mercoledì 25 settembre 2019

L'EBRAISMO DI KAFKA, parte II








 C’è di più: chi prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto “Il nuovo avvocato” [13] per la trasposizione romanzesca del “Libro della trasmigrazione delle anime” della scuola di Luria [14], chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della dottrina del ghilghul ? [15] Altri racconti, come “Un incrocio”, “Una relazione accademica” o “Il cacciatore Gracco” lo testimoniano espressamente. Ecco allora la grande comicità di Kafka, messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che il grottesco finisce spesso per essere, fatalmente, la dimensione umana di vivere il sacro.

 Poco importa allora sapere se il riso sia il sigillo che Kafka appone sulla tradizione o se, come sostiene Walter Benjamin, ‘troverebbe la chiave per comprendere Kafka chi riuscisse a individuare gli aspetti comici della teologia ebraica’ [16]. Prendiamo i romanzi e si vedrà subito, come già si è visto a proposito del ghilghul, come siano rivisitate da Kafka alcune tradizionali dottrine della Qabbalah. La fisiognomica, per esempio, o arte di leggere i segni del viso e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come il Sefer Chokhmat haParzuf) e costituisce una importante sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il commerciante Block a Josef K., può spesso dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle sue labbra.

 Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del ‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto “Davanti alla legge”, ripreso anche nelle ultime pagine del Processo, rivive la leggenda del ‘guardiano della soglia’: «Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni. Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno, stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte, tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo, ‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di entrare?’.  Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso: ‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te. Ora me ne vado e la chiudo»[17].

 Dove ha fallito l’uomo di campagna? La risposta è nel Talmud ci ricorda Groezinger [18]. ‘Uomo di campagna’ è definito nel Talmud chi non studia e non conosce la Torah. Ma c’è un’altra risposta possibile: quest’uomo s’è messo in fila, ha sperato, ha pregato, ha lottato sino all’ultimo cercando di passare con ogni mezzo, lecito e illecito, senza accorgersi che il “posto” cui aspirava gli era stato già riservato.

 Il cabbalista teurgo fa di tutto pur di attrarre la Shekinah nel mondo. Lo Zohar e gran parte dei libri della tradizione assegnano simbolicamente alla Shekinah la figura femminile. Naturalmente, ciò non significa che ogni donna rappresenti la Shekinah, oltre tutto perché la donna nella tradizione ebraico-cabbalista è vista anche come immagine di Lilith [19]. Sulla scia di altri autori, Groezinger coglie la stessa ambivalenza nelle donne dei romanzi di Kafka, ma non può fare a meno di notare che da loro deriva spesso un grande aiuto ai protagonisti.

 Sappiamo già cosa Kafka pensi di questi aiuti. Neppure l’avvocato Huld, che in ebraico significa grazia, con riferimento alla sephirah Chesed, sembra in grado di salvare Josef K. nel Processo. Sin dal primo approccio traspare qualche difficoltà. L’avvocato abita in una casa scura e ciò che fa subito dire è di essere ammalato. Quando finalmente appare a Josef K. e a suo zio, l’avvocato Huld giace sofferente di cuore in un letto e Leni, la segretaria-amante dice che egli, per le condizioni di salute, non può trattare nessun affare. La cosa in apparenza più paradossale è che l’avvocato quando si avvede della presenza di Josef K. e capisce che il vecchio amico non è venuto ‘per fare visita ad un malato, ma per affari’, si rianima come per incanto e, con grande sorpresa di Josef K., mostra di conoscere già tutto sul processo. Ma l’impressione più interessante che si ricava da questo primo incontro con Huld-grazia è che l’avvocato potrà fare ben poco per Josef K. e che se un aiuto verrà, questo sarà opera di Leni-Shekinah. Dunque l’aiuto femminile si rivela come un aiuto speciale che, se non conduce a salvezza, è tuttavia di gran conforto.

 Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’ invisibile signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è qualcosa di allegro, di libero’, egli ha come l’impressione di smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze di ascesa vadano in fumo [20].

 Tutto ciò ha una implicazione metafisica: la sephirah Chesed-grazia si rivela inefficace in un mondo creato e mantenuto con Ghevurah, la sephirah del potere, del giudizio e del terrore. Ne sanno qualcosa i cabbalisti dello Zohar che nel commentare la risposta di Dio ad Abramo [21] concordano nel ritenere che la discendenza viene ad Abramo dal 'segreto del Nome', perché è dal fuoco di Ghevurah [22] che nel mondo nascono i frutti e ogni prodotto, non dall'orizzonte inferiore delle stelle e delle costellazioni. Ne sa qualcosa il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un “tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare subito a morte” [23]. In siffatto universo, dunque, la Grazia (la sephirah Chesed) si rivela troppo distante e periferica per mitigare il Giudizio (la sephirah Ghevurah), questo compito sembra più che altro appartenere alla Shekinah  che, in sembianze femminili, quando discende, dell’Alto mantiene intatta la divina presenza.


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13 “Abbiamo un nuovo avvocato, il dottor Bucefalo. Esteriormente poco rammenta il tempo in cui era ancora cavallo di battaglia di Alessandro di Macedonia. Certo chi conosce bene le circostanze, nota alcuni particolari. Eppure vidi ultimamente sulla scalinata esterna persino un semplicissimo usciere del Tribunale ammirare l’avvocato con lo sguardo professionale del piccolo frequentatore delle corse, mentre costui, tirando su i piedi con un passo che risonava sul marmo, saliva di gradino in gradino”. (F. Kafka, I Racconti di Kafka, p.145)
14 Su Ytzchàq Luria Ashkenazi (1534-1572), figura centrale della nuova Qabbalah, cfr.G.G.Scholem, La Cabala, trad.it., Roma 1989, pp.80-86 e dello stesso autore, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il saggiatore, Mondadori, Milano 1965, cap.VII.
15 Ghilghul  l w g l g = 72, come i nomi di Dio e come Chesed  d s j grazia, quarta sephirah dell’Albero. Il Ghilghul è insieme lo strumento divino della misericordia e del giudizio. Essere nel Ghilghul significa aver subito la condanna del tribunale celeste ma trovarsi anche nella condizione di poter emendare le proprie colpe. Per tale scopo, uno spirito può incarnarsi di nuovo nei figli o nei familiari, ma anche in corpi di esseri a lui estranei, umani o di animali. Con una differenza rispetto alla tradizionale concezione della reincarnazione: qui lo spirito non si dà necessariamente un corpo nuovo ma può coabitare con altri spiriti in corpi che spesso gli sono congeniali per affinità genetica.
16 Cfr. W. Benjamin, Lettere 1913-1940, trad. it., Milano 1978, p.380
17 Cfr. F. Kafka, Racconti, trad. it., di G. Zampa, Feltrinelli, VI Ediz., Milano 1965, pp. 137-139.
18 Cfr. K. E. Groezinger, op.cit., p.59
19 Secondo la tradizione, Lilith fu creata da Dio per far compagnia ad Adamo, prima ancora di Eva. Senonché Adamo e Lilith non ebbero mai pace insieme, perché quando egli voleva giacere con lei, la donna si offendeva per la posizione impostale: ‘Perché mai devo stendermi sotto di te?’ chiese. ‘Anch’io sono stata fatta di polvere e quindi sono tua uguale’. Poiché Adamo voleva ottenere la sua ubbidienza con la forza, Lilith irata mormorò il sacro nome di Dio, si librò nell’aria e lo abbandonò” (Cfr. R. Graves – R. Patai, I miti ebraici, trad. it., TEA, Milano 1998, p. 79). Da Lilith, divenuta prostituta del diavolo, nacquero i lilim. Sull’intera tradizione di Lilith e sulle fonti che la ispirano cfr., op.cit., pp. 11, 78-84, 124, 127; e inoltre G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, cit., pp.145-149. Si osservi che una ghematria di Lilith  t y l y l  è  Pot  t p  con lo stesso valore numerico di 480 e che in ebraico è l’organo sessuale femminile, quasi a indicare l’alienazione demoniaca del rappresentare la donna come vagina.
20 “Così passarono ore, ore di palpito comune e di comune respiro; ore durante le quali K. ebbe l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato. In una terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva fare altro in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi (…) era troppo felice di tenere Frida tra le mani, troppo ansiosamente felice anche perché gli sembrava che se Frida lo abbandonava, tutto quello che possedeva al mondo l’avrebbe abbandonato (…) ma K. si alzò, si inginocchiò accanto a Frida e si guardò intorno nella mezza luce grigiastra che precedeva l’alba. Che cosa era accaduto? Dov’erano le sue speranze? Che cosa poteva aspettarsi da Frida, poiché tutto era svelato?” (cfr. F. Kafka, Il castello, cit., pp.73-74)
21 Abramo aveva visto sul proprio zodiaco che non avrebbe avuto figli. Venne il Signore e disse: ‘Guarda verso il cielo e conta le stelle, se pure riesci a contarle tutte, così sarà la tua progenie’ (Genesi XV, 5)
22 Ghevurah o Din o Pachad (Potenza, Giudizio e Terrore) sono gli attributi della quinta sephirah dell’Albero
23 Cfr. in K.E. Groezinger, op. cit., p.28. In proposito e per ciò che si riferisce alla nota precedente, si veda ancora il libro di Giobbe: ‘Dio onnipotente mi ha colpito con le sue frecce, e io sono pieno del loro veleno. Egli mi assale e mi terrorizza’(6:4) e ancora: ‘Tu, o Dio, mi terrorizzi con gli incubi e mi spaventi con le visioni’ (7:14) e infine: ‘Signore, perché dai importanza all’uomo? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova?’ (7:17-18)

sergio magaldi



domenica 22 settembre 2019

L'EBRAISMO DI KAFKA, parte I






 La radice ebraica di cui maggiormente sembra compiacersi Kafka è quella che risale all’albero genealogico di sua madre Julie Lowy  e in particolare al trisavolo Isaak Porias di cui lo scrittore praghese racconta nei Diari che fu uomo dotto e pio, ugualmente stimato da ebrei e cristiani e miracolosamente scampato a un incendio. Esemplare per devozione, dottrina e fedeltà alla Torah fu anche il bisnonno Adam Porias, rabbino e mohel della comunità ebraica nonché stimato commerciante di stoffe .

 E’ certo, tuttavia, che l’ebraismo in Kafka restò per anni come assopito se non addirittura vissuto nella noia di tradizioni che egli giudicava formali e quasi meccaniche, ma il suo cuore ebraico si destò improvvisamente nei due anni (1910-1911) in cui gli capitò di vedere le rappresentazioni di un teatro yiddish al Savoy di Praga. Per un paradosso che fa di Kafka a un tempo lo scrittore ebreo più radicato nella tradizione e insieme l’uomo universale.

 La vista del teatro yiddish ha su di lui l’effetto quasi di una rivelazione: «Tutto sommato, quello spettacolo mi piacque più che l’opera, il teatro di prosa e l’operetta messi insieme. Innanzi tutto vi si parlava yiddish, uno yiddish germanizzato ma pur sempre yiddish, uno yiddish migliore, più bello; e poi qui c’era tutto insieme: dramma, tragedia, canto, commedia, danza, tutto insieme, la vita! Tutta la notte non potei dormire per l’eccitazione, il cuore mi diceva che anch’io, un giorno, avrei servito nel tempio dell’arte ebraica, sarei diventato un attore ebraico»[1]

 L’intero universo letterario di Kafka si disegna tra la speranza teurgica propria della Qabbalah storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del Castello, come l’impossibilità di ottenere finalmente il giudizio nel Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio Testamento. La Qabbalah nello svelarci il progetto divino del mondo, individua nella teurgia [2] lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia [3] e questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e l’agrimensore K. nel Castello. Il loro fallimento, come ha giustamente osservato Groezinger in “Kafka e la Cabbalà”, è il fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice, né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal Chassidismo dove è il Rebbe, lo Tzadik ad intercedere per la comunità. 

 Eppure, ciò che Groezinger non dice nella suo pur pregevole lavoro, è che questo pensare l’inadeguatezza della teurgia non si colloca fuori dell’ebraismo né è vissuto da Kafka con particolare angoscia, ché, piuttosto, si converte in ironia e in ilarità  [4]. Il fatto è che lo scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin su… come osserva Groezinger [5], bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang:«Nella misura in cui si può considerare il castello come sede della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano appunto – in termini teologici – che la grazia divina non si lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire e confondere la sublime quiete del divino» [6]. E’ interessante osservare come il cabbalista medievale Joseph Gikatila attribuisca la 'caduta' di Adamo al non aver saputo attendere che il frutto dell'albero fosse maturo, prima di cibarsene. Fu dunque l'impazienza a perdere il genere umano precipitandolo nel regno della vita e della morte. Il frutto dell'albero della vita si mutò così nel frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Scrive Gikatila in Scha'aré Orah (Le Porte della Luce):

 «Il serpente primordiale...inflisse un danno alla luna (la sephirah Malkhout) per via del primo uomo, il quale...non attese che (il serpente) mangiasse la propria parte...nel qual caso l'albero sarebbe stato chiamato del bene e non del male e lui avrebbe potuto mangiarne tanto quanto ne desiderasse: ne avrebbe mangiato e avrebbe vissuto per sempre (Genesi, 3:22), secondo il segreto dell'albero della vita collegato a quello della conoscenza...» (f. 105a).

 La presunzione e l'impazienza persero Adamo. La prima, nel fargli credere di essere in tutto e per tutto simile a Dio, la seconda nel ritenere che, in breve tempo, anche il suo potere sarebbe stato identico a quello di Dio. Scrive ancora Gikatila in Sod haNahach (Il Segreto del Serpente):

 «... E' per questo motivo che Dio comanda al primo uomo di non toccare l'albero della conoscenza, fin quando il bene e il male fossero stati associati, sebbene l'uno fosse all'interno e l'altro all'esterno. Occorreva attendere che ne fosse staccato il prepuzio, com'è detto: tratterete i loro frutti come prepuzio (Levitico,19:23), ora è scritto: prese del suo frutto e ne mangiò (Genesi,3:6). Introdusse un idolo nel Palazzo (T.B. Ta'anit 28b) e l'impurità penetrò all'interno» (f. 276a-b).

 Il prepuzio è la scorza dura, assimilabile alla terra (Adamah) di cui è fatto Adamo. Solo quando la scorza fosse caduta, il frutto, ormai maturo, avrebbe potuto essere mangiato e la terra di Adamo si sarebbe mutata nell'oro dello spirito. 

 A sostegno di tali interpretazioni nell’universo di Kafka basterebbero alcuni aforismi contenuti negli Otto quaderni in ottavo, a cominciare dal più breve di tutti: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato” [7] che Elémire Zolla riconduce al chassid Rabbi Pinchas citato da Martin Buber: “Ciò che si caccia non si ottiene: ma ciò che si lascia avvenire e divenire, questo corre a noi” [8]. E ancora si veda la Considerazione terza: «Esistono due peccati capitali, nell’uomo, dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. E’ l’impazienza che li ha fatti cacciare dal paradiso, è per colpa dell’ignavia che non ci tornano. Ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. E’ a causa dell’impazienza che sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non tornano» [9]. Oppure la Considerazione trentottesima: «Un tale si stupiva della facilità con cui percorreva la via dell’eternità; in effetti, la stava volando giù in discesa’»[10]. E tornando ai Quaderni in ottavo: «Noi siamo peccatori non soltanto per aver assaggiato l’albero della scienza, ma anche per non aver ancora assaggiato l’albero della vita. Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa»[11]. E ancora: «Prima di entrare nel Sancta Santorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe soltanto, bensì tutto, abito da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quanto c’è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di essa, e poi il midollo e il midollo del midollo, e poi il rimanente e poi il resto e poi ancora il riflesso del fuoco eterno. Solo il fuoco stesso verrà risucchiato dal Santissimo e si lascia da lui risucchiare, a nessuno dei due si può resistere»[12].

[S E G U E ]

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1 F. Kafka, Ottavo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, p.174
2 La teurgia ebraica si distingue dalla magia perché il suo quadro di riferimento è la religione biblica e il rispetto di un rituale predeterminato, inoltre la teurgia, a differenza della magia, non opera a vantaggio personale ma per il bene del cosmo e dell’umanità. Mopsik individua cinque forme di azione teurgica negli scritti dei primi kabbalisti: 1) (azione) instauratrice (esempio: Genesi 28:20-22, Levitico 26:3-13, Esodo 29:42-46 ecc…) 2) restauratrice (Genesi 8:18-22 ecc…) 3) conservatrice (Le offerte dei sacrifici) 4) amplificatrice(“Benedetto il suo nome…”, la formula sembra in grado aumentare la potenza (Gevourah) di Dio. 5) attrattiva (attrazione della Shekinah, esempio: Esodo 25:8, La Lettera sulla santità ecc..). Un certo intento teurgico è anche presente nella tradizione rabbinica, infatti, oltre a coloro che ritengono impossibile per l’uomo aumentare la potenza divina, ci sono anche coloro che ammettono che un comportamento umano conforme alla Legge, lo studio della Torah ecc.. siano in grado di accrescere la presenza di Dio nel mondo. Sull’intera questione della teurgia nella Qabalah, cfr. C.Mopsik, Les Grands Textes de la Cabale, Verdier,1993, pp.18-71.
3 Cfr. F. Kafka, Quarto quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.143
4“(…) e allora l’angoscia si trasformava in ilarità, come il Baal Shem e i suoi seguaci da atterriti perseguitati si trasformavano, grazie alla loro fede estratta dal nulla, in danzatori, onde si spiega che delle pagine sull’orrore puro all’inizio del Processo fosse possibile la lettura di cui parla Thomas Mann: ‘La biografia ci dice che mentre Kafka leggeva ad alcuni amici l’inizio del Processo, gli astanti risero sino alle lacrime, particolarmente dove è questione della Grazia; e l’autore stesso rise fino alle lacrime. Profonda complicata ilarità’.” (E. Zolla, Prefazione a Confessioni e immaginicit., p.23). A Zolla e Thomas Mann fa eco Klaus Wagenbach (op.cit., p.153): ‘L’ironia kafkiana, di cui riferiscono molti dei suoi amici, discendeva, in modo tutto naturale, dal suo atteggiamento distaccato di fronte al mondo’.
5 Cfr. K.E. Groezinger, op. cit., p.19
6 Cfr. in Walter Benjamin ,Angelus Novus, trad. it., Mondadori 1995, p. 292
7 Cfr. F.Kafka, Terzo quaderno in ottavo, in Confessioni e immagini, cit., p.112. il corsivo è mio
8 Cfr. E. Zolla, in Prefazione a Confessioni e immagini, cit., p.19
9 Cfr. F. Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, in Confessioni e immagini, cit., p.59
10 Ibidem, p.62
11 Ibid., p.118. A tale proposito Groezinger (op.cit., p.176) sostiene che Kafka, sulla scia del Maggid di Mesritsch (1710-1772) grande figura della mistica chassidica, ritenga impossibile cibarsi dell’albero della vita fintanto che si sia dotati di individualità corporea, cioè di ‘io’. E’ appena il caso di osservare che coloro che si dicono convinti di cibarsi dell’albero della vita, stanno in realtà continuando a cibarsi dell’albero della conoscenza del bene e del male, rinnovando così costantemente il peccato di Adamo.

12 Ibid., p.122



sergio magaldi

martedì 17 settembre 2019

REPUBBLICA PARLAMENTARE FONDATA SULLA TRANSUMANZA







 Si è detto e ripetuto giustamente che la nuova maggioranza che ha permesso la formazione del governo giallorosa è più che legittima perché l’Italia è una repubblica parlamentare, uno stato cioè dove i governi si formano in virtù di alleanze tra i partiti,  espressi dai loro rappresentanti eletti periodicamente dai cittadini. Episodi di trasformismo ci sono sempre stati nella storia del parlamento italiano e forse nella storia di tutti i parlamenti dove non è contemplato il vincolo di mandato di deputati e senatori, un conto però è la “transumanza” a titolo individuale, un’altra è la formazione di un nuovo partito con tanto di gruppi parlamentari formati da rappresentanti eletti in un altro partito, tanto più se questo partito ha appena concluso un’alleanza di governo. Si dirà che anche in questo caso, se la nuova formazione politica dichiara di voler far parte della medesima maggioranza, non c’è violazione della costituzione e dei principi della repubblica parlamentare. C’è però un problema ed è la crisi, forse ormai irreversibile, dei concetti di democrazia rappresentativa e di sovranità popolare: la loro degenerazione mostra il volto dell’oligarchia. Il cittadino diventa sempre più consapevole che anche l’unica occasione che ha di esercitare periodicamente la propria sovranità (il voto) gli viene tolta per i giochi di palazzo. Che senso ha allora andare a votare, scegliere questo o quel partito?

 Il presidente del Consiglio pare si sia dichiarato perplesso di fronte alla decisione che Renzi gli ha annunciato con una telefonata: a differenza di Salvini che un mese fa gli comunicava l’intenzione di sfiduciare il governo, il senatore fiorentino gli confermava la fiducia ma per conto di un altro partito formato coi deputati e i senatori del vecchio PD. L’obiezione ingenua di Conte sembra sia stata: perché annunciarlo solo oggi e non prima che si giungesse alla formazione del nuovo esecutivo?

 Persino Conte, sempre che  siano vere le voci diffuse, ha avvertito il disagio di essere costretto a dirigere una maggioranza – lui che pure è passato con disinvoltura dalla guida di un esecutivo con la Lega ad uno con il PD e LEU – dove il nuovo partito di Renzi diventa determinante per la vita stessa del governo.

 D’altra parte, tutto si può dire tranne che Renzi non avesse già fatto capire le proprie intenzioni, né si può dire che i dirigenti del PD non avessero inteso: nell’aprire ai Cinquestelle, Renzi palesava apertamente il suo interesse a perpetuare una legislatura dove controllava i gruppi parlamentari del PD [vedi in proposito il post I due Matteo e lo scambio di favori, cliccando sopra per leggere]. Con il fiuto politico e la spregiudicatezza che lo caratterizzano, il senatore fiorentino ha preso le misure della debolezza della dirigenza del suo partito e ha fatto doppiamente centro: determinante per formare la nuova maggioranza, determinante ora nel mantenere in vita il governo. Una tattica vincente non c’è dubbio, altro e tutto da verificare il discorso strategico circa la costituzione di una nuova formazione centrista, la nuova Democrazia Cristiana dell’era della globalizzazione.

 Eppure, ci sarebbe ancora un modo per fermare Renzi, basterebbe farlo subito. Viste le mutate condizioni all’interno di uno dei partiti di maggioranza, la parola definitiva è lasciata al voto dei cittadini. Ma Renzi ha già previsto tutto: sa che i suoi ex compagni di partito non hanno fegato per osare tanto!

sergio magaldi

  

domenica 15 settembre 2019

I DUE MATTEO E LO SCAMBIO DI FAVORI

express.co.uk





  Dopo le elezioni di marzo 2018, alla proposta di Di Maio al PD per formare un governo,  Matteo Renzi oppose il gran rifiuto: “Senza di me…”, fece sapere intervenendo ad una popolare trasmissione televisiva. Fu allora che ripresero i contatti tra Cinquestelle e Lega sino alla formazione del governo gialloverde con Matteo Salvini vicepresidente del Consiglio e ministro degli Interni. La scarsa efficienza dei pentastellati, resa ancora più evidente dal disastroso governo di Roma e non solo, per contro l’attivismo del secondo Matteo e la buona fama acquisita dalla Lega in tante amministrazioni determinarono nelle successive elezioni europee il dimezzamento del consenso elettorale per il M5S e il raddoppio percentuale della Lega, passata dal 17% delle politiche al 34% delle europee. Tutto ciò, ancorché i fiori all’occhiello del governo fossero scarsi e comunque quelli dei pentastellati persino più evidenti di quelli dei leghisti: decreto dignità, reddito di cittadinanza e il 50% della cosiddetta “quota 100” per i primi, l’altro 50% della quota suddetta per i secondi con l’annuncio gridato dell’abolizione (parziale) della riforma Fornero. Non a sproposito, dunque, si è detto che è stata soprattutto la nuova politica sull’immigrazione inaugurata da Matteo Salvini a determinare (oltre al crollo di Forza Italia) il raddoppio dei consensi della Lega. Per il resto, infatti, il governo gialloverde si è comportato come quelli che l’avevano preceduto: blocco dell’adeguamento delle pensioni medio-basse, beffa della cosiddetta cedolare secca sull'affitto di studi e negozi, nessuna riforma delle aliquote fiscali per rilanciare consumi e occupazione (non parliamo neppure di flat tax!) pressoché nulli gli investimenti produttivi. E tuttavia “il dono” fatto dal primo Matteo (primo perché ha preceduto l’altro nel favore popolare) al secondo Matteo è innegabile, perché rifiutando ogni intesa con il M5S, Renzi ha permesso a Salvini di governare e di raddoppiare i voti della Lega.

 Così, poco più di un mese fa il Matteo leghista ha inteso ricambiare il favore al Matteo piddino, dandogli l’opportunità di essere lui l’ago della bilancia del nuovo governo giallorosa (o giallorosso, secondo i punti di vista). Renzi, infatti, con il controllo della maggior parte dei parlamentari del PD è stato ed è determinante per evitare nuove elezioni politiche. Le categorie invocate per comprendere il senso di questo scambio di favori sono state frettolosamente ricondotte all’ingenuità e al delirio di onnipotenza di Salvini da una parte, e alla scarsa coerenza degli uomini politici dall’altra: Renzi è un voltagabbana, come del resto Di Maio e tanti altri di questa e di altre epoche.

 Mutatis mutandis Renzi e Salvini sono i personaggi che nello squallore servile della politica italiana abbiano fatto più presa trasversalmente sull’opinione pubblica. È comprensibile dunque che la vulgata circa il comportamento dei due Matteo faccia comodo a molti. La si sente ripetere quasi da tutti nei talk show e, naturalmente, se per ragioni di opportunità si preferisce sorvolare sul Renzi voltagabbana, su Salvini affetto da ubris e ingenuità si insiste continuamente perché si è capito che fa presa sulla gente e toglie consensi alla Lega.

 Sulla sfiducia di Salvini al governo gialloverde ho già avuto modo in un precedente post (Matteo Salvini: tra Lega e Lega Nord, cliccando sul titolo per leggere) di chiarire il mio punto di vista che si può così riassumere: “[...] Poco interessa ai leghisti doc il governo di Roma se non porta all’autonomia finanziaria delle regioni del nord (soprattutto Veneto e Lombardia) e quanto alla flat tax il nucleo storico della Lega Nord lo vuole ma non alle condizioni estreme illustrate da Salvini: deficit di 50 miliardi, guerra con Bruxelles con tutti i rischi per le imprese del nord che questo comporta. Meglio allora avere le mani libere fuori dal governo romano e se in seguito le prospettive dovessero peggiorare, c’è sempre la possibilità di rilanciare l’idea della secessione. Non a caso Zaia, governatore del Veneto, in una intervista di ieri si è detto completamente d’accordo con Salvini che ha staccato la spina [...]”. 

 Circa il comportamento di Renzi, si suole ripetere ciò che è vero ma che non spiega tutto: non ha voluto che il Parlamento fosse sciolto per non perdere la supremazia all’interno dei gruppi parlamentari del PD. Ciò su cui non si vuole riflettere è che questa condizione esisteva anche quindici mesi fa, allorché Renzi rifiutò l’intesa di governo con i pentastellati. La verità è che le condizioni di allora sono mutate. Andare al governo col M5S dopo le elezioni politiche di marzo significava per il PD fare la ruota di scorta, andarci oggi che i pentastellati hanno dimezzato il consenso è altra cosa. Renzi aveva intuito che il governo gialloverde non sarebbe durato: vuote le casse dello Stato, ostile l’Unione Europea, insofferente lo zoccolo duro della Lega Nord, inefficiente il M5S e terrorizzati i parlamentari pentastellati di perdere il posto di lavoro. Ce n’era d’avanzo per immaginare che il governo gialloverde sarebbe presto scoppiato. E lui pronto a gettare la ciambella di salvataggio. Altro che voltagabbana! Fiuto politico: non restava che attendere il momento in cui Salvini avrebbe ricambiato il favore ricevuto.

sergio magaldi  

domenica 8 settembre 2019

MATTEO SALVINI: TRA LEGA E LEGA NORD






 La tesi più accreditata dai media circa il comportamento che ha indotto Salvini a staccare la spina al governo gialloverde poggia quasi unicamente sull’idea che ingenuità e ubris ne siano state la causa. Per la prima, egli si sarebbe fidato di una presunta telefonata con Zingaretti che gli assicurava la volontà di andare alle elezioni. Telefonata smentita dallo stesso Salvini che, tuttavia, intervenendo lo scorso venerdì sera alla puntata di In Onda di La 7, ha tenuto a precisare che lui non è tipo da rivelare il contenuto di eventuali messaggi scambiati con i leader di altre formazioni politiche. Insomma, forse si è fidato di una generica promessa, avvalorata dall’interesse di Zingaretti di andare alle urne per ridimensionare Renzi e riprendersi in parte i voti dei Cinquestelle, senza tenere conto:

A)dell’esistenza in Parlamento di una maggioranza alternativa.
B)della determinazione del presidente della Repubblica, poco incline a sciogliere le Camere e ad andare al voto a ridosso della presentazione della legge di bilancio.
C)dell’estrema resistenza dei pentastellati nel difendere il posto di lavoro e al tempo stesso nello scongiurare il dimezzamento della propria compagine parlamentare.
D)della mossa di Renzi che, in un presumibile giro di valzer per difendere il controllo che esercita sulla maggioranza di deputati e senatori del PD, questa volta avrebbe addirittura anticipato altri capi tribù del suo partito – già inclini a tentare un accordo di governo con i pentastellati sin dall’esito delle elezioni di marzo 2018 – nel proporre  un governo M5S-PD per affrontare l’emergenza.
E)del ruolo della governance europea nella crisi politica italiana. F)della prevedibile reazione del sistema-Italia alla vittoria delle destre, data ormai per certa, non solo in base ai sondaggi, ma sull’onda dei risultati delle elezioni europee.

 In tale ottica, l’ingenuità del leader leghista sarebbe stata favorita dalla ubris che ne avrebbe accecato il giudizio, inducendolo a ritenere di essere ormai padrone della situazione, con il conseguente e inevitabile ricorso alle urne da lui auspicato. In conclusione, dunque, Salvini ha reiterato  l’errore di Matteo Renzi, allorché questi con il 22% della propria base elettorale (che non comprendeva neppure tutto il partito di cui era segretario) – anche lui accecato da ubris – aveva osato sfidare con il Referendum istituzionale circa il 75% del corpo elettorale rappresentato da tutti gli altri partiti. La presunzione ha causato la caduta del primo Matteo, non ci si può dunque meravigliare che abbia causato anche la caduta e l’isolamento del secondo. Matteo Renzi ha sfidato la logica dei numeri e la tradizione nazionale che da sempre organizza il consenso (regime fascista a parte dove c’era un solo partito) attraverso la mediazione partitocratica. Appellandosi al popolo contro i partiti, ne ha ricavato una solenne bocciatura. Matteo Salvini ha in fondo commesso lo stesso errore: ha chiesto di essere giudicato dal popolo che probabilmente, a differenza di quanto aveva fatto con Renzi, l’avrebbe premiato, ma ha ignorato la supremazia dei partiti. Entrambi i leader nel momento di maggior gloria hanno chiesto un plebiscito, dimentichi di trovarsi in una democrazia rappresentativa e parlamentare. In più c’è da osservare che entrambi i Mattei, interpellati in merito, hanno dichiarato che rifarebbero di nuovo quello che hanno fatto.

 Ce n’è abbastanza per ritenere che la tesi dell’ingenuità e dell’arroganza di Salvini, ancorché semplicistica, sia credibile almeno per buona parte dell’opinione pubblica e persino tra i simpatizzanti della Lega. Accanto a questa ricostruzione del comportamento ingenuo di Salvini, ci sono però le motivazioni ufficiali dello stesso leader leghista – stranamente presentate mai tutte insieme – che si possono così riassumere:

1)ha tolto la fiducia al governo per l’atteggiamento negativo del presidente del Consiglio, di alcuni ministri pentastellati e del ministro dell’economia rispetto alle riforme concordate, tant’è che a un certo punto della crisi si è detto disposto a fare un nuovo governo con ampi rimpasti e alla condizione che cadessero i tanti “no” della componente grillina.
2)ha preso atto della impossibilità di disporre di almeno 50 miliardi per la realizzazione della flat tax e degli investimenti produttivi, nonché della somma necessaria a sterilizzare l’aumento dell’IVA. 3)ha capito che era già in atto un complotto tra Cinquestelle e Pd, benedetto da Bruxelles.

 A parte la palese contraddizione tra i punti 1 e 3, restano difficili da comprendere le ragioni di Matteo Salvini se non ci si pone da altri punti di osservazione. Il primo dei quali è capire se dietro il  suo comportamento ci sia stata una vera tattica e una vera strategia come sostengono coloro (e non sono molti) che rifiutano la tesi dell’ingenuità e della presunzione del leader leghista. Premesso che la strategia era e resta la presa del potere, legittimamente conseguito attraverso le elezioni, la tattica prevedeva varie possibilità: a)andare subito alle urne b)formare un nuovo governo gialloverde, sostituendo incapaci ed “europeisti” c)passare all’opposizione di un governo giallorosso che essendo tenuto per le palle da Renzi e dall’austerità dei signori di Bruxelles finirà presto con l’andare a sbattere e allora non rimarrà che il ricorso alle urne.

 Ancorché sofisticata, questa tattica non sembra molto più convincente di quella semplicistica, basata sull’ingenuità e la presunzione del leader leghista e contrabbandata con qualche credibilità dalle élite e dai media. Perché ha la sua debolezza nel punto c. Infatti, se è vero che Renzi è in grado di staccare la spina al governo in qualsiasi momento (e questo lascia trasparire tutta la debolezza del nuovo segretario del PD), si può ragionevolmente supporre che lo farà solo dopo la sterilizzazione dell’IVA e l’approvazione di una nuova legge elettore e comunque quando sarà certo di trarne vantaggi, riaffermando la propria supremazia all’interno del PD o, com’è più probabile, costituendo gruppi autonomi di un nuovo partito al centro dello schieramento politico che diverrebbe l’ago della bilancia per qualsiasi maggioranza di governo, tanto più in presenza di una legge elettorale di tipo proporzionale. In tale prospettiva, le elezioni non sarebbero più una passeggiata per Salvini: è poco probabile che egli sia in grado per allora di conservare il consenso che ancora oggi gli attribuiscono i sondaggi. Non solo perché, come sosteneva un gran capo delle vecchie tribù democristiane, spesso “il potere logora chi non ce l’ha”, ma soprattutto perché il sistema proporzionale chiama più ospiti a partecipare al medesimo banchetto, dove per giunta le vivande sono addirittura calate (leggi: riduzione del numero dei parlamentari).

 D’altra parte, se si evita di ricorrere alle categorie dell’ingenuità e della presunzione nel valutare la mossa di Salvini, occorre riconoscere che egli deve aver soppesato la debolezza di quel punto c presente nella tattica. Se l’ha fatto ed è andato oltre anche se a malincuore, deve aver avuto le sue buone ragioni. Rinunciare ad un ruolo che in un anno gli ha consentito di raddoppiare i voti della Lega (dal 17% delle politiche al 34% delle europee) non deve essere stato facile, come pure rischiare di perdere quel circa 33% di consenso elettorale nel Lazio e soprattutto quel circa 24% delle regioni meridionali. Consenso labile questo del centro-sud, come si sa, che nel tempo assegna sempre un surplus di voti al partito e al leader momentaneamente sulla cresta dell’onda. Costretto a scegliere tra Lega e Lega Nord, Salvini ha scelto la seconda, il nucleo fondativo, la ragion d’essere del vecchio partito padano. Se avesse scelto la prima, sarebbe ancora al governo e lotterebbe ancora spalla a spalla con i Cinquestelle per l’affermazione delle proprie riforme e senza mollare nulla, ma la sua leadership nel partito sarebbe ridotta agli sgoccioli. Poco interessa ai leghisti doc il governo di Roma se non porta all’autonomia finanziaria delle regioni del nord (soprattutto Veneto e Lombardia) e quanto alla flat tax il nucleo storico della Lega Nord lo vuole ma non alle condizioni estreme illustrate da Salvini: deficit di 50 miliardi, guerra con Bruxelles con tutti i rischi per le imprese del nord che questo comporta. Meglio allora avere le mani libere fuori dal governo romano e se in seguito le prospettive dovessero peggiorare, c’è sempre la possibilità di rilanciare l’idea della secessione. Non a caso Zaia, governatore del Veneto, in una intervista di ieri si è detto completamente d’accordo con Salvini che ha staccato la spina.

 In tale prospettiva, il leader della Lega ha sempre saputo che il punto c della tattica mette a rischio la sua stessa strategia. Cercherà di mediare tra le esigenze della Lega e della politica e quelle della Lega Nord e dell’economia, ma non sarà facile e l’ascesa elettorale della Lega Italia potrebbe arrestarsi definitivamente, proprio perché il capolavoro politico di Salvini non è stato soltanto aver portato la Lega da Pontida a Lampedusa – quasi la promessa di un nuovo Risorgimento – ma si è basato a livello nazionale sul superamento del centrodestra e sull’alleanza con un movimento che almeno ufficialmente si proclama né di destra né di sinistra. Tant’è che Salvini, nonostante sia apparso come un catalizzatore dei voti di estrema destra, ha finito per riscuotere consensi anche a sinistra, come dimostra lo studio dei recenti flussi elettorali. Il ritorno nell’alveo del centrodestra con Meloni e Berlusconi rischia per la Lega di far girare all’indietro la ruota della Storia.

sergio magaldi

domenica 1 settembre 2019

I SENTIERI DELL’ALBERO,Parte IX (XXIV)




SEGUE DA:










I sentieri dell’Albero della vita sono i rami che collegano tra loro i frutti sino alla sommità dell’albero e sono in tutto trentadue. I frutti altro non sono che le Sephiroth, dette anche ‘luci’ o ‘forme pure’ del molteplice. Sono 10 e rappresentano i numeri primordiali della creazione, perché per quanto si possa continuare a contare all’infinito non si troveranno che dieci numeri, anzi nove, essendo il 10 niente altro che la riproposizione dell’unità.

Si dispongono al centro, alla destra e alla sinistra dell’albero e ad ogni Sephirah  è attribuito un nome e un numero. Alla colonna centrale appartengono: 1 Kether  Corona o Altezza Superiore,  6 Tiphereth Armonia, Bellezza o Compassione,  9 Yesod  Fondamento, Generazione o Alleanza, 10 Malchuth  Regno o Esilio. Alla colonna di destra: 2 Chokmah  Sapienza o Principio, 4 Chesed Grazia o Misericordia, 7 Netzach  Eternità o Vittoria. Alla colonna di sinistra: 3 Binah  Intelligenza o Ritorno,  5 Gheburah  Potenza o Giudizio,  8 Hod Gloria o Splendore.

Esaminerò brevemente i nove sentieri che corrono tra le cinque Sephiroth cosiddette emotive. I sentieri partono dal basso e seguono idealmente le spire di un serpente che, ascendendo lungo l’Albero, poggia la coda su Malkuth, la decima Sephirah, il corpo su Yesod, Hod e Netzach e che con la lingua lambisce Tiphereth, la sesta Sephirah



Per leggere le lettere ebraiche occore scaricare il font Hebrew







 «Ecco dunque il segreto della conoscenza di cui ti facevo cenno: si tratta del segreto dell’essenza umana, compreso nel segreto della sapienza, dell’intelligenza e della conoscenza. L’uomo è infatti il segreto della sapienza, mentre la donna è il segreto dell’intelligenza: la congiunzione carnale pura è il segreto della conoscenza. Questo è il segreto dell’uomo e della donna secondo le vie occulte della qabbalah interiore».

Yosef Giqatilla,   Lettera sulla santità



   Ventiquattresimo  Sentiero

 

                                 (L'inizio)      
 


                      
                            t r a p t    j x n

  
              

                             Netzach      Tiphereth



 La lettera del sentiero è la Lamed

                                        
              30


 Lamed settima lettera semplice dell’alfabeto ebraico il cui ideogramma ricorda un serpente che drizza la testa.
  
 Con questa lettera si conclude la Torah scritta – la Lamed di Israel, alla fine del Deuteronomio – che inizia con la lettera Bet di Bereshit. Insieme, le due lettere formano la parola Lev  b l cuore con valore numerico 32 (Lamed 30+Bet 2).

  La lettera rappresenta l’inizio di una effettiva ascesa spirituale e si richiama alla voce divina che fa drizzare il serpente inaugurando un’inversione di tendenza.

 E Qol  l w q voce ha valore 136, 10 per riduzione teosofica, il numero delle Sephiroth dell’Albero della vita che la lettera ricapitola insieme ai 32 sentieri, quasi a ribadire che la vera iniziazione sull’Albero comincia soltanto da qui. Né la cosa ci sorprende perché 10 è anche la riduzione teosofica del valore numerico di Tiphereth (1081), vero cuore dell’Albero.
  
 La medesima idea di un ribaltamento e di un inizio è contenuta nella dodicesima lama dei tarocchi che nel raffigurare l’Appeso si ispira  alla forma di questa lettera.

 Il valore numerico della lettera è 30 e la sua ghematria più importante è la terza persona del futuro del verbo essere: Yiheh   h y h y sarà, simbolo di promessa e di speranza.
  
 Rabbi Aqiva suggerisce di leggere la lettera secondo il suo acrostico: Lev Mevin Da’at, ‘un cuore che comprende conoscenza’.
 

 Il cuore è il solo organo del corpo capace di unificare tra loro intelletto ed emozioni. Espressioni di tale conoscenza sono la compassione, l’amore tra l’uomo e la donna,  e la visione del mistico.


sergio magaldi