutivo pur non facendone parte e Zingaretti più che segretario del suo partito ne sarà il notaio, dal momento che per tenere tutti uniti sceglie l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani. I Cinquestelle non sono da meno: evitano il dimezzamento della rappresentanza parlamentare e salvano lo stipendio per tutti gli oltre 300 tra deputati e senatori, ma nel loro orizzonte s’intravede già il grigiore dell’insignificanza che li destina ad essere una ruota di scorta del sistema. La Lega, dal canto suo, paga il momentaneo scotto di una mossa in apparenza inopportuna, incomprensibile anche per molti dei suoi, ma è forse l’unica forza a mantenere intatta la prospettiva di un cambiamento nel panorama asfittico e opportunistico della politica italiana.
Cosa ha portato Salvini a fare la scelta che ha fatto? Lo si è capito in Senato, nonostante il poco lucido discorso, quando invece di ribattere punto su punto le accuse di un neodemocristiano, dalla cronaca reso eroe per un giorno – lui che i media hanno sempre irriso come un burattino nelle mani dei due vicepresidenti – il leader della Lega si è limitato a poche parole significative per spiegare il suo gesto. Frasi purtroppo non comprensibili a tutti o addirittura da iniziati, per di più inframmezzate dalla solita inguardabile ostentazione del rosario: che senso ha rimanere in un governo accanto a un movimento che ha bocciato le autonomie, che alla proposta di riforma fiscale basata su tre aliquote progressive di riduzione delle tasse (dunque neanche la flat tax) si sente opporre – come ingenuamente ha riferito lo stesso Nicola Morra ai giornalisti qualche ora più tardi – che non ci sono le coperture finanziarie, che si schiera ipocritamente per il NO TAV, quando è lo stesso presidente del Consiglio ad approvarla, che in luogo degli investimenti produttivi propone in modo demagogico il salario minimo a imprese già sull’orlo del fallimento? Con quale faccia la Lega si sarebbe rivolta ai suoi dopo la finanziaria? Meglio perdere qualcosa oggi che perdere tutto domani! Questo il messaggio in codice di Salvini. C’erano altre strade? Può darsi. Servirsi della clausola contenuta nel contratto di governo per dirimere le contese? Presentare comunque la cosiddetta flat tax in Parlamento, mediare sulla legge per le autonomie, spiegare che il salario minimo viene dopo la ripresa delle aziende in crisi? Forse sì  e forse no.

sergio magaldi



domenica 18 agosto 2019

RILEGGERE IL CANTICO DEI CANTICI (Parte III)






SEGUE  DA:



[clicca sui titoli per leggere]


Conviene a questo punto tentare una lettura di senso cabbalistico del Cantico, anche se va subito detto che ciò non è in contrasto con l’interpretazione alchemica.

"I tuoi amori sono migliori del vino"(I-2): una sposa invoca lo sposo il cui amore è giudicato essere migliore del vino. Il vino, nel linguaggio della Qabbalah, è il diffondersi della sephira Binah sino a Malchuth, passando attraverso Gheburah: la sephira Binah insieme a Chochmah e a Kether costituisce la triade suprema, questo amore migliore del vino è dunque una effusione che fluendo innanzi tutto da Kether  giunge a Tiphereth lo sposo perché egli ne faccia dono a Malchuth la sposa. Tiphereth è nell'Albero della vita l'aspetto mascolino della divinità e porta il nome di sposo, di sole e di cielo. La sua immagine umana è quella di un re. Tiphereth è sephirah centrale, pietra angolare e di equilibrio di tutto l'Albero, la sua funzione è quella del collegamento tra le sephirot e gli influssi che da ogni sephirah fluiscono in Tiphereth si riversano in Malchuth per mezzo di Yesod.

Malchuth è l'aspetto femminile della divinità, è la sposa che si congiunge allo sposo attraverso Yesod. Nell' universo è la Luna, nella parte alta dove si unisce a Yesod e, nella sua parte inferiore, è la terra, il regno, il campo, la vigna. Yesod o fondamento è il membro maschile del corpo sephirotico e raccoglie, appoggiandosi a Tiphereth, gli influssi che provengono da tutti gli altri sephiroth per introdurli in Malchuth. Ha l'aspetto di un uomo nudo, forte e bello. Per la parte superiore, dove si unisce a Tiphereth, è il firmamento del cielo, per la parte inferiore, dove si unisce a Malchuth, è la Luna [23].Così, la Luna, in Malchuth, rappresenta l'aspetto femminile della divinità, mentre in Yesod diventa il membro maschile del corpo sephirotico: ciò si spiega non solo per la doppia polarità di Yesod, maschile in collegamento con Tiphereth, femminile in collegamento con Malchuth, ma soprattutto in riferimento ai noti versetti del Genesi dove è detto che Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza e subito dopo che lo creò maschio e femmina (I-27). Senza contare, poi, l'antico costume dei popoli nomadi di adorare la Luna come divinità maschile [24].

Continuando nella lettura del Cantico si giunge ai versetti I-5 e I-6:"Sono bruna ma bella..." e "Non fateci caso se sono un pò mora: è il Sole che mi ha abbronzata...", versetti citati assai spesso a sostegno dell' interpretazione di senso alchemico. In realtà, dal punto di vista della Qabbalah, i due versetti insieme anche al già richiamato versetto II-3: "All'ombra di lui che desideravo mi sono seduta..." rappresentano la luna che si veste d'ombra, che si nasconde. E' questo il momento del novilunio, quando scompare la luce e con lei si ritirano Grazia e Clemenza divine (la sephirah Hesed) per lasciare il posto al Rigore (la sephirah Gheburah). Il momentaneo ritrarsi della luce divina è il segno che l'uomo è lasciato a se stesso e in balìa dei propri peccati: "La luna s'è nascosta, ciò significa che domina il serpente malvagio che può nuocere al mondo, ma quando si desta la Clemenza, la luna riappare liberandosi della sua veste d'ombra"[25].

Quanto al versetto I-6 (...il Sole mi ha abbronzata), può anche intendersi tanto Malchuth come terra dove nella densità si oscura la luce del Sole, che Malchuth come luna le cui fasi oscure, così come la luce, dipendono dal Sole. cfr. Le Zohar, a cura di C. Mopsik, vol. I-t. II, Verdier, Paris 1984, pp. 128, 171-2, 246, 274, 328, 394-6, 429, 491 note comprese.

"I figli di mia madre..." dello stesso versetto I-6 sono le sephiroth del piano inferiore, tutte nate da Binah che è anche madre di  Malchuth. E ancora il : "Guardare la vigna..." sembra un compito di Malchuth-Luna nei confronti di Malchuth-Terra. Il versetto I-8: "A una cavalla dei cocchi di Faraone io ti paragono..." sembra alludere alla raffigurazione mitica della Luna piena [26]. Il versetto I-11: "Noi ti faremo dei fregi d'oro con cubetti d'argento..." è un altro riferimento alla bellezza lunare della fanciulla [27]. Nel versetto I-15: "Gli occhi tuoi sono di colomba..." è contenuto un ulteriore riferimento alla Luna. La Dione greca e la Diana dei Latini sono altrettanti nomi della Luna o dea della colomba. L' identificazione di luna e colomba è in realtà molto più antica e si deve far risalire al mito pelasgico e cananeo della creazione [28]. In tale mito, la luna ha una doppia funzione: è matrice cosmica che emerge dal Caos ed è al tempo stesso il luminare che oggi conosciamo. Come matrice cosmica il suo nome era presso i Sumeri Iahu o 'divina colomba'. Uscita dal Caos, la dea è fecondata dal vento del nord o Borea, poi identificato, nei miti ebraico-egizi e nel mito orfico con il serpente Ofione. Volando sul mare, la dea prese la forma di una colomba e depose l'Uovo Universale, ordinando poi ad Ofione di arrotolarsi sette volte intorno all'uovo: questo infine si schiuse e ne uscirono i sette pianeti.

Nel secondo capitolo c'è un duplice riferimento al melo, come albero (II-3) e come pomo (II-5). Il melo è pianta di Tiphereth, lo sposo solare e l'intera immagine evocata richiama il Giardino delle Esperidi della tradizione occidentale e l'undicesima fatica di Ercole, l'iniziato solare. Particolarmente importante, in chiave sephirotica, è poi il versetto II-6. Dice la sposa: "La sua sinistra è sotto il mio capo, la sua destra sta per abbracciarmi...". Qui il riferimento è in Zohar: la sinistra di Tiphereth è Gheburah, la sua destra è Hesed, quandoTiphereth e Malchuth si uniscono è la Grazia (Hesed che è a destra dell' Albero della vita) a sostenere Malchuth, mentre il Rigore (Gheburah o Din che è a sinistra) si ritrae [29].

I versetti che seguono, da II-7 a II-17 manifestano ancora il rapporto tra i due luminari: Sole-Tiphereth e Luna-Malchuth: ora è il Sole che non vuole che la Luna si svegli, ora è la Luna che vede il Sole "saltellare tra i monti", venir giù, cioè dalle alture dove dimora Kether e ancora: è la Luna che vede il Sole "far capolino dalla finestra, spiare tra le grate", poi è il Sole che la insegue tra le fessure delle rocce [30]. Infine è la Luna che invoca lo sposo prima che giunga la notte: "Prima che muoia il giorno e si allunghino le ombre, ritorna" (II-17)

Nel successivo capitolo del Cantico, la fanciulla va in cerca del suo amante: è notte profonda e durante la notte Tiphereth e Malchut non sono più insieme. "Le guardie di ronda" del versetto III-3 sono forse i sette palazzi [31]. che circondano Malchuth; il ritrovamento e l'abbraccio degli amanti avviene infine nel momento aurorale (III-4), allorché nuovamente Malchuth introduce lo sposo nella casa della madre Binah [32].

Il versetto III-6: "Chi è costei che sale dal deserto, simile a colonne di fumo, profumata di mirra e d'incenso..." è in chiara simbiosi con la simbologia lunare dei profumi e con l'olocausto dei noviluni. Infine, gli ultimi tre versetti del capitolo si ricollegano tutti all'Albero della vita: il legno con cui è fatto il baldacchino del re viene dal Libano, cioè da Kether. Salomone, il re, cioè Tiphereth, è seduto nel centro dell'Albero: le colonne d'argento di cui parla il Cantico sono le sephiroth alla sua destra, la spalliera d'oro è la colonna centrale che risale a Kether, il sedile di porpora è Yesod [33]. Nel IV capitolo, lo sposo esalta la bellezza della sposa sino al momento dell'unione. Tutta la simbologia femminile e lunare è qui riproposta persino nel particolare del melograno, simbolo a un tempo di Yesod e di Malchuth, della luna e della terra, della morte e della risurrezione.

sergio magaldi

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[23]Sul significato del vino e di Binah, sull'identificazione di Tiphereth con il cielo e col sole, di Malchuth come luna e come terra, di Yesod come firmamento e come luna cfr. Le Zohar, a cura di C. Mopsik, vol. I-t. II, Verdier, Paris 1984, pp. 128, 171-2, 246, 274, 328, 394-6, 429, 491 note comprese.
[24]La luna assume diversi aspetti nella mitologia di tutti i popoli: è Selene nello splendore del plenilunio, è Atena o Minerva come rischiaratrice e guida della notte, è Artemide o Diana nel suo crescere o calare, è Leto o Latona nel novilunio, è Lilith o Ecate nel suo aspetto notturno e nascosto. Lilith era l'antica dea sumera della morte e la tradizione biblica la identifica con la prima moglie di Adamo, poi trasformata in strega notturna e prostituta del demonio. Lilith è anche laLuna nera degli astrologi. La Kabbalah la pone in analogia con Saturno come apportatrice di malinconia e di 'umor nero' e come creatura lussuriosa e diabolica. La luna è ancora Shin, il dio maschile della tradizione assiro-babilonese. E' maschio perché assume il ruolo di grande fecondatore della terra.
[25]Le Zohar, ed.cit. vol.I-t.II, p.128
[26]Selene o luna piena è spesso rappresentata come una bella donna a cavallo. Così ce la mostra Fidia alla base del suo Zeus di Olimpia, tale si trovava sull'altare di Pergamo e in molte pitture vascolari. Selene, in veste di fanciulla nel pieno fulgore della sua bellezza, appare su un carro tirato da cavalli sopra il frontone orientale del Partenone mentre al lato opposto è posta l'effigie di Elios-Sole. I cavalli, come i giovenchi e gli altri animali forniti di zoccoli, erano sacri alla Luna perché lasciavano sul terreno un'impronta a forma di primo quarto.
[27]Il versetto richiama un celebre frammento di Saffo, la grande poetessa del VI Secolo av.C. :"Gli astri d'intorno alla leggiadra luna / nascondono l'immagine lucente, / quando al suo colmo più risplende, bianca / sopra la terra"(trad. di S.Quasimodo). L'immagine della luna che brilla in cielo "inter minores ignes" è anche ripresa dal poeta latino Orazio (Carm. I, 12, 48).
[28]R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 1983, pp.21-22.
[29]Le Zohar, ed.cit. p.401, 163 b.
[30]In questo versetto (II-14): "O colomba mia che stai nelle fessure delle rocce..." c'è un richiamo alla luna che si nasconde: Lete o Latona che significano 'la nascosta'. Noto è il mito greco: fecondata da Zeus e inseguita, per vendetta di Era dal serpente Pitone, Latona vaga per il mondo, sempre nascondendosi, finché trova riparo a Delo dove partorisce la dea Artemide e, tra un ulivo e una palma di datteri, dopo nove giorni di travaglio, anche il dio Apollo. In Egitto e in Palestina, Latona era onorata come Lat, dea della fertilità, dell'ulivo e della palma da datteri. Nei versetti VII-7 e VII-8 del Cantico il corpo della fanciulla è detto simile ad una palma.
[31]Palazzi o Hekhaloth sono, nell'antica tradizione mistica degli Ebrei, le dimore custodite dagli angeli e degne di coloro che meritano di scendere nella Merkabah (Carro) per contemplare i misteri. Corrispondono, nel corpo dell'uomo, ai sette centri di consapevolezza o chakras della tradizione induista. Sui Palazzi, cfr. A.Ravenna, Cabbala ebraica. I sette Santuari, Tea, Milano 1990. Sui chakras, di ottima fattura: Anodea Judith, Chakras - Ruote di vita, trad. it., Armenia, Milano 1994.
[32]Zohar, cit., 178 a, pp.478-479.
[33]Ibidem, 162 b, p.397 nota compresa. Sull'olocausto dei noviluni cfr. anche: Paralipomeni, II-4.



mercoledì 14 agosto 2019

LE ULTIME INTERVISTE DI SARTRE: L’Espoir maintenant





Lo scorso 8 luglio, Massimo Recalcati pubblicava su la Repubblica un interessante articolo in merito alle interviste rilasciate da Sartre a pochi giorni dalla sua scomparsa. L’occasione gli era offerta dalla traduzione in italiano del testo integrale di quelle interviste [Jean-Paul Sartre, Benny Lévy, La speranza oggi, Mimesis, maggio 2019, pp.163] curato da Maria Russo, un’attenta studiosa del geniale poligrafo francese.
Pubblicate  per la prima volta da Le Nouvel Observateur il 10, il 17 e il 24 marzo del 1980 – mentre Sartre dal 20 marzo è ricoverato all’ospedale Broussais di Parigi, dove morirà il 15 aprile – queste interviste fecero molto discutere, incontrando l’ostilità dei “sartriani” e in particolare di Simone de Beauvoir già prima della loro apparizione. Tant’è che secondo la testimonianza di Jean Daniel, direttore del giornale, fu lo stesso Sartre a contattarlo telefonicamente:
«La sua voce era perfettamente limpida, parlava con estrema autorità: “Credo di sapere che siete nei guai”, mi disse, “so che i miei amici vi hanno assediato. Sono io, Sartre, che vi chiedo di pubblicare questo testo, e di pubblicarlo integralmente. Se non desiderate farlo, lo pubblicherò altrove, ma vi sarei riconoscente se lo faceste voi. So che i miei amici vi hanno contattato, ma so anche che sbagliano, l’itinerario del mio pensiero sfugge loro, a tutti, compreso al Castoro…»[1]

Cosa c’era di tanto scandaloso nel testo delle interviste che Sartre aveva rilasciato al suo segretario personale – l’ex maoista Pierre Victor, convertitosi all’ebraismo, sua fede di nascita, riprendendo, proprio su consiglio di Sartre, il vero nome di Benny Lévy –  e, causa la quasi totale cecità, affidato alla rilettura della figlia adottiva, l’ebreo-algerina Arlette Elkaïm? Ce lo dice Massimo Recalcati, proprio all’inizio del suo articolo:

«Come era possibile che il filosofo che aveva sostenuto che "l’inferno sono gli Altri", che aveva messo in rilievo la natura necessariamente conflittuale delle relazioni umane, che aveva irriso la morale borghese della solidarietà e dell’Uomo (basti ricordare il giudizio tagliente sul romanzo di Camus, La peste, reo di diffondere una "morale da crocerossina"), in quella intervista riabilitasse sentimenti come la speranza, la reciprocità, la fratellanza, la condivisione?»
Com’era possibile – si domanda ancora Recalcati – credere che il “vero” Sartre abbia da ultimo sostenuto che «il rapporto di fraternità è il rapporto primario tra gli esseri umani»? Eppure – conclude il giornalista di la  Repubblica – “Questa "morale della speranza" resta l’ultima parola che Sartre, prima di congedarsi dalla vita, ci lascia in eredità: è possibile che il desiderio dell’uomo non sia solo aspirato dal desiderio (impossibile) di essere Dio, di essere causa sui, ma sia impegnato nella costruzione di una comunità nuova, di una comunità ispirata alla fratellanza. Per l’ultimissimo Sartre si deve abbandonare una teleologia della totalità nel nome di una morale fondata su un nuovo desiderio di comunità. Non inseguire una totalizzazione impossibile, ma dare corpo al principio di speranza in una comunità più solidale e giusta. La tensione politica si annoda qui a quella morale: «Bisogna immaginare un corpo di persone che lottano insieme». Il fine ultimo della storia che il marxismo eredita dall’hegelismo è superato non da una prospettiva nichilistica, ma dall’introduzione di un "altro fine", una sorta di "obbligo" che ci vincola all’esistenza dell’Altro. Si tratta di una dipendenza che non esclude affatto la libertà. Piuttosto bisogna ripensare il carattere primario della fratellanza. È il passo levinassiano dell’ultimissimo Sartre. Dove, evidentemente, la fratellanza non contiene nessuna omogeneità, nessuna eguaglianza. Tuttavia, l’incontro con il volto dell’Altro non solleva più solo l’angoscia medusizzante dell’alienazione e del conflitto infernale, ma una prossimità che mi concerne e mi impegna: «Ciò che serve per una morale è ampliare l’idea di fraternità fino a che essa diventi il rapporto unico e evidente tra tutti gli uomini». È questo che sospinge Sartre verso Levinas e verso l’ebraismo messianico, ovvero l’utopia di un regno che esclude la violenza e lo sfruttamento”.
Alle stesse conclusioni giunge anche la curatrice del libro in un suo intervento ad un recente convegno di studi su Sartre: “[…] Si può andare oltre le porte chiuse dell’inferno relazionale descritto ne L’essere e il nulla e considerare l’altro come un proprio simile” [2], cioè come un fratello. Insomma, se la preistoria dell’umanità è caratterizzata dal delitto di Caino e successivamente dalla lotta di classe descritta da Marx è perché non si è riflettuto abbastanza sulla comune origine degli esseri umani e sulla necessità di ricercare un fine comune.

La risposta dei “sartriani” era stata molto semplice. Come credere che a parlare sia davvero Sartre, soprattutto quando afferma: «Non sento di essere il prodotto del caso, un granello di polvere nell'universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato, prefigurato. In breve, un essere che solo un Creatore potrebbe mettere qui. E questa idea di una mano creatrice si riferisce a Dio.» [da Le Nouvel Observateur, marzo 1980]. Per Simone de Beauvoir, i “sartriani” e la redazione al completo di Les Temps Modernes quel “senile atto di un voltagabbana” si spiega solo con le manipolazioni di Benny Lévy. Ancora nel 2005 Gisèle Halimi, avvocato e militante femminista, vecchia amica di Sartre, dichiarerà: «Questa intervista è incontestabilmente un falso [...] Sartre non era più in possesso delle sue piene facoltà mentali»

Secondo la curatrice dell’edizione italiana, non si tratta di una senile conversione di Sartre dall’ateismo alla fede, e in particolare all’ebraismo, sulla scia del suo segretario personale, come sembra credere Simone de Beauvoir, così come non era stata un’adesione al cristianesimo l’aver scritto Bariona nel 1940 [3]. Infatti, solo se la si considera isolatamente, l’espressione di Sartre di non essere “il prodotto del caso, un granello di polvere nell'universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato, prefigurato etc…” può essere intesa come una professione di fede. Diversamente, il suo significato è quello del Sartre di sempre, e cioè è l’idea che si trova in ogni essere umano, cresciuto nella fede che viene abbandonata non appena egli scopre l’assenza di Dio, oppure è il riconoscimento di una Legge che governa l’universo ma sulla quale nulla si può dire di più. Pure, l’autenticità della dichiarazione del filosofo francese, nel senso del superamento dell’ateismo, è considerata plausibile ancora oggi, persino nei circoli religiosi più tradizionali. Si legge in proposito su una pagina recente dei Carmelitani Scalzi del vicentino:
«Un ateismo, quello sartriano, sempre in crisi con se stesso, consapevole del proprio dramma, della propria impermanenza e contraddittorietà: “La decisiva assenza di fede è una fede incrollabile”. In questo senso non stupisce la possibilità che questa fede impossibile sia, almeno per una volta, capitolata. E’ quanto forse successe nel Natale del 1940, nel campo di prigionia dei nazisti di Treviri in cui erano rinchiusi tanto il trentacinquenne Sartre quanto alcuni sacerdoti cattolici, i quali gli proposero di scrivere un dramma natalizio: “Un medesimo rifiuto del nazismo mi legava ai preti prigionieri nel campo. La Natività mi era apparsa il soggetto capace di realizzare l’unione più larga tra cristiani e non credenti. Si era convenuto, che dicessi quello che avrei voluto. Per me, l’importante in questa esperienza era che, prigioniero, potessi rivolgermi agli altri prigionieri ed evocare i nostri problemi comuni”. Ne risultò Bariona o il Figlio del tuono, pièce teatrale scritta, diretta e anche recitata dallo stesso Sartre (nei panni di uno dei re magi). Se ne può leggere una lusinghiera presentazione fatta da Mons. Ciattini, Vescovo di Massa Marittima-Piombino e la sua citazione da parte del Card. Ravasi in occasione della presentazione del volume L'Infanzia di Gesù di papa Benedetto XVI: menzioni meritate giacché il dramma è realmente toccante e religiosamente coinvolto, e nessun spettatore o lettore penserebbe che a comporlo sia stato un ateo e miscredente […] Non ci è dato sapere se in quel momento il filosofo francese, come il suo alter-ego Bariona, avesse realmente vissuto un momento di fede: lui lo nega esplicitamente nella prefazione alla pubblicazione del dramma, avvenuta nel 1962, ma sembra un classico caso di excusatio non petita. Mentre è del tutto franca e netta questa sua affermazione in un’intervista del 1980, la cui autenticità venne ribadita dallo stesso autore poco prima di morire: “Non sento di essere il prodotto del caso, un granello di polvere nell’universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato, prefigurato. In breve, un essere che solo un Creatore potrebbe mettere qui. E questa idea di una mano creatrice si riferisce a Dio” (da Le Nouvel Observateur, marzo 1980). Affermazione che aveva scatenato lo scandalo dei suoi fedelissimi, in primis della sua compagna Simone de Beauvoir, che lo aveva tacciato di essere un voltagabbana (en passant, menzioniamo l'articolo "Dio nel teatro di Jean-Paul Sartre", uscito sulla rivista Teresianum nel 1965 […].Tuttavia, se Sartre si sia alla fine realmente convertito, e quanto, è un problema che non possiamo sondare né storiograficamente né teologicamente: in finale rimane una questione fra lui e il Signore». [4]
 Quanto al preteso ebraismo di Sartre, osserva ancora la Russo: “Non vi è motivazione per credere che Sartre, al termine della sua vita, si sia avvicinato a una visione religiosa, nemmeno a quella cui si è convertito il suo ultimo amico. A differenza di come ha inteso Beauvoir, non c’è un Sartre ebreo contro un Sartre ateo, bensì la visione ebraica della storia e dell’esistenza contro Hegel e contro Marx” [5]. C’è tuttavia in Sartre, da un certo punto in poi, una rinnovata e particolare attenzione verso l’ebraismo, testimoniata non solo da singolari questioni personali, ma espressamente affermata nelle ultime interviste, laddove il “messianismo ebraico” si sostituisce alla “mitologia progressista” [6], nel senso di colpire al cuore la filosofia della storia di Hegel,  perché c’è una realtà della storia ebraica che il filosofo tedesco aveva ignorato, dice ora Sartre, smentendo anche se stesso, allorché aveva scritto le Riflessioni sulla questione ebraica: «Perché nel momento in cui ho detto che non c’era una storia ebraica pensavo la storia sotto una forma ben definita: la storia della Francia, la storia della Germania, la storia dell’America […]. In ogni caso la storia di una realtà politica sovrana con una terra e con rapporti  con altri Stati simili […]. Bisognava concepire la storia ebraica non soltanto come storia di una dispersione degli ebrei nel mondo, ma anche come l’unità di questa diaspora, l’unità degli ebrei dispersi» [7]

In che senso allora il messianismo ebraico si sostituisce non solo alla “mitologia progressista” ma anche alla prassi rivoluzionaria e alla concezione della Storia di Hegel e soprattutto di Marx che Sartre aveva condiviso in Critica della ragione dialettica? Innanzi tutto occorre abbandonare il concetto di “fratellanza-terrore” perché – dice Sartre – dove c’è terrorismo non ci può essere rivoluzione e poi perché Marx si è limitato a descrivere la “preistoria dell’umanità”, mentre ciò che occorre è assumere un fine morale in grado di superare la sub-umanità di cui siamo ancora i portatori: «Il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al di là dei rapporti di produzione […] Tutta la distinzione delle sovrastrutture di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa ed è ciò che bisogna che noi scopriamo.» [8] In tale prospettiva, continua Sartre, il fine ebraico è ben diverso da quello del marxismo perché a differenza di quest’ultimo «non è un fine definito a partire dalla situazione presente e progettato nel futuro, con delle fasi che permetteranno di raggiungerlo attraverso lo sviluppo di certi fatti oggi.» [9] La finalità ebraica – a giudizio di Sartre –  fa dell’ebreo un soggetto metafisico: egli crede “più o meno coscientemente” in un mondo a venire dove gli esseri umani vivranno finalmente gli uni per gli altri e questa idea è esattamente ciò che noi intendiamo per rivoluzione: «La soppressione della società presente e la sua sostituzione con una società più giusta in cui gli uomini possono avere buoni rapporti gli uni con gli altri.» [10]

Per quanto utopistica possa apparire questa concezione dell’ultimo Sartre, non si può negare che le sue radici si ritrovino nell’esperienza maturata nel corso degli anni: individualista e anarchico all’epoca di La Nausea e de L’Essere e il Nulla, egli scopre il senso del collettivo e dei gruppi durante la guerra, la prigionia nazista e la resistenza, tenta successivamente la mediazione tra esistenzialismo e marxismo e, pur proponendosi come “compagno di strada” dei partiti comunisti, rivendica una concezione del socialismo che rivaluti il ruolo del soggetto. Voce del terzo mondo negli anni Sessanta contro il neocolonialismo, il comunismo sovietico e i partiti comunisti dell’Occidente, attivista politico dopo il Sessantotto, Sartre, infine disilluso, scopre che la rivoluzione è impossibile senza una presa di coscienza e un fine morale che si proponga una nuova umanità: un intento pedagogico di cui il messianismo ebraico offre l’esempio.
L’idea di fratellanza su cui si basano le ultime analisi di Sartre ha forse una fondazione mitologica, come sembra suggerirgli il suo intervistatore? Niente affatto, è la risposta di Sartre, perché la fratellanza poggia su una origine comune: la nascita di tutti da una stessa madre, la madre-terra, e per essere coerente ed affermare in pieno la condizione umana questa origine comune deve anche ricercare e sperare di costruire un fine comune di cui la democrazia è la prima pietra, perché la democrazia – osserva Sartre – non è soltanto «una forma politica di potere […] ma una vita, una forma di vita.» [11]
Naturalmente si tratta di una speranza che paradossalmente nasce proprio dalla disperazione di osservare il mondo così com’è, e l’uomo resta in fondo quello che è sempre stato per Sartre: una “passione inutile”, ma è proprio la forza di quella passione a mantenere viva la speranza, come nelle ultime parole pronunciate lucidamente da Sartre solo qualche giorno prima di andarsene:

«Davanti a questa terza guerra mondiale che potrebbe essere dichiarata un giorno, davanti a questo insieme miserabile che è il nostro pianeta, mi torna la tentazione di cadere nella disperazione: l’idea che non finirà mai, che non ci sia uno scopo, che non ci sono che fini particolari per i quali combattiamo. Facciamo delle piccole rivoluzioni, ma non c’è un fine umano, non c’è qualcosa che interessa l’uomo, non ci sono che disordini […] In ogni caso, il mondo sembra brutto, malvagio e senza speranza. Questa è la silenziosa disperazione di un vecchio che vi morirà dentro. Ma appunto, io resisto e so che morirò nella speranza; ma questa speranza bisogna fondarla.
Occorre tentare di spiegare perché il mondo oggi, che è orribile, non è che un momento nel lungo sviluppo storico, che la speranza è sempre stata una delle forze dominanti delle rivoluzioni e delle insurrezioni, e che sento la speranza come una concezione del futuro.» [12]


[1] Jean-Paul Sartre, Benny Lévy, La speranza oggi, Mimesis, maggio 2019, p.11. Castoro è – com’è noto – il nomignolo con cui Sartre si rivolgeva abitualmente a Simone de Beauvoir 
[2] Maria Russo, Necessità e libertà in Sartre, cfr. www.grupporicercasartriana.org
[3] Maria Russo, introduzione a La speranza oggi, cit., p.13.
[4] Cfr., F. Iacopo Iadarola ocd,  sito dei Carmelitani Scalzi della Provincia Veneta,  01 gennaio 2016
[5] Op.Cit., p.29
[6] Così si esprime (e riporta Maria Russo) il filosofo e saggista vivente Bernard-Henri Lévy (da non confondere con Bénny Lévy, segretario personale di Sartre) in Le siècle de Sartre, trad.it., Il Saggiatore, Milano 2004,pp. 501 e 511.
[7] Op.Cit., p.126
[8] Ibid. p.102
[9] Ibid. p.130
[10]Ibid. p.131
[11]Ibid. p.98
[12]Ibid. p.135

domenica 11 agosto 2019

GRANDI MANOVRE E PICCOLI PARTITI






 Vestali della comunicazione, opposizioni parlamentari ed élite che dalla scorsa estate non hanno fatto altro che evocare crisi di governo e nuove elezioni, ora che Salvini si è chiamato fuori, le elezioni non le vogliono più. Con qualche eccezione motivata, per esempio il PD di Zingaretti, ma non il PD di Renzi che controlla la maggior parte dei senatori e dei deputati del partito. Quanto a Forza Italia che in Senato conta più rappresentanti della Lega, sono in corso trattative con Salvini: se il leader della Lega sarà disponibile per ricostituire il centrodestra classico, bene, altrimenti Berlusconi si orienterà per appoggiare il cosiddetto “governo di scopo”, affidato ad un tecnico con il compito di scongiurare l’esercizio provvisorio di bilancio, evitare l’aumento dell’IVA in cambio di altri sacrifici, e magari approvare la riduzione dei parlamentari con l’intento di evitare le elezioni almeno per i prossimi sei mesi, giustificando con ciò anche l’eventuale approvazione di una nuova legge elettorale. Quanto alla Meloni di Fratelli d’Italia, la sua consueta rigidità non le consente di vedere che l’alleanza elettorale con Salvini, senza neppure la mediazione del cavaliere, porterebbe ad uno scontro nel Paese dove nulla sarebbe scontato: l’estrema destra contro tutti gli altri difficilmente vince in Occidente, tanto più in un paese come l’Italia che conserva ancora freschi ricordi del proprio drammatico passato.

Ciò premesso, è interessante osservare come ciascuna fazione del panorama politico italiano lavori unicamente in vista del proprio tornaconto, infischiandosene dei cittadini e degli interessi reali dell’Italia. Tutti, senza eccezione alcuna. A cominciare dalla Lega che avrà pure le sue buone ragioni nel denunciare i ripetuti “no” dei Cinquestelle al programma di governo, ma che sceglie il momento peggiore per staccare la spina e non lo fa certo sull’onda di un’emozione ma sulla base di calcoli ben precisi che riguardano il proprio assetto interno (la mancata approvazione della legge sulle autonomie, cara alle regioni del nord) e la contemporanea impossibilità di mantenere le tante promesse all’esterno (investimenti produttivi, sterilizzazione dell’IVA e contemporanea approvazione della flat tax), per la manifesta contrarietà di quanti, nel governo e fuori si sono impegnati a “non strappare” con l’Europa. Salvini aveva la possibilità di portare in Parlamento l’approvazione della flat tax e degli investimenti produttivi lasciando ai Cinquestelle la responsabilità di bocciarli, preferisce invece assumere in proprio la responsabilità della crisi col pretesto della TAV, esponendosi a tutti i contraccolpi del sistema: un atto coraggioso o ingenuo o soltanto imposto dal vecchio nucleo della Lega Nord? Per continuare con Zingaretti che vuole andare alle elezioni subito per lucrare sulla perdita di consensi dei Cinquestelle, ridimensionare definitivamente Renzi, togliendogli il monopolio dei gruppi parlamentari, e riattivare il bipolarismo centrosinistra – centrodestra. Con Renzi che per mantenere il suddetto monopolio è disposto persino ad allearsi con i Cinquestelle per un governo di scopo e/o di garanzia elettorale. Con Grillo e Di Maio che faranno di tutto pur di non vedere dimezzata la propria rappresentanza parlamentare. Con Meloni e Berlusconi di cui si è già detto.

sergio magaldi

giovedì 8 agosto 2019

CRISI DI GOVERNO: CON LA TAV ORA E' POSSIBILE?





Dopo aver a lungo e invano evocato la crisi del governo gialloverde [vedi i post La lunga marcia delle élites e La terza mossa del sistema, cliccando sui titoli],  le vestali della comunicazione questa volta potrebbero fare centro. Non tanto per il voto che in Senato ha visto divisi Cinquestelle e Lega, quanto per le impegnative manovre annunciate dalle forze di governo e che dovrebbero trovare posto nella legge di bilancio da predisporre per il tardo autunno. Il voto sulla TAV, infatti, rischia di essere solo un pretesto. Ai pentastellati per ricompattarsi, dimostrando così di mantenere fede al patto anti-TAV stipulato a suo tempo con gli elettori, ai leghisti per rinviare il più volte proclamato abbattimento delle tasse [flat tax], ad entrambi per evitare la riduzione del numero dei parlamentari.

Con la crisi si aprirebbe di fatto una campagna elettorale dove i gialli tenterebbero di riaprirsi un varco a sinistra con la proposta del salario minimo e altre quisquilie  e i verdi rilancerebbero alla grande la promessa – invano formulata da Berlusconi già venticinque anni fa – di riformare il sistema fiscale per le imprese e per le famiglie, aggiungendo anche massicce dosi di sovranismo e di investimenti produttivi. Certo, Mattarella permettendo, perché il presidente della Repubblica, prima di sciogliere le Camere, potrebbe tentare altre strade e altre maggioranze, ed è proprio questo aspetto che lascia ancora perplesso Salvini, perché una maggioranza alternativa a quella che sostiene il governo, com’è noto, esiste tutt’ora in Parlamento ed è quella tra il M5S, che detiene la maggioranza relativa, e il PD. Si dirà che questa è una maggioranza di governo politicamente impossibile dopo il voto europeo, anche perché il PD spera con nuove elezioni di prendere, come si suole dire, due piccioni con una fava: riguadagnare il consenso perduto proprio ai danni dei Cinquestelle e sostituire i parlamentari fedeli a Renzi almeno sulla carta. Tutto vero, ma le alchimie della politica sono infinite e questo il leader della Lega lo sa benissimo.

La lunga marcia delle élite [non tanto delle opposizioni ufficiali rappresentate dai partiti], iniziata già dopo le ultime elezioni politiche, sta forse per concludersi trionfalmente, scongiurando per sempre l’alleanza cosiddetta populista? E’ quello che vedremo: molto dipende da come Di Maio e Salvini sapranno resistere alle pressioni dei loro e/o da quello che i due leader valuteranno più conveniente per le proprie rispettive fazioni.

sergio magaldi